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domenica 18 dicembre 2011

Ambientalismo per un Mondo Nuovo



La tutela ecologista della comunità, con la valorizzazione delle risorse naturali, elevate ad un tratto distintivo dell’identità territoriale, rappresenta una delle bandiere dei Freiheitlichen […] La piccola patria si caratterizza per la coscienza nazionale e la tutela della natura, per il rapporto mistico con il mondo della flora e della fauna, che unisce i Tedeschi fin dai primordi.
Bruno Luverà

Il mostro del sangue e del suolo, del primato dell’etnia scagliato contro l’altro da sé, un primato del locale rancoroso, che coniuga modernamente arcaismi ed etno-ecologia nella magica esaltazione della “montagna incantata” come luogo contrapposto allo spazio globale.
Aldo Bonomi

Noi che ci preoccupiamo di preservare le specie animali, affinché non scompaiano gli elefanti dall'Africa, i leoni, gli ippopotami dal Nilo, dobbiamo rallegrarci che il governo si preoccupi di accogliere degli esseri umani
Temistio, IV secolo d.C.

In una recente indagine sui valori dei giovani altoatesini e sudtirolesi (Ausserbrunner / Bonifaccio / Plank / Plasinger / Sallustio / Zambiasi, 2010) emerge che tra i principali problemi presenti in provincia di Bolzano la crescente urbanizzazione figura al terzo posto dopo alcolismo ed immigrazione. Questo è un problema segnalato anche da quella grande rassegna di studi sull’ambiente altoatesino che s’intitola “Alto Adige: un paesaggio al banco di prova” (Kreisel/Ruffini/Reeh/Pörtge, 2010). Leggiamo nel saggio introduttivo dei curatori dell’opera che nel corso della transizione da “povera regione di montagna” a “regione moderna e prospera”, qualcosa è andato storto: “durante l’ultimo decennio sono stati ripetutamente violati “tabù” fino ad ora resistenti, nel rapporto tra l’esigenza di uso turistico, insediativo o produttivo da un lato e la tutela del paesaggio, dall’altro”. In che maniera, in che misura? “La corsa continua verso la realizzazione di infrastrutture sempre più moderne e prestanti…si associa spesso alla perdita di valori paesaggistici e ad un appiattimento culturale”.
Il problema, sottolineano gli autori, è che “i principi della creazione e del mantenimento di un bel paesaggio e della conservazione della biodiversità non sono mai stati prioritari nello sfruttamento del territorio; da sempre ha prevalso la regola dello sfruttamento economico”. Si continua a costruire imperterriti e negli ultimi anni “il volume edificabile concesso sulle zone di verde agricolo ha superato quello concesso sulle zone residenziali”. Il che rende ormai improcrastinabile una seria revisione del modello di crescita adottato in Alto Adige. Conclusioni di notevole rilevanza in una provincia che si compiace delle sue bellezze naturali e del suo folklore per definizione ecosostenibile.
Si tratta di capire perché abbia prevalso la logica dello sfruttamento. Io credo che il primo indizio lo si possa rinvenire nelle due prefazioni a questo imponente volume, quella di Luis Durnwalder e quella di Michl Laimer, assessore all’urbanistica, ambiente ed energia, che forniscono utili in merito a come le autorità percepiscano la relazione tra società ed ambiente naturale, come del resto ricordato dagli stessi autori, quando precisano che “il paesaggio, il suo aspetto e la sua qualità sono anche espressione del modo in cui una società affronta e vive il concetto di patria”. 
Ho già evidenziato gli innumerevoli difetti della mentalità patriottica nell’opera precedente (Fait/Fattor, 2010) e questo è un tema che non intendo riesaminare in questa sede. Tuttavia, quando le cose non funzionano, è sempre necessario problematizzare ciò che si tende a dare per scontato, perché è assai probabile che alcun aspetti del senso comune non si configurino come buon senso, ma come dannoso preconcetto. È presumibilmente il patriottismo che fa dire a Durnwalder, in contrasto con i rilievi critici espressi dagli autori, che “oggi l’Alto Adige è una regione esemplare” e che “i fattori di successo del “modello Alto Adige” vanno ricercati nel suo sviluppo sostenibile e armonico”. Laimer esorta tutti a “cercare un rapporto sostenibile con il paesaggio”, una prassi che ha molto a che fare con la cultura, con il rispetto e, aggiunge con grande perspicacia, “con il modo in cui la società altoatesina affronta il concetto di appartenenza”. L’assessore prosegue poi in termini più che condivisibili: “dobbiamo riuscire a sviluppare la capacità di percepire e di apprezzare in modo più profondo il paesaggio, la sua storia e la sua estetica. Dobbiamo diventare consapevoli del valore del nostro paesaggio e dunque del nostro habitat”. Conclude infine: “in questo modo il paesaggio può anche contribuire a creare l’identità”.
Queste due prefazioni esplicitano due problemi. Il primo è la fallace certezza di aver operato al meglio, il secondo è il rapporto tra identità collettiva ed ambiente naturale. La tensione tra modernità e tradizione si può rintracciare anche nelle osservazioni conclusive di una commissione parlamentare svizzera del 1929 secondo cui “una Svizzera senza un popolo montanaro forte e sano, moralmente e fisicamente, non sarebbe più la Svizzera nel senso storico del termine”.
La pessima prova che ha dato di sé la Provincia di Bolzano nel mercimonio che ha visto il voto di fiducia al governo Berlusconi ripagato con la snazionalizzazione del parco dello Stelvio, spezzettato tra Trento, Bolzano e Lombardia. Questo il commento di Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera ("Lo Stelvio, i Favori e lo Spezzatino", 23 dicembre 2010):

Soltanto uno sprovveduto potrebbe non cogliere la relazione fra questo grosso favore agli autonomisti e il grosso favore che i due deputati della Südtiroler Volkspartei Siegfried Brugger e Karl Zeller hanno fatto a Berlusconi contribuendo al salvataggio del governo con l’astensione al voto di fiducia del 14 dicembre. Ma la politica, in Italia, è diventata anche questo. Il problema è semmai che fatti del genere scandalizzano sempre meno. Anche quando diventa merce di uno scambio inconfessabile un parco naturale: l’ultima cosa che dovrebbe fare le spese delle beghe della politica.

Mauro Fattor, sull’Alto Adige (“Le manovre sul parco, 23 dicembre 2010), riepiloga i precedenti non particolarmente beneauguranti:

E così può accadere che qualcuno ti faccia un chilometro e mezzo di strada forestale camionabile dentro un parco naturale – come è accaduto al Parco dello Sciliar due anni fa – e che l’unica reazione ammessa da parte dell’Ufficio Parchi sia quella di dire: ohhhhh!!
Oppure può accadere, come accade al Parco del Monte Corno, che con il bilancio del parco si faccia la manutenzione ordinaria di strade private che per legge spetterebbe ai proprietari dei fondi. Piccoli piaceri, si intende. Un’operazione simpatia. Per inciso: i soggetti terzi in questione sono forestali e cacciatori, che dipendono direttamente da Durnwalder.
Scriveva Antonio Cederna che sarà la stupidità della burocrazia ad uccidere il parco nazionale dello Stelvio. Si sbagliava: ci ha pensato molto prima il cinismo della politica. Perché le aree protette, i parchi nazionali, sono beni pubblici, e in quanto pubblici – in una concezione distorta e blasfema della res publica – di nessuno. Per questo diventano facile merce di scambio.

E questo è proprio il punto. Se è res publica, non è reclamabile come proprietà dell’Heimat e del popolo. Ha una sua dignità inalienabile, una fruibilità universale che va garantita anche per le generazioni future. Al di là delle parole di circostanza, quest’idea fa fatica a prendere piede nelle società non “primitive” (che potrebbero rivelarsi più civili di tante altre società “moderne”). In genere, “qui da noi”, si tende a vedere la natura come un qualcosa di diverso, di altro, che può ed occasionalmente deve essere sottomesso. Questo è un tipo di mentalità che abbiamo sviluppato con l’agricoltura e che si è irrobustito con la diffusione del radicale dualismo gnostico-cartesiano tra ego e natura che ormai è diventata la nostra modalità standard di comportamento verso la natura. Utili riflessioni su questo tema possono essere trovati nel pensiero di Hans Jonas e in particolare nella sua disamina del modo in cui ci siamo estraniati dal mondo e dalla trascendenza, diventando integralmente alienati, suscettibili di depressione cronica, fuga dalla realtà e megalomania, a seconda dei casi.
Tra i popoli di cacciatori e raccoglitori vi era una genuina gratitudine nei confronti di Madre Natura e dell’animale che nutriva la comunità con la sua carne. Nessuno avrebbe mai immaginato di poter sbocconcellare, raschiare o bruciare il corpo della madre che lo nutre. La nostra hybris, la nostra pretesa di poter e dover trasformare questo pianeta affinché si adatti lui a noi e non noi a lui, nasce con l'agricoltura. Persino a livello mitologico si vede la differenza di atteggiamento nei confronti del cosmo e dei rapporti interpersonali con la transizione da un modello all'altro. Nella caccia e raccolta predomina ancora l'idea che siamo ospiti e che non dobbiamo abusare dell'ospitalità, con l'agricoltura trionfa l'idea che il pianeta è casa nostra e ne facciamo quel che ci pare. Sono due paradigmi antitetici e il secondo, spiace dirlo, è tagliato su misura per dei briganti.
Una diversa prospettiva ecologica è quella dell’interconnessione, dell’interdipendenza di tutta la vita organica e di tutta la coscienza che supera lo scisma tra materia e spirito, senza negarlo (panenteismo), e che trova tra i suoi forse più noti esponenti Teilhard de Chardin, Alfred North Whitehead e, credo di poter dire, Vito Mancuso. Infine c’è l’ecologismo profondo che non considera l’umano come una dimensione in alcun modo speciale rispetto al resto della natura (panteismo) ma, anzi, tende alla misantropia e a concepire gli esseri umani come dei parassiti. Al giorno d’oggi l’approccio dualista-riduzionista sta segnando il passo sia perché l’abbruttimento del paesaggio è un qualcosa che non può essere in alcun modo smentito, sia perché lo sfruttamento e spreco delle risorse è percepito come un tipo di condotta che non è più sostenibile e moralmente accettabile. L’approccio dell’ecologismo profondo è così radicale che troppo spesso i suoi esponenti non sanno nascondere un certo piacere nel contemplare i disastri naturali che umiliano la superbia umana.
Il più radicale tra tutti gli ecologisti estremi fu Adolf Hitler. Il seguito del Mein Kampf – il cosiddetto Zweites Buch, scritto nel 1928, rimasto inedito in seguito ad una cocente sconfitta elettorale, riscoperto nel dopoguerra e pubblicato solo nel 1961 – contiene anche un esame del valore della vita come potere immanente sia agli individui sia ai popoli. Hitler ne deduce alcune conclusioni: il valore assoluto del concetto di vita organica e della sua estetica; il principio che le stesse leggi che determinano la vita degli individui sono valide anche per i popoli e quindi l’esistenza di leggi della vita dei popoli (Lebensgesetze für die Völker); la conseguente inevitabilità della lotta per la vita (Lebenskampf); la storia come progressione dei popoli nella loro lotta per la sopravvivenza e per lo spazio vitale (Lebensraum). È in questo magma dottrinale che affonda le radici l’ecologismo nazista (e neonazista). Il Terzo Reich dimostrò una sensibilità verso gli animali e la natura inversamente proporzionale a quella dimostrata verso gli esseri umani. Le leggi sulla sperimentazione sugli animali e sul loro trasporto e la normativa per la tutela delle foreste e della biodiversità erano all’avanguardia nel mondo, tanto che alcune di esse rimangono in vigore ancora oggi (Pois, 1986; Sax, 2000). Forse l’incapacità di amare gli esseri umani potrebbe in parte spiegare la sproporzionata passione per gli animali – sproporzionata in relazione alla loro misantropia: amare gli animali non è mai un male, ovviamente – e la glorificazione nazista delle leggi di natura. Il nazismo formulò una filosofia del vivente (Lebensphilosophie), non dell’umano. Non serviva alcuna antropologia, perché la specie umana era sussunta nello schema del vivente, non v’era nulla di riconoscibilmente speciale negli esseri umani nel panteismo nazista. In un discorso tenuto a Norimberga nel 1938, Hitler, comunicò al popolo l’essenza di questo suo panteismo: “Noi veneriamo esclusivamente la cura di ciò che è naturale, e di conseguenza, in quanto naturale, voluto da Dio. La nostra umiltà si afferma nella sottomissione incondizionata alle leggi divine dell’esistenza per come noi uomini riusciamo a comprenderle”.
I tempi sono cambiati ma rimane, sotto traccia, in tutti i movimenti di rivitalizzazione etnica, una mistica della naturale e salvifica autenticità e purezza dell’Alpe (o della foresta, o della prateria, o dell’ambiente marino) come via di fuga dalla metropoli corruttrice e tentacolare, dalle sue manipolazioni, contaminazioni ed imbastardimenti. Nello specchio dell’Alpe il cittadino vede il riflesso idealizzato e nostalgico di un’identità più sincera e genuina. In questo modo la natura viene nazionalizzata, la nazione si naturalizza e la Naturschutz finisce per coincidere con la Heimatschutz. Quand’era in vita, le performance alpinistiche dell’imprenditore Haider evidenziavano il nesso tra la sacralità della montagna, l’intento di generare un’adesione essenzialmente emotiva al movimentismo anti-istituzionale e l’idealizzazione nazionalista della sfida esistenziale dell’individuo, che è rappresentante del suo popolo sulle pareti rocciose come sui mercati finanziari. In questo senso, esistevano delle evidenti analogie simboliche ed ideologiche tra Haider e due intellettuali filo-nazisti come Julius Evola e Marc Augier (Saint-Loup), entrambi provetti alpinisti, sciatori e promotori di una mistica naturalista e neo-pagana rivolta ai giovani, potenziali fautori della palingenesi europea. Augier, oltre ad essere attivo nella promozione della rete di ostelli della gioventù francese fu anche un teorico dell’Europa delle patrie carnali (patries charnelles) in cui veniva enfatizzata la componente biologica dell’etnicità.
Il connubio di ruralismo, tradizione, ansia etnica e modernismo è puramente strumentale. Esso produce un’identità collettiva fittizia utile a superare, provvisoriamente, il disincanto della modernità, grazie alla reintroduzione del sacro, del mistico e del trascendente – vale a dire del sublime – in una società che ha in parte ripudiato la presenza del divino. Il modello etnoambientalista “Heimat und Umwelt” non è un ritorno al passato ma un’alternativa all’idea piuttosto caricaturale di una modernità appiattente incarnata dallo spauracchio McWorld. In questa prospettiva l’identità del singolo è inscindibile dalla valorizzazione delle risorse naturali e culturali della sua piccola patria. Il paesaggio, i riti, il folklore, certe convenzioni ed intimità offrono un saldo ancoraggio per chi non è aduso ai continui riorientamenti identitari imposti dalle metropoli multietniche.
Gli eco-etnopopulisti dimostrano grande abilità nello sfruttare quest’aspetto dell’immaginario popolare, puntando su una formula in cui ogni offesa o aggressione alla natura diviene un’offesa alla cultura ed all’identità etnica ed individuale, e vice versa. L’Heimat, come proiezione a livello regionale dell’istituzione familiare e del confortevole ambiente domestico (Heim) diventa un bastione di solidarietà per una società gelosamente chiusa in se stessa, uno scudo che protegge aspetti della tradizione che non si vogliono annacquati dalla mondializzazione e dal cosiddetto turbocapitalismo.

Resta comunque il fatto che ciascuno di noi è un ospite di questo pianeta, un ospite da un altro mondo, ed è tenuto a far sì che chi verrà dopo possa fruire della medesima ospitalità, o magari di un livello anche superiore. Dunque si deve pur trovare la maniera di amare l’ambiente senza volerlo possedere, senza considerarlo “cosa nostra”, senza piegarlo ai nostri desideri per ricavarne maggior piacere.
In questo capitolo la mia guida sarà Ralph Waldo Emerson, il nume tutelare della letteratura americana, l’intelletto che ha meglio saputo distillato il sogno di un’umanità migliore in un mondo migliore, insomma il sogno americano delle origini. Nel suo manifesto del trascendentalismo, Emerson reputava che l’approccio utilitaristico alla natura fosse deleterio non solo per la natura ma anche per la vita della nostra mente e molti escursionisti o valligiani capiranno molto bene il significato delle sue parole (Nature 1836-1844/2010):

Vi è qui come una sacralità che mette in imbarazzo le nostre religioni e una verità che potrebbe discreditare i nostri più acclamati eroi. Qui riscopriamo come la natura sia la realtà che fa rimpicciolire, al confronto, ogni altra realtà, e come essa giudichi simile a un dio ogni uomo che venga a lei. Siamo sgusciati via dalle nostre chiuse, affollate dimore, nella notte e al mattino, ed eccoci ad ammirare da quali maestose bellezze siamo quotidianamente circondati e fasciati. Come vorremmo sfuggire alle tante barriere che ce le rendono intanto, almeno in parte, inoperanti, come vorremmo sfuggire a sofismi e riserve mentali, come vorremmo compenetrarci nella natura! La temperata luce dei boschi è come un perpetuo mattino, è stimolante, eroica. S'insinuano dentro di noi le antiche magie di questi luoghi. I fusti dei pini, degli abeti, delle querce brillano come ferro davanti all'occhio infiammato. E i muti alberi cominciano a persuaderci che meglio sarebbe vivere con loro e abbandonare questa nostra vita fatta di solenni futilità. Qui non vi è storia, non vi è chiesa o stato che si sovrappongano, come un'interpolazione, al cielo divino e al grande anno immortale. […]. Le città non concedono spazio sufficiente ai sensi umani. E sia di giorno 'che di notte ci tocca andar fuori a nutrirci gli occhi di orizzonti e a richiedere la nostra parte di spazio, così come abbiamo bisogno dell'acqua per lavarci. […]mi distacco dalle beghe e dalle personalità del luogo: sì, e dall'intero mondo di piccoli centri e di personalità, e mi trasferisco in un delicato reame di tramonti e di pleniluni, troppo splendido, forse, per quell'essere contaminato che è l'uomo, e perché vi si possa accedere senza una qualche forma di noviziato e di accettazione. […]. Quelli che lamentano come morbosa la separazione fra la bellezza della natura e le cose che devono esser fatte, devono considerare che questo nostro andare a caccia del pittoresco è inseparabile dalla nostra protesta nei riguardi delle falsità sociali. L'uomo è caduto; la natura è sempre in piedi e fa da termometro differenziale rivelando la presenza o l'assenza di sentimento divino nell'uomo. Ed è per colpa della nostra insipienza e del nostro egoismo che ci rivolgiamo alla natura; ma quando saremo sulla via della guarigione, sarà la natura a rivolgersi a noi. Guardiamo con un senso di compunzione il ruscello che spumeggia; ma se la nostra vita scorresse con la sua giusta carica di energia, sarebbe il ruscello a sentire vergogna.

E qui c’è un passaggio importante, nell’economia del discorso che ho impostato in questo capitolo

Questa ingegnosità con cui è fatto il mondo si travasa anche nella mente e nel carattere delle persone. Nessuno è perfettamente bilanciato; ognuno ha una vena di insania nella sua costituzione, una leggera pressione del sangue alla testa per far si che egli resti saldamente legato a un qualche particolare punto che la natura abbia preso a cuore.

Emerson sta provando ad emanciparci dall’incubo di un universo morto ed indifferente a noi ed a tutto il resto e, contemporaneamente, dalla credenza veterotestamentaria in un dio vanaglorioso, capriccioso ed irascibile. Ecco un altro significativo passo del “manifesto”:

Attraversando un terreno brullo all’imbrunire, tra pozzanghere di neve, sotto un cielo nuvoloso e senza alcun particolare motivo di ottimismo nei miei pensieri, ho goduto di un momento di perfetta euforia. Sono così contento da averne quasi paura. Anche nel bosco l’uomo si libera dei propri anni come un serpente della sua pelle e, a qualunque età, è sempre un bambino. Nei boschi è l’eterna giovinezza. All’interno di queste piantagioni di Dio regnano decoro e sacralità, qui una festa perenne è allestita, e l’ospite non vede come potrà mai stancarsene, passassero anche mille anni. Nei boschi torniamo alla ragione e alla fede. Lì sento che niente può accadere alla mia vita: nessuna disgrazia o calamità (purché mi si lascino gli occhi) che la natura non possa sanare. In piedi sulla nuda terra – con la testa inondata dall’aria gioiosa e sollevata verso lo spazio infinito – ogni egoismo meschino svanisce. Divento una pupilla trasparente; non sono niente, vedo tutto; le correnti dell’Essere Universale mi attraversano; sono una parte o una particella di Dio. Il nome dell’amico più caro suona allora estraneo e accidentale: essere fratelli o semplici conoscenti, padroni o servi, è una quisquiglia e un impiccio. Sono l’amante della bellezza incontenibile e immortale. Nella natura selvaggia trovo qualcosa di più caro e congeniale che non nelle strade o nei villaggi. Nel paesaggio placido, e soprattutto nella lontana linea dell’orizzonte, l’uomo scorge qualcosa di altrettanto bello della sua stessa natura. II piacere più grande che i campi e i boschi procurano è l’indizio di una relazione nascosta tra l’uomo e il regno vegetale. Non sono solo e irriconosciuto. Esso mi fa cenni e io ricambio. L’ondeggiare dei rami nella tempesta è per me nuovo e antico a un tempo. Mi coglie di sorpresa ma non mi è sconosciuto. Il suo effetto è simile a quello di un pensiero più elevato o di un’emozione migliore che mi investono quando credevo di pensare in modo giusto e di agire rettamente.

Pare che i suoi sensi siano più affinati della media. Forse li usa meglio, forse è semplicemente più attento. È possibile che chi è incline a percorrere questo “sentiero” sia coinvolto in un processo di progressiva identificazione con una sfera sempre più vasta del mondo, proprio a partire dalla natura. La mistica naturalista dei trascendentalisti non è animista, è trascendente, appunto. Emerson dichiara che “ogni fatto naturale simboleggia un fatto spirituale”. La Natura è, in ultimo, Spirito. Ricordo una frase di Dale Cooper, in Twin Peaks: “la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma mi sbagliavo, li ho ritrovati a Twin Peaks”. In questa serie un merlo si chiama Waldo, forse un omaggio a R.W. Emerson. Ben diversa, dualistica, è la comprensione delle forze naturali dell’Immanuel Kant della “Critica del giudizio”, che pure mostra qualche traccia di una possibile, remota convergenza:

Le rocce che sporgono in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo fra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume, riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà coraggio di misurarci con l'apparente onnipotenza della natura.

Per i trascendentalisti il bello e il sublime eccedono l’ordinarietà dei nostri pensieri e delle nostre emozioni e ci infondono un’immensa gioia e anelito verso l’alto e verso l’interiorità. Ciò che ascende, converge, come ciò che esplora le profondità dell’anima. Il senso della meraviglia, del sentirsi infinitamente minuscoli ed infinitamente vasti, proiettati verso un interesse morale superiore, che è poi quello della coscienza. Nessuna persona potrebbe commettere un crimine trovandosi in una tale condizione dell’anima, che purtroppo per noi è solamente passeggera.
I trascendentalisti dei nostri tempi abitano molto più vicino. Uno di loro è il celebre Mauro Corona (2005, p. 271), non certo per caso un ammiratore di un altro grande trascendentalista, Walt Whitman:

Mi escono battute sarcastiche quando leggo o sento definire la montagna assassina. La montagna non è assassina, se ne sta lì e basta. Siamo noi i killer di noi stessi, che non sappiamo vivere, che usiamo il profumo per l’uomo che non deve chiedere mai, che abbiamo dimenticato la carità, la riconoscenza, il rispetto, che distruggiamo la natura. La vita è un segno di matita, curvo e sottile, che finisce ad un certo punto. Per molti è lungo, per altri corto, per altri non parte nemmeno. La gomma del tempo verrà poi a cancellare quel segno. Di noi non resterà nemmeno il ricordo. È giusto così. E allora perché sgomitare tanto?…Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro. La montagna mi ha insegnato anche questo.

Ne “Il volo della martora” (1997, p. 62), uno dei suoi pensieri più belli:

Le voci della primavera sono il diluente che impedisce alle scorie dei fallimenti, delle delusioni, del pessimismo di occludere il minuscolo passaggio verso quel magico luogo, verso quella terra lontana e ancora pulita, sempre così difficile da raggiungere, dove trovano rifugio i sentimenti buoni quando noi li rincorriamo per ucciderli.

Un altro è il meno noto Mario Martinelli (2007, p. 68), trentino della Vallarsa:

E Luino distingueva chiaramente ora, nell’opaca tenebra, come l’equilibrio con la natura fosse la cosa più importante per assaporare completamente il ricco e impagabile cammino dell’uomo. La solitudine siderale poteva raggiungere momenti d’intensa spiritualità che mettevano i brividi sulla pelle e, subito dopo, la certezza di essere uniti a tutti gli elementi del creato conferiva un’euforia che abbisognava dell’intero universo per espandersi.

I trascendentalisti, vecchi e nuovi, ci stanno dicendo che una buona parte della nostra aggressività non è un tratto costitutivo della nostra natura, è il risultato di una concatenazioni di scelte sbagliate, a loro volta causate dalla nostra immaturità. L’esito è stato una dipendenza psicologica autodistruttiva, il bisogno di consumare letteralmente il nostro prossimo, l’altro da noi, per espandere il nostro ego, personale e collettivo (patria, etnica, civiltà, culto, ecc.), che necessita di confini e barriere che mantengano ben distinti il mio dal tuo, il soggetto dall’oggetto. Così siamo diventati materialisti, avidi, competitivi, violenti, razzisti, sessisti, omofobi, insicuri, narcisisti, ossessivi, anempatici (freddi, disabituati alla compassione), moralmente intorpiditi (indifferenti, relativisti, nichilisti, egotisti) ed in ultimo autolesionistici. E il punto non è che dobbiamo cambiare per ragioni morali, non c’è un imperativo etico che ci deve costringere a pensare e vivere diversamente; la cosa è molto più semplice: i trascendentalisti ci offrono uno squarcio nel tipo di esperienza di vita che sprechiamo, di cui ci priviamo, ci rivelano cosa perdiamo quando viviamo un’esistenza indurita intorno ad un ego pietrificato, ad identità sociali inflessibili, intransigenti e soprattutto monistiche a pratiche sociali di sfruttamento, strumentalizzazione e manipolazione che ormai diamo per scontate, che non consideriamo nemmeno più problematiche.
Dobbiamo accettare, una buona volta, che non siamo onnipotenti, che non siamo qui per soggiogare l’universo alla nostra volontà di potenza, che la natura è indifferente alle nostre pretese ad ai significati che le attribuiamo. La radice di tutti i nostri mali, della convergenza di crisi in quest'epoca oscura, è questa nostra superbia, la superbia del moltiplichiamoci, popoliamo il pianeta (come se non fosse già popolato da altre specie) e trasformiamo l'universo in accordo con le nostre preferenze. L'intera nostra civiltà è fondata su questo assurdo paradigma che ci sta portando alla rovina. Dobbiamo riscoprire e valorizzare l’umiltà e il rispetto per ciò che è altro da noi.
Lo illustra magnificamente David Foster Wallace, nel suo breve scritto “Questa è l’acqua” (2009):

Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo capiti…Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. […]. Se imparate davvero come pensare, a cosa prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose. […]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza. Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” - la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito.

lunedì 24 ottobre 2011

La coscienza, dal Buddha a David Foster Wallace




Non è una misura di buona salute l’essere ben adattato ad una società profondamente malata
Jiddu Krishnamurti

Nell’ottica dello studio della coscienza, l’unico, vero discrimine tra esseri umani concerne l’obiettività. Ci sarà sempre chi si situa più vicino (o per meglio dire, meno distante) al polo dell’obiettività (vedere la realtà com’è e non come desideriamo che sia) e chi invece tende a scivolare verso il polo della soggettività, quello di chi vede esclusivamente ciò che vuole vedere, indipendentemente dalla propria lingua, ma non dalla propria tradizione: alcune società agevolano l’impegno verso l’oggettività, altre lo avversano.
Una coscienza più obiettiva richiede consapevolezza, attenzione, circospezione, conoscenza, saggezza. Ci si deve distanziare da noi stessi – fare un passo indietro ed uno fuori da noi stessi – per impedire alle nostre paure, fantasie ed affetti di interferire con la nostra obiettività.
Le identificazioni collettive forti rendono molto più arduo questo compito. Infatti ostacolano l’introspezione, quella che ci rivela che siamo prima di tutto esseri umani e solo in un secondo momento un maschio, un montanaro, uno scrittore, un marito, un trentino, ecc. È nella nostra natura la capacità di fare un passo indietro ed un passo in là, per perseguire l’ideale di un’esistenza più piena, abbondante, vitale di quanto sarebbe possibile altrimenti. Le tenaci affiliazioni di gruppo interferiscono anche con l’empatia, che promuove obiettività. Nella sua espressione più completa, l’empatia ci impedisce di porci troppo al di sopra degli altri, ci rammenta che non siamo più importanti degli altri, che il loro dolore non è meno significativo del nostro (Fait/Fattor 2010). L’empatia, se la si lascia libera di agire, scoraggia l’auto-inganno, le illusioni, ci spinge ad interessarci agli altri, a preoccuparci per loro, a concentrarci su tutte le cose che ci consentono di aiutare gli altri, nei loro termini, non nei nostri. Per farlo, però, occorre una visione e comprensione obiettiva della realtà che, bloccati come siamo nel nostro egotismo, senza empatia non potremmo mai sperare di sviluppare.
L’empatia è la precondizione essenziale per l’individualità impersonale tanto cara a figure disparate quali Socrate, Simone Weil, R.W. Emerson, Tolstoj, Albert Camus (cf. “La chute”) e Aung San Suu Kyi, la sconfitta del senso egoistico di essere migliore o più prezioso del prossimo, la capacità di nutrire le emozioni non-egoistiche, che sono quiete, non-violente, impersonali ma al tempo stesso profondamente personali. Le emozioni egoistiche divorano la nostra attenzione verso l’esterno, sostituendola con automatismi istintivi, reazioni emotive incontrollate ed imponderate, ci espongono alla conquista delle nostre paure e brame, cosicché non viviamo più la nostra vita, ma siamo vissuti, rischiando di morire senza aver realmente vissuto. Idealmente, in una condizione di individualità impersonale, il sé si dissipa, svanisce, ma la coscienza rimane, come se fosse un elemento costitutivo della realtà, il fondamento di ciò che è, obiettivamente.

“Se non ti rendi conto che ciò che fai è sbagliato, non potrai neppure vergognartene. Vivi nella pura fantasia – una specie di follia e una totale mancanza di obiettività. Il che si riduce poi all’incapacità di affrontare la verità. Se vivi in un mondo dove tutto ciò che fai è giustificato da concetti come “patriottismo” o “il bene del paese”, non potrai compiere il passo successivo di vergognarti e desiderare di correggerti”
(Aung San Suu Kyi, 2008).

Qualunque astrazione creata dall’uomo si trova dunque a due gradi di separazione dalla verità.
Ma non dobbiamo arrenderci al fatalismo, al determinismo, al potere coercitivo della tradizione sulla voce della coscienza. Ci sono necessità soggettive o arbitrarie e necessità oggettive o inevitabili. Quelle oggettive sono realmente incontrollabili: per esempio, non possiamo volare (senza supporti tecnologici), non possiamo vivere nel passato, non possiamo dimagrire in un giorno. Quelle soggettive che, in "Contro i Miti Etnici" (CME), ho chiamato “golem” sono necessità che descriviamo come incontrollabili ma determinano il nostro fato solo se siamo così pigri, indolenti e stolti da lasciare che così avvenga. Pensiamo agli alibi più classici, come “mio marito è violento ma non posso lasciarlo, altrimenti lo distruggerei”, o “non possiamo permetterci di spendere 18 euro per un cavolo di libro”, oppure “le guerre sono inevitabili”. È vero che, come ha osservato un lettore di CME, “la realtà del contesto in cui viviamo ci impone regole che, a volte, non condividiamo”, ma questa forza che ci sembra esterna ed insormontabile in realtà non lo è. La costrizione all’allineamento etnico o politico viene unicamente da dentro di noi ed opera solo se lo vogliamo. Scriveva Dietrich Bonhoeffer (2009):
“Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde anche se provvisoriamente molto mortificanti”.
Nessuno mette in dubbio che convivere tra mille diversità sia impresa non facile. Siamo già angariati da mille debolezze, come l’egocentrismo, l’auto-inganno, le fallacie logiche, la soggettività emotiva, il bisogno di appartenenza, la dipendenza da figure autoritarie, il pensiero dicotomico (bianco/nero, bene/male), la vulnerabilità alla pressione gregaria, l’ignoranza e l’accidia (inerzia), la percezione selettiva della realtà e così via. A tutto questo, che sarebbe già di per sé più che sufficiente, si aggiunge la babele linguistica, un ulteriore, enorme ostacolo alla comprensione tra i singoli individui ed i popoli. Ma Socrate, Gesù, Buddha e Mo Tzu, tra gli altri, si sono sforzati di insegnarci che questo non può essere un alibi e che superare gli ostacoli (i nostri preconcetti e pregiudizi sopra tutti gli altri) è un segno di maturità. Pare, però, che molti dei loro seguaci agiscano come se, al contrario, si trattasse di un comodo alibi, un’ulteriore dimostrazione del fatto che ciascuno di noi contiene molteplici identità, anche contraddittorie, e che è poco saggio sceglierne una e stabilire che è quella che ci rappresenta meglio.

Vorrei completare queste considerazioni con un lungo, magnifico estratto da “Questa è l’acqua”, di David Foster Wallace (Wallace, 2009), una gemma che mi è stata suggerita da Gabriele Di Luca, insegnante, intellettuale, editorialista, recensore ed amico livornese-altoatesino-sudtirolese e che sintetizza mirabilmente quanto ho cercato di spiegare "antropologicamente":

“Ci sono questi due giovani pesci che nuotano insieme e, ad un certo punto, incontrano un pesce più vecchio che nuota in direzione opposta, il quale fa un cenno di saluto e dice, “‘Giorno, ragazzi, com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e infine uno dei due si rivolge all’altro e fa, “Che diavolo è l’acqua?”. […]. Il punto fondamentale della storiella dei pesci è che le realtà più ovvie, invalse ed importanti spesso sono quelle più difficili da vedere e di cui è più difficile parlare. […]. Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo capiti. Ma vi prego, non temete che mi metta a predicarvi la compassione o l’empatia o le cosiddette “virtù”. Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. […]. Se siete automaticamente sicuri di conoscere qual è la realtà, e chi e cosa è davvero importante - se volete operare secondo la vostra configurazione standard - allora voi, come me, non prenderete in considerazione possibilità che non siano insignificanti e fastidiose. Ma se imparate davvero come pensare, a cosa prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose. […]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza. Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” -la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito. […]. Riguarda la semplice consapevolezza - consapevolezza di quello che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente: “Questa è l’acqua, questa è l’acqua”.

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sabato 22 ottobre 2011

Alex Langer a Twin Peaks


"In molti film, o serie televisive…ci si accorge progressivamente che una tale xenofobia è la conseguenza di un segreto, o piuttosto di una colpa che tutti conoscono, ma tacciono, di una colpa tenuta nascosta dalla società che compone la piccola città. Lo straniero viene respinto, perché non si vuole che egli scopra questa tara intima, non si desidera che egli esprima il non-detto, il taciuto e il celato, che renda pubblico ciò che deve rimanere affare di una cerchia chiusa, che ravvivi, riattivi, smuova ciò che ognuno si sforza di dimenticare. Lo sguardo dello straniero disturba: egli dà a vedere, e ciò che fa vedere è, all’occorrenza, un’immagine sgradevole e degradante, un panno sporco che dovrebbe essere lavato solo in casa. Lo straniero evidentemente viene a sconvolgere le cose, l’immobilità, la stagnazione, l’inerzia, il marasma, il torpore, l’abbattimento, la letargia che regnano sulla piccola società. Egli introduce un movimento, una turbolenza".
Alain Montandon, “Elogio dell’ospitalità”.

"Dico solo che additarmi come nemico dei tirolesi in quanto sono figlio di mio padre, israelita e per tale ragione…perseguitato… rappresenta a dir poco uno schiaffo che attraverso di me si vuole dare a tutto quello che di civile e di tollerante è nato dopo l’esperienza terrificante dei campi di sterminio. Evidentemente…io non ho diritto di avere delle idee e convinzioni autonome: le mie idee sono condizionate e prestabilite dalla mia origine “etnica”, anzi, “razziale”, che forse dovrebbe persino impedirmi di essere considerato tirolese in quanto “figlio di giudeo”! E sembra di leggere, appena velatamente fra le righe, che i tirolesi di lingua tedesca farebbero male a non usare tale argomento definitivo e liquidatorio per risparmiarsi il confronto con le mie idee".
Alexander Langer risponde all’accusa del dottor Karl Saltner di essere anti-tedesco in quanto figlio di un ebreo.

"Tenete presente che se mi condannate a morte, perché sono come dico di essere, non danneggerete me più di voi stessi: a me, infatti. niente mi può danneggiare, né Meleto né Anito - non ne sarebbero neppure capaci - in quanto, credo, non è permesso che un uomo migliore sia danneggiato da uno peggiore. Forse mi può uccidere o esiliare o disonorare; ma mentre egli e qualcun altro possono credere che questi siano grandi mali, io non lo credo, e considero invece un male molto maggiore fare ciò che sta facendo ora, cioè tentare di condannare ingiustamente a morte un uomo".
Platone, Apologia di Socrate


Alexander Langer era un ospite di un altro mondo. Lo aveva intuito Guido Ceronetti che, a proposito della decisione di Langer di farla finita, scrisse (“Strangolato dalla pena di un mondo avvelenato”, La Stampa, 6 luglio 1995):

"Nulla di strano nel suicidio di questo amico biofilo, di questo filantropo che ha fallito: sono passioni d’infinito di cui la muraglia del Finito disperde e frantuma il volo; frammenti di essere che nel puro esistere materiale non riescono a respirare. Il dolore degli altri è reso più intollerabile dall’essere fatti per qualcos’altro".

Langer si sarebbe probabilmente schermito. Non si rallegrava di essere percepito come radicalmente diverso (Langer, cf. Valpiana, 2005):

"Ma occorre qua qualcos’altro ancora, per togliere al pacifismo – al pari dell’ecologismo – quell’odore di autolesionismo che gli è proprio. Sembra che l’azione ecologista e pacifista si addica solo agli asceti, ai valorosamente puri, a “chi non è di questo mondo”. Ed invece dev’essere evidente a tutti che è anche questione di “qualità della vita”. Liberarsi dalla guerra, dal militarismo, dalla distruzione ecologica, dall’incombere dell’apocalisse “civile” o “militare” che sia – non è solo un imperativo per chi vuole che i nostri figli o nipoti possano ancora vivere o per chi ama i popoli lontani. Non è solo questione dei “generosi”, per capirci meglio".

E tuttavia il mio giudizio non cambia e forse lui, intimamente, lo avrebbe condiviso. Altrimenti perché avrebbe sentito il dovere di spiegare che “a volte bisogna accettare di essere chiamati traditori dai propri compagni”?

Diverse persone tra il pubblico delle presentazioni del libro “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso” si sono congratulate con noi per aver recuperato l’eredità langeriana. In verità Langer è citato solo sporadicamente nel testo e non è stato un punto di riferimento nella sua stesura. Io e Mauro simpatizziamo per Langer e le sue riflessioni, che non sono mai state un punto di arrivo, come non lo è il libro che abbiamo scritto e pubblicato assieme. Entrambi abbiamo tuttavia fatto una scelta precisa, quella di non lasciarci inquadrare in categorie predefinite, un vizio fin troppo comune in Alto Adige, trasmesso da una generazione a quella seguente nella convinzione che sia la cosa più giusta e naturale da fare.
Ciò non toglie che il messaggio di Alexander Langer diventi ogni giorno più attuale, oserei dire salvifico. Alex Langer non era semplicemente un costruttore di ponti. Di quelli ce n’è a bizzeffe: uno in più o uno in meno non farebbe alcuna differenza. Era molto più di questo, era un creatore di mondi, di scenari di vita alternativi per umanità migliori; era un idealista, non un cinico. Gli idealisti sono una risorsa per ogni società quando mantengono un legame con la realtà, ossia quando non pretendono che un’intera comunità li segua sulla loro strada. Sono antropologicamente ottimisti e non vogliono imporre il loro volere al prossimo. Gli utopisti sono invece generalmente pericolosi, perché pretendono che la natura umana si conformi alle loro attese e pretese.
Alexander Langer, come tanti riformatori prima di lui, rientra nel novero di persone che hanno cercato, idealmente appunto, di ispirare le persone, non di rieducarle. Quelli che sostengono che abbia perso la sua battaglia sono persone che si aspettano che le riforme provengano dall’alto, ma ciò avviene molto raramente. Nessuna riforma può germogliare senza un terreno adatto ed una rivoluzione della coscienza è il terreno più adatto. L’attuale crisi globale potrà servire da innesco per questo tipo di rivoluzione, una volta che le vecchie logiche e mentalità saranno dimesse. Questo è anche il pensiero di una magnifica figura del nostro tempo, Aung San Suu Kyi: “Molta gente trova imbarazzante e poco pratico pensare alla vita spirituale e politica come una cosa sola. Io non vedo alcuna divisione. Nelle democrazie esiste questo impulso a dividere il secolare dallo spirituale, ma non è necessario. […]. Quando parlo di rivoluzione dello spirito, mi riferisco alla nostra lotta per la democrazia. Ho sempre sostenuto che una vera rivoluzione deve nascere dallo spirito. Bisogna essere convinti di avere bisogno del cambiamento e di voler cambiare determinate cose, non solo quelle materiali. Occorre un sistema politico ispirato a determinati valori spirituali, valori diversi da quelli del passato” (Aung San Suu Kyi 2008). In precedenza la politica birmana aveva precisato che: “l'autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni ufficiali per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo” (Aung San Suu Kyi 2003).
Alex avrà perso solo se abbandoneremo le cause per le quali si è battuto, però non vedo come questo possa succedere, a meno che i nostri istinti suicidi non prendano il sopravvento sul buon senso.

Dopo la morte suicida di Alexander Langer, Adriano Sofri lo salutò con queste parole, pronunciate al Parlamento europeo in occasione della sua cerimonia di commemorazione (Una Città n. 43 / Settembre 1995):

"Se avessi di fronte a me un uditorio di ragazze e ragazzi, non esiterei a mostrar loro com’è stata bella, com’è stata invidiabilmente ricca di viaggi e di incontri e di conoscenze e imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore, la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri col suo passo leggero, e voglia il cielo che non perdano la speranza".

Il prezzo che Langer dovette pagare per mantenere leggero il suo passo, per emulare “Empedocle dal passo leggero, attento a non essere un peso per la terra”, nella magnifica immagine di Peter Kammerer, fu però eccessivo. Nel suo ultimo messaggio di commiato dalla vita e dal mondo, scrisse:

I pesi mi sono diventati davvero insostenibili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti, anche per questa mia dipartita. Un grazie a coloro che mi hanno aiutato ad andare avanti. Non rimane da parte mia alcuna amarezza nei confronti di coloro che hanno aggravato i miei problemi. “Venite a me voi che siete stanchi ed oberati”. Anche nell'accettare questo invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto.

Sofri ricorda che Langer si era prefissato l’obiettivo di cercare, “con altri, una linea che mi consentisse di restare solidale con la mia comunità (o anche solo di non esserne rigettato) e insieme di non essere nemico dell’altra. Di non esaurirmi nell’identificazione con una fazione, una situazione: di essere anche "altrove" (Una Città n. 43 / Settembre 1995). Era l’ospite di un altro mondo, appunto, e forse di quell’altro mondo, più assennato e meno egotista, continuò a sentire la nostalgia, quando, come san Cristoforo il Traghettatore, una figura che lo affascinava profondamente, si accorse che il fardello era tutt’altro che leggero. Lo ammise ricordando Petra Kelly e Gert Bastian:

"Forse è troppo arduo essere degli Hoffnungstraeger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere".

Langer, come chiunque si impegni ad arginare il Male, vi ci cozzò contro. Fu avversato da chi volle impedirgli di insegnare e successivamente di amministrare la città di Bolzano senza accettare etichette di denominazione di origine etnica controllata, e che ora si rifiuta di dedicare una via o una piazza ad uno dei più illustri, forse il migliore, dei suoi cittadini. Fu avversato dagli integralisti della pace, della nonviolenza e dell’ambientalismo, che troppe volte si rifiutarono di dare spazio alle sue opinioni. Più in generale fu avversato da chi si stizziva per le sue posizioni aperte al compromesso, ossia alla ricerca di un equilibrio tra forze contrapposte, piuttosto che alla lotta continua contro nemici irriducibili. Un impegno gravoso in un mondo in cui l’idea dominante è quella che la propria parte è buona ed alla fine dovrà prevalere. Un impegno che assorbe tutte le energie di un saltatore di muri ed edificatore di ponti. Peter Kammerer ricorda che “qualche volta qualcuno di noi ha tentato di sottrarti almeno un po’ a questi impegni, ma tu hai tenuto duro, sei stato terribilmente pflichtbewusst, coscienzioso, curandoti degli altri” (Una Città n. 43 / Settembre 1995). Coscienza, cura, dedizione, merce rara e poco apprezzata da quelli che non pensano di beneficiarne direttamente, quelli che costringono il prossimo a chiedere le dimissioni dalla vita, per l’esasperazione che uno accumula di giorno in giorno. Così, purtroppo, si doleva Kammerer, “poi abbiamo saputo che indenne non eri rimasto e che sotto il tuo essere coscienzioso, comprensivo, trasparente e ricco di sfumature covava un vuoto sempre più terribile” (ibidem).
Da dove proveniva questo vuoto? Io temo che il suo vuoto sia il nostro vuoto, un vuoto di cui però non siamo tutti ugualmente consapevoli. Proprio questa carenza di consapevolezza rischia di portarci alla rovina, senza peraltro la dignità di un Langer. Questo perché l’umanità è stregata dalla sua ignoranza. Nel Simposio Platone fa dire a Socrate che il male dell’ignoranza risiede nel fatto che chi non è né buono né saggio è comunque soddisfatto di sé, non avverte una mancanza. Langer, che era buono e saggio, percepiva drammaticamente l’ampiezza di questa mancanza, dietro la patina estetizzante e falsamente rassicurante delle apparenze. Langer fu vittima del destino umano, della sindrome della caduta, che ci condanna a non recepire le grandi idee che dovrebbero penetrare i nostri cuori, le nostre coscienze, che ci condanna a replicare Auschwitz e i gulag, Hiroshima e Fukushima, il Vietnam e l’Iraq, a passare da una crisi sistemica a quella successiva, ogni volta nella convinzione che possa essere l’ultima, e non nel senso di definitiva. Poi un nuovo oltraggio, una nuova atrocità, una nuova infamia ci scuote. Questo perché nessuna grande idea pare riuscire ad elevare le nostre coscienze, almeno non permanentemente. Ci scuotiamo per un istante, qualche decina di anni, e poi ripiombiamo nel torpore, fino al prossimo funesto risveglio. Langer si accorse che le grandi idee non hanno alcun potere di trasformare il corso della vita umana. Persino la democrazia e i diritti umani, culmine del pensiero etico e politico umano, sono suscettibili di essere pervertiti e servire il male, potenziandolo e rigenerandolo, vestendolo di luce, una luce oscura ma che ci ammalia. È possibile rendersi conto quotidianamente che non siamo quasi mai all’altezza dei nostri ideali, che questi non raggiungono le profondità della nostra coscienza e dell’inconscio e che quindi non abbiamo il pieno controllo di noi stessi, non siamo interamente responsabili di noi stessi. Il che è francamente sconfortante ed allarmante. “Perché il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio” (Romani 7, 19).
Per questa ragione Socrate e Gesù mettevano in discussione i sistemi di pensiero del loro tempo, chiedendo al loro prossimo di interrogarsi, non di erigere nuovi, ugualmente fallaci, edifici filosofico-religiosi-politici. Lo stesso fece Alexander Langer: ci interrogò e ci chiese di interrogarci, di porci delle domande importanti, di prestare orecchio alle grandi idee che possono renderci persone migliori, invece di farle entrare da un orecchio ed uscire dall’altro. Questa è stata, io credo, la causa principale della sua morte. Troppe persone si vergognavano di se stesse, della loro meschinità, delle torbidezza delle loro coscienze, in sua presenza. Vi è un passo del Simposio in cui Alcibiade esprime perfettamente questo senso di vergogna:

Facendomi violenza, distraggo le mie orecchie da lui, come dalle Sirene, e mi allontano fuggendo, perché non avvenga ch’io invecchi accoccolato vicino a lui. E solo di fronte a quest’uomo io ho provato, cosa che nessuno sospetterebbe in me, la vergogna di fronte a qualcuno. Ma io di lui solo provo vergogna perché riconosco in me stesso che non sono capace di controbattere che ciò che lui pretende non si debba fare; ma, appena mi allontano da lui, sono vinto dall’ambizione di onori pubblici. Lo tradisco come schiavo fuggitivo e lo abbandono, e quando lo vedo, mi assale vergogna per le cose che mi ha fatto riconoscere. E spesso sarei felice se non fosse più tra i vivi! Ma so bene che se ciò avvenisse, ne sarei più angosciato, così che non so proprio cosa farne di quest’uomo.

Tradimento, vergogna, desiderio che si tolga di torno: non abbiamo bisogno di cercare altrove per identificare i responsabili della morte di Alex. Chi ha provato questi sentimenti e non se li è tenuti per sé ma ha lasciato che le sue azioni fossero ispirati da questi guasti morali è complice in quel suicidio, un suicidio che è il risultato della sommatoria di troppe sofferenze personali, generate dalla presa di coscienza della propria pigrizia, ipocrisia, inadeguatezza, pochezza, rispetto alle proprie aspirazioni. Alcibiade, come tanti, ha capito dove sia il vero, ma non è in grado di muoversi in quella direzione. È molto più onesto di tanti altri discepoli di Socrate, convinti erroneamente di aver capito e di mettere in pratica i suoi insegnamenti, ma invece caduti nella trappola dell’intellettualismo, ossia il pensare di aver assimilato un’idea solo perché ne abbiamo compreso il concetto, quando invece le grandi idee richiedono un coinvolgimento morale integrale, per essere colte, di uno stato di coscienza adeguato, che quasi sempre non c’è. La sua assenza spiana la strada al dogma. Sono state le altrui emozioni distruttive, assieme agli altrui dogmi, ad uccidere Langer. In questo senso anch’io, che ero uno studente e simpatizzavo per lui pur non avendolo mai incontrato, sono co-responsabile della sua morte. Quando lessi il titolo del quotidiano che ne annunciava il decesso la mia prima reazione fu: “un altro idealista che non ha retto alla pressione della realtà”. Proprio questo cinismo, assieme al dottrinarismo di chi lo accoglieva solo quando non era in disaccordo con lui, lo spinsero oltre la china. Cinismo e dottrinarismo che ora stanno spingendo verso l’abisso anche noialtri che crediamo alla scienza e non alla verità, alla religione e non a Dio, alla morale e non alla bontà. Che parliamo di armonia, equilibrio e sacrifici per il bene comune quando le nostre azioni sono improntate alla violenza, al moralismo, alla paura, alla paranoia, all’impazienza, alla rabbia. Che pensiamo di trovare il segreto del retto pensare e del retto agire all’esterno, negli innumerevoli sistemi morali, è così produciamo solo immoralità e squilibrio.
Tutti noi, ogni giorno, ci rendiamo complici del male, perché il male esiste. C’è il male che ammutolisce la voce della coscienza e il male dell’identificazione con il nostro ego, con l’immagine che abbiamo di noi stessi e della NOSTRA patria, NOSTRA etnia, NOSTRA classe sociale, NOSTRO genere, NOSTRA religione, a discapito di tutto il resto. Quando qualcuno offende questa nostra identità ci spaventiamo e reagiamo come un dio geloso, tirannico, vendicativo. “Ogni opera e ogni parola umana possono provocare il male”, scriveva Ivo Andric. È la macchina omicida a cui fa riferimento Guido Ceronetti nel già citato pezzo apparso sulla Stampa: “C’è una bellezza nell’essere vinti, ma non bisogna essere troppo masochisti. La macchina che ci schiaccia è di una brutalità senza limiti”. Quella macchina siamo noi, è l’effetto cumulativo delle nostre piccinerie, del nostro rifiuto di ascoltare cosa ha da dire l’altro, di pensare assieme, che è poi l’anticamera dell’agire morale, un esercizio di ginnastica spirituale, perché è allora che ci si disidentifica, che ci si separa dalla propria mente, dal proprio ego, anche se si continua a dissentire dal parere altrui (che può benissimo essere quello di una persona che non ha riflettuto abbastanza su una certa questione). Se si compie lo sforzo di ascoltare l’interlocutore, pur rendendosi conto che le posizioni resteranno irriconciliabili, non si perderà di vista il fatto che l’altro è un essere umano e che è possibile non essere d’accordo con il suo punto di vista, senza essere in disaccordo con lui come persona. A quel punto sarà possibile contenere la nostra naturale violenza. Non arriveremo ad odiare il nostro prossimo. Potremmo persino scoprire di riuscire a rispettarlo anche se su certi temi la pensiamo in modo antitetico.
Questo era il semplice ed inestimabile segreto di Alexander Langer, come conferma Edi Rabini, che fu suo amico e stretto collaboratore (“Una città”, n. 43, settembre 1995:

"Alex apprezzava molto le persone che, pur lavorando in maniera solidale, erano capaci di mantenere una propria autonomia individuale, una propria identità personale, e proprio per questo era capace di vedere, di riconoscere la bellezza delle strade diverse prese dagli altri. E infatti ciò che lo addolorava, fino a non riuscire a sopportarlo fisicamente, non era che, nei rapporti privati o in quelli pubblici, le strade si separassero, ma che da una differenza di idee nascesse un’incompatibilità, un’incomunicabilità sul piano personale. Questo lo feriva tremendamente. […] E, proprio per questo, le divergenze politiche, che erano anche rilevanti, soprattutto di metodo oltre che di contenuto, non lo ferivano più di tanto. Se mai lo ferivano, come ho detto prima, quando si trasformavano in attacco personale o aggressività personale. In quel caso, Alex era veramente disarmato, incapace di reagire. E sapendo di questa sua debolezza, sapendo che quello era il modo per metterlo fuorigioco, c’erano persone che alzavano il tono dell’attacco personale..."

Verso la chiusura dell’intervista, Rabini ci regala un’altra importante riflessione:

"Con la sua morte, Alex sembra voler dire: «In fondo, mi sentivo soffocare, perché non volevo o non ero in grado di porre dei paletti, dei limiti, di dire dei no; oggi, potete togliere di mezzo la mia parte contingente, comprese le difficoltà che vi ho creato, e vivere con pienezza nella riscoperta in profondità di quel che assieme abbiamo fatto o detto".

Come tanti ospiti di un altro mondo, Langer non sa dire di no, non sa negarsi, offre a tutti i suoi servigi, anche se è cosciente del fatto che non potrà assolvere tutti i compiti che si è assunto. È quest’assenza di realismo, di senso della misura, di autodisciplina che, alla fine, lo perderà. Alexander Langer provava gioia nel donarsi, una gioia senza paragoni, ma in questo mondo bisogna fare i conti con i limiti della nostra finitudine e di quella degli altri. La regola aurea per cui non bisogna fare agli altri, quel che non vorresti ti fosse fatto non va intesa semplicisticamente. Uno non porge la mano ad un aggressore che vuole ucciderlo, non accarezza un coccodrillo che gli si avvicina. Arriva il momento di allontanarsi o combattere perché è necessario vivere nel mondo reale, non nell’altro mondo ideale.

Leggendo le testimonianze delle persone che hanno conosciuto Alexander Langer (Boato, 2005), la sua vicenda umana mi ha ricordato da vicino quella dell’agente dell’FBI Dale Cooper, il protagonista di Twin Peaks, interpretato da Kyle MacLachlan. Cooper viene mandato in una cittadine vicina al confine con il Canada, immersa nelle splendide foreste delle Montagne Rocciose per indagare il misterioso assassinio di Laura Palmer, una ragazza dall’aspetto innocente che però nascondeva un terribile segreto. Si innamora presto di Twin Peaks, come chiunque si innamorerebbe dell’Alto Adige, del suo stile di vita, della sua relativa serenità, un eden sopravvissuto in un mondo caduto:

“Sono stato qui a Twin Peaks per poco tempo, ma in questo periodo ho visto decoro, onore e dignità. L'omicidio non è un fatto ordinario qui. Non è un dato statistico da aggiornare tutte le sere. La morte di Laura Palmer ha profondamente scosso tutti, uomini, donne, bambini, perché la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma mi sbagliavo, li ho ritrovati a Twin Peaks”.

Una serenità relativa, però, perché c’è sempre un prezzo da pagare, come chiarisce a Cooper lo sceriffo Harry Truman:

"Twin Peaks è diversa. Lontana dal resto del mondo, l'avrai notato. Ed è proprio per questo che ci piace. Ma c'è anche il rovescio della medaglia, come in tutte le cose. Forse è il prezzo che paghiamo per vivere qui. C'è una specie di malattia nell'aria. Qualcosa di molto, molto strano tra questi vecchi boschi. Puoi chiamarla come vuoi. Una maledizione. Una presenza. Assume forme diverse, ma è stata tenuta lontana da qui da tempo immemorabile. E noi siamo sempre pronti a combatterla. Come i nostri padri. E non finirà con noi. Poi toccherà ai nostri figli".

Anche l’Alto Adige è pieno di sinistri segreti. Ciò che è sotto gli occhi di tutti è già sufficientemente inquietante: il volonteroso collaborazionismo con il Terzo Reich; le simpatie neo-fasciste e cripto-fasciste di molti altoatesini dei nostri giorni; l’assistenza e copertura a fuggiaschi nazisti e fascisti che sostarono o risiedettero clandestinamente per anni in Alto Adige nell’immediato dopoguerra; la contiguità di certa destra sudtirolese con i nostalgici del Terzo Reich (indagata dalla procura di Bolzano); l’indulgenza verso il terrorismo anti-stato (bombe) e di stato (sevizie, torture) in certi ambienti politici e culturali (e nei forum online dei quotidiani locali), il singolare omicidio Waldner. L’Alto Adige è una terra dove si condannano le manifestazioni ed i concerti neo-fascisti organizzati da Casa Pound, ma si celebra lo stesso Ezra Pound, poeta esoterista rosacruciano che per tre anni dimorò a Tirolo, capitale del Tirolo storico, dove gli è stato dedicato un centro studi apologetico, nonostante i suoi beceri sproloqui radiofonici antisemiti, filo-fascisti ed a sostegno del nuovo ordine mondiale nazista e nonostante “Canti Pisani” come il 72, dove interloquisce con Marinetti:

"Vai! Vai! Da Macalè sul lembo estremo del gobi, bianco nella sabbia, un teschio CANTA e non par stanco, ma canta, canta: -Alamein! Alamein! Noi torneremo! NOI TORNEREMO!-" "Lo credo", diss'io, e mi pare che di codesta risposta ebbe pace".

E come il 73, dedicato ai volontari della Repubblica di Salò:

"Gloria della patria!…Nel settentrion rinasce la patria, / Ma che ragazza! / che ragazze, / che ragazzi, / portan’ il nero!"

Ezra Pound, ammiratore di Lenin e Stalin, l’uomo che, dopo la morte di Hitler, definì quest’ultimo “una Giovanna d’Arco, un santo. Un martire. Come molti martiri, porta con sé visioni estreme”. Figuriamoci quanto ci allarmerebbe scoprire ciò che è ancora occultato dietro la patina di rispettabilità della nostra Twin Peaks! Alexander Langer, in “Ciechi dall’occhio destro: il Tirolo fra Andreas Hofer e Haider”, aveva pur denunciato questo stato di cose:

"Perché, dopo la divisione del Tirolo, autorevoli tirolesi a sud del Brennero hanno ben presto elogiato il fascismo come una forma di governo che in fondo andava bene, anche se aveva il difetto di essere italiana, e degli autorevoli tirolesi a nord del Brennero giudicarono positivamente l’austrofascismo autoritario e di matrice cristiano-sociale, senza sentire quanto era lontano dalla democrazia e dal tanto decantato amore per la libertà dei tirolesi? E infine perché così tanti tirolesi – dalle due parti del nuovo confine di Stato – s’infiammarono in massa per Hitler, la sua annessione, la sua marcia, la sua follia della razza, le sue uniformi, le sue bandiere color sangue, il suo mostruoso partito, la sua propaganda per la grande Germania?"

Lo stesso hanno fatto due storici, Leopold Steurer (“Sul nazismo c’è l’oblio”, Alto Adige, 12 dicembre 2010):

"Mi sembra che in una fetta degli italiani ci sia ancora l'idea che in fin dei conti sotto il fascismo tutti abbiano sofferto, che fossimo tutti nella stessa barca. Invece no, il fascismo verso le minoranze linguistiche è stato un'oppressione «in più» rispetto a quella esercitata sugli italiani. Questo troppo spesso si dimentica".

E Andrea Di Michele (“Falsi miti e confronti parziali”, Alto Adige, 21 novembre 2010):

"Il fascismo non viene giudicato in sé ma paragonato sempre col nazismo per darne un'immagine, appunto, moderata. Si arriva così a sminuire o negare la violenza del regime fascista fino a definire «vacanza» le condanne al confino".

Ma per molti è sufficiente una scrollata di spalle collettiva per procedere come se nulla fosse, come se le forze oscure che hanno guidato i loro pensieri e le loro azioni fossero una parentesi curiosa ed irripetibile, come se non avesse senso fare un esame di coscienza sulle ragioni di certe scelte e su certe inquietanti continuità. Alex Langer si comportò diversamente. Allo stesso modo, a Twin Peaks, Cooper sceglie di farsi coinvolgere in questa battaglia contro le “forze oscure”.
È una persona profondamente spirituale, attento ai dettagli e molto meticoloso nell’archiviare le informazioni che raccoglie. Si fa subito ben volere, per una sua spontanea amabilità e socievolezza. La gente si fida istintivamente di lui, sente che è un buono anche se, come ogni forestiero, è un ospite di un altro mondo, ed è perciò imprevedibile. Sembra forte, ed è effettivamente molto determinato, ma dentro di sé cela una grande delicatezza, un forte bisogno di amare ed essere amato. È molto umano ed empatizza con tutti, si fa ben volere e fa presto amicizia con le persone di buona volontà. Non riesce ad astenersi dal congratularsi con la titolare del bar o della pensione in cui alloggia per la bontà della torta alle ciliegie o del caffè “nero come il buio di una notte senza luna”. Si rallegra quando può dare il suo sostegno agli altri. La sua vita è abbondante e cerca di condividere con gli altri questo suo entusiasmo così semplice ed innocente, quasi infantile, per le persone e le cose del mondo. Non è però un sempliciotto. I suoi metodi investigativi davvero poco ortodossi danno buoni frutti. I telespettatori si erano affezionati a questo personaggio e molti confidavano che avrebbero desiderato incontrare una persona del genere. Questo perché, a dispetto della sua approssimazione alla perfezione, si tratta di un personaggio credibile. Si riesce ad immaginare di poterlo incontrare, un giorno. Ecco, sembra di poter dire che Alexander Langer era il tipo di persona che si desidera incontrare, in virtù delle stesse qualità umane esibite dal protagonista di Twin Peaks.
Malauguratamente – poiché viviamo in questo mondo e non in quell’altro – la loro sorte nello scontro con la metà oscura è analoga.
In un’antologia di saggi intitolata “A supposedly fun thing I’ll never do again” (Wallace, 1997), lo straordinario scrittore e filosofo David Foster Wallace, con la sua consueta lucidità e perizia, ci spiega perché questo epilogo era forse inevitabile e perché il regista David Lynch ha capito più della natura umana di tanti antropologi e psicologi. Wallace esordisce chiarendo che i film di David Lynch sono essenzialmente film sul male e che il problema che abbiamo con lui è che le verità che ci squaderna sotto gli occhi ci mettono a disagio. Non vi è catarsi, non vi è il “necessario” trionfo finale dell’eroina incompresa sullo psicopatico o del poliziotto onesto su quello corrotto. Il male come lo descrive Lynch non è banale, ma indossa sempre nuove maschere per rendersi appetibile. Dunque i cattivi di Twin Peaks non sono realmente dei mostri, non sono al di fuori della sfera dell’umano, la loro natura intrinseca non è fatalmente malvagia. Sono integralmente umani, ma si lasciano indossare dal male. Il male, per Lynch, è un’atmosfera, un’ambiente in cui ci si può trovare, ma quasi mai nostro malgrado. È una possibilità, un’opzione, una forza che ci inebria, un’antimateria spirituale, una spada di Damocle. Per questo, continua Wallace, i cattivi sono eccitati ed eccitanti, sono impregnati di questa atmosfera, godono estaticamente di questa possessione. La loro presenza di spirito raggiunge il suo culmine quando compiono il massimo del male e non perché il male li attiva e li programma, ma semplicemente perché li ispira, li incita, li guida, li stimola con la sua influenza che li trascende. Non per questo Lynch li esalta: si limita a fare una diagnosi del livello di corruzione nelle persone. Nessuno è davvero innocente nella tranquilla, bucolica Twin Peaks. Ognuno ha qualche segreto da nascondere, un qualcosa di cui si vergogna. Lynch ha capito che una delle ragioni per cui il male è così potente è che è vitale, robusto ed è quasi impossibile distogliere lo sguardo dal suo volto, come le sirene. Ci pietrifica nell’abbrutimento morale proprio come Medusa. Wallace osserva che l'idea di Lynch che il male sia una forza ha delle enormi implicazioni. Le persone possono essere buone e cattive, ma le forze sono potenzialmente ovunque. Dunque anche il male può spostarsi, pervadere gli spazi, impregnare di sé la psiche umana. Ne consegue che l’oscurità è ovunque, non attende in agguato, non si cela nelle profondità o all'orizzonte. Il male è qui, adesso, come lo è la Luce, l'amore, la redenzione, ossia le forze che Lynch contrappone al male nelle sue opere. Nello schema morale del regista statunitense oscurità e luce non sono mai separati: gli opposti sono congiunti, come nel taoismo e devono restare in equilibrio. Questo è un discorso di importanza basilare per risolvere la questione dell’Alto Adige e lo affronteremo nell’ultimo capitolo, intitolato “Oltre lo scontro”. Gli dedicheremo uno spazio adeguato perché l’opinione pubblica locale, come il pubblico americano, è impreparata a questo tipo di visione, essendo abituata alle demarcazioni nette fin dall’infanzia. Wallace coglie molto bene il problema di Lynch: l’arte deve essere moralmente confortevole e siamo disposti a fare qualunque tipo di ginnastica mentale pur di realizzare questo obiettivo. Similmente, da uno scienziato sociale ci si attendono soluzioni, anche se le uniche soluzioni che chi scrive può proporre partono da una riforma della coscienza, dal basso, e non prevedono alcuna cura istantanea. Tolstoj aveva visto giusto: se dico ad un tizio che può smettere di bere e deve farlo, il tizio si dovrà assumersi la responsabilità di decidere se seguire la mia raccomandazione oppure no. Se invece gli dico che il suo alcolismo è una faccenda molto complicata, che molti esperti se ne stanno occupando, il tizio attenderà che si arrivi ad un consenso su una possibile soluzione prima di provare a smettere. Tolstoj notava che la questione della guerra non era diversa: più ci si ingegna a creare istituzioni, modelli teorici, accordi internazionali, arbitrati e tribunali, ecc. più è facile perdere di vista il fatto che la soluzione è a portata di mano: rifiutarsi di combattere. L’unica via praticabile è quella della propria auto-deprogrammazione. Richiede sacrifici, richiede umiltà, richiede un impegno costante che si protrarrà per tutta la vita. Chi non è disposto a farsene carico favorisce la forza maligna, l’opacità, l’ipocrisia, il rifiuto di scoprire la verità a proposito di se stessi e degli altri. Wallace ritiene che il pubblico americano sia abituato a giudicare con facilità e questo vale anche per l’Alto Adige (come per tutti noi). Il male è male, può nascondersi, ma è consapevole di esserlo e alla fine viene smascherato, denunciato, soppresso, perché vogliamo continuare a sentirci forti, potenti, capaci di controllare la situazione e gli eventi. Vogliamo continuare a credere che il male, che pure esiste, normalmente rimanga sotto la superficie, che irrompa improvvisamente, ma non sia onnipresente ed onnipotente, finché noi non ci impegniamo in prima persona, umilmente e pazientemente, a far sì che non lo sia. Ci piace credere che il marcio dentro di noi possa rimanere dissimulato, sotto controllo. Ci piace credere che quando il male affiora è per essere condannato e purificato. Ci fissiamo, anche inconsciamente, con l'idea karmica che chi semina raccoglie, chi sbaglia riceva la giusta punizione. Questo sarà forse vero – nessuno lo può dimostrare – ma non è detto che avvenga in questo mondo che, al massimo, potrà forse essere un purgatorio, non certo un paradiso trascurato o in potenza.
La logica degli argomenti morali dell'industria dell'intrattenimento americana, continua Wallace, prescrive una fede infantile nella capacità del buono di contrastare il malvagio, per quanto scaltro e manipolatore sia quest'ultimo, e fare giustizia. Allo spettatore rimane solo da immaginare come ciò avverrà. Solo così il suo disagio può essere gestibile e piacevole: sappiamo già come andrà a finire. In Twin Peaks, e nella vita di Alexander Langer, questo non avviene, e allora ci sentiamo traditi, come se il regista (o un qualche dio) avesse infranto un tacito accordo. In Twin Peaks la cittadina non è essenzialmente buona ma in preda ad un temporaneo smarrimento che è scaturito dalle viscere della terra, o ha fatto irruzione dall’esterno. È invece da sempre caratterizzata, come tutta l’umanità, da una evidente schizofrenia morale, dalla tensione che nasce dalla disfida (eternamente in equilibrio, eternamente fecondo, eternamente giusta) tra la Loggia Nera e la Loggia Bianca (cf. Twin Peaks). Laura Palmer è sia innocente sia dannata, sia peccatrice sia vittima di peccatori, sia buona sia corruttrice. Per Wallace questa ambivalenza, questa contraddittoria complessità, questo “sia…sia” ci irrita, perché ci costringe ad affrontare la nostra ambivalenza, la nostra parte corrotta e quella delle persone che ci sono vicine, un'esperienza che genera tensione, disagio e risentimento. Lynch, come Alexander Langer, ci infastidisce lavando i nostri panni sporchi in piazza. Per molti la morte di Alex Langer è stata una tragedia indescrivibile, per alcuni una disfatta personale, per altri - troppi - la sua morte è giunta forse come un sollievo. A questi ultimi rivolgo le parole urlate da Bobby Briggs, compagno della defunta Laura Palmer, al funerale di quest’ultima:

"Maledetti ipocriti, siete rivoltanti! Lo sapevate tutti che Laura era nei guai, ma nessuno ha fatto niente. Nessuno di voi brava gente. Volete sapere chi ha ammazzato Laura? Siete stati voi! Siamo stati tutti. E le belle parole non la riporteranno in vita, risparmiate le preghiere".