La
tutela ecologista della comunità, con la valorizzazione delle risorse naturali,
elevate ad un tratto distintivo dell’identità territoriale, rappresenta una
delle bandiere dei Freiheitlichen […] La piccola patria si caratterizza per la
coscienza nazionale e la tutela della natura, per il rapporto mistico con il
mondo della flora e della fauna, che unisce i Tedeschi fin dai primordi.
Bruno
Luverà
Il
mostro del sangue e del suolo, del primato dell’etnia scagliato contro l’altro
da sé, un primato del locale rancoroso, che coniuga modernamente arcaismi ed
etno-ecologia nella magica esaltazione della “montagna incantata” come luogo
contrapposto allo spazio globale.
Aldo
Bonomi
Noi che ci preoccupiamo di
preservare le specie animali, affinché non scompaiano gli elefanti dall'Africa,
i leoni, gli ippopotami dal Nilo, dobbiamo rallegrarci che il governo si
preoccupi di accogliere degli esseri umani
Temistio,
IV secolo d.C.
In una
recente indagine sui valori dei giovani
altoatesini e sudtirolesi (Ausserbrunner / Bonifaccio / Plank / Plasinger /
Sallustio / Zambiasi, 2010) emerge che tra i principali problemi presenti in provincia di Bolzano la
crescente urbanizzazione figura al terzo posto dopo alcolismo ed immigrazione.
Questo è un problema segnalato anche da quella grande rassegna di studi
sull’ambiente altoatesino che s’intitola “Alto Adige: un paesaggio al banco di
prova” (Kreisel/Ruffini/Reeh/Pörtge, 2010). Leggiamo nel saggio introduttivo
dei curatori dell’opera che nel corso della transizione da “povera regione di
montagna” a “regione moderna e prospera”, qualcosa è andato storto: “durante
l’ultimo decennio sono stati ripetutamente violati “tabù” fino ad ora
resistenti, nel rapporto tra l’esigenza di uso turistico, insediativo o
produttivo da un lato e la tutela del paesaggio, dall’altro”. In che maniera,
in che misura? “La corsa continua verso la realizzazione di infrastrutture
sempre più moderne e prestanti…si associa spesso alla perdita di valori
paesaggistici e ad un appiattimento culturale”.
Il
problema, sottolineano gli autori, è che “i principi della creazione e del
mantenimento di un bel paesaggio e della conservazione della biodiversità non
sono mai stati prioritari nello sfruttamento del territorio; da sempre ha
prevalso la regola dello sfruttamento economico”. Si continua a costruire
imperterriti e negli ultimi anni “il volume edificabile concesso sulle zone di
verde agricolo ha superato quello concesso sulle zone residenziali”. Il che
rende ormai improcrastinabile una seria revisione del modello di crescita
adottato in Alto Adige. Conclusioni di notevole rilevanza in una provincia che
si compiace delle sue bellezze naturali e del suo folklore per definizione
ecosostenibile.
Si
tratta di capire perché abbia prevalso la logica dello sfruttamento. Io credo
che il primo indizio lo si possa rinvenire nelle due prefazioni a questo
imponente volume, quella di Luis Durnwalder e quella di Michl Laimer, assessore
all’urbanistica, ambiente ed energia, che forniscono utili in merito a come le
autorità percepiscano la relazione tra società ed ambiente naturale, come del
resto ricordato dagli stessi autori, quando precisano che “il paesaggio, il suo
aspetto e la sua qualità sono anche espressione del modo in cui una società
affronta e vive il concetto di patria”.
Ho già evidenziato gli innumerevoli
difetti della mentalità patriottica nell’opera precedente (Fait/Fattor, 2010) e
questo è un tema che non intendo riesaminare in questa sede. Tuttavia, quando
le cose non funzionano, è sempre necessario problematizzare ciò che si tende a
dare per scontato, perché è assai probabile che alcun aspetti del senso comune
non si configurino come buon senso, ma come dannoso preconcetto. È
presumibilmente il patriottismo che fa dire a Durnwalder, in contrasto con i rilievi
critici espressi dagli autori, che “oggi l’Alto Adige è una regione esemplare”
e che “i fattori di successo del “modello Alto Adige” vanno ricercati nel suo
sviluppo sostenibile e armonico”. Laimer esorta tutti a “cercare un rapporto
sostenibile con il paesaggio”, una prassi che ha molto a che fare con la
cultura, con il rispetto e, aggiunge con grande perspicacia, “con il modo in
cui la società altoatesina affronta il concetto di appartenenza”. L’assessore
prosegue poi in termini più che condivisibili: “dobbiamo riuscire a sviluppare
la capacità di percepire e di apprezzare in modo più profondo il paesaggio, la
sua storia e la sua estetica. Dobbiamo diventare consapevoli del valore del
nostro paesaggio e dunque del nostro habitat”. Conclude infine: “in questo modo
il paesaggio può anche contribuire a creare l’identità”.
Queste
due prefazioni esplicitano due problemi. Il primo è la fallace certezza di aver
operato al meglio, il secondo è il rapporto tra identità collettiva ed ambiente
naturale. La tensione tra modernità e tradizione si può rintracciare anche
nelle osservazioni conclusive di una commissione parlamentare svizzera del 1929
secondo cui “una Svizzera senza un popolo montanaro forte e sano, moralmente e
fisicamente, non sarebbe più la Svizzera nel senso storico del termine”.
La
pessima prova che ha dato di sé la Provincia di Bolzano nel mercimonio che ha
visto il voto di fiducia al governo Berlusconi ripagato con la
snazionalizzazione del parco dello Stelvio, spezzettato tra Trento, Bolzano e
Lombardia. Questo il commento di Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera ("Lo
Stelvio, i Favori e lo Spezzatino", 23 dicembre 2010):
Soltanto
uno sprovveduto potrebbe non cogliere la relazione fra questo grosso favore
agli autonomisti e il grosso favore che i due deputati della Südtiroler
Volkspartei Siegfried Brugger e Karl Zeller hanno fatto a Berlusconi
contribuendo al salvataggio del governo con l’astensione al voto di fiducia del
14 dicembre. Ma la politica, in Italia, è diventata anche questo. Il problema è
semmai che fatti del genere scandalizzano sempre meno. Anche quando diventa
merce di uno scambio inconfessabile un parco naturale: l’ultima cosa che
dovrebbe fare le spese delle beghe della politica.
Mauro
Fattor, sull’Alto Adige (“Le manovre sul parco, 23 dicembre 2010), riepiloga i
precedenti non particolarmente beneauguranti:
E così
può accadere che qualcuno ti faccia un chilometro e mezzo di strada forestale
camionabile dentro un parco naturale – come è accaduto al Parco dello Sciliar
due anni fa – e che l’unica reazione ammessa da parte dell’Ufficio Parchi sia
quella di dire: ohhhhh!!
Oppure
può accadere, come accade al Parco del Monte Corno, che con il bilancio del
parco si faccia la manutenzione ordinaria di strade private che per legge
spetterebbe ai proprietari dei fondi. Piccoli piaceri, si intende.
Un’operazione simpatia. Per inciso: i soggetti terzi in questione sono
forestali e cacciatori, che dipendono direttamente da Durnwalder.
Scriveva
Antonio Cederna che sarà la stupidità della burocrazia ad uccidere il parco
nazionale dello Stelvio. Si sbagliava: ci ha pensato molto prima il cinismo
della politica. Perché le aree protette, i parchi nazionali, sono beni
pubblici, e in quanto pubblici – in una concezione distorta e blasfema della
res publica – di nessuno. Per questo diventano facile merce di scambio.
E
questo è proprio il punto. Se è res publica, non è reclamabile come proprietà
dell’Heimat e del popolo. Ha una sua dignità inalienabile, una fruibilità
universale che va garantita anche per le generazioni future. Al di là delle
parole di circostanza, quest’idea fa fatica a prendere piede nelle società non
“primitive” (che potrebbero rivelarsi più civili di tante altre società
“moderne”). In genere, “qui da noi”, si tende a vedere la natura come un
qualcosa di diverso, di altro, che può ed occasionalmente deve essere
sottomesso. Questo è un tipo di mentalità che abbiamo sviluppato con
l’agricoltura e che si è irrobustito con la diffusione del radicale dualismo
gnostico-cartesiano tra ego e natura che ormai è diventata la nostra modalità
standard di comportamento verso la natura. Utili riflessioni su questo tema
possono essere trovati nel pensiero di Hans Jonas e in particolare nella sua
disamina del modo in cui ci siamo estraniati dal mondo e dalla trascendenza,
diventando integralmente alienati, suscettibili di depressione cronica, fuga
dalla realtà e megalomania, a seconda dei casi.
Tra i
popoli di cacciatori e raccoglitori vi era una genuina gratitudine nei
confronti di Madre Natura e dell’animale che nutriva la comunità con la sua
carne. Nessuno avrebbe mai immaginato di poter sbocconcellare, raschiare o
bruciare il corpo della madre che lo nutre. La nostra hybris, la nostra pretesa
di poter e dover trasformare questo pianeta affinché si adatti lui a noi e non
noi a lui, nasce con l'agricoltura. Persino a livello mitologico si vede la
differenza di atteggiamento nei confronti del cosmo e dei rapporti
interpersonali con la transizione da un modello all'altro. Nella caccia e
raccolta predomina ancora l'idea che siamo ospiti e che non dobbiamo abusare
dell'ospitalità, con l'agricoltura trionfa l'idea che il pianeta è casa nostra
e ne facciamo quel che ci pare. Sono due paradigmi antitetici e il secondo,
spiace dirlo, è tagliato su misura per dei briganti.
Una
diversa prospettiva ecologica è quella dell’interconnessione,
dell’interdipendenza di tutta la vita organica e di tutta la coscienza che
supera lo scisma tra materia e spirito, senza negarlo (panenteismo), e che
trova tra i suoi forse più noti esponenti Teilhard de Chardin, Alfred North
Whitehead e, credo di poter dire, Vito Mancuso. Infine c’è l’ecologismo profondo che non considera
l’umano come una dimensione in alcun modo speciale rispetto al resto della
natura (panteismo) ma, anzi, tende alla misantropia e a concepire gli esseri
umani come dei parassiti. Al giorno d’oggi l’approccio dualista-riduzionista
sta segnando il passo sia perché l’abbruttimento del paesaggio è un qualcosa
che non può essere in alcun modo smentito, sia perché lo sfruttamento e spreco
delle risorse è percepito come un tipo di condotta che non è più sostenibile e
moralmente accettabile. L’approccio dell’ecologismo profondo è così radicale
che troppo spesso i suoi esponenti non sanno nascondere un certo piacere nel
contemplare i disastri naturali che umiliano la superbia umana.
Il più
radicale tra tutti gli ecologisti estremi fu Adolf Hitler. Il seguito del Mein
Kampf – il cosiddetto Zweites Buch, scritto nel 1928, rimasto
inedito in seguito ad una cocente sconfitta elettorale, riscoperto nel dopoguerra
e pubblicato solo nel 1961 – contiene anche un esame del valore della vita come
potere immanente sia agli individui sia ai popoli. Hitler ne deduce alcune
conclusioni: il valore assoluto del concetto di vita organica e della sua
estetica; il principio che le stesse leggi che determinano la vita degli
individui sono valide anche per i popoli e quindi l’esistenza di leggi della
vita dei popoli (Lebensgesetze für die Völker); la conseguente
inevitabilità della lotta per la vita (Lebenskampf); la storia come
progressione dei popoli nella loro lotta per la sopravvivenza e per lo spazio
vitale (Lebensraum). È in questo magma dottrinale che affonda le radici
l’ecologismo nazista (e neonazista). Il Terzo Reich dimostrò una sensibilità
verso gli animali e la natura inversamente proporzionale a quella dimostrata
verso gli esseri umani. Le leggi sulla sperimentazione sugli animali e sul loro
trasporto e la normativa per la tutela delle foreste e della biodiversità erano
all’avanguardia nel mondo, tanto che alcune di esse rimangono in vigore ancora
oggi (Pois, 1986; Sax, 2000). Forse l’incapacità di amare gli esseri umani
potrebbe in parte spiegare la sproporzionata passione per gli animali –
sproporzionata in relazione alla loro misantropia: amare gli animali non è mai
un male, ovviamente – e la glorificazione nazista delle leggi di natura. Il
nazismo formulò una filosofia del vivente (Lebensphilosophie), non
dell’umano. Non serviva alcuna antropologia, perché la specie umana era
sussunta nello schema del vivente, non v’era nulla di riconoscibilmente
speciale negli esseri umani nel panteismo nazista. In un discorso tenuto a
Norimberga nel 1938, Hitler, comunicò al popolo l’essenza di questo suo
panteismo: “Noi veneriamo esclusivamente la cura di ciò che è naturale, e di
conseguenza, in quanto naturale, voluto da Dio. La nostra umiltà si afferma
nella sottomissione incondizionata alle leggi divine dell’esistenza per come
noi uomini riusciamo a comprenderle”.
I
tempi sono cambiati ma rimane, sotto traccia, in tutti i movimenti di
rivitalizzazione etnica, una mistica della naturale e salvifica autenticità e
purezza dell’Alpe (o della foresta, o della prateria, o dell’ambiente marino)
come via di fuga dalla metropoli corruttrice e tentacolare, dalle sue
manipolazioni, contaminazioni ed imbastardimenti. Nello specchio dell’Alpe il
cittadino vede il riflesso idealizzato e nostalgico di un’identità più sincera
e genuina. In questo modo la natura viene nazionalizzata, la nazione si
naturalizza e la Naturschutz finisce per coincidere con la Heimatschutz.
Quand’era in vita, le performance alpinistiche dell’imprenditore Haider
evidenziavano il nesso tra la sacralità della montagna, l’intento di generare
un’adesione essenzialmente emotiva al movimentismo anti-istituzionale e
l’idealizzazione nazionalista della sfida esistenziale dell’individuo, che è
rappresentante del suo popolo sulle pareti rocciose come sui mercati
finanziari. In questo senso, esistevano delle evidenti analogie simboliche ed
ideologiche tra Haider e due intellettuali filo-nazisti come Julius Evola e
Marc Augier (Saint-Loup), entrambi provetti alpinisti, sciatori e promotori di
una mistica naturalista e neo-pagana rivolta ai giovani, potenziali fautori
della palingenesi europea. Augier, oltre ad essere attivo nella promozione
della rete di ostelli della gioventù francese fu anche un teorico dell’Europa
delle patrie carnali (patries charnelles) in cui veniva enfatizzata la
componente biologica dell’etnicità.
Il
connubio di ruralismo, tradizione, ansia etnica e modernismo è puramente
strumentale. Esso produce un’identità collettiva fittizia utile a superare,
provvisoriamente, il disincanto della modernità, grazie alla reintroduzione del
sacro, del mistico e del trascendente – vale a dire del sublime – in una
società che ha in parte ripudiato la presenza del divino. Il modello
etnoambientalista “Heimat und Umwelt” non è un ritorno al passato ma
un’alternativa all’idea piuttosto caricaturale di una modernità appiattente
incarnata dallo spauracchio McWorld. In questa prospettiva l’identità del
singolo è inscindibile dalla valorizzazione delle risorse naturali e culturali
della sua piccola patria. Il paesaggio, i riti, il folklore, certe convenzioni
ed intimità offrono un saldo ancoraggio per chi non è aduso ai continui
riorientamenti identitari imposti dalle metropoli multietniche.
Gli
eco-etnopopulisti dimostrano grande abilità nello sfruttare quest’aspetto
dell’immaginario popolare, puntando su una formula in cui ogni offesa o
aggressione alla natura diviene un’offesa alla cultura ed all’identità etnica
ed individuale, e vice versa. L’Heimat, come proiezione a livello
regionale dell’istituzione familiare e del confortevole ambiente domestico (Heim)
diventa un bastione di solidarietà per una società gelosamente chiusa in se
stessa, uno scudo che protegge aspetti della tradizione che non si
vogliono annacquati dalla mondializzazione e dal cosiddetto turbocapitalismo.
Resta
comunque il fatto che ciascuno di noi è un ospite di questo pianeta, un ospite
da un altro mondo, ed è tenuto a far sì che chi verrà dopo possa fruire della
medesima ospitalità, o magari di un livello anche superiore. Dunque si deve pur
trovare la maniera di amare l’ambiente senza volerlo possedere, senza
considerarlo “cosa nostra”, senza piegarlo ai nostri desideri per ricavarne
maggior piacere.
In
questo capitolo la mia guida sarà Ralph Waldo Emerson, il nume tutelare della
letteratura americana, l’intelletto che ha meglio saputo distillato il sogno di
un’umanità migliore in un mondo migliore, insomma il sogno americano delle
origini. Nel suo manifesto del trascendentalismo, Emerson reputava che
l’approccio utilitaristico alla natura fosse deleterio non solo per la natura
ma anche per la vita della nostra mente e molti escursionisti o valligiani
capiranno molto bene il significato delle sue parole (Nature 1836-1844/2010):
“Vi
è qui come una sacralità che mette in imbarazzo le nostre religioni e una
verità che potrebbe discreditare i nostri più acclamati eroi. Qui riscopriamo
come la natura sia la realtà che fa rimpicciolire, al confronto, ogni altra
realtà, e come essa giudichi simile a un dio ogni uomo che venga a lei. Siamo
sgusciati via dalle nostre chiuse, affollate dimore, nella notte e al mattino,
ed eccoci ad ammirare da quali maestose bellezze siamo quotidianamente
circondati e fasciati. Come vorremmo sfuggire alle tante barriere che ce le
rendono intanto, almeno in parte, inoperanti, come vorremmo sfuggire a sofismi
e riserve mentali, come vorremmo compenetrarci nella natura! La temperata luce
dei boschi è come un perpetuo mattino, è stimolante, eroica. S'insinuano dentro
di noi le antiche magie di questi luoghi. I fusti dei pini, degli abeti, delle
querce brillano come ferro davanti all'occhio infiammato. E i muti alberi
cominciano a persuaderci che meglio sarebbe vivere con loro e abbandonare
questa nostra vita fatta di solenni futilità. Qui non vi è storia, non vi è
chiesa o stato che si sovrappongano, come un'interpolazione, al cielo divino e
al grande anno immortale. […]. Le città non concedono spazio sufficiente ai
sensi umani. E sia di giorno 'che di notte ci tocca andar fuori a nutrirci gli
occhi di orizzonti e a richiedere la nostra parte di spazio, così come abbiamo
bisogno dell'acqua per lavarci. […]mi distacco dalle beghe e dalle personalità
del luogo: sì, e dall'intero mondo di piccoli centri e di personalità, e mi
trasferisco in un delicato reame di tramonti e di pleniluni, troppo splendido,
forse, per quell'essere contaminato che è l'uomo, e perché vi si possa accedere
senza una qualche forma di noviziato e di accettazione. […]. Quelli che
lamentano come morbosa la separazione fra la bellezza della natura e le cose
che devono esser fatte, devono considerare che questo nostro andare a caccia
del pittoresco è inseparabile dalla nostra protesta nei riguardi delle falsità
sociali. L'uomo è caduto; la natura è sempre in piedi e fa da termometro
differenziale rivelando la presenza o l'assenza di sentimento divino nell'uomo.
Ed è per colpa della nostra insipienza e del nostro egoismo che ci rivolgiamo
alla natura; ma quando saremo sulla via della guarigione, sarà la natura a
rivolgersi a noi. Guardiamo con un senso di compunzione il ruscello che
spumeggia; ma se la nostra vita scorresse con la sua giusta carica di energia,
sarebbe il ruscello a sentire vergogna.
E qui
c’è un passaggio importante, nell’economia del discorso che ho impostato in
questo capitolo
Questa
ingegnosità con cui è fatto il mondo si travasa anche nella mente e nel
carattere delle persone. Nessuno è perfettamente bilanciato; ognuno ha una vena
di insania nella sua costituzione, una leggera pressione del sangue alla testa
per far si che egli resti saldamente legato a un qualche particolare punto che
la natura abbia preso a cuore.
Emerson
sta provando ad emanciparci dall’incubo di un universo morto ed indifferente a
noi ed a tutto il resto e, contemporaneamente, dalla credenza
veterotestamentaria in un dio vanaglorioso, capriccioso ed irascibile. Ecco un
altro significativo passo del “manifesto”:
Attraversando
un terreno brullo all’imbrunire, tra pozzanghere di neve, sotto un cielo
nuvoloso e senza alcun particolare motivo di ottimismo nei miei pensieri, ho
goduto di un momento di perfetta euforia. Sono così contento da averne quasi
paura. Anche nel bosco l’uomo si libera dei propri anni come un serpente della
sua pelle e, a qualunque età, è sempre un bambino. Nei boschi è l’eterna
giovinezza. All’interno di queste piantagioni di Dio regnano decoro e
sacralità, qui una festa perenne è allestita, e l’ospite non vede come potrà
mai stancarsene, passassero anche mille anni. Nei boschi torniamo alla ragione
e alla fede. Lì sento che niente può accadere alla mia vita: nessuna disgrazia
o calamità (purché mi si lascino gli occhi) che la natura non possa sanare. In
piedi sulla nuda terra – con la testa inondata dall’aria gioiosa e sollevata
verso lo spazio infinito – ogni egoismo meschino svanisce. Divento una pupilla
trasparente; non sono niente, vedo tutto; le correnti dell’Essere Universale mi
attraversano; sono una parte o una particella di Dio. Il nome dell’amico più
caro suona allora estraneo e accidentale: essere fratelli o semplici
conoscenti, padroni o servi, è una quisquiglia e un impiccio. Sono l’amante
della bellezza incontenibile e immortale. Nella natura selvaggia trovo qualcosa
di più caro e congeniale che non nelle strade o nei villaggi. Nel paesaggio
placido, e soprattutto nella lontana linea dell’orizzonte, l’uomo scorge
qualcosa di altrettanto bello della sua stessa natura. II piacere più grande
che i campi e i boschi procurano è l’indizio di una relazione nascosta tra
l’uomo e il regno vegetale. Non sono solo e irriconosciuto. Esso mi fa cenni e
io ricambio. L’ondeggiare dei rami nella tempesta è per me nuovo e antico a un
tempo. Mi coglie di sorpresa ma non mi è sconosciuto. Il suo effetto è simile a
quello di un pensiero più elevato o di un’emozione migliore che mi investono
quando credevo di pensare in modo giusto e di agire rettamente.
Pare
che i suoi sensi siano più affinati della media. Forse li usa meglio, forse è
semplicemente più attento. È possibile che chi è incline a percorrere questo
“sentiero” sia coinvolto in un processo di progressiva identificazione con una
sfera sempre più vasta del mondo, proprio a partire dalla natura. La mistica
naturalista dei trascendentalisti non è animista, è trascendente, appunto.
Emerson dichiara che “ogni fatto naturale simboleggia un fatto spirituale”. La
Natura è, in ultimo, Spirito. Ricordo una frase di Dale Cooper, in Twin Peaks:
“la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma
mi sbagliavo, li ho ritrovati a Twin Peaks”. In questa serie un merlo si chiama
Waldo, forse un omaggio a R.W. Emerson. Ben diversa, dualistica, è la
comprensione delle forze naturali dell’Immanuel Kant della “Critica del
giudizio”, che pure mostra qualche traccia di una possibile, remota
convergenza:
Le
rocce che sporgono in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si
ammassano in cielo fra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro
potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione,
l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume,
riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza,
paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente
per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le
chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di
sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà
di resistere interamente diversa, la quale ci dà coraggio di misurarci con
l'apparente onnipotenza della natura.
Per i
trascendentalisti il bello e il sublime eccedono l’ordinarietà dei nostri
pensieri e delle nostre emozioni e ci infondono un’immensa gioia e anelito
verso l’alto e verso l’interiorità. Ciò che ascende, converge, come ciò che
esplora le profondità dell’anima. Il senso della meraviglia, del sentirsi
infinitamente minuscoli ed infinitamente vasti, proiettati verso un interesse
morale superiore, che è poi quello della coscienza. Nessuna persona potrebbe
commettere un crimine trovandosi in una tale condizione dell’anima, che
purtroppo per noi è solamente passeggera.
I
trascendentalisti dei nostri tempi abitano molto più vicino. Uno di loro è il
celebre Mauro Corona (2005, p. 271), non certo per caso un ammiratore di un
altro grande trascendentalista, Walt Whitman:
Mi escono battute
sarcastiche quando leggo o sento definire la montagna assassina. La montagna
non è assassina, se ne sta lì e basta. Siamo noi i killer di noi stessi, che
non sappiamo vivere, che usiamo il profumo per l’uomo che non deve chiedere
mai, che abbiamo dimenticato la carità, la riconoscenza, il rispetto, che
distruggiamo la natura. La vita è un segno di matita, curvo e sottile, che
finisce ad un certo punto. Per molti è lungo, per altri corto, per altri non
parte nemmeno. La gomma del tempo verrà poi a cancellare quel segno. Di noi non
resterà nemmeno il ricordo. È giusto così. E allora perché sgomitare
tanto?…Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per
vedere dentro. La montagna mi ha insegnato anche questo.
Ne “Il
volo della martora” (1997, p. 62), uno dei suoi pensieri più belli:
Le
voci della primavera sono il diluente che impedisce alle scorie dei fallimenti,
delle delusioni, del pessimismo di occludere il minuscolo passaggio verso quel
magico luogo, verso quella terra lontana e ancora pulita, sempre così difficile
da raggiungere, dove trovano rifugio i sentimenti buoni quando noi li
rincorriamo per ucciderli.
Un
altro è il meno noto Mario Martinelli (2007, p. 68), trentino della Vallarsa:
E
Luino distingueva chiaramente ora, nell’opaca tenebra, come l’equilibrio con la
natura fosse la cosa più importante per assaporare completamente il ricco e
impagabile cammino dell’uomo. La solitudine siderale poteva raggiungere momenti
d’intensa spiritualità che mettevano i brividi sulla pelle e, subito dopo, la
certezza di essere uniti a tutti gli elementi del creato conferiva un’euforia
che abbisognava dell’intero universo per espandersi.
I
trascendentalisti, vecchi e nuovi, ci stanno dicendo che una buona parte della
nostra aggressività non è un tratto costitutivo della nostra natura, è il
risultato di una concatenazioni di scelte sbagliate, a loro volta causate dalla
nostra immaturità. L’esito è stato una dipendenza psicologica autodistruttiva,
il bisogno di consumare letteralmente il nostro prossimo, l’altro da noi, per
espandere il nostro ego, personale e collettivo (patria, etnica, civiltà,
culto, ecc.), che necessita di confini e barriere che mantengano ben distinti
il mio dal tuo, il soggetto dall’oggetto. Così siamo diventati materialisti,
avidi, competitivi, violenti, razzisti, sessisti, omofobi, insicuri,
narcisisti, ossessivi, anempatici (freddi, disabituati alla compassione),
moralmente intorpiditi (indifferenti, relativisti, nichilisti, egotisti) ed in
ultimo autolesionistici. E il punto non è che dobbiamo cambiare per ragioni morali,
non c’è un imperativo etico che ci deve costringere a pensare e vivere
diversamente; la cosa è molto più semplice: i trascendentalisti ci offrono uno
squarcio nel tipo di esperienza di vita che sprechiamo, di cui ci priviamo, ci
rivelano cosa perdiamo quando viviamo un’esistenza indurita intorno ad un ego
pietrificato, ad identità sociali inflessibili, intransigenti e soprattutto
monistiche a pratiche sociali di sfruttamento, strumentalizzazione e
manipolazione che ormai diamo per scontate, che non consideriamo nemmeno più
problematiche.
Dobbiamo
accettare, una buona volta, che non siamo onnipotenti, che non siamo qui per
soggiogare l’universo alla nostra volontà di potenza, che la natura è
indifferente alle nostre pretese ad ai significati che le attribuiamo. La
radice di tutti i nostri mali, della convergenza di crisi in quest'epoca
oscura, è questa nostra superbia, la superbia del moltiplichiamoci, popoliamo
il pianeta (come se non fosse già popolato da altre specie) e trasformiamo
l'universo in accordo con le nostre preferenze. L'intera nostra civiltà è
fondata su questo assurdo paradigma che ci sta portando alla rovina. Dobbiamo
riscoprire e valorizzare l’umiltà e il rispetto per ciò che è altro da noi.
Lo
illustra magnificamente David Foster Wallace, nel suo breve scritto “Questa è
l’acqua” (2009):
Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la
mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la
persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa
sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione
sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra
configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri
circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete
vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui
fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra
sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o
quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati
in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo
capiti…Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se
impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard,
naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e
letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa
attraverso questa lente del sé. […]. Se imparate davvero come pensare, a cosa
prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di
vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non
soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza
che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose.
[…]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È
impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo
fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche
specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la
dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile
di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate
finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi
che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza.
Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro
stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre
brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un
milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi
sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore
sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la
vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre
sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto
non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono
configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate
lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a
quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere
pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di
operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini
e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante
della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto
di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza,
e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre
persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una
moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà.
L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di
topi” - la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa
di infinito.
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