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venerdì 20 gennaio 2012

Socrate e l'illusorietà della morte



Nella tradizione orfico-pitagorica la morte non è una cosa brutta ma un momento di purificazione, il trionfo dello spirito sulla materia che lo imprigiona, dell’eterno sul transeunte. Il sapiente deve capovolgere il suo giudizio sul vivere e sul morire. Ecco cosa ne pensa Socrate.

– Credi tu che la morte sia qualche cosa?
– Certo – rispose Simmia.
– E non crediamo noi che essa altro non sia che la separazione dell’anima dal corpo? E l’esser morto non consiste proprio in questo: nello stare l’anima e il corpo separati tra loro e ciascuno per conto proprio? Che altro è la morte se non questo?
– Nient’altro che questo, infatti – rispose Simmia.
– E allora osserva attentamente, o amico, se tu hai la stessa opinione che ho io, poiché solo così potremo meglio comprendere ciò di cui discutiamo. Pare a te che sia da vero filosofo darsi cura dei piaceri, come, per esempio, del mangiare e del bere?
– Niente affatto, Socrate – confermò Simmia.
– E dei piaceri d’amore?
– Neppure.
– E così tutte le altre cure del corpo, come l’acquisto di lussuoso vestiario, di magnifiche calzature e di ogni altro ricercato ornamento, pare a te che il filosofo abbia in pregio più di quel tanto che la necessità lo costringa a farne uso?
– A me pare che il vero filosofo disprezzerà tutto questo.
– Non ti sembra allora che l’attività di un tale uomo non sia per nulla rivolta al corpo, da cui anzi si allontana più che sia possibile, ma invece sia tutta dedita all’anima?
– Certamente.
– E quindi è chiaro che in tutte queste cose il filosofo, a preferenza di ogni altro uomo, cerca più che può di liberare l’anima da ogni comunanza col corpo. Non è forse vero?
– Pare di sì.
– Ed è per questo o Simmia, che il volgo crede che colui il quale non prova alcuno di questi piaceri, e non vi partecipa, non meriti neanche di vivere; poiché tende ad essere come un morto chi non si cura dei piaceri che derivano dal corpo.
– Dici proprio la verità.
– E che diremo dell’acquisto della sapienza? Credi tu che nella ricerca della verità ci sarà o no di impedimento il corpo? Intendo dire questo: il senso della vista e dell’udito, ad esempio, danno a noi certezza assoluta, oppure hanno ragione i poeti quando continuamente ci dicono che noi non udiamo, né vediamo nulla di preciso? E se questi sensi non sono né sicuri, né precisi, che cosa dovremmo dire degli altri ancora più manchevoli di questi? Non ti pare?
– Certamente – disse.
– Quando, dunque – continuò Socrate – l’anima riesce ad attingere il vero? Perché se essa si accinge a ricercare la verità con l’aiuto del corpo, è evidente che sarà da questo tratta in inganno.
– Proprio così.
– Non è forse nella pura attività di ragione che si rende a lei manifesta la verità?
– Certamente.
– E questa attività non si esplica ancor meglio quando l’anima non è conturbata da nessuna di tali sensazioni, né dalla vista, né dall’udito, né dal dolore, né dal piacere, ma tutta in sé raccolta, abbandonando completamente il corpo, senza più alcuna comunanza né contatto con esso, tende solamente alla verità?
– Dici proprio bene.
– Non è questa, allora, la ragione per la quale l’anima del filosofo disprezza profondamente il corpo e rifugge da esso e aspira a rimanere sola, tutta in sé raccolta?
– Certamente.
– Ma v’è ancora un altro argomento, o Simmia. Affermiamo noi l’esistenza di un “giusto in sé”, o no?
– Certo che lo affermiamo, per Zeus.
– E di un “bello in sé”, di un “buono in sé”?
– Pure.
– Or bene, vedesti tu mai con gli occhi del corpo il “Giusto”, il “Bello”, il “Buono”?
– No, mai – rispose quegli.
– E li hai mai conosciuti con qualche altro senso del corpo? E non parlo solamente di questi, ma ancora della “Grandezza”, della “Salute”, della “Forza”, in una parola di tutto ciò che realmente è. E credi tu che si conosce la realtà in sé delle cose per mezzo dei sensi del corpo, oppure reputi che colui il quale si propone di conoscere il vero per mezzo dell’attività pura di ragione si avvicinerà più di ogni altro alla perfetta conoscenza di esso?
– È proprio così.
– E a questa perfetta conoscenza può pervenire soltanto colui che alla verità si volge con la sola mente, e non sorregge la sua ragione con alcun senso del corpo, ma solo in sé e puro, con la mente pura, cerca di attingere il vero, astraendosi, più che sia possibile, dagli occhi, dagli orecchi, dal corpo tutto, poiché questo sconvolge l’anima e non le permette di acquistare verità e sapienza. Non è forse quest’uomo, o Simmia, colui che potrà, più di ogni altro, cogliere la realtà?
– Tu dici il vero, o Socrate – rispose Simmia.
– Dunque – seguitò Socrate – tutte queste considerazioni devono formare nei veri sinceri filosofi un’opinione tale da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. E le guerre, le rivoluzioni, le battaglie, chi le produce se non il corpo e le sue passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama di ricchezze, e queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo, incatenati come siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di dedicarci alla filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e contemplare la verità con la sola anima. Allora soltanto, quando saremo morti, e non da vivi, come il ragionamento ci costringe ad ammettere, noi potremo possedere ciò di cui ci professiamo amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna riconoscere, dunque, o Simmia, che tutti coloro i quali rettamente filosofano è come se si esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura che agli altri.

Platone, "Fedone", Armando Editore, Roma 2007.

domenica 18 dicembre 2011

Ambientalismo per un Mondo Nuovo



La tutela ecologista della comunità, con la valorizzazione delle risorse naturali, elevate ad un tratto distintivo dell’identità territoriale, rappresenta una delle bandiere dei Freiheitlichen […] La piccola patria si caratterizza per la coscienza nazionale e la tutela della natura, per il rapporto mistico con il mondo della flora e della fauna, che unisce i Tedeschi fin dai primordi.
Bruno Luverà

Il mostro del sangue e del suolo, del primato dell’etnia scagliato contro l’altro da sé, un primato del locale rancoroso, che coniuga modernamente arcaismi ed etno-ecologia nella magica esaltazione della “montagna incantata” come luogo contrapposto allo spazio globale.
Aldo Bonomi

Noi che ci preoccupiamo di preservare le specie animali, affinché non scompaiano gli elefanti dall'Africa, i leoni, gli ippopotami dal Nilo, dobbiamo rallegrarci che il governo si preoccupi di accogliere degli esseri umani
Temistio, IV secolo d.C.

In una recente indagine sui valori dei giovani altoatesini e sudtirolesi (Ausserbrunner / Bonifaccio / Plank / Plasinger / Sallustio / Zambiasi, 2010) emerge che tra i principali problemi presenti in provincia di Bolzano la crescente urbanizzazione figura al terzo posto dopo alcolismo ed immigrazione. Questo è un problema segnalato anche da quella grande rassegna di studi sull’ambiente altoatesino che s’intitola “Alto Adige: un paesaggio al banco di prova” (Kreisel/Ruffini/Reeh/Pörtge, 2010). Leggiamo nel saggio introduttivo dei curatori dell’opera che nel corso della transizione da “povera regione di montagna” a “regione moderna e prospera”, qualcosa è andato storto: “durante l’ultimo decennio sono stati ripetutamente violati “tabù” fino ad ora resistenti, nel rapporto tra l’esigenza di uso turistico, insediativo o produttivo da un lato e la tutela del paesaggio, dall’altro”. In che maniera, in che misura? “La corsa continua verso la realizzazione di infrastrutture sempre più moderne e prestanti…si associa spesso alla perdita di valori paesaggistici e ad un appiattimento culturale”.
Il problema, sottolineano gli autori, è che “i principi della creazione e del mantenimento di un bel paesaggio e della conservazione della biodiversità non sono mai stati prioritari nello sfruttamento del territorio; da sempre ha prevalso la regola dello sfruttamento economico”. Si continua a costruire imperterriti e negli ultimi anni “il volume edificabile concesso sulle zone di verde agricolo ha superato quello concesso sulle zone residenziali”. Il che rende ormai improcrastinabile una seria revisione del modello di crescita adottato in Alto Adige. Conclusioni di notevole rilevanza in una provincia che si compiace delle sue bellezze naturali e del suo folklore per definizione ecosostenibile.
Si tratta di capire perché abbia prevalso la logica dello sfruttamento. Io credo che il primo indizio lo si possa rinvenire nelle due prefazioni a questo imponente volume, quella di Luis Durnwalder e quella di Michl Laimer, assessore all’urbanistica, ambiente ed energia, che forniscono utili in merito a come le autorità percepiscano la relazione tra società ed ambiente naturale, come del resto ricordato dagli stessi autori, quando precisano che “il paesaggio, il suo aspetto e la sua qualità sono anche espressione del modo in cui una società affronta e vive il concetto di patria”. 
Ho già evidenziato gli innumerevoli difetti della mentalità patriottica nell’opera precedente (Fait/Fattor, 2010) e questo è un tema che non intendo riesaminare in questa sede. Tuttavia, quando le cose non funzionano, è sempre necessario problematizzare ciò che si tende a dare per scontato, perché è assai probabile che alcun aspetti del senso comune non si configurino come buon senso, ma come dannoso preconcetto. È presumibilmente il patriottismo che fa dire a Durnwalder, in contrasto con i rilievi critici espressi dagli autori, che “oggi l’Alto Adige è una regione esemplare” e che “i fattori di successo del “modello Alto Adige” vanno ricercati nel suo sviluppo sostenibile e armonico”. Laimer esorta tutti a “cercare un rapporto sostenibile con il paesaggio”, una prassi che ha molto a che fare con la cultura, con il rispetto e, aggiunge con grande perspicacia, “con il modo in cui la società altoatesina affronta il concetto di appartenenza”. L’assessore prosegue poi in termini più che condivisibili: “dobbiamo riuscire a sviluppare la capacità di percepire e di apprezzare in modo più profondo il paesaggio, la sua storia e la sua estetica. Dobbiamo diventare consapevoli del valore del nostro paesaggio e dunque del nostro habitat”. Conclude infine: “in questo modo il paesaggio può anche contribuire a creare l’identità”.
Queste due prefazioni esplicitano due problemi. Il primo è la fallace certezza di aver operato al meglio, il secondo è il rapporto tra identità collettiva ed ambiente naturale. La tensione tra modernità e tradizione si può rintracciare anche nelle osservazioni conclusive di una commissione parlamentare svizzera del 1929 secondo cui “una Svizzera senza un popolo montanaro forte e sano, moralmente e fisicamente, non sarebbe più la Svizzera nel senso storico del termine”.
La pessima prova che ha dato di sé la Provincia di Bolzano nel mercimonio che ha visto il voto di fiducia al governo Berlusconi ripagato con la snazionalizzazione del parco dello Stelvio, spezzettato tra Trento, Bolzano e Lombardia. Questo il commento di Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera ("Lo Stelvio, i Favori e lo Spezzatino", 23 dicembre 2010):

Soltanto uno sprovveduto potrebbe non cogliere la relazione fra questo grosso favore agli autonomisti e il grosso favore che i due deputati della Südtiroler Volkspartei Siegfried Brugger e Karl Zeller hanno fatto a Berlusconi contribuendo al salvataggio del governo con l’astensione al voto di fiducia del 14 dicembre. Ma la politica, in Italia, è diventata anche questo. Il problema è semmai che fatti del genere scandalizzano sempre meno. Anche quando diventa merce di uno scambio inconfessabile un parco naturale: l’ultima cosa che dovrebbe fare le spese delle beghe della politica.

Mauro Fattor, sull’Alto Adige (“Le manovre sul parco, 23 dicembre 2010), riepiloga i precedenti non particolarmente beneauguranti:

E così può accadere che qualcuno ti faccia un chilometro e mezzo di strada forestale camionabile dentro un parco naturale – come è accaduto al Parco dello Sciliar due anni fa – e che l’unica reazione ammessa da parte dell’Ufficio Parchi sia quella di dire: ohhhhh!!
Oppure può accadere, come accade al Parco del Monte Corno, che con il bilancio del parco si faccia la manutenzione ordinaria di strade private che per legge spetterebbe ai proprietari dei fondi. Piccoli piaceri, si intende. Un’operazione simpatia. Per inciso: i soggetti terzi in questione sono forestali e cacciatori, che dipendono direttamente da Durnwalder.
Scriveva Antonio Cederna che sarà la stupidità della burocrazia ad uccidere il parco nazionale dello Stelvio. Si sbagliava: ci ha pensato molto prima il cinismo della politica. Perché le aree protette, i parchi nazionali, sono beni pubblici, e in quanto pubblici – in una concezione distorta e blasfema della res publica – di nessuno. Per questo diventano facile merce di scambio.

E questo è proprio il punto. Se è res publica, non è reclamabile come proprietà dell’Heimat e del popolo. Ha una sua dignità inalienabile, una fruibilità universale che va garantita anche per le generazioni future. Al di là delle parole di circostanza, quest’idea fa fatica a prendere piede nelle società non “primitive” (che potrebbero rivelarsi più civili di tante altre società “moderne”). In genere, “qui da noi”, si tende a vedere la natura come un qualcosa di diverso, di altro, che può ed occasionalmente deve essere sottomesso. Questo è un tipo di mentalità che abbiamo sviluppato con l’agricoltura e che si è irrobustito con la diffusione del radicale dualismo gnostico-cartesiano tra ego e natura che ormai è diventata la nostra modalità standard di comportamento verso la natura. Utili riflessioni su questo tema possono essere trovati nel pensiero di Hans Jonas e in particolare nella sua disamina del modo in cui ci siamo estraniati dal mondo e dalla trascendenza, diventando integralmente alienati, suscettibili di depressione cronica, fuga dalla realtà e megalomania, a seconda dei casi.
Tra i popoli di cacciatori e raccoglitori vi era una genuina gratitudine nei confronti di Madre Natura e dell’animale che nutriva la comunità con la sua carne. Nessuno avrebbe mai immaginato di poter sbocconcellare, raschiare o bruciare il corpo della madre che lo nutre. La nostra hybris, la nostra pretesa di poter e dover trasformare questo pianeta affinché si adatti lui a noi e non noi a lui, nasce con l'agricoltura. Persino a livello mitologico si vede la differenza di atteggiamento nei confronti del cosmo e dei rapporti interpersonali con la transizione da un modello all'altro. Nella caccia e raccolta predomina ancora l'idea che siamo ospiti e che non dobbiamo abusare dell'ospitalità, con l'agricoltura trionfa l'idea che il pianeta è casa nostra e ne facciamo quel che ci pare. Sono due paradigmi antitetici e il secondo, spiace dirlo, è tagliato su misura per dei briganti.
Una diversa prospettiva ecologica è quella dell’interconnessione, dell’interdipendenza di tutta la vita organica e di tutta la coscienza che supera lo scisma tra materia e spirito, senza negarlo (panenteismo), e che trova tra i suoi forse più noti esponenti Teilhard de Chardin, Alfred North Whitehead e, credo di poter dire, Vito Mancuso. Infine c’è l’ecologismo profondo che non considera l’umano come una dimensione in alcun modo speciale rispetto al resto della natura (panteismo) ma, anzi, tende alla misantropia e a concepire gli esseri umani come dei parassiti. Al giorno d’oggi l’approccio dualista-riduzionista sta segnando il passo sia perché l’abbruttimento del paesaggio è un qualcosa che non può essere in alcun modo smentito, sia perché lo sfruttamento e spreco delle risorse è percepito come un tipo di condotta che non è più sostenibile e moralmente accettabile. L’approccio dell’ecologismo profondo è così radicale che troppo spesso i suoi esponenti non sanno nascondere un certo piacere nel contemplare i disastri naturali che umiliano la superbia umana.
Il più radicale tra tutti gli ecologisti estremi fu Adolf Hitler. Il seguito del Mein Kampf – il cosiddetto Zweites Buch, scritto nel 1928, rimasto inedito in seguito ad una cocente sconfitta elettorale, riscoperto nel dopoguerra e pubblicato solo nel 1961 – contiene anche un esame del valore della vita come potere immanente sia agli individui sia ai popoli. Hitler ne deduce alcune conclusioni: il valore assoluto del concetto di vita organica e della sua estetica; il principio che le stesse leggi che determinano la vita degli individui sono valide anche per i popoli e quindi l’esistenza di leggi della vita dei popoli (Lebensgesetze für die Völker); la conseguente inevitabilità della lotta per la vita (Lebenskampf); la storia come progressione dei popoli nella loro lotta per la sopravvivenza e per lo spazio vitale (Lebensraum). È in questo magma dottrinale che affonda le radici l’ecologismo nazista (e neonazista). Il Terzo Reich dimostrò una sensibilità verso gli animali e la natura inversamente proporzionale a quella dimostrata verso gli esseri umani. Le leggi sulla sperimentazione sugli animali e sul loro trasporto e la normativa per la tutela delle foreste e della biodiversità erano all’avanguardia nel mondo, tanto che alcune di esse rimangono in vigore ancora oggi (Pois, 1986; Sax, 2000). Forse l’incapacità di amare gli esseri umani potrebbe in parte spiegare la sproporzionata passione per gli animali – sproporzionata in relazione alla loro misantropia: amare gli animali non è mai un male, ovviamente – e la glorificazione nazista delle leggi di natura. Il nazismo formulò una filosofia del vivente (Lebensphilosophie), non dell’umano. Non serviva alcuna antropologia, perché la specie umana era sussunta nello schema del vivente, non v’era nulla di riconoscibilmente speciale negli esseri umani nel panteismo nazista. In un discorso tenuto a Norimberga nel 1938, Hitler, comunicò al popolo l’essenza di questo suo panteismo: “Noi veneriamo esclusivamente la cura di ciò che è naturale, e di conseguenza, in quanto naturale, voluto da Dio. La nostra umiltà si afferma nella sottomissione incondizionata alle leggi divine dell’esistenza per come noi uomini riusciamo a comprenderle”.
I tempi sono cambiati ma rimane, sotto traccia, in tutti i movimenti di rivitalizzazione etnica, una mistica della naturale e salvifica autenticità e purezza dell’Alpe (o della foresta, o della prateria, o dell’ambiente marino) come via di fuga dalla metropoli corruttrice e tentacolare, dalle sue manipolazioni, contaminazioni ed imbastardimenti. Nello specchio dell’Alpe il cittadino vede il riflesso idealizzato e nostalgico di un’identità più sincera e genuina. In questo modo la natura viene nazionalizzata, la nazione si naturalizza e la Naturschutz finisce per coincidere con la Heimatschutz. Quand’era in vita, le performance alpinistiche dell’imprenditore Haider evidenziavano il nesso tra la sacralità della montagna, l’intento di generare un’adesione essenzialmente emotiva al movimentismo anti-istituzionale e l’idealizzazione nazionalista della sfida esistenziale dell’individuo, che è rappresentante del suo popolo sulle pareti rocciose come sui mercati finanziari. In questo senso, esistevano delle evidenti analogie simboliche ed ideologiche tra Haider e due intellettuali filo-nazisti come Julius Evola e Marc Augier (Saint-Loup), entrambi provetti alpinisti, sciatori e promotori di una mistica naturalista e neo-pagana rivolta ai giovani, potenziali fautori della palingenesi europea. Augier, oltre ad essere attivo nella promozione della rete di ostelli della gioventù francese fu anche un teorico dell’Europa delle patrie carnali (patries charnelles) in cui veniva enfatizzata la componente biologica dell’etnicità.
Il connubio di ruralismo, tradizione, ansia etnica e modernismo è puramente strumentale. Esso produce un’identità collettiva fittizia utile a superare, provvisoriamente, il disincanto della modernità, grazie alla reintroduzione del sacro, del mistico e del trascendente – vale a dire del sublime – in una società che ha in parte ripudiato la presenza del divino. Il modello etnoambientalista “Heimat und Umwelt” non è un ritorno al passato ma un’alternativa all’idea piuttosto caricaturale di una modernità appiattente incarnata dallo spauracchio McWorld. In questa prospettiva l’identità del singolo è inscindibile dalla valorizzazione delle risorse naturali e culturali della sua piccola patria. Il paesaggio, i riti, il folklore, certe convenzioni ed intimità offrono un saldo ancoraggio per chi non è aduso ai continui riorientamenti identitari imposti dalle metropoli multietniche.
Gli eco-etnopopulisti dimostrano grande abilità nello sfruttare quest’aspetto dell’immaginario popolare, puntando su una formula in cui ogni offesa o aggressione alla natura diviene un’offesa alla cultura ed all’identità etnica ed individuale, e vice versa. L’Heimat, come proiezione a livello regionale dell’istituzione familiare e del confortevole ambiente domestico (Heim) diventa un bastione di solidarietà per una società gelosamente chiusa in se stessa, uno scudo che protegge aspetti della tradizione che non si vogliono annacquati dalla mondializzazione e dal cosiddetto turbocapitalismo.

Resta comunque il fatto che ciascuno di noi è un ospite di questo pianeta, un ospite da un altro mondo, ed è tenuto a far sì che chi verrà dopo possa fruire della medesima ospitalità, o magari di un livello anche superiore. Dunque si deve pur trovare la maniera di amare l’ambiente senza volerlo possedere, senza considerarlo “cosa nostra”, senza piegarlo ai nostri desideri per ricavarne maggior piacere.
In questo capitolo la mia guida sarà Ralph Waldo Emerson, il nume tutelare della letteratura americana, l’intelletto che ha meglio saputo distillato il sogno di un’umanità migliore in un mondo migliore, insomma il sogno americano delle origini. Nel suo manifesto del trascendentalismo, Emerson reputava che l’approccio utilitaristico alla natura fosse deleterio non solo per la natura ma anche per la vita della nostra mente e molti escursionisti o valligiani capiranno molto bene il significato delle sue parole (Nature 1836-1844/2010):

Vi è qui come una sacralità che mette in imbarazzo le nostre religioni e una verità che potrebbe discreditare i nostri più acclamati eroi. Qui riscopriamo come la natura sia la realtà che fa rimpicciolire, al confronto, ogni altra realtà, e come essa giudichi simile a un dio ogni uomo che venga a lei. Siamo sgusciati via dalle nostre chiuse, affollate dimore, nella notte e al mattino, ed eccoci ad ammirare da quali maestose bellezze siamo quotidianamente circondati e fasciati. Come vorremmo sfuggire alle tante barriere che ce le rendono intanto, almeno in parte, inoperanti, come vorremmo sfuggire a sofismi e riserve mentali, come vorremmo compenetrarci nella natura! La temperata luce dei boschi è come un perpetuo mattino, è stimolante, eroica. S'insinuano dentro di noi le antiche magie di questi luoghi. I fusti dei pini, degli abeti, delle querce brillano come ferro davanti all'occhio infiammato. E i muti alberi cominciano a persuaderci che meglio sarebbe vivere con loro e abbandonare questa nostra vita fatta di solenni futilità. Qui non vi è storia, non vi è chiesa o stato che si sovrappongano, come un'interpolazione, al cielo divino e al grande anno immortale. […]. Le città non concedono spazio sufficiente ai sensi umani. E sia di giorno 'che di notte ci tocca andar fuori a nutrirci gli occhi di orizzonti e a richiedere la nostra parte di spazio, così come abbiamo bisogno dell'acqua per lavarci. […]mi distacco dalle beghe e dalle personalità del luogo: sì, e dall'intero mondo di piccoli centri e di personalità, e mi trasferisco in un delicato reame di tramonti e di pleniluni, troppo splendido, forse, per quell'essere contaminato che è l'uomo, e perché vi si possa accedere senza una qualche forma di noviziato e di accettazione. […]. Quelli che lamentano come morbosa la separazione fra la bellezza della natura e le cose che devono esser fatte, devono considerare che questo nostro andare a caccia del pittoresco è inseparabile dalla nostra protesta nei riguardi delle falsità sociali. L'uomo è caduto; la natura è sempre in piedi e fa da termometro differenziale rivelando la presenza o l'assenza di sentimento divino nell'uomo. Ed è per colpa della nostra insipienza e del nostro egoismo che ci rivolgiamo alla natura; ma quando saremo sulla via della guarigione, sarà la natura a rivolgersi a noi. Guardiamo con un senso di compunzione il ruscello che spumeggia; ma se la nostra vita scorresse con la sua giusta carica di energia, sarebbe il ruscello a sentire vergogna.

E qui c’è un passaggio importante, nell’economia del discorso che ho impostato in questo capitolo

Questa ingegnosità con cui è fatto il mondo si travasa anche nella mente e nel carattere delle persone. Nessuno è perfettamente bilanciato; ognuno ha una vena di insania nella sua costituzione, una leggera pressione del sangue alla testa per far si che egli resti saldamente legato a un qualche particolare punto che la natura abbia preso a cuore.

Emerson sta provando ad emanciparci dall’incubo di un universo morto ed indifferente a noi ed a tutto il resto e, contemporaneamente, dalla credenza veterotestamentaria in un dio vanaglorioso, capriccioso ed irascibile. Ecco un altro significativo passo del “manifesto”:

Attraversando un terreno brullo all’imbrunire, tra pozzanghere di neve, sotto un cielo nuvoloso e senza alcun particolare motivo di ottimismo nei miei pensieri, ho goduto di un momento di perfetta euforia. Sono così contento da averne quasi paura. Anche nel bosco l’uomo si libera dei propri anni come un serpente della sua pelle e, a qualunque età, è sempre un bambino. Nei boschi è l’eterna giovinezza. All’interno di queste piantagioni di Dio regnano decoro e sacralità, qui una festa perenne è allestita, e l’ospite non vede come potrà mai stancarsene, passassero anche mille anni. Nei boschi torniamo alla ragione e alla fede. Lì sento che niente può accadere alla mia vita: nessuna disgrazia o calamità (purché mi si lascino gli occhi) che la natura non possa sanare. In piedi sulla nuda terra – con la testa inondata dall’aria gioiosa e sollevata verso lo spazio infinito – ogni egoismo meschino svanisce. Divento una pupilla trasparente; non sono niente, vedo tutto; le correnti dell’Essere Universale mi attraversano; sono una parte o una particella di Dio. Il nome dell’amico più caro suona allora estraneo e accidentale: essere fratelli o semplici conoscenti, padroni o servi, è una quisquiglia e un impiccio. Sono l’amante della bellezza incontenibile e immortale. Nella natura selvaggia trovo qualcosa di più caro e congeniale che non nelle strade o nei villaggi. Nel paesaggio placido, e soprattutto nella lontana linea dell’orizzonte, l’uomo scorge qualcosa di altrettanto bello della sua stessa natura. II piacere più grande che i campi e i boschi procurano è l’indizio di una relazione nascosta tra l’uomo e il regno vegetale. Non sono solo e irriconosciuto. Esso mi fa cenni e io ricambio. L’ondeggiare dei rami nella tempesta è per me nuovo e antico a un tempo. Mi coglie di sorpresa ma non mi è sconosciuto. Il suo effetto è simile a quello di un pensiero più elevato o di un’emozione migliore che mi investono quando credevo di pensare in modo giusto e di agire rettamente.

Pare che i suoi sensi siano più affinati della media. Forse li usa meglio, forse è semplicemente più attento. È possibile che chi è incline a percorrere questo “sentiero” sia coinvolto in un processo di progressiva identificazione con una sfera sempre più vasta del mondo, proprio a partire dalla natura. La mistica naturalista dei trascendentalisti non è animista, è trascendente, appunto. Emerson dichiara che “ogni fatto naturale simboleggia un fatto spirituale”. La Natura è, in ultimo, Spirito. Ricordo una frase di Dale Cooper, in Twin Peaks: “la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma mi sbagliavo, li ho ritrovati a Twin Peaks”. In questa serie un merlo si chiama Waldo, forse un omaggio a R.W. Emerson. Ben diversa, dualistica, è la comprensione delle forze naturali dell’Immanuel Kant della “Critica del giudizio”, che pure mostra qualche traccia di una possibile, remota convergenza:

Le rocce che sporgono in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo fra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume, riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà coraggio di misurarci con l'apparente onnipotenza della natura.

Per i trascendentalisti il bello e il sublime eccedono l’ordinarietà dei nostri pensieri e delle nostre emozioni e ci infondono un’immensa gioia e anelito verso l’alto e verso l’interiorità. Ciò che ascende, converge, come ciò che esplora le profondità dell’anima. Il senso della meraviglia, del sentirsi infinitamente minuscoli ed infinitamente vasti, proiettati verso un interesse morale superiore, che è poi quello della coscienza. Nessuna persona potrebbe commettere un crimine trovandosi in una tale condizione dell’anima, che purtroppo per noi è solamente passeggera.
I trascendentalisti dei nostri tempi abitano molto più vicino. Uno di loro è il celebre Mauro Corona (2005, p. 271), non certo per caso un ammiratore di un altro grande trascendentalista, Walt Whitman:

Mi escono battute sarcastiche quando leggo o sento definire la montagna assassina. La montagna non è assassina, se ne sta lì e basta. Siamo noi i killer di noi stessi, che non sappiamo vivere, che usiamo il profumo per l’uomo che non deve chiedere mai, che abbiamo dimenticato la carità, la riconoscenza, il rispetto, che distruggiamo la natura. La vita è un segno di matita, curvo e sottile, che finisce ad un certo punto. Per molti è lungo, per altri corto, per altri non parte nemmeno. La gomma del tempo verrà poi a cancellare quel segno. Di noi non resterà nemmeno il ricordo. È giusto così. E allora perché sgomitare tanto?…Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro. La montagna mi ha insegnato anche questo.

Ne “Il volo della martora” (1997, p. 62), uno dei suoi pensieri più belli:

Le voci della primavera sono il diluente che impedisce alle scorie dei fallimenti, delle delusioni, del pessimismo di occludere il minuscolo passaggio verso quel magico luogo, verso quella terra lontana e ancora pulita, sempre così difficile da raggiungere, dove trovano rifugio i sentimenti buoni quando noi li rincorriamo per ucciderli.

Un altro è il meno noto Mario Martinelli (2007, p. 68), trentino della Vallarsa:

E Luino distingueva chiaramente ora, nell’opaca tenebra, come l’equilibrio con la natura fosse la cosa più importante per assaporare completamente il ricco e impagabile cammino dell’uomo. La solitudine siderale poteva raggiungere momenti d’intensa spiritualità che mettevano i brividi sulla pelle e, subito dopo, la certezza di essere uniti a tutti gli elementi del creato conferiva un’euforia che abbisognava dell’intero universo per espandersi.

I trascendentalisti, vecchi e nuovi, ci stanno dicendo che una buona parte della nostra aggressività non è un tratto costitutivo della nostra natura, è il risultato di una concatenazioni di scelte sbagliate, a loro volta causate dalla nostra immaturità. L’esito è stato una dipendenza psicologica autodistruttiva, il bisogno di consumare letteralmente il nostro prossimo, l’altro da noi, per espandere il nostro ego, personale e collettivo (patria, etnica, civiltà, culto, ecc.), che necessita di confini e barriere che mantengano ben distinti il mio dal tuo, il soggetto dall’oggetto. Così siamo diventati materialisti, avidi, competitivi, violenti, razzisti, sessisti, omofobi, insicuri, narcisisti, ossessivi, anempatici (freddi, disabituati alla compassione), moralmente intorpiditi (indifferenti, relativisti, nichilisti, egotisti) ed in ultimo autolesionistici. E il punto non è che dobbiamo cambiare per ragioni morali, non c’è un imperativo etico che ci deve costringere a pensare e vivere diversamente; la cosa è molto più semplice: i trascendentalisti ci offrono uno squarcio nel tipo di esperienza di vita che sprechiamo, di cui ci priviamo, ci rivelano cosa perdiamo quando viviamo un’esistenza indurita intorno ad un ego pietrificato, ad identità sociali inflessibili, intransigenti e soprattutto monistiche a pratiche sociali di sfruttamento, strumentalizzazione e manipolazione che ormai diamo per scontate, che non consideriamo nemmeno più problematiche.
Dobbiamo accettare, una buona volta, che non siamo onnipotenti, che non siamo qui per soggiogare l’universo alla nostra volontà di potenza, che la natura è indifferente alle nostre pretese ad ai significati che le attribuiamo. La radice di tutti i nostri mali, della convergenza di crisi in quest'epoca oscura, è questa nostra superbia, la superbia del moltiplichiamoci, popoliamo il pianeta (come se non fosse già popolato da altre specie) e trasformiamo l'universo in accordo con le nostre preferenze. L'intera nostra civiltà è fondata su questo assurdo paradigma che ci sta portando alla rovina. Dobbiamo riscoprire e valorizzare l’umiltà e il rispetto per ciò che è altro da noi.
Lo illustra magnificamente David Foster Wallace, nel suo breve scritto “Questa è l’acqua” (2009):

Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo capiti…Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. […]. Se imparate davvero come pensare, a cosa prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose. […]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza. Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” - la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito.

lunedì 12 dicembre 2011

La "primavera russa" e la democrazia extraterrestre



Nella giustizia delle favole come nella psiche profonda, la gentilezza verso ciò che sembra di poco conto viene premiata con il bene, e il rifiuto di fare del bene a chi non è bello viene punito. Lo stesso accade nei grandi sentimenti come l’amore. Quando ci espandiamo per toccare il non-bello, siamo ricompensati. Se lo disprezziamo, siamo separati dalla vita vera e lasciati fuori al freddo. Per alcuni, è più facile pensare pensieri superiori e bellissimi e toccare le cose che positivamente ci trascendono, che toccare, aiutare ed assistere il non-così positivo. Come la storia illustra, è facile cacciare il non-bello e sentirsi falsamente nel giusto.
Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi”, 2009, p. 140

Dall'ondeggiante oceano, la folla, venne teneramente a me una goccia,
mormorando Io ti amo, tra non molto morirò.
Ho fatto un lungo viaggio solo per guardati, toccarti, perché non potevo morire sinché non ti avessi parlato, perché temevo di poterti poi perdere.
Ora ci siamo incontrati, ci siamo guardati, siamo salvi, ritorna in pace all'oceano mio amore,
anch'io sono parte di quell'oceano amore, non siamo così separati, considera il grande globo, la coesione del tutto, quanto è perfetta!
Ma per me, per te, il mare irresistibile deve separarci, e se per un'ora ci tiene lontani, non potrà tenerci lontani per sempre;
non essere impaziente - un istante - sappi che io saluto l'aria, l'oceano e la terra, ogni giorno al tramonto per amor tuo, amore.
Walt Whitman, Foglie d’Erba

Come contenere un ghigno sardonico quando i giornalisti occidentali inneggiano alla “Primavera Russa” dei manifestanti pro-democrazia che contestano Putin senza poter nascondere il fatto che le riprese li mostrano mentre sventolano bandiere con la falce e martello (noto simbolo democratico?), che vengono bellamente ignorate dai commentatori?
È giornalismo o è propaganda? La deontologia professionale, l’integrità: che fine hanno fatto? C'è in giro un'epidemia di minzolinite?
Il dato che salta all'occhio è che siamo in una fase in cui dobbiamo sostenere un forsennato attacco alla democrazia portato da oligarchie che si spacciano per democratiche e che stanno erodendo lo stato di diritto dal suo interno:
C’è chi, come l’ex consigliere di Mitterrand, teme il peggio:
Ho già trattato la questione della natura e delle virtù della democrazia in questo mondo:
E i problemi inerenti alla democrazia diretta:

Ora vorrei dimostrare che la democrazia è un’istituzione che potrebbe funzionare e quasi certamente funziona su altri mondi. In altre parole, ritengo che la democrazia non sia un monopolio della specie umana terrestre. Dando per scontata l’esistenza di vita intelligente nell’universo, 

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/24/alienologia-corso-avanzato-parte-seconda-la-storiografia/#axzz1i8n9szlE
presumo che altre civiltà abbiano adottato un modello democratico per regolare la vita pubblica e dirimere le controversie. Qui spiego perché la penso a questo modo. 
Sono giunto a questa conclusione leggendo le opere di Jacob Needleman, un filosofo morale e politico che insegna alla San Francisco State University. In particolare, mi ha impressionato “The American Soul: Rediscovering the Wisdom of the Founders” (New York: Jeremy P. Tarcher, 2003). La mia trattazione è, in pratica, una rielaborazione per sommi capi delle sue tesi. Per me, come per lui, “America” è il nome del Mondo Nuovo, di una società ideale in cui le nostre migliori aspirazioni – “gli angeli migliori della nostra natura”, li chiamava Lincoln – hanno finalmente prevalso.  
La grande speranza dell’America, spiega Needleman, era la sua visione di cosa fosse l’umanità e di cosa potesse diventare – individualmente e coralmente. L’America era una grande idea e sono queste grandi idee che fanno andare avanti il mondo, che dischiudono la possibilità di un senso alto della vita umana. L’America come fatto, simbolo e promessa di un nuovo inizio, che concepisce il materialismo come una malattia della psiche che non riceve un sufficiente nutrimento di idee. Per Needleman, nell’America la missione degli esseri umani è quella di agire nel mondo come strumenti consapevoli ed individuati della Sapienza/Sophia (cf. trascendentalisti), persone di buona volontà e retto intendimento, ossia dei Giusti.
Sono le idee che dirigono la nostra attenzione verso la grandezza che ci circonda nella natura e nell’universo, aprendoci gli occhi sulle reali esigenze del nostro prossimo, mostrandoci che non siamo qui solo per noi stessi, che non è solo il comfort psicologico, fisico e sociale a cui dobbiamo aspirare. L’America, dunque, è un’espressione nuova ed originale, un esperimento sociale e politico, fondato su idee che sono state patrimonio dell’umanità per millenni.
Needleman afferma che l’uomo vive tra due mondi, un mondo interiore di grandi visioni spirituali e potere spirituale ed uno esterno di realtà e limitazioni materiali. Il senso della democrazia è radicato nella visione di una natura umana caduta e perfettibile: interiormente caduta ed interiormente perfettibile. I diritti costituzionali si basano su una visione della natura umana che ci chiama ad essere attori responsabili, responsabili verso qualcosa dentro di noi che è superiore ai nostri desideri così umani, troppo umani. Il sintomo che un’idea è davvero grande è la sua capacità di unificare le parti disparate dell’essere umano (si veda anche Jung). Ogni grande idea parla di un ordine sociale che diventa possibile sulla base di questo ordinamento interiore di ciascun individuo.
Ci può essere un legame interpersonale saldo e duraturo tra persone e nazioni così diverse se in ciascun coscienza/anima non si verifica un analogo processo di unificazione? Il mondo è come è perché gli esseri umani sono come sono e non c’è nulla di essenziale nella vita umana che possa essere migliorato se prima non ci occupiamo della nostra disarmonia interiore. Ogni riforma dall’esterno implica violenza e guerra in tutte le sue varie forme.
Siamo nati in un mondo di idee ponderate nei secoli, in un’identità filosofica plurale fatta anche di libertà, giustizia, uguaglianza, indipendenza di giudizio, coscienziosità, sollecitudine verso il prossimo, senso di responsabilità, auto-determinazione. Questa era l’idea di America. Non radici ma boccioli, frutti non ancora maturi. Ciò che conta è il potenziale inespresso, non il limite imposto; è il divenire, non l’essere.
Per Needleman l’arte del futuro, la competenza indispensabile per i tempi a venire, è il gruppo. L’intelligenza e la benevolenza di cui abbiamo bisogno vengono solo dal gruppo, dall’associazione di uomini e donne che cercano di lottare contro gli impulsi dell’illusione, dell’egoismo e della paura. Si è eroi coralmente, non singolarmente. L’eroe solitario è spesso un farabutto, un impostore.
Needleman rileva che, per i popoli extra-europei, il concetto di pace era ben diverso da quello che abbiamo in mente noi. La loro pace era dinamica ed includeva tutte le forze della vita, nella natura e nell’uomo, compresa quella che chiamiamo “male”; un concetto inclusivo, non esclusivo: lotta, sofferenza, dolore, errori e stoltezze, passione, tenerezza, rabbia e sconfitta. Persino la guerra era compresa nell’idea di pace, una guerra condotta in un certo modo e con certe motivazioni. L’assolutismo pacifista era completamente estraneo alla loro mentalità ed è un’invenzione della modernità.
La domanda a cui cercavano una risposta era molto semplice e molto importante: come pensare e vivere in modo tale da conformarsi alle leggi cosmiche, alla coscienza, che è la voce dell’universo in ognuno di noi, in un mondo che dia spazio ad una relazione tra la grandezza del cosmo e le esigenze della Terra e di ciò che vive e succede su quest’ultima?
Il contrario di quest’accezione di pace e giustizia, spiega il filosofo statunitense, è ciò che divide e separa le parti della realtà e le mantiene distinte, un moralismo che sminuisce l’interconnessione dei viventi, della vita. Ci sono cose che vanno distrutte e persone che vanno uccise (es. psicopatici che minacciano singole vite o intere comunità), ma non certo per plasmare il cosmo a nostro piacimento, bensì perché il cosmo possa ricostituirsi, per suo conto. Il giudizio di chi separa il bene dal male è quello del moralista, che è spesso spaventato e violento. Se il mondo è caduto è per via della sua violenza endemica, della tendenza a distruggere chi si oppone alla nostra volontà e morale, ignorando il senso di giustizia ed una visione obiettiva della realtà. Non è che il bene e il male non esistono, è che sono interdipendenti. È il nostro moralismo che ci spinge a distruggere, dopo aver distinto mente e corpo, spirito e materia, uomo e natura, vita e morte: una visione dualistica della realtà è molto confortevole. Per i nativi americani, come per Jung, ciò che è oggettivamente buono è la realtà nella sua interezza e ciò che è oggettivamente cattivo è la sua frammentazione. Ciò che alla mente ordinaria appare come opposizione, contrasto e contraddizione è un’unità trascendente, la riconciliazione dei contrari interconnessi, la cosiddetta coincidentia oppositorum. La vita come una relazione misteriosa ed intima tra forze opposte. La legge è ciò che mantiene questa relazione e, nel farlo, il dinamismo della vita. Questa è la pace, la pace assicurata dalla comprensione e conoscenza. La giustizia discende da tale comprensione. La pace fa da ponte tra due forze contrapposte. Il male è la forza che ostacola fatalmente l’azione della forza riconciliativa, la discesa della colomba, lo Spirito Santo, nella vita umana. Opporsi a ciò che è buono (es. l’intolleranza delle diversità che non violano la legge, l’ingiustizia, la violenza contro l’ambiente, la tortura, la guerra, ecc.) non è un peccato imperdonabile, imperdonabile è ostruire il corso della riconciliazione tra il bene e ciò che gli si contrappone. “Satana” deriva dall’ebraico satan, che significa l’avversario. “Diavolo” viene dal greco diabolos, “colui che divide” e significa l’accusatore, il diffamatore, il mentitore. Nella sua prima forma il demonio è uno strumento divino e serve delle sacre finalità.
Per questo Gesù chiama Pietro “Satana” ma gli ordina di mettersi dietro di lui: “va dietro a me, Satana” (attenzione all’errata traduzione “Lungi da me, satana!” Matteo 16:23), ossia di seguirlo come discepolo, quando Pietro dimostra di non aver capito il senso del suo messaggio. È invece irreparabile il male di chi nega lo Spirito Santo e la sua funzione di agente riconciliativo tra i contrari (es. altoatesini e sudtirolesi, o bianchi e neri, ebrei e arabi, cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord, ecc.) e legame tra l’umano e il divino, ossia chi induce l’uomo a credere di essere solo un animale o una macchina.  
Il cuore della democrazia è apprezzare l’altro anche quando è un mio avversario. Si è intimamente democratici quando si riesce a fare un passo indietro ed un passo fuori da se stessi, dalle proprie emotività e permettere all’altro di pensare, parlare e vivere.
La democrazia non è solo un’istituzione esterna, non è solo una forma politica, è anche una forza interna al nostro sé, un ideale interiore, l’espressione più alta di una spiritualità laica, capace di coniugare pragmatismo e misticismo, materia e spirito, esteriore ed interiore, bene e male.
Rispettare tutte le persone, garantire a ciascuno i propri diritti e la propria voce, significa capire cosa abbiamo tutti in comune, richiede di vedere che cosa sia un essere umano, indipendentemente da tutte le distinzioni sessuali, razziali, etniche, religiose, fisiche, sociali, culturali ed intellettuali. Quali siano i suoi pregi e difetti.
Il significato più profondo della democrazia è la comprensione delle strutture più profonde del sé umano, dell’interiorità.
La democrazia è vitale perché nessuno può arrivare alla verità ed alla purezza della coscienza senza essere assistito da tante altre persone: è uno sforzo corale, come corali sono sempre stati gli sforzi delle varie costituenti, delle persone incaricate di redigere le carte dei diritti e gli statuti, che mai sarebbero giunti ad un tale livello di saggezza e lungimiranza, da soli.
Il monoteismo, invece, diffonde l’idea che ci sia una parte della natura umana che deve essere distrutta, senza che sia possibile ricostituire l’unità fondamentale dell’essere.
Nella dottrina della coincidentia oppositorum, dell’interconnessione, ciò che chiamiamo male – il dolore ed il timore insensati, brutali, crudeli, futili perché irredimibili, lo spreco di vita, l’ingiustizia titanica, la rabbia sorda e violenta – nasce proprio dalla scelta di escludere le forze del “male” (Jung le chiamava “ombra”) dalla nostra vita e dalla nostra mente consapevole. Quando questo male viene isolato, cresce fino a distruggere un bene che, innaturalmente separato, è indifeso. Da qui nascono il razzismo, il segregazionismo, la guerra sterminatrice, la pulizia etnica, l’olocausto.  

sabato 3 dicembre 2011

Un sentore di infinitezza - la missione di un(a) badante



Esseri luminosi noi siamo, non questa materia grezza.
Yoda

We live our daily lives in a constant exchange with the set of daily appearances surrounding us – often they are very familiar, sometimes they are unexpected and new, but always they confirm us in our lives. They do so even when they are threatening: the sight of a house burning, for example, or a man approaching us with a knife between his teeth, still reminds us (urgently) of our life and its importance. What we habitually see confirms us. Yet it can happen, suddenly, unexpectedly, and most frequently in the half-light of glimpses, that we catch sight of another visible order which intersects with ours and has nothing to do with it. The speed of a cinema film is 24 frames per second. God knows how many frames per second flicker past our daily perception. But it is as if at the brief moments I’m talking about, suddenly and disconcertingly we se between two frames. We come upon a part of the visible which wasn’t destined for us. Perhaps it was destined for — night-birds, reindeer, ferrets, eels, whales… Perhaps it was destined not only for animals but for lakes, slow-growing trees, ores, carbon… Our customary visible order is not the only one: it co-exists with other orders. Stories of fairies, sprites, ogres were a human attempt to come to terms with this co-existence. Hunters are continually aware of it and so can read signs we do not see. Children feel it intuitively, because they have the habit of hiding behind things. There they discover the interstices between different sets of the visible.
Knock! Knock!
Who’s there?
Guess who!
Dogs, with their running legs, sharp noses and developed memory for sounds, are the natural frontier experts of these interstices. Their eyes, whose message often confuses us for it is urgent and mute, are attuned both to the human order and to other visible orders. Perhaps this is why, on so many occasions and for different reasons, we train dogs as guides.
Probably it was a dog who led Sammallahti to the moment and place for taking of each picture. In each one the human order, still in sight, is nevertheless no longer central and is slipping away. The interstices are open.
The result is unsettling for those who are not nomads. There is more solitude, more pain, more dereliction. At the same time, there is an expectancy which we have not experienced since childhood, since we talked to the dogs, listened their secret and kept it to ourselves.
John Berger, “The shape of a pocket”, New York: Vintage: 2001, pp. 4-5 [Sacche di resistenza, Varese: Giano, 2003]

Per Simone Weil l’impersonalità rappresenta ciò che vi è di sacro negli esseri umani. È la trascendenza dell’Io e prima ancora del Noi, giacché l’idolatria del collettivo, osserva la stessa Weil, frustra ogni tentativo di raggiungere l’impersonalità. Subordinato al collettivo – come era consuetudine nell’antichità – l’individuo si vede decurtato di una parte importante dei suoi diritti naturali, assieme alla possibilità di essere separato, fisicamente e mentalmente, anche da sé stesso. Il Noi e l’Ego sono ostacoli lungo la via che conduce a questa condizione di impersonalità, o vero Io, che qualcuno chiamerebbe “coscienza cosmica” e che è una forma di disincarnazione dell’anima (“decreazione” la chiama Weil). Chi scopre dentro di sé questa trascendenza inframondana ama nel modo in cui lo smeraldo è verde, cioè non ne può fare a meno, si emancipa finalmente e definitivamente da quelle istituzioni ed ideologie che promettono una pseudo-immortalità alla propria identità sociale. Inoltre, a differenza di molti gnostici, sente il dovere di salvaguardare la possibilità che anche altri vi possano attingere e di tutelare e valorizzare la dignità di tutti gli esseri umani e del mondo circostante. L’essere umano decreato, impersonale è, per citare il Walt Whitman di Foglie d’Erba, “Dentro e fuori del gioco, osservandolo e meravigliandosi”, non ricerca certezze assolute ma esperienze, il midollo della vita, “per non scoprire in punto di morte di non essere mai vissuto...” (H.D. Thoreau). La mente dell’umano impersonale non si chiude di fronte all’ignoto, all’imprevisto, all’insolito, ma lo brama, perché quello è il combustibile della sua creatività.

Dentro l’uomo c’è l’anima del tutto”, dichiara Emerson. Nessuna personalità contingente e localizzata può contenere l’oceano interiore della coscienza, l’eterno, sublime ed infinito elemento umano. La coscienza aspira a risolversi in una rete di relazioni intersoggettive nella loro forma più alta e nobile, cioè quella di una relazione tra coscienze impersonali, cosmopolite ed interconnesse: “né giudeo, né greco” diceva Paolo di Tarso.

L’individualità democratica anti-conformista predicata dal liberalismo rappresenta solo il primo passo verso l’impersonalità universale, ed è un progetto in corso d’opera, che non è purtroppo quasi mai completato in vita, per ignoranza e per timore. Gli antipodi della coscienza, l’infinito oceano interiore, per la quasi totalità degli esseri umani rimane un miraggio, un territorio vergine. Dogmi, convenzioni, consuetudini e l’ossessione materialista ci sbarrano la strada, ci impediscono di riconoscere la straordinarietà altrui e nostra. “Ciascuno deve assumersi la responsabilità di se stesso – il proprio sé deve diventare un progetto, dobbiamo diventare gli architetti della nostra anima. La nostra dignità risiede nell’essere, in larga misura, la persona che abbiamo scelto di essere, una creazione piuttosto che una creatura o un manufatto socialmente prodotto e determinato” (Kateb, 1984, p. 343). Poi subentra la presa di coscienza della propria natura universale, impersonale appunto, e la disidentificazione, l’acquisizione di una sconfinata molteplicità di identità. Gradualmente, la cura del sé si estende al prossimo ed all’ambiente, per poi prendere la forma della cura del cosmo. È una responsabilizzazione solenne che annienta la vacuità disumana del burocrate à la Eichmann o dell’edonista à la Christian Troy (della serie Nip/Tuck), cioè la funesta disconnessione dalla realtà, intorpidimento morale, assopimento dell’empatia, prioritarizzazione delle regole e degli interessi rispetto agli esseri umani, anticamera della violenza genocida (Hatzfeld, 2003).

L’impersonalità è, al contrario, una condizione di trascendenza della socialità e dell’ego (lo jiva del Vedanta) che pone al centro la sensibilità e la disponibilità del sé (l’atman del Vedanta), poroso, fluido, illimitatamente espandibile, incurante della distinzione tra particolare e generale. È, per i trascendentalisti nordamericani e per George Kateb, uno dei più raffinati filosofi politici dei nostri giorni, la condizione necessaria al sorgere di una vera antropologia dell’individualità, che consideri quest’ultima come preziosa perché insostituibile, e di una vera democrazia dell’interconnessione tra soggetti-cittadini dalle potenzialità largamente inesplorate (la cosiddetta “mutualità tra sconosciuti”).

Antropologia e democrazia, l’umanità possibile, trovano la loro realizzazione finale solo in essa, in questo oceano di potenzialità ancora ignote. Quello che in genere rimane celato ai nostri occhi per via della cristallizzazione delle differenze, delle divisioni e barriere tra gli esseri umani, ossia le varie interfacce con le quali ci relazioniamo verso l’esterno e che tendiamo a feticizzare o idolatrare. Una cristallizzazione (il velo di Maya) che maschera l’eterno mutare della molteplicità del mondo, l’indeterminatezza della vita, ma anche l’unitarietà del suo senso ultimo. Un velo che ci impedisce di comprendere che l’autodeterminazione è la via maestra per rendersi disponibili al prossimo, consci della sua dignità e valore, aperti al nuovo ed all’imprevedibile, a quell’azzardo che è la vita. Le azioni e le parole delle persone che non subiscono abusi, non affrontano un degrado morale e sociale permanente e sono esposte all’influenza della tensione spirituale, cioè quelle persone che si possono permettere di coltivare l’autostima, il rispetto di sé, il senso della misura e, come vedremo, il senso dell’impersonalità o trascendenza, dimostrano che può esistere un mondo migliore. Un mondo in cui tutti quanti meritiamo di vivere. Un mondo che renda possibile l’autocompimento espressivo ed esistenziale per ognuno di noi, lo stesso auspicato dalla filosofa tedesca Edith Stein, che invitava ad attualizzare il proprio potenziale per una vita più intensa, di inesauribile pienezza umana, di infinitezza, di trascendenza della materialità. Il mondo che aveva ammirato Etty Hillesum rivolgendosi alla sua interiorità, prestando orecchio (hineinhorchen) a quel che diceva il suo daimon. Un mondo in cui si riesca a guardare all’altro con occhio benevolo, apprezzandolo e dedicandovi sollecitudine ed attenzione più di quanto l’altro riesca a fare nei confronti di se stesso, senza classificarlo, ridurlo in categorie, asservirlo ad un destino predeterminato o, peggio ancora, renderlo invisibile, irrilevante, inferiore, spregevole (Kateb, 1989; 1992). Un mondo che pretende onestà, trasparenza e genuina autenticità. Non l’autenticità del sangue e del suolo, quella che dissolve l’io in un noi irresponsabile, infantile, barbaro, idolatra ed onnipotente, strumento del potere pastorale denunciato da Foucault, argilla nelle mani di leader narcisisti ed incontinenti nelle loro ambizioni e pretese di riconoscimento pubblico. Quei leader timorosi della vita perché bisognosi di ordine, di controllo, di potenza, di autorità, e perciò inclini al cannibalismo degli altri, in senso naturalmente figurato.

È l’autenticità della voce interiore che conta, quella della propria natura, che assicura l’integrità personale anche nell’impersonalità, che contrasta la necrofilia, l’amore per ciò che non è vivo, per la disgregazione, lo smembramento, la parcellizzazione, l’atomizzazione degli esseri umani. Le contrasta in nome di eros, l’attrazione per il vivente, per l’integrazione e l’unione, ossia per il divino che è nell’umano e che è nella natura e nell’universo (Fromm, 1984; Mancuso, 2008).

Perciò l’impersonalità – la conciliazione di unità e molteplicità – è, in modo apparentemente paradossale, il nostro essere più autentico. Come giustificare questa posizione ontologica che ha messo a dura prova la filosofia occidentale per l’intera sua storia? Non lo posso certo fare chiamando in causa un destino cosmico comune che mi è stato disvelato e contando sulla fiducia dei lettori, che in questo caso sarebbe malriposta. Mi appellerò quindi al buon senso: se i migliori tra noi, esemplari della nostra specie che sono universalmente riconosciuti come maestri di vita, talvolta indipendentemente l’uno dall’altra, hanno creduto di individuare nell’impersonalità la ragion d’essere dell’umanità ed il fine ultimo del processo di maturazione morale della nostra specie, allora dovevano avere delle buone ragioni per farlo.

I maestri di vita e di pensiero in questione sono, tra gli altri, Plotino, Meister Eckart, Jakob Böhme, William Blake, Simone Weil, Etty Hillesum, Jiddu Krishnamurti, Sri Ramakrishna Paramahamsa, San Francesco d’Assisi, Ibn Arabi, Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, Carl Gustav Jung, Paolo di Tarso, Siddhārtha Gautama, il pioniere austriaco della meccanica quantistica Erwin Schrödinger, Johann Wolfgang von Goethe, Kahill Gibran, Lao Tzu, Jorge Luis Borges, Empedocle, Socrate, Maometto, Spinoza e Gesù di Nazareth. Quel che li accomuna è, appunto, la sensazione oceanica, cioè un sentimento di espansione compassionevole dei confini del sé fino ad abbracciare l’intera umanità e l’universo materiale, l’oceano come simbolo dell’abbattimento di ogni barriera – del Noi, dell’Io, della specie – e dell’unità nella molteplicità, della coincidentia oppositorum.

Non stiamo parlando della dissoluzione dell’io nel tutto della razza ariana o del popolo fascista, il cui indiscutibile carattere trascendente ha ipnotizzato milioni di persone in passato ma che in realtà è antitetica rispetto ad una genuina sensazione oceanica. Stiamo piuttosto parlando di una facoltà latente nella specie umana, che si esplicita in un’empatia profonda ed inclusiva e nella certezza interiore dell’interconnessione di ogni cosa, dell’illusorietà delle separazioni, della presenza dell’origine della creazione (Tao, o Dio) in ogni istante, in ogni atomo, in ogni luogo, in ciascuno di noi, oltre che del fondamentale contributo di ognuno al Libro della Vita. ”Ero tutto, o piuttosto tutto era in me, inanimato ed animato, le montagne, il verme, e tutte le cose che respirano” (Krishnamurti). “Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io. In quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio (Plotino, Enneadi IV, 8, 1). “Nell’istante della visione non c’è nulla che si possa chiamare gratitudine, né propriamente gioia. L’anima sollevata al di sopra della passione, contempla l’identità e la causa eterna, percepisce l’esistenza indipendente della Verità e dell’Esattezza, e si rasserena nella consapevolezza che tutto procede per il meglio” (Emerson, “Self-Reliance”).

Sigmund Freud rimase affascinato dall’estasi auto-trascendente e, non avendola esperita in prima personala investigò nella sua corrispondenza con Romaine Rolland, il quale si diceva convinto che questa esperienza avesse coinvolto milioni di persone nella storia, pur con diverse sfumature e gradi di intensità, quasi sempre inconsapevoli della natura del fenomeno (Parsons, 1999). Sulla base di quanto appreso dall’amico Rolland, Freud la descrive come “un sentimento di indissolubile legame, di immedesimazione con la totalità del mondo esterno” (Freud, 2003, p. 197).

Plotino avrebbe detto che l’anima, attraverso Amore, si universalizza in un flusso di intuizione che la trasfonde dalla dimensione del parziale, del particolare e del diviso, alla dimensione della totalità indivisa e della verità, della contemplazione anti-narcisistica della propria bellezza come immagine della Bellezza. A partire da questo risveglio, dopo il riconoscimento della propria identità col cosmo e col divino, la persona (o per meglio dire l’anima, lo sfarfallante “fascio di coscienza”, l’Aleph di Borges) irradierà di consapevolezza chi la incontra.

Etty Hillesum se n’era accorta ben presto, notando che la forza elementare che aveva scoperto al centro di se stessa si irradiava attorno a lei (Hillesum, 2008). Mircea Eliade chiamava questa corrispondenza diretta tra macrocosmo e microcosmo macrantropia. L’enfasi sull’unità della diversità, cioè sulla convinzione che la diversità era solo l’espressione di una superiore unità, quella della Persona Cosmica, è molto antica, e risale forse all’età del Bronzo, anche se trova una formulazione più articolata solo nelle Upanisad e nel Timeo platonico (McEvilley, 2002). L’osservazione di Vito Mancuso (2007) che il cosmo è votato alla relazione, “dalle particelle subatomiche fino alla punta dell’anima” e che “io sono anche il mondo: io, micro-cosmo, sono uguale al mondo, macro-cosmo, nel senso che la logica che governa entrambi è la medesima” sarebbe giudicata senz’altro corretta all’interno di quest’ottica. Per Hillesum la diluizione dell’io nell’infinito universale consente di sviluppare una coscienza cosmica che rende la vita più piena, abbondante e meravigliosa, anche nei suoi aspetti apparentemente tragici (Tommasi, 2002). Per il Walt Whitman di “Prospettive democratiche”, l’unica giustificazione adeguata della democrazia “risiede nel futuro, essenzialmente nell’abbondante produzione di indoli perfette tra la gente e nell’avvento di una sana e diffusa religiosità”. Per il poeta e scrittore statunitense il merito della democrazia è stato quello di liberare le persone dai vincoli delle convenzioni tradizionali e di gettare le basi per l’edificazione di “torreggianti personalità…in possesso della nozione di infinito” e in grado di comprendere che una vita morale degna di questo nome è quella che fa riferimento “all’immortale, all’ignoto, allo spirituale, a ciò che è permanentemente reale, ciò che, come l’oceano attende ed accoglie i fiumi, aspetta ciascuno di noi”. Il valore della persona è perciò direttamente legato al potenziale, innato in ogni essere umano, di ergersi al livello dell’individualità impersonale, che Emerson chiama Superanima (Oversoul), della quale noi siamo solo catalizzatori e vettori.

Vivere nella pienezza dell’Essere, per i Trascendentalisti americani come per i mistici di tutto il mondo, significa affidarsi ai propri impulsi fondamentali, all’istinto più profondo, quello del Bene, quello dell’imperativo categorico kantiano, che reprimiamo quando prestiamo ascolto alle sirene della materialità e dei determinismi. Quando rinserriamo noi stessi e gli altri nella falsa sicurezza di un passato e di un futuro già determinati, di un ambiente e di un orizzonte costretti e divisi, ci e li priviamo della possibilità di dare libero sfogo alla naturale tensione verso la libertà più piena e di comprendere che ogni persona ed ogni cosa è solo una particolare inflessione dell’universale, nel presente. “Queste rose sotto la mia finestra non rimandano a rose precedenti o migliori; sono ciò che sono; esistono assieme a Dio nell’oggi. Il tempo non esiste per loro. Vi è semplicemente la rosa: perfetta in ogni momento del suo esistere. Prima che un solo bocciolo si sia dischiuso, la sua intera vita è già in atto; nel fiore pienamente sbocciato non ve n’è di più; nella spoglia radice non ve n’è di meno. La sua natura è soddisfatta ed essa soddisfa la natura, in ogni momento, in egual misura. L’uomo invece pospone o ricorda; non vive nel presente, ma con un occhio rivolto alle spalle rimpiange il passato, oppure, incurante delle ricchezze che lo circondano, si solleva sulle punte dei piedi per prendere visionare il futuro. Non potrà essere felice e forte finché non vivrà anche lui con la natura nel presente, al di sopra del tempo” (Emerson, “Self-Reliance”). Questo comporta anche che un elevato livello di educazione non è di per sé indice di saggezza. Anzi, lo zelo con il quale si dedicano ad una specifica direzione del sapere in qualche modo li ostacola. Tant’è che “dobbiamo molte preziose osservazioni a persone che non sono particolarmente perspicaci o profonde, ma che dicono con grande naturalezza quel che volevamo ed eravamo andati invano in cerca per lungo tempo” (Emerson, “The Over-Soul”). Nell’abbandono alla comune ed eterna natura che scorre interiormente, gli esseri umani si de-individualizzano, affinano l’intelletto e distillano i significati apparentemente più reconditi, e pensano, kantianamente, il particolare come contenuto dell'universale. La trama della loro esistenza non si dipana più disordinatamente e discontinuamente, ma nell’armonia della divina unità, nella resistenza alle pressioni conformiste ed alla superficialità dell’io quotidiano.

Ma come possiamo essere certi che la voce della nostra coscienza sia giusta e buona? O, per meglio dire, come si distingue tra la voce di ego e la voce della coscienza? In fondo gli sterminatori degli Einsatzgruppen erano persone comuni, che credevano di difendere la patria, la famiglia, la Cristianità (Browning, 2004). Non era anche quella la voce della coscienza? Lo stesso Hitler dichiarava di condurre la sua esistenza sulla base di intuizioni e dettami provenienti direttamente da Dio e quindi di non poter minimamente ritenere di essere in errore: “E se anche lo fossi, so di aver agito in buona fede” (Hitler, 1941). Riteneva di essere un “Unto del Signore”, emissario di Dio in terra, chiamato a redimere il mondo. La visione emersoniana non può escludere questo tipo di interpretazioni. Emerson stesso non era sempre benevolo nei confronti del “popolo bue” che non sentiva la necessità di riscattarsi spiritualmente, pur avendone i mezzi, e che accettava “cristianamente” l’esistenza dell’istituzione schiavista.

Io penso che la risposta possa essere trovata nella sostanziale univocità delle voci dei maestri di impersonalità, illustri esponenti dell’antropologia perenne, che trova un’eco importante nelle spiegazioni fornite dai Giusti tra le Nazioni a chi li intervistava per capire perché avessero rischiato la loro vita e quella dei propri cari per aiutare dei perfetti sconosciuti quando sarebbe stato più semplice pensare agli affari propri. Non furono molti, ma non furono neppure pochi, forse uno su mille tra chi viveva nell’Europa occupata dai nazisti:


Abraham Maslow (1908-1970), uno dei maggiori psicologi del secolo scorso, ha studiato clinicamente questo fenomeno.

A differenza di Freud, e sulla scia di Wiliam James, lo psicologo statunitense comprese che questo tipo di esperienze non erano di carattere patologico ma, al contrario, rappresentavano i picchi della creatività umana, i record olimpici della coscienza, da additare ad esempio per il resto dell’umanità, in modo che tutti potessero trovare una maniera per esprimere il loro intero potenziale (auto-attualizzazione). Era convinzione di Maslow che una buona parte dei comportamenti devianti che danneggiavano la società fossero causati dalla privazione di mezzi di sostentamento (livello dei bisogni fisiologici), della sensazione di sicurezza (livello della stabilità sociale), dell’affettività e dell’amore (livello dei bisogni affettivi), dello status e dell’amore proprio (livello dell'autostima e del rispetto) e, infine, degli strumenti necessari alla realizzazione personale. In questa prospettiva la soddisfazione dei bisogni primari conduce a maggiori aspettative nei confronti di quelli superiori e così via fino al quinto livello. La relativa insoddisfazione è il motore che ci spinge a chiedere sempre di più da noi stessi. E non c'è nulla di male in questo, sosteneva Maslow, che soleva dire ai suoi studenti che decidere di non diventare quel che si potrebbe essere li avrebbe resi infelici per il resto della loro vita. Il segreto era essere realisti ma puntare in alto: “Quel che un uomo può essere, lo deve essere” (Maslow, 1954, p. 91). Su, fino alle esperienze-picco, i momenti di intensa felicità, beatitudine, illuminazione, contemplazione, estasi. Queste non erano riservate a pochi fortunati ma erano invece nelle corde di ognuno. Ogni qual volta una persona procedeva lungo la strada dell’eccellenza personale, o si muoveva liberamente verso una condizione ideale di giustizia e virtù, era più probabile che si producesse un’esperienza-picco. Si tratta di una forma avanzata di percezione della realtà, quando il mondo e l’umanità appaiono come fondamentalmente buoni, giusti, onesti, completi, semplici ed intensamente vivi. In molti casi la descrizione dell’esperienza non era troppo dissimile da quella delle estasi mistiche e, in seguito a questo tipo di esperienza, proprio come i mistici, molte persone sentivano un intenso, incondizionato, compassionevole, sconfinato amore per il mondo e per il prossimo, scoprivano in se stessi la capacità di accettare con ironico distacco la realtà terrena ed infine avvertivano la necessità di fare qualcosa per gli altri come forma di compensazione per il dono che avevano ricevuto. 

Secondo Maslow gli attributi tipici delle persone psicologicamente e mentalmente auto-attualizzate sono: una più sofisticata percezione della realtà ed una modalità di interazione con essa più costruttiva della media, maggiormente tollerante di ambiguità ed incertezze; una minor sensibilità e vulnerabilità ai sensi di colpa e di vergogna ed all’ansia: sono più spontanei, meno condizionati dai giudizi della gente, più disponibili ad ammettere i propri difetti e a comprendere ed accettare quelli altrui; la relativa assenza di egocentrismo e la disponibilità verso gli altri; l’autonomia e la cura della propria sfera privata: sono meno dipendenti dall’incoraggiamento delle altre persone, più selettivi nelle amicizie, più innovativi e più resistenti alla pressione sociale; la capacità di sorprendersi e di assaporare la quotidianità; la tendenza ad identificarsi con l’intera umanità, pur rimanendo realisticamente consapevoli dei limiti oggettivi della specie; un carattere profondamente democratico, che ignora barriere sociali e culturali; la preferenza per circoli ristretti di intimi con i quali coltivare rapporti più profondi.

Credo che questa sia anche una descrizione piuttosto soddisfacente della personalità dei Giusti e dell’ethos ideale dei badanti e delle badanti. Anche Jung (1959) aveva stilato una lista di tratti ammirevoli di quelle che definiva “persone individuate”. Vediamoli nel dettaglio: vivono la loro vita senza preoccuparsi troppo di conformarsi alle aspettative degli altri e della società; cercano un punto di equilibrio tra l’autenticità e l’adesione a gruppi ed associazioni; sono tendenzialmente solitari ma non reclusi; sono generalmente più tolleranti, profondi, responsabili e comprensivi della media; si aprono agli altri perché non temono di perdere il controllo di se stessi; non sono egocentrici né particolarmente eccentrici, accettano i propri obblighi senza farne un dramma.

Anche qui noto una certa corrispondenza con gli attributi tipici della coscienza transpersonale dei soccorritori di Ebrei durante l’Olocausto. Proprio come i Giusti, queste persone rifiutano ruoli e distinzioni rigide. Come i mistici, le loro esperienze sono all’insegna della privatezza, dell’impersonalità e dell’universalità. Maslow potè trarre un’unica conclusione: “È sempre più evidente che questo fenomeno è una versione, più blanda, più laica e più ordinaria dell’esperienza mistica che è stata descritta così spesso da diventare quella che Huxley ha chiamato la Filosofia Perenne. In culture ed epoche diverse assume colorazioni differenti, eppure la sua essenza è sempre riconoscibile, è la stessa” (Maslow 1973, p. 64).