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venerdì 20 gennaio 2012
Socrate e l'illusorietà della morte
Nella tradizione orfico-pitagorica la morte non è una cosa brutta ma un momento di purificazione, il trionfo dello spirito sulla materia che lo imprigiona, dell’eterno sul transeunte. Il sapiente deve capovolgere il suo giudizio sul vivere e sul morire. Ecco cosa ne pensa Socrate.
– Credi tu che la morte sia qualche cosa?
– Certo – rispose Simmia.
– E non crediamo noi che essa altro non sia che la separazione dell’anima dal corpo? E l’esser morto non consiste proprio in questo: nello stare l’anima e il corpo separati tra loro e ciascuno per conto proprio? Che altro è la morte se non questo?
– Nient’altro che questo, infatti – rispose Simmia.
– E allora osserva attentamente, o amico, se tu hai la stessa opinione che ho io, poiché solo così potremo meglio comprendere ciò di cui discutiamo. Pare a te che sia da vero filosofo darsi cura dei piaceri, come, per esempio, del mangiare e del bere?
– Niente affatto, Socrate – confermò Simmia.
– E dei piaceri d’amore?
– Neppure.
– E così tutte le altre cure del corpo, come l’acquisto di lussuoso vestiario, di magnifiche calzature e di ogni altro ricercato ornamento, pare a te che il filosofo abbia in pregio più di quel tanto che la necessità lo costringa a farne uso?
– A me pare che il vero filosofo disprezzerà tutto questo.
– Non ti sembra allora che l’attività di un tale uomo non sia per nulla rivolta al corpo, da cui anzi si allontana più che sia possibile, ma invece sia tutta dedita all’anima?
– Certamente.
– E quindi è chiaro che in tutte queste cose il filosofo, a preferenza di ogni altro uomo, cerca più che può di liberare l’anima da ogni comunanza col corpo. Non è forse vero?
– Pare di sì.
– Ed è per questo o Simmia, che il volgo crede che colui il quale non prova alcuno di questi piaceri, e non vi partecipa, non meriti neanche di vivere; poiché tende ad essere come un morto chi non si cura dei piaceri che derivano dal corpo.
– Dici proprio la verità.
– E che diremo dell’acquisto della sapienza? Credi tu che nella ricerca della verità ci sarà o no di impedimento il corpo? Intendo dire questo: il senso della vista e dell’udito, ad esempio, danno a noi certezza assoluta, oppure hanno ragione i poeti quando continuamente ci dicono che noi non udiamo, né vediamo nulla di preciso? E se questi sensi non sono né sicuri, né precisi, che cosa dovremmo dire degli altri ancora più manchevoli di questi? Non ti pare?
– Certamente – disse.
– Quando, dunque – continuò Socrate – l’anima riesce ad attingere il vero? Perché se essa si accinge a ricercare la verità con l’aiuto del corpo, è evidente che sarà da questo tratta in inganno.
– Proprio così.
– Non è forse nella pura attività di ragione che si rende a lei manifesta la verità?
– Certamente.
– E questa attività non si esplica ancor meglio quando l’anima non è conturbata da nessuna di tali sensazioni, né dalla vista, né dall’udito, né dal dolore, né dal piacere, ma tutta in sé raccolta, abbandonando completamente il corpo, senza più alcuna comunanza né contatto con esso, tende solamente alla verità?
– Dici proprio bene.
– Non è questa, allora, la ragione per la quale l’anima del filosofo disprezza profondamente il corpo e rifugge da esso e aspira a rimanere sola, tutta in sé raccolta?
– Certamente.
– Ma v’è ancora un altro argomento, o Simmia. Affermiamo noi l’esistenza di un “giusto in sé”, o no?
– Certo che lo affermiamo, per Zeus.
– E di un “bello in sé”, di un “buono in sé”?
– Pure.
– Or bene, vedesti tu mai con gli occhi del corpo il “Giusto”, il “Bello”, il “Buono”?
– No, mai – rispose quegli.
– E li hai mai conosciuti con qualche altro senso del corpo? E non parlo solamente di questi, ma ancora della “Grandezza”, della “Salute”, della “Forza”, in una parola di tutto ciò che realmente è. E credi tu che si conosce la realtà in sé delle cose per mezzo dei sensi del corpo, oppure reputi che colui il quale si propone di conoscere il vero per mezzo dell’attività pura di ragione si avvicinerà più di ogni altro alla perfetta conoscenza di esso?
– È proprio così.
– E a questa perfetta conoscenza può pervenire soltanto colui che alla verità si volge con la sola mente, e non sorregge la sua ragione con alcun senso del corpo, ma solo in sé e puro, con la mente pura, cerca di attingere il vero, astraendosi, più che sia possibile, dagli occhi, dagli orecchi, dal corpo tutto, poiché questo sconvolge l’anima e non le permette di acquistare verità e sapienza. Non è forse quest’uomo, o Simmia, colui che potrà, più di ogni altro, cogliere la realtà?
– Tu dici il vero, o Socrate – rispose Simmia.
– Dunque – seguitò Socrate – tutte queste considerazioni devono formare nei veri sinceri filosofi un’opinione tale da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. E le guerre, le rivoluzioni, le battaglie, chi le produce se non il corpo e le sue passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama di ricchezze, e queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo, incatenati come siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di dedicarci alla filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e contemplare la verità con la sola anima. Allora soltanto, quando saremo morti, e non da vivi, come il ragionamento ci costringe ad ammettere, noi potremo possedere ciò di cui ci professiamo amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna riconoscere, dunque, o Simmia, che tutti coloro i quali rettamente filosofano è come se si esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura che agli altri.
Platone, "Fedone", Armando Editore, Roma 2007.
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domenica 18 dicembre 2011
Ambientalismo per un Mondo Nuovo
La
tutela ecologista della comunità, con la valorizzazione delle risorse naturali,
elevate ad un tratto distintivo dell’identità territoriale, rappresenta una
delle bandiere dei Freiheitlichen […] La piccola patria si caratterizza per la
coscienza nazionale e la tutela della natura, per il rapporto mistico con il
mondo della flora e della fauna, che unisce i Tedeschi fin dai primordi.
Bruno
Luverà
Il
mostro del sangue e del suolo, del primato dell’etnia scagliato contro l’altro
da sé, un primato del locale rancoroso, che coniuga modernamente arcaismi ed
etno-ecologia nella magica esaltazione della “montagna incantata” come luogo
contrapposto allo spazio globale.
Aldo
Bonomi
Noi che ci preoccupiamo di
preservare le specie animali, affinché non scompaiano gli elefanti dall'Africa,
i leoni, gli ippopotami dal Nilo, dobbiamo rallegrarci che il governo si
preoccupi di accogliere degli esseri umani
Temistio,
IV secolo d.C.
In una
recente indagine sui valori dei giovani
altoatesini e sudtirolesi (Ausserbrunner / Bonifaccio / Plank / Plasinger /
Sallustio / Zambiasi, 2010) emerge che tra i principali problemi presenti in provincia di Bolzano la
crescente urbanizzazione figura al terzo posto dopo alcolismo ed immigrazione.
Questo è un problema segnalato anche da quella grande rassegna di studi
sull’ambiente altoatesino che s’intitola “Alto Adige: un paesaggio al banco di
prova” (Kreisel/Ruffini/Reeh/Pörtge, 2010). Leggiamo nel saggio introduttivo
dei curatori dell’opera che nel corso della transizione da “povera regione di
montagna” a “regione moderna e prospera”, qualcosa è andato storto: “durante
l’ultimo decennio sono stati ripetutamente violati “tabù” fino ad ora
resistenti, nel rapporto tra l’esigenza di uso turistico, insediativo o
produttivo da un lato e la tutela del paesaggio, dall’altro”. In che maniera,
in che misura? “La corsa continua verso la realizzazione di infrastrutture
sempre più moderne e prestanti…si associa spesso alla perdita di valori
paesaggistici e ad un appiattimento culturale”.
Il
problema, sottolineano gli autori, è che “i principi della creazione e del
mantenimento di un bel paesaggio e della conservazione della biodiversità non
sono mai stati prioritari nello sfruttamento del territorio; da sempre ha
prevalso la regola dello sfruttamento economico”. Si continua a costruire
imperterriti e negli ultimi anni “il volume edificabile concesso sulle zone di
verde agricolo ha superato quello concesso sulle zone residenziali”. Il che
rende ormai improcrastinabile una seria revisione del modello di crescita
adottato in Alto Adige. Conclusioni di notevole rilevanza in una provincia che
si compiace delle sue bellezze naturali e del suo folklore per definizione
ecosostenibile.
Si
tratta di capire perché abbia prevalso la logica dello sfruttamento. Io credo
che il primo indizio lo si possa rinvenire nelle due prefazioni a questo
imponente volume, quella di Luis Durnwalder e quella di Michl Laimer, assessore
all’urbanistica, ambiente ed energia, che forniscono utili in merito a come le
autorità percepiscano la relazione tra società ed ambiente naturale, come del
resto ricordato dagli stessi autori, quando precisano che “il paesaggio, il suo
aspetto e la sua qualità sono anche espressione del modo in cui una società
affronta e vive il concetto di patria”.
Ho già evidenziato gli innumerevoli
difetti della mentalità patriottica nell’opera precedente (Fait/Fattor, 2010) e
questo è un tema che non intendo riesaminare in questa sede. Tuttavia, quando
le cose non funzionano, è sempre necessario problematizzare ciò che si tende a
dare per scontato, perché è assai probabile che alcun aspetti del senso comune
non si configurino come buon senso, ma come dannoso preconcetto. È
presumibilmente il patriottismo che fa dire a Durnwalder, in contrasto con i rilievi
critici espressi dagli autori, che “oggi l’Alto Adige è una regione esemplare”
e che “i fattori di successo del “modello Alto Adige” vanno ricercati nel suo
sviluppo sostenibile e armonico”. Laimer esorta tutti a “cercare un rapporto
sostenibile con il paesaggio”, una prassi che ha molto a che fare con la
cultura, con il rispetto e, aggiunge con grande perspicacia, “con il modo in
cui la società altoatesina affronta il concetto di appartenenza”. L’assessore
prosegue poi in termini più che condivisibili: “dobbiamo riuscire a sviluppare
la capacità di percepire e di apprezzare in modo più profondo il paesaggio, la
sua storia e la sua estetica. Dobbiamo diventare consapevoli del valore del
nostro paesaggio e dunque del nostro habitat”. Conclude infine: “in questo modo
il paesaggio può anche contribuire a creare l’identità”.
Queste
due prefazioni esplicitano due problemi. Il primo è la fallace certezza di aver
operato al meglio, il secondo è il rapporto tra identità collettiva ed ambiente
naturale. La tensione tra modernità e tradizione si può rintracciare anche
nelle osservazioni conclusive di una commissione parlamentare svizzera del 1929
secondo cui “una Svizzera senza un popolo montanaro forte e sano, moralmente e
fisicamente, non sarebbe più la Svizzera nel senso storico del termine”.
La
pessima prova che ha dato di sé la Provincia di Bolzano nel mercimonio che ha
visto il voto di fiducia al governo Berlusconi ripagato con la
snazionalizzazione del parco dello Stelvio, spezzettato tra Trento, Bolzano e
Lombardia. Questo il commento di Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera ("Lo
Stelvio, i Favori e lo Spezzatino", 23 dicembre 2010):
Soltanto
uno sprovveduto potrebbe non cogliere la relazione fra questo grosso favore
agli autonomisti e il grosso favore che i due deputati della Südtiroler
Volkspartei Siegfried Brugger e Karl Zeller hanno fatto a Berlusconi
contribuendo al salvataggio del governo con l’astensione al voto di fiducia del
14 dicembre. Ma la politica, in Italia, è diventata anche questo. Il problema è
semmai che fatti del genere scandalizzano sempre meno. Anche quando diventa
merce di uno scambio inconfessabile un parco naturale: l’ultima cosa che
dovrebbe fare le spese delle beghe della politica.
Mauro
Fattor, sull’Alto Adige (“Le manovre sul parco, 23 dicembre 2010), riepiloga i
precedenti non particolarmente beneauguranti:
E così
può accadere che qualcuno ti faccia un chilometro e mezzo di strada forestale
camionabile dentro un parco naturale – come è accaduto al Parco dello Sciliar
due anni fa – e che l’unica reazione ammessa da parte dell’Ufficio Parchi sia
quella di dire: ohhhhh!!
Oppure
può accadere, come accade al Parco del Monte Corno, che con il bilancio del
parco si faccia la manutenzione ordinaria di strade private che per legge
spetterebbe ai proprietari dei fondi. Piccoli piaceri, si intende.
Un’operazione simpatia. Per inciso: i soggetti terzi in questione sono
forestali e cacciatori, che dipendono direttamente da Durnwalder.
Scriveva
Antonio Cederna che sarà la stupidità della burocrazia ad uccidere il parco
nazionale dello Stelvio. Si sbagliava: ci ha pensato molto prima il cinismo
della politica. Perché le aree protette, i parchi nazionali, sono beni
pubblici, e in quanto pubblici – in una concezione distorta e blasfema della
res publica – di nessuno. Per questo diventano facile merce di scambio.
E
questo è proprio il punto. Se è res publica, non è reclamabile come proprietà
dell’Heimat e del popolo. Ha una sua dignità inalienabile, una fruibilità
universale che va garantita anche per le generazioni future. Al di là delle
parole di circostanza, quest’idea fa fatica a prendere piede nelle società non
“primitive” (che potrebbero rivelarsi più civili di tante altre società
“moderne”). In genere, “qui da noi”, si tende a vedere la natura come un
qualcosa di diverso, di altro, che può ed occasionalmente deve essere
sottomesso. Questo è un tipo di mentalità che abbiamo sviluppato con
l’agricoltura e che si è irrobustito con la diffusione del radicale dualismo
gnostico-cartesiano tra ego e natura che ormai è diventata la nostra modalità
standard di comportamento verso la natura. Utili riflessioni su questo tema
possono essere trovati nel pensiero di Hans Jonas e in particolare nella sua
disamina del modo in cui ci siamo estraniati dal mondo e dalla trascendenza,
diventando integralmente alienati, suscettibili di depressione cronica, fuga
dalla realtà e megalomania, a seconda dei casi.
Tra i
popoli di cacciatori e raccoglitori vi era una genuina gratitudine nei
confronti di Madre Natura e dell’animale che nutriva la comunità con la sua
carne. Nessuno avrebbe mai immaginato di poter sbocconcellare, raschiare o
bruciare il corpo della madre che lo nutre. La nostra hybris, la nostra pretesa
di poter e dover trasformare questo pianeta affinché si adatti lui a noi e non
noi a lui, nasce con l'agricoltura. Persino a livello mitologico si vede la
differenza di atteggiamento nei confronti del cosmo e dei rapporti
interpersonali con la transizione da un modello all'altro. Nella caccia e
raccolta predomina ancora l'idea che siamo ospiti e che non dobbiamo abusare
dell'ospitalità, con l'agricoltura trionfa l'idea che il pianeta è casa nostra
e ne facciamo quel che ci pare. Sono due paradigmi antitetici e il secondo,
spiace dirlo, è tagliato su misura per dei briganti.
Una
diversa prospettiva ecologica è quella dell’interconnessione,
dell’interdipendenza di tutta la vita organica e di tutta la coscienza che
supera lo scisma tra materia e spirito, senza negarlo (panenteismo), e che
trova tra i suoi forse più noti esponenti Teilhard de Chardin, Alfred North
Whitehead e, credo di poter dire, Vito Mancuso. Infine c’è l’ecologismo profondo che non considera
l’umano come una dimensione in alcun modo speciale rispetto al resto della
natura (panteismo) ma, anzi, tende alla misantropia e a concepire gli esseri
umani come dei parassiti. Al giorno d’oggi l’approccio dualista-riduzionista
sta segnando il passo sia perché l’abbruttimento del paesaggio è un qualcosa
che non può essere in alcun modo smentito, sia perché lo sfruttamento e spreco
delle risorse è percepito come un tipo di condotta che non è più sostenibile e
moralmente accettabile. L’approccio dell’ecologismo profondo è così radicale
che troppo spesso i suoi esponenti non sanno nascondere un certo piacere nel
contemplare i disastri naturali che umiliano la superbia umana.
Il più
radicale tra tutti gli ecologisti estremi fu Adolf Hitler. Il seguito del Mein
Kampf – il cosiddetto Zweites Buch, scritto nel 1928, rimasto
inedito in seguito ad una cocente sconfitta elettorale, riscoperto nel dopoguerra
e pubblicato solo nel 1961 – contiene anche un esame del valore della vita come
potere immanente sia agli individui sia ai popoli. Hitler ne deduce alcune
conclusioni: il valore assoluto del concetto di vita organica e della sua
estetica; il principio che le stesse leggi che determinano la vita degli
individui sono valide anche per i popoli e quindi l’esistenza di leggi della
vita dei popoli (Lebensgesetze für die Völker); la conseguente
inevitabilità della lotta per la vita (Lebenskampf); la storia come
progressione dei popoli nella loro lotta per la sopravvivenza e per lo spazio
vitale (Lebensraum). È in questo magma dottrinale che affonda le radici
l’ecologismo nazista (e neonazista). Il Terzo Reich dimostrò una sensibilità
verso gli animali e la natura inversamente proporzionale a quella dimostrata
verso gli esseri umani. Le leggi sulla sperimentazione sugli animali e sul loro
trasporto e la normativa per la tutela delle foreste e della biodiversità erano
all’avanguardia nel mondo, tanto che alcune di esse rimangono in vigore ancora
oggi (Pois, 1986; Sax, 2000). Forse l’incapacità di amare gli esseri umani
potrebbe in parte spiegare la sproporzionata passione per gli animali –
sproporzionata in relazione alla loro misantropia: amare gli animali non è mai
un male, ovviamente – e la glorificazione nazista delle leggi di natura. Il
nazismo formulò una filosofia del vivente (Lebensphilosophie), non
dell’umano. Non serviva alcuna antropologia, perché la specie umana era
sussunta nello schema del vivente, non v’era nulla di riconoscibilmente
speciale negli esseri umani nel panteismo nazista. In un discorso tenuto a
Norimberga nel 1938, Hitler, comunicò al popolo l’essenza di questo suo
panteismo: “Noi veneriamo esclusivamente la cura di ciò che è naturale, e di
conseguenza, in quanto naturale, voluto da Dio. La nostra umiltà si afferma
nella sottomissione incondizionata alle leggi divine dell’esistenza per come
noi uomini riusciamo a comprenderle”.
I
tempi sono cambiati ma rimane, sotto traccia, in tutti i movimenti di
rivitalizzazione etnica, una mistica della naturale e salvifica autenticità e
purezza dell’Alpe (o della foresta, o della prateria, o dell’ambiente marino)
come via di fuga dalla metropoli corruttrice e tentacolare, dalle sue
manipolazioni, contaminazioni ed imbastardimenti. Nello specchio dell’Alpe il
cittadino vede il riflesso idealizzato e nostalgico di un’identità più sincera
e genuina. In questo modo la natura viene nazionalizzata, la nazione si
naturalizza e la Naturschutz finisce per coincidere con la Heimatschutz.
Quand’era in vita, le performance alpinistiche dell’imprenditore Haider
evidenziavano il nesso tra la sacralità della montagna, l’intento di generare
un’adesione essenzialmente emotiva al movimentismo anti-istituzionale e
l’idealizzazione nazionalista della sfida esistenziale dell’individuo, che è
rappresentante del suo popolo sulle pareti rocciose come sui mercati
finanziari. In questo senso, esistevano delle evidenti analogie simboliche ed
ideologiche tra Haider e due intellettuali filo-nazisti come Julius Evola e
Marc Augier (Saint-Loup), entrambi provetti alpinisti, sciatori e promotori di
una mistica naturalista e neo-pagana rivolta ai giovani, potenziali fautori
della palingenesi europea. Augier, oltre ad essere attivo nella promozione
della rete di ostelli della gioventù francese fu anche un teorico dell’Europa
delle patrie carnali (patries charnelles) in cui veniva enfatizzata la
componente biologica dell’etnicità.
Il
connubio di ruralismo, tradizione, ansia etnica e modernismo è puramente
strumentale. Esso produce un’identità collettiva fittizia utile a superare,
provvisoriamente, il disincanto della modernità, grazie alla reintroduzione del
sacro, del mistico e del trascendente – vale a dire del sublime – in una
società che ha in parte ripudiato la presenza del divino. Il modello
etnoambientalista “Heimat und Umwelt” non è un ritorno al passato ma
un’alternativa all’idea piuttosto caricaturale di una modernità appiattente
incarnata dallo spauracchio McWorld. In questa prospettiva l’identità del
singolo è inscindibile dalla valorizzazione delle risorse naturali e culturali
della sua piccola patria. Il paesaggio, i riti, il folklore, certe convenzioni
ed intimità offrono un saldo ancoraggio per chi non è aduso ai continui
riorientamenti identitari imposti dalle metropoli multietniche.
Gli
eco-etnopopulisti dimostrano grande abilità nello sfruttare quest’aspetto
dell’immaginario popolare, puntando su una formula in cui ogni offesa o
aggressione alla natura diviene un’offesa alla cultura ed all’identità etnica
ed individuale, e vice versa. L’Heimat, come proiezione a livello
regionale dell’istituzione familiare e del confortevole ambiente domestico (Heim)
diventa un bastione di solidarietà per una società gelosamente chiusa in se
stessa, uno scudo che protegge aspetti della tradizione che non si
vogliono annacquati dalla mondializzazione e dal cosiddetto turbocapitalismo.
Resta
comunque il fatto che ciascuno di noi è un ospite di questo pianeta, un ospite
da un altro mondo, ed è tenuto a far sì che chi verrà dopo possa fruire della
medesima ospitalità, o magari di un livello anche superiore. Dunque si deve pur
trovare la maniera di amare l’ambiente senza volerlo possedere, senza
considerarlo “cosa nostra”, senza piegarlo ai nostri desideri per ricavarne
maggior piacere.
In
questo capitolo la mia guida sarà Ralph Waldo Emerson, il nume tutelare della
letteratura americana, l’intelletto che ha meglio saputo distillato il sogno di
un’umanità migliore in un mondo migliore, insomma il sogno americano delle
origini. Nel suo manifesto del trascendentalismo, Emerson reputava che
l’approccio utilitaristico alla natura fosse deleterio non solo per la natura
ma anche per la vita della nostra mente e molti escursionisti o valligiani
capiranno molto bene il significato delle sue parole (Nature 1836-1844/2010):
“Vi
è qui come una sacralità che mette in imbarazzo le nostre religioni e una
verità che potrebbe discreditare i nostri più acclamati eroi. Qui riscopriamo
come la natura sia la realtà che fa rimpicciolire, al confronto, ogni altra
realtà, e come essa giudichi simile a un dio ogni uomo che venga a lei. Siamo
sgusciati via dalle nostre chiuse, affollate dimore, nella notte e al mattino,
ed eccoci ad ammirare da quali maestose bellezze siamo quotidianamente
circondati e fasciati. Come vorremmo sfuggire alle tante barriere che ce le
rendono intanto, almeno in parte, inoperanti, come vorremmo sfuggire a sofismi
e riserve mentali, come vorremmo compenetrarci nella natura! La temperata luce
dei boschi è come un perpetuo mattino, è stimolante, eroica. S'insinuano dentro
di noi le antiche magie di questi luoghi. I fusti dei pini, degli abeti, delle
querce brillano come ferro davanti all'occhio infiammato. E i muti alberi
cominciano a persuaderci che meglio sarebbe vivere con loro e abbandonare
questa nostra vita fatta di solenni futilità. Qui non vi è storia, non vi è
chiesa o stato che si sovrappongano, come un'interpolazione, al cielo divino e
al grande anno immortale. […]. Le città non concedono spazio sufficiente ai
sensi umani. E sia di giorno 'che di notte ci tocca andar fuori a nutrirci gli
occhi di orizzonti e a richiedere la nostra parte di spazio, così come abbiamo
bisogno dell'acqua per lavarci. […]mi distacco dalle beghe e dalle personalità
del luogo: sì, e dall'intero mondo di piccoli centri e di personalità, e mi
trasferisco in un delicato reame di tramonti e di pleniluni, troppo splendido,
forse, per quell'essere contaminato che è l'uomo, e perché vi si possa accedere
senza una qualche forma di noviziato e di accettazione. […]. Quelli che
lamentano come morbosa la separazione fra la bellezza della natura e le cose
che devono esser fatte, devono considerare che questo nostro andare a caccia
del pittoresco è inseparabile dalla nostra protesta nei riguardi delle falsità
sociali. L'uomo è caduto; la natura è sempre in piedi e fa da termometro
differenziale rivelando la presenza o l'assenza di sentimento divino nell'uomo.
Ed è per colpa della nostra insipienza e del nostro egoismo che ci rivolgiamo
alla natura; ma quando saremo sulla via della guarigione, sarà la natura a
rivolgersi a noi. Guardiamo con un senso di compunzione il ruscello che
spumeggia; ma se la nostra vita scorresse con la sua giusta carica di energia,
sarebbe il ruscello a sentire vergogna.
E qui
c’è un passaggio importante, nell’economia del discorso che ho impostato in
questo capitolo
Questa
ingegnosità con cui è fatto il mondo si travasa anche nella mente e nel
carattere delle persone. Nessuno è perfettamente bilanciato; ognuno ha una vena
di insania nella sua costituzione, una leggera pressione del sangue alla testa
per far si che egli resti saldamente legato a un qualche particolare punto che
la natura abbia preso a cuore.
Emerson
sta provando ad emanciparci dall’incubo di un universo morto ed indifferente a
noi ed a tutto il resto e, contemporaneamente, dalla credenza
veterotestamentaria in un dio vanaglorioso, capriccioso ed irascibile. Ecco un
altro significativo passo del “manifesto”:
Attraversando
un terreno brullo all’imbrunire, tra pozzanghere di neve, sotto un cielo
nuvoloso e senza alcun particolare motivo di ottimismo nei miei pensieri, ho
goduto di un momento di perfetta euforia. Sono così contento da averne quasi
paura. Anche nel bosco l’uomo si libera dei propri anni come un serpente della
sua pelle e, a qualunque età, è sempre un bambino. Nei boschi è l’eterna
giovinezza. All’interno di queste piantagioni di Dio regnano decoro e
sacralità, qui una festa perenne è allestita, e l’ospite non vede come potrà
mai stancarsene, passassero anche mille anni. Nei boschi torniamo alla ragione
e alla fede. Lì sento che niente può accadere alla mia vita: nessuna disgrazia
o calamità (purché mi si lascino gli occhi) che la natura non possa sanare. In
piedi sulla nuda terra – con la testa inondata dall’aria gioiosa e sollevata
verso lo spazio infinito – ogni egoismo meschino svanisce. Divento una pupilla
trasparente; non sono niente, vedo tutto; le correnti dell’Essere Universale mi
attraversano; sono una parte o una particella di Dio. Il nome dell’amico più
caro suona allora estraneo e accidentale: essere fratelli o semplici
conoscenti, padroni o servi, è una quisquiglia e un impiccio. Sono l’amante
della bellezza incontenibile e immortale. Nella natura selvaggia trovo qualcosa
di più caro e congeniale che non nelle strade o nei villaggi. Nel paesaggio
placido, e soprattutto nella lontana linea dell’orizzonte, l’uomo scorge
qualcosa di altrettanto bello della sua stessa natura. II piacere più grande
che i campi e i boschi procurano è l’indizio di una relazione nascosta tra
l’uomo e il regno vegetale. Non sono solo e irriconosciuto. Esso mi fa cenni e
io ricambio. L’ondeggiare dei rami nella tempesta è per me nuovo e antico a un
tempo. Mi coglie di sorpresa ma non mi è sconosciuto. Il suo effetto è simile a
quello di un pensiero più elevato o di un’emozione migliore che mi investono
quando credevo di pensare in modo giusto e di agire rettamente.
Pare
che i suoi sensi siano più affinati della media. Forse li usa meglio, forse è
semplicemente più attento. È possibile che chi è incline a percorrere questo
“sentiero” sia coinvolto in un processo di progressiva identificazione con una
sfera sempre più vasta del mondo, proprio a partire dalla natura. La mistica
naturalista dei trascendentalisti non è animista, è trascendente, appunto.
Emerson dichiara che “ogni fatto naturale simboleggia un fatto spirituale”. La
Natura è, in ultimo, Spirito. Ricordo una frase di Dale Cooper, in Twin Peaks:
“la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma
mi sbagliavo, li ho ritrovati a Twin Peaks”. In questa serie un merlo si chiama
Waldo, forse un omaggio a R.W. Emerson. Ben diversa, dualistica, è la
comprensione delle forze naturali dell’Immanuel Kant della “Critica del
giudizio”, che pure mostra qualche traccia di una possibile, remota
convergenza:
Le
rocce che sporgono in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si
ammassano in cielo fra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro
potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione,
l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume,
riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza,
paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente
per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le
chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di
sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà
di resistere interamente diversa, la quale ci dà coraggio di misurarci con
l'apparente onnipotenza della natura.
Per i
trascendentalisti il bello e il sublime eccedono l’ordinarietà dei nostri
pensieri e delle nostre emozioni e ci infondono un’immensa gioia e anelito
verso l’alto e verso l’interiorità. Ciò che ascende, converge, come ciò che
esplora le profondità dell’anima. Il senso della meraviglia, del sentirsi
infinitamente minuscoli ed infinitamente vasti, proiettati verso un interesse
morale superiore, che è poi quello della coscienza. Nessuna persona potrebbe
commettere un crimine trovandosi in una tale condizione dell’anima, che
purtroppo per noi è solamente passeggera.
I
trascendentalisti dei nostri tempi abitano molto più vicino. Uno di loro è il
celebre Mauro Corona (2005, p. 271), non certo per caso un ammiratore di un
altro grande trascendentalista, Walt Whitman:
Mi escono battute
sarcastiche quando leggo o sento definire la montagna assassina. La montagna
non è assassina, se ne sta lì e basta. Siamo noi i killer di noi stessi, che
non sappiamo vivere, che usiamo il profumo per l’uomo che non deve chiedere
mai, che abbiamo dimenticato la carità, la riconoscenza, il rispetto, che
distruggiamo la natura. La vita è un segno di matita, curvo e sottile, che
finisce ad un certo punto. Per molti è lungo, per altri corto, per altri non
parte nemmeno. La gomma del tempo verrà poi a cancellare quel segno. Di noi non
resterà nemmeno il ricordo. È giusto così. E allora perché sgomitare
tanto?…Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per
vedere dentro. La montagna mi ha insegnato anche questo.
Ne “Il
volo della martora” (1997, p. 62), uno dei suoi pensieri più belli:
Le
voci della primavera sono il diluente che impedisce alle scorie dei fallimenti,
delle delusioni, del pessimismo di occludere il minuscolo passaggio verso quel
magico luogo, verso quella terra lontana e ancora pulita, sempre così difficile
da raggiungere, dove trovano rifugio i sentimenti buoni quando noi li
rincorriamo per ucciderli.
Un
altro è il meno noto Mario Martinelli (2007, p. 68), trentino della Vallarsa:
E
Luino distingueva chiaramente ora, nell’opaca tenebra, come l’equilibrio con la
natura fosse la cosa più importante per assaporare completamente il ricco e
impagabile cammino dell’uomo. La solitudine siderale poteva raggiungere momenti
d’intensa spiritualità che mettevano i brividi sulla pelle e, subito dopo, la
certezza di essere uniti a tutti gli elementi del creato conferiva un’euforia
che abbisognava dell’intero universo per espandersi.
I
trascendentalisti, vecchi e nuovi, ci stanno dicendo che una buona parte della
nostra aggressività non è un tratto costitutivo della nostra natura, è il
risultato di una concatenazioni di scelte sbagliate, a loro volta causate dalla
nostra immaturità. L’esito è stato una dipendenza psicologica autodistruttiva,
il bisogno di consumare letteralmente il nostro prossimo, l’altro da noi, per
espandere il nostro ego, personale e collettivo (patria, etnica, civiltà,
culto, ecc.), che necessita di confini e barriere che mantengano ben distinti
il mio dal tuo, il soggetto dall’oggetto. Così siamo diventati materialisti,
avidi, competitivi, violenti, razzisti, sessisti, omofobi, insicuri,
narcisisti, ossessivi, anempatici (freddi, disabituati alla compassione),
moralmente intorpiditi (indifferenti, relativisti, nichilisti, egotisti) ed in
ultimo autolesionistici. E il punto non è che dobbiamo cambiare per ragioni morali,
non c’è un imperativo etico che ci deve costringere a pensare e vivere
diversamente; la cosa è molto più semplice: i trascendentalisti ci offrono uno
squarcio nel tipo di esperienza di vita che sprechiamo, di cui ci priviamo, ci
rivelano cosa perdiamo quando viviamo un’esistenza indurita intorno ad un ego
pietrificato, ad identità sociali inflessibili, intransigenti e soprattutto
monistiche a pratiche sociali di sfruttamento, strumentalizzazione e
manipolazione che ormai diamo per scontate, che non consideriamo nemmeno più
problematiche.
Dobbiamo
accettare, una buona volta, che non siamo onnipotenti, che non siamo qui per
soggiogare l’universo alla nostra volontà di potenza, che la natura è
indifferente alle nostre pretese ad ai significati che le attribuiamo. La
radice di tutti i nostri mali, della convergenza di crisi in quest'epoca
oscura, è questa nostra superbia, la superbia del moltiplichiamoci, popoliamo
il pianeta (come se non fosse già popolato da altre specie) e trasformiamo
l'universo in accordo con le nostre preferenze. L'intera nostra civiltà è
fondata su questo assurdo paradigma che ci sta portando alla rovina. Dobbiamo
riscoprire e valorizzare l’umiltà e il rispetto per ciò che è altro da noi.
Lo
illustra magnificamente David Foster Wallace, nel suo breve scritto “Questa è
l’acqua” (2009):
Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la
mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la
persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa
sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione
sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra
configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri
circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete
vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui
fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra
sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o
quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati
in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo
capiti…Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se
impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard,
naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e
letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa
attraverso questa lente del sé. […]. Se imparate davvero come pensare, a cosa
prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di
vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non
soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza
che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose.
[…]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È
impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo
fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche
specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la
dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile
di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate
finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi
che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza.
Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro
stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre
brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un
milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi
sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore
sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la
vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre
sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto
non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono
configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate
lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a
quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere
pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di
operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini
e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante
della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto
di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza,
e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre
persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una
moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà.
L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di
topi” - la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa
di infinito.
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lunedì 12 dicembre 2011
La "primavera russa" e la democrazia extraterrestre
Nella giustizia delle
favole come nella psiche profonda, la gentilezza verso ciò che sembra di poco
conto viene premiata con il bene, e il rifiuto di fare del bene a chi non è
bello viene punito. Lo stesso accade nei grandi sentimenti come l’amore. Quando
ci espandiamo per toccare il non-bello, siamo ricompensati. Se lo disprezziamo,
siamo separati dalla vita vera e lasciati fuori al freddo. Per alcuni, è più
facile pensare pensieri superiori e bellissimi e toccare le cose che
positivamente ci trascendono, che toccare, aiutare ed assistere il non-così
positivo. Come la storia illustra, è facile cacciare il non-bello e sentirsi
falsamente nel giusto.
Clarissa Pinkola Estés,
“Donne che corrono coi lupi”, 2009, p. 140
Dall'ondeggiante oceano, la
folla, venne teneramente a me una goccia,
mormorando Io ti amo, tra
non molto morirò.
Ho fatto un lungo viaggio
solo per guardati, toccarti, perché non potevo morire sinché non ti avessi
parlato, perché temevo di poterti poi perdere.
Ora ci siamo incontrati, ci
siamo guardati, siamo salvi, ritorna in pace all'oceano mio amore,
anch'io sono parte di
quell'oceano amore, non siamo così separati, considera il grande globo, la
coesione del tutto, quanto è perfetta!
Ma per me, per te, il mare
irresistibile deve separarci, e se per un'ora ci tiene lontani, non potrà
tenerci lontani per sempre;
non essere impaziente - un
istante - sappi che io saluto l'aria, l'oceano e la terra, ogni giorno al
tramonto per amor tuo, amore.
Walt Whitman, Foglie d’Erba
Come contenere un ghigno
sardonico quando i giornalisti occidentali inneggiano alla “Primavera Russa”
dei manifestanti pro-democrazia che contestano Putin senza poter nascondere il
fatto che le riprese li mostrano mentre sventolano bandiere con la falce e
martello (noto simbolo democratico?), che vengono bellamente ignorate dai
commentatori?
È giornalismo o è
propaganda? La deontologia professionale, l’integrità: che fine hanno fatto? C'è in giro un'epidemia di minzolinite?
Il dato che salta all'occhio è che siamo in una fase in cui
dobbiamo sostenere un forsennato attacco alla democrazia portato da
oligarchie che si spacciano per democratiche e che stanno erodendo lo stato di
diritto dal suo interno:
C’è chi, come l’ex
consigliere di Mitterrand, teme il peggio:
Ho già trattato la
questione della natura e delle virtù della democrazia in questo mondo:
E i problemi inerenti alla
democrazia diretta:
Ora vorrei dimostrare che la
democrazia è un’istituzione che potrebbe funzionare e quasi certamente funziona su altri mondi. In altre
parole, ritengo che la democrazia non sia un monopolio della specie umana
terrestre. Dando per scontata l’esistenza di vita intelligente nell’universo,
http://www.informarexresistere.fr/2011/12/24/alienologia-corso-avanzato-parte-seconda-la-storiografia/#axzz1i8n9szlE
presumo che altre civiltà abbiano adottato un modello democratico per regolare la vita pubblica e dirimere le controversie. Qui spiego perché la penso a questo modo.
http://www.informarexresistere.fr/2011/12/24/alienologia-corso-avanzato-parte-seconda-la-storiografia/#axzz1i8n9szlE
presumo che altre civiltà abbiano adottato un modello democratico per regolare la vita pubblica e dirimere le controversie. Qui spiego perché la penso a questo modo.
Sono giunto a questa
conclusione leggendo le opere di Jacob Needleman, un filosofo morale e politico
che insegna alla San Francisco State University. In particolare, mi ha
impressionato “The American Soul: Rediscovering the Wisdom of the Founders”
(New York: Jeremy P. Tarcher, 2003). La mia trattazione è, in pratica, una
rielaborazione per sommi capi delle sue tesi. Per me, come per lui,
“America” è il nome del Mondo Nuovo, di una società ideale in cui le nostre
migliori aspirazioni – “gli angeli migliori della nostra natura”, li chiamava
Lincoln – hanno finalmente prevalso.
La grande speranza
dell’America, spiega Needleman, era la sua visione di cosa fosse l’umanità e di
cosa potesse diventare – individualmente e coralmente. L’America era una grande
idea e sono queste grandi idee che fanno andare avanti il mondo, che
dischiudono la possibilità di un senso alto della vita umana. L’America come
fatto, simbolo e promessa di un nuovo inizio, che concepisce il materialismo
come una malattia della psiche che non riceve un sufficiente nutrimento di
idee. Per Needleman, nell’America la missione degli esseri umani è quella di
agire nel mondo come strumenti consapevoli ed individuati della Sapienza/Sophia
(cf. trascendentalisti), persone di buona volontà e retto intendimento, ossia
dei Giusti.
Sono le idee che dirigono
la nostra attenzione verso la grandezza che ci circonda nella natura e
nell’universo, aprendoci gli occhi sulle reali esigenze del nostro prossimo,
mostrandoci che non siamo qui solo per noi stessi, che non è solo il comfort
psicologico, fisico e sociale a cui dobbiamo aspirare. L’America, dunque, è
un’espressione nuova ed originale, un esperimento sociale e politico, fondato
su idee che sono state patrimonio dell’umanità per millenni.
Needleman afferma che
l’uomo vive tra due mondi, un mondo interiore di grandi visioni spirituali e
potere spirituale ed uno esterno di realtà e limitazioni materiali. Il senso
della democrazia è radicato nella visione di una natura umana caduta e
perfettibile: interiormente caduta ed interiormente perfettibile. I diritti
costituzionali si basano su una visione della natura umana che ci chiama ad
essere attori responsabili, responsabili verso qualcosa dentro di noi che è
superiore ai nostri desideri così umani, troppo umani. Il sintomo che
un’idea è davvero grande è la sua capacità di unificare le parti disparate
dell’essere umano (si veda anche Jung). Ogni grande idea parla di un ordine
sociale che diventa possibile sulla base di questo ordinamento interiore di
ciascun individuo.
Ci può essere un legame
interpersonale saldo e duraturo tra persone e nazioni così diverse se in
ciascun coscienza/anima non si verifica un analogo processo di unificazione? Il
mondo è come è perché gli esseri umani sono come sono e non c’è nulla di
essenziale nella vita umana che possa essere migliorato se prima non ci occupiamo
della nostra disarmonia interiore. Ogni riforma dall’esterno implica violenza e
guerra in tutte le sue varie forme.
Siamo nati in un mondo di
idee ponderate nei secoli, in un’identità filosofica plurale fatta anche di
libertà, giustizia, uguaglianza, indipendenza di giudizio, coscienziosità,
sollecitudine verso il prossimo, senso di responsabilità, auto-determinazione.
Questa era l’idea di America. Non radici ma boccioli, frutti non ancora maturi.
Ciò che conta è il potenziale inespresso, non il limite imposto; è il
divenire, non l’essere.
Per Needleman l’arte del
futuro, la competenza indispensabile per i tempi a venire, è il gruppo.
L’intelligenza e la benevolenza di cui abbiamo bisogno vengono solo dal gruppo,
dall’associazione di uomini e donne che cercano di lottare contro gli
impulsi dell’illusione, dell’egoismo e della paura. Si è eroi coralmente, non
singolarmente. L’eroe solitario è spesso un farabutto, un impostore.
Needleman rileva che, per i
popoli extra-europei, il concetto di pace era ben diverso da quello che abbiamo
in mente noi. La loro pace era dinamica ed includeva tutte le forze della
vita, nella natura e nell’uomo, compresa quella che chiamiamo “male”; un
concetto inclusivo, non esclusivo: lotta, sofferenza, dolore, errori e
stoltezze, passione, tenerezza, rabbia e sconfitta. Persino la guerra era
compresa nell’idea di pace, una guerra condotta in un certo modo e con certe
motivazioni. L’assolutismo pacifista era completamente estraneo alla loro mentalità
ed è un’invenzione della modernità.
La domanda a cui cercavano
una risposta era molto semplice e molto importante: come pensare e vivere
in modo tale da conformarsi alle leggi cosmiche, alla coscienza, che è la voce
dell’universo in ognuno di noi, in un mondo che dia spazio ad una relazione tra
la grandezza del cosmo e le esigenze della Terra e di ciò che vive e succede su
quest’ultima?
Il contrario di
quest’accezione di pace e giustizia, spiega il filosofo statunitense, è ciò che
divide e separa le parti della realtà e le mantiene distinte, un moralismo che
sminuisce l’interconnessione dei viventi, della vita. Ci sono cose che vanno
distrutte e persone che vanno uccise (es. psicopatici che minacciano singole
vite o intere comunità), ma non certo per plasmare il cosmo a nostro
piacimento, bensì perché il cosmo possa ricostituirsi, per suo conto. Il
giudizio di chi separa il bene dal male è quello del moralista, che è spesso
spaventato e violento. Se il mondo è caduto è per via della sua violenza
endemica, della tendenza a distruggere chi si oppone alla nostra volontà e
morale, ignorando il senso di giustizia ed una visione obiettiva della realtà.
Non è che il bene e il male non esistono, è che sono interdipendenti. È il nostro
moralismo che ci spinge a distruggere, dopo aver distinto mente e corpo,
spirito e materia, uomo e natura, vita e morte: una visione dualistica della
realtà è molto confortevole. Per i nativi americani, come per Jung, ciò che è
oggettivamente buono è la realtà nella sua interezza e ciò che è oggettivamente
cattivo è la sua frammentazione. Ciò che alla mente ordinaria appare come
opposizione, contrasto e contraddizione è un’unità trascendente, la
riconciliazione dei contrari interconnessi, la cosiddetta coincidentia
oppositorum. La vita come una relazione misteriosa ed intima tra
forze opposte. La legge è ciò che mantiene questa relazione e, nel farlo, il
dinamismo della vita. Questa è la pace, la pace assicurata dalla comprensione e
conoscenza. La giustizia discende da tale comprensione. La pace fa da
ponte tra due forze contrapposte. Il male è la forza che ostacola fatalmente
l’azione della forza riconciliativa, la discesa della colomba, lo Spirito
Santo, nella vita umana. Opporsi a ciò che è buono (es. l’intolleranza delle
diversità che non violano la legge, l’ingiustizia, la violenza contro
l’ambiente, la tortura, la guerra, ecc.) non è un peccato imperdonabile, imperdonabile
è ostruire il corso della riconciliazione tra il bene e ciò che gli si contrappone.
“Satana” deriva dall’ebraico satan, che significa l’avversario.
“Diavolo” viene dal greco diabolos, “colui che divide” e significa
l’accusatore, il diffamatore, il mentitore. Nella sua prima forma il demonio è
uno strumento divino e serve delle sacre finalità.
Per questo Gesù chiama
Pietro “Satana” ma gli ordina di mettersi dietro di lui: “va dietro a me,
Satana” (attenzione all’errata traduzione “Lungi da me, satana!” Matteo 16:23),
ossia di seguirlo come discepolo, quando Pietro dimostra di non aver capito il
senso del suo messaggio. È invece irreparabile il male di chi nega lo
Spirito Santo e la sua funzione di agente riconciliativo tra i contrari (es.
altoatesini e sudtirolesi, o bianchi e neri, ebrei e arabi, cattolici e
protestanti nell’Irlanda del Nord, ecc.) e legame tra l’umano e il divino,
ossia chi induce l’uomo a credere di essere solo un animale o una macchina.
Il cuore della democrazia è
apprezzare l’altro anche quando è un mio avversario. Si è intimamente
democratici quando si riesce a fare un passo indietro ed un passo fuori da se
stessi, dalle proprie emotività e permettere all’altro di pensare, parlare e
vivere.
La democrazia non è solo
un’istituzione esterna, non è solo una forma politica, è anche una forza
interna al nostro sé, un ideale interiore, l’espressione più alta di una
spiritualità laica, capace di coniugare pragmatismo e misticismo, materia e
spirito, esteriore ed interiore, bene e male.
Rispettare tutte le
persone, garantire a ciascuno i propri diritti e la propria voce, significa
capire cosa abbiamo tutti in comune, richiede di vedere che cosa sia un essere
umano, indipendentemente da tutte le distinzioni sessuali, razziali, etniche,
religiose, fisiche, sociali, culturali ed intellettuali. Quali siano i suoi
pregi e difetti.
Il significato più profondo
della democrazia è la comprensione delle strutture più profonde del sé umano,
dell’interiorità.
La democrazia è vitale
perché nessuno può arrivare alla verità ed alla purezza della coscienza
senza essere assistito da tante altre persone: è uno sforzo corale,
come corali sono sempre stati gli sforzi delle varie costituenti, delle persone
incaricate di redigere le carte dei diritti e gli statuti, che mai sarebbero
giunti ad un tale livello di saggezza e lungimiranza, da soli.
Il monoteismo, invece,
diffonde l’idea che ci sia una parte della natura umana che deve essere
distrutta, senza che sia possibile ricostituire l’unità fondamentale
dell’essere.
Nella dottrina della coincidentia oppositorum,
dell’interconnessione, ciò che chiamiamo male – il dolore ed il timore
insensati, brutali, crudeli, futili perché irredimibili, lo spreco di vita,
l’ingiustizia titanica, la rabbia sorda e violenta – nasce proprio dalla scelta
di escludere le forze del “male” (Jung le chiamava “ombra”) dalla nostra vita e
dalla nostra mente consapevole. Quando questo male viene isolato, cresce
fino a distruggere un bene che, innaturalmente separato, è indifeso. Da qui
nascono il razzismo, il segregazionismo, la guerra sterminatrice, la pulizia
etnica, l’olocausto.
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sabato 3 dicembre 2011
Un sentore di infinitezza - la missione di un(a) badante
Esseri luminosi noi siamo, non questa
materia grezza.
Yoda
We live our daily lives in a
constant exchange with the set of daily appearances surrounding us – often they
are very familiar, sometimes they are unexpected and new, but always they
confirm us in our lives. They do so even when they are threatening: the sight
of a house burning, for example, or a man approaching us with a knife between
his teeth, still reminds us (urgently) of our life and its importance. What we
habitually see confirms us. Yet it can happen, suddenly, unexpectedly, and most
frequently in the half-light of glimpses, that we catch sight of another
visible order which intersects with ours and has nothing to do with it. The
speed of a cinema film is 24 frames per second. God knows how many frames per
second flicker past our daily perception. But it is as if at the brief moments
I’m talking about, suddenly and disconcertingly we se between two frames. We
come upon a part of the visible which wasn’t destined for us. Perhaps it was
destined for — night-birds, reindeer, ferrets, eels, whales… Perhaps it was
destined not only for animals but for lakes, slow-growing trees, ores, carbon…
Our customary visible order is not the only one: it co-exists with other
orders. Stories of fairies, sprites, ogres were a human attempt to come to
terms with this co-existence. Hunters are continually aware of it and so can
read signs we do not see. Children feel it intuitively, because they have the
habit of hiding behind things. There they discover the interstices between
different sets of the visible.
Knock! Knock!
Who’s there?
Guess who!
Dogs, with their running legs,
sharp noses and developed memory for sounds, are the natural frontier experts
of these interstices. Their eyes, whose message often confuses us for it is
urgent and mute, are attuned both to the human order and to other visible
orders. Perhaps this is why, on so many occasions and for different reasons, we
train dogs as guides.
Probably it was a dog who led
Sammallahti to the moment and place for taking of each picture. In each one the
human order, still in sight, is nevertheless no longer central and is slipping
away. The interstices are open.
John Berger, “The shape of a
pocket”, New York: Vintage: 2001, pp. 4-5 [Sacche di resistenza, Varese:
Giano, 2003]
Per Simone Weil l’impersonalità
rappresenta ciò che vi è di sacro negli esseri umani. È la trascendenza dell’Io
e prima ancora del Noi, giacché l’idolatria del collettivo, osserva la stessa
Weil, frustra ogni tentativo di raggiungere l’impersonalità. Subordinato al
collettivo – come era consuetudine nell’antichità – l’individuo si vede
decurtato di una parte importante dei suoi diritti naturali, assieme alla
possibilità di essere separato, fisicamente e mentalmente, anche da sé stesso.
Il Noi e l’Ego sono ostacoli lungo la via che conduce a questa condizione di
impersonalità, o vero Io, che qualcuno chiamerebbe “coscienza cosmica” e che è
una forma di disincarnazione dell’anima (“decreazione” la chiama Weil). Chi
scopre dentro di sé questa trascendenza inframondana ama nel modo in cui lo
smeraldo è verde, cioè non ne può fare a meno, si emancipa finalmente e
definitivamente da quelle istituzioni ed ideologie che promettono una
pseudo-immortalità alla propria identità sociale. Inoltre, a differenza di
molti gnostici, sente il dovere di salvaguardare la possibilità che anche altri
vi possano attingere e di tutelare e valorizzare la dignità di tutti gli esseri
umani e del mondo circostante. L’essere umano decreato, impersonale è, per
citare il Walt Whitman di Foglie d’Erba, “Dentro e fuori del gioco,
osservandolo e meravigliandosi”, non ricerca certezze assolute ma
esperienze, il midollo della vita, “per non scoprire in punto di morte di
non essere mai vissuto...” (H.D. Thoreau). La mente dell’umano impersonale
non si chiude di fronte all’ignoto, all’imprevisto, all’insolito, ma lo brama,
perché quello è il combustibile della sua creatività.
“Dentro l’uomo c’è l’anima
del tutto”, dichiara Emerson. Nessuna personalità contingente e localizzata
può contenere l’oceano interiore della coscienza, l’eterno, sublime ed infinito
elemento umano. La coscienza aspira a risolversi in una rete di relazioni
intersoggettive nella loro forma più alta e nobile, cioè quella di una
relazione tra coscienze impersonali, cosmopolite ed interconnesse: “né
giudeo, né greco” diceva Paolo di Tarso.
L’individualità democratica
anti-conformista predicata dal liberalismo rappresenta solo il primo passo
verso l’impersonalità universale, ed è un progetto in corso d’opera, che non è
purtroppo quasi mai completato in vita, per ignoranza e per timore. Gli
antipodi della coscienza, l’infinito oceano interiore, per la quasi totalità
degli esseri umani rimane un miraggio, un territorio vergine. Dogmi,
convenzioni, consuetudini e l’ossessione materialista ci sbarrano la strada, ci
impediscono di riconoscere la straordinarietà altrui e nostra. “Ciascuno deve
assumersi la responsabilità di se stesso – il proprio sé deve diventare un
progetto, dobbiamo diventare gli architetti della nostra anima. La nostra
dignità risiede nell’essere, in larga misura, la persona che abbiamo scelto di
essere, una creazione piuttosto che una creatura o un manufatto socialmente
prodotto e determinato” (Kateb, 1984, p. 343). Poi subentra la presa di
coscienza della propria natura universale, impersonale appunto, e la
disidentificazione, l’acquisizione di una sconfinata molteplicità di identità. Gradualmente,
la cura del sé si estende al prossimo ed all’ambiente, per poi prendere la
forma della cura del cosmo. È una responsabilizzazione solenne che
annienta la vacuità disumana del burocrate à la Eichmann o dell’edonista
à la Christian Troy (della serie Nip/Tuck), cioè la funesta
disconnessione dalla realtà, intorpidimento morale, assopimento dell’empatia,
prioritarizzazione delle regole e degli interessi rispetto agli esseri umani,
anticamera della violenza genocida (Hatzfeld, 2003).
L’impersonalità è, al
contrario, una condizione di trascendenza della socialità e dell’ego (lo jiva
del Vedanta) che pone al centro la sensibilità e la disponibilità del sé (l’atman
del Vedanta), poroso, fluido, illimitatamente espandibile, incurante della
distinzione tra particolare e generale. È, per i trascendentalisti nordamericani
e per George Kateb, uno dei più raffinati filosofi politici dei nostri giorni,
la condizione necessaria al sorgere di una vera antropologia dell’individualità,
che consideri quest’ultima come preziosa perché insostituibile, e di una vera
democrazia dell’interconnessione tra soggetti-cittadini dalle potenzialità
largamente inesplorate (la cosiddetta “mutualità tra sconosciuti”).
Antropologia e democrazia, l’umanità
possibile, trovano la loro realizzazione finale solo in essa, in questo oceano
di potenzialità ancora ignote. Quello che in genere rimane celato ai nostri
occhi per via della cristallizzazione delle differenze, delle divisioni e
barriere tra gli esseri umani, ossia le varie interfacce con le quali ci
relazioniamo verso l’esterno e che tendiamo a feticizzare o idolatrare. Una
cristallizzazione (il velo di Maya) che maschera l’eterno mutare della
molteplicità del mondo, l’indeterminatezza della vita, ma anche l’unitarietà
del suo senso ultimo. Un velo che ci impedisce di comprendere che l’autodeterminazione
è la via maestra per rendersi disponibili al prossimo, consci della sua dignità
e valore, aperti al nuovo ed all’imprevedibile, a quell’azzardo che è la vita.
Le azioni e le parole delle persone che non subiscono abusi, non affrontano un degrado
morale e sociale permanente e sono esposte all’influenza della tensione
spirituale, cioè quelle persone che si possono permettere di coltivare l’autostima,
il rispetto di sé, il senso della misura e, come vedremo, il senso dell’impersonalità
o trascendenza, dimostrano che può esistere un mondo migliore. Un mondo in cui
tutti quanti meritiamo di vivere. Un mondo che renda possibile l’autocompimento
espressivo ed esistenziale per ognuno di noi, lo stesso auspicato dalla
filosofa tedesca Edith Stein, che invitava ad attualizzare il proprio
potenziale per una vita più intensa, di inesauribile pienezza umana, di
infinitezza, di trascendenza della materialità. Il mondo che aveva ammirato Etty
Hillesum rivolgendosi alla sua interiorità, prestando orecchio (hineinhorchen)
a quel che diceva il suo daimon. Un mondo in cui si riesca a guardare
all’altro con occhio benevolo, apprezzandolo e dedicandovi sollecitudine ed
attenzione più di quanto l’altro riesca a fare nei confronti di se stesso,
senza classificarlo, ridurlo in categorie, asservirlo ad un destino
predeterminato o, peggio ancora, renderlo invisibile, irrilevante, inferiore,
spregevole (Kateb, 1989; 1992). Un mondo che pretende onestà,
trasparenza e genuina autenticità. Non l’autenticità del sangue e del suolo,
quella che dissolve l’io in un noi irresponsabile, infantile, barbaro, idolatra
ed onnipotente, strumento del potere pastorale denunciato da Foucault, argilla
nelle mani di leader narcisisti ed incontinenti nelle loro ambizioni e pretese
di riconoscimento pubblico. Quei leader timorosi della vita perché bisognosi di
ordine, di controllo, di potenza, di autorità, e perciò inclini al cannibalismo
degli altri, in senso naturalmente figurato.
È l’autenticità della voce
interiore che conta, quella della propria natura, che assicura l’integrità
personale anche nell’impersonalità, che contrasta la necrofilia, l’amore per ciò
che non è vivo, per la disgregazione, lo smembramento, la parcellizzazione, l’atomizzazione
degli esseri umani. Le contrasta in nome di eros, l’attrazione per il
vivente, per l’integrazione e l’unione, ossia per il divino che è nell’umano e
che è nella natura e nell’universo (Fromm, 1984; Mancuso, 2008).
Perciò l’impersonalità – la
conciliazione di unità e molteplicità – è, in modo apparentemente paradossale,
il nostro essere più autentico. Come giustificare questa posizione ontologica
che ha messo a dura prova la filosofia occidentale per l’intera sua storia? Non
lo posso certo fare chiamando in causa un destino cosmico comune che mi è stato
disvelato e contando sulla fiducia dei lettori, che in questo caso sarebbe
malriposta. Mi appellerò quindi al buon senso: se i migliori tra noi,
esemplari della nostra specie che sono universalmente riconosciuti come maestri
di vita, talvolta indipendentemente l’uno dall’altra, hanno creduto di
individuare nell’impersonalità la ragion d’essere dell’umanità ed il fine
ultimo del processo di maturazione morale della nostra specie, allora dovevano
avere delle buone ragioni per farlo.
I maestri di vita e di
pensiero in questione sono, tra gli altri, Plotino, Meister Eckart, Jakob Böhme,
William Blake, Simone Weil, Etty Hillesum, Jiddu Krishnamurti, Sri Ramakrishna
Paramahamsa, San Francesco d’Assisi, Ibn Arabi, Ralph Waldo Emerson, Walt
Whitman, Carl Gustav Jung, Paolo di Tarso, Siddhārtha Gautama, il pioniere
austriaco della meccanica quantistica Erwin Schrödinger, Johann Wolfgang von
Goethe, Kahill Gibran, Lao Tzu, Jorge Luis Borges, Empedocle, Socrate,
Maometto, Spinoza e Gesù di Nazareth. Quel che li accomuna è, appunto, la
sensazione oceanica, cioè un sentimento di espansione compassionevole dei
confini del sé fino ad abbracciare l’intera umanità e l’universo materiale, l’oceano
come simbolo dell’abbattimento di ogni barriera – del Noi, dell’Io, della
specie – e dell’unità nella molteplicità, della coincidentia oppositorum.
Non stiamo parlando della
dissoluzione dell’io nel tutto della razza ariana o del popolo fascista, il cui
indiscutibile carattere trascendente ha ipnotizzato milioni di persone in
passato ma che in realtà è antitetica rispetto ad una genuina sensazione
oceanica. Stiamo piuttosto parlando di una facoltà latente nella specie
umana, che si esplicita in un’empatia profonda ed inclusiva e nella
certezza interiore dell’interconnessione di ogni cosa, dell’illusorietà delle
separazioni, della presenza dell’origine della creazione (Tao, o Dio) in ogni
istante, in ogni atomo, in ogni luogo, in ciascuno di noi, oltre che del
fondamentale contributo di ognuno al Libro della Vita. ”Ero tutto, o
piuttosto tutto era in me, inanimato ed animato, le montagne, il verme, e tutte
le cose che respirano” (Krishnamurti). “Più di una volta mi è capitato
di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel
profondo del mio io. In quelle occasioni godevo della visione di una bellezza
tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di
fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma
di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio”
(Plotino, Enneadi IV, 8, 1). “Nell’istante della visione non c’è nulla
che si possa chiamare gratitudine, né propriamente gioia. L’anima sollevata al
di sopra della passione, contempla l’identità e la causa eterna, percepisce l’esistenza
indipendente della Verità e dell’Esattezza, e si rasserena nella consapevolezza
che tutto procede per il meglio” (Emerson, “Self-Reliance”).
Sigmund Freud rimase
affascinato dall’estasi auto-trascendente e, non avendola esperita in prima
personala investigò nella sua corrispondenza con Romaine Rolland, il quale si
diceva convinto che questa esperienza avesse coinvolto milioni di persone nella
storia, pur con diverse sfumature e gradi di intensità, quasi sempre
inconsapevoli della natura del fenomeno (Parsons, 1999). Sulla base di quanto
appreso dall’amico Rolland, Freud la descrive come “un sentimento di
indissolubile legame, di immedesimazione con la totalità del mondo esterno”
(Freud, 2003, p. 197).
Plotino avrebbe detto che l’anima,
attraverso Amore, si universalizza in un flusso di intuizione che la trasfonde
dalla dimensione del parziale, del particolare e del diviso, alla dimensione
della totalità indivisa e della verità, della contemplazione anti-narcisistica
della propria bellezza come immagine della Bellezza. A partire da questo
risveglio, dopo il riconoscimento della propria identità col cosmo e col
divino, la persona (o per meglio dire l’anima, lo sfarfallante “fascio di
coscienza”, l’Aleph di Borges) irradierà di consapevolezza chi la incontra.
Etty Hillesum se n’era accorta
ben presto, notando che la forza elementare che aveva scoperto al centro di se
stessa si irradiava attorno a lei (Hillesum, 2008). Mircea Eliade chiamava
questa corrispondenza diretta tra macrocosmo e microcosmo macrantropia.
L’enfasi sull’unità della diversità, cioè sulla convinzione che la diversità
era solo l’espressione di una superiore unità, quella della Persona Cosmica, è
molto antica, e risale forse all’età del Bronzo, anche se trova una
formulazione più articolata solo nelle Upanisad e nel Timeo platonico
(McEvilley, 2002). L’osservazione di Vito Mancuso (2007) che il cosmo è
votato alla relazione, “dalle particelle subatomiche fino alla punta dell’anima”
e che “io sono anche il mondo: io, micro-cosmo, sono uguale al mondo,
macro-cosmo, nel senso che la logica che governa entrambi è la medesima”
sarebbe giudicata senz’altro corretta all’interno di quest’ottica. Per Hillesum
la diluizione dell’io nell’infinito universale consente di sviluppare una
coscienza cosmica che rende la vita più piena, abbondante e meravigliosa, anche
nei suoi aspetti apparentemente tragici (Tommasi, 2002). Per il Walt Whitman di
“Prospettive democratiche”, l’unica giustificazione adeguata della democrazia “risiede
nel futuro, essenzialmente nell’abbondante produzione di indoli perfette tra la
gente e nell’avvento di una sana e diffusa religiosità”. Per il poeta e
scrittore statunitense il merito della democrazia è stato quello di liberare le
persone dai vincoli delle convenzioni tradizionali e di gettare le basi per l’edificazione
di “torreggianti personalità…in possesso della nozione di infinito” e in
grado di comprendere che una vita morale degna di questo nome è quella che fa
riferimento “all’immortale, all’ignoto, allo spirituale, a ciò che è
permanentemente reale, ciò che, come l’oceano attende ed accoglie i fiumi,
aspetta ciascuno di noi”. Il valore della persona è perciò direttamente
legato al potenziale, innato in ogni essere umano, di ergersi al livello dell’individualità
impersonale, che Emerson chiama Superanima (Oversoul), della quale noi siamo
solo catalizzatori e vettori.
Vivere nella pienezza dell’Essere,
per i Trascendentalisti americani come per i mistici di tutto il mondo,
significa affidarsi ai propri impulsi fondamentali, all’istinto più
profondo, quello del Bene, quello dell’imperativo categorico kantiano, che
reprimiamo quando prestiamo ascolto alle sirene della materialità e dei
determinismi. Quando rinserriamo noi stessi e gli altri nella falsa
sicurezza di un passato e di un futuro già determinati, di un ambiente e di un
orizzonte costretti e divisi, ci e li priviamo della possibilità di dare libero
sfogo alla naturale tensione verso la libertà più piena e di comprendere che
ogni persona ed ogni cosa è solo una particolare inflessione dell’universale,
nel presente. “Queste rose sotto la mia finestra non rimandano a rose
precedenti o migliori; sono ciò che sono; esistono assieme a Dio nell’oggi. Il
tempo non esiste per loro. Vi è semplicemente la rosa: perfetta in ogni
momento del suo esistere. Prima che un solo bocciolo si sia dischiuso,
la sua intera vita è già in atto; nel fiore pienamente sbocciato non ve n’è di
più; nella spoglia radice non ve n’è di meno. La sua natura è soddisfatta ed
essa soddisfa la natura, in ogni momento, in egual misura. L’uomo invece
pospone o ricorda; non vive nel presente, ma con un occhio rivolto alle spalle
rimpiange il passato, oppure, incurante delle ricchezze che lo circondano, si
solleva sulle punte dei piedi per prendere visionare il futuro. Non potrà
essere felice e forte finché non vivrà anche lui con la natura nel presente, al
di sopra del tempo” (Emerson, “Self-Reliance”). Questo comporta anche che un
elevato livello di educazione non è di per sé indice di saggezza. Anzi, lo zelo
con il quale si dedicano ad una specifica direzione del sapere in qualche modo
li ostacola. Tant’è che “dobbiamo molte preziose osservazioni a persone
che non sono particolarmente perspicaci o profonde, ma che dicono con grande
naturalezza quel che volevamo ed eravamo andati invano in cerca per lungo tempo”
(Emerson, “The Over-Soul”). Nell’abbandono alla comune ed eterna natura che
scorre interiormente, gli esseri umani si de-individualizzano, affinano l’intelletto
e distillano i significati apparentemente più reconditi, e pensano, kantianamente,
il particolare come contenuto dell'universale. La trama della loro esistenza
non si dipana più disordinatamente e discontinuamente, ma nell’armonia della
divina unità, nella resistenza alle pressioni conformiste ed alla superficialità
dell’io quotidiano.
Ma come possiamo essere certi
che la voce della nostra coscienza sia giusta e buona? O, per meglio dire, come
si distingue tra la voce di ego e la voce della coscienza? In fondo gli
sterminatori degli Einsatzgruppen erano persone comuni, che credevano di
difendere la patria, la famiglia, la Cristianità (Browning, 2004). Non era
anche quella la voce della coscienza? Lo stesso Hitler dichiarava di
condurre la sua esistenza sulla base di intuizioni e dettami provenienti
direttamente da Dio e quindi di non poter minimamente ritenere di essere in
errore: “E se anche lo fossi, so di aver agito in buona fede” (Hitler,
1941). Riteneva di essere un “Unto del Signore”, emissario di Dio in terra,
chiamato a redimere il mondo. La visione emersoniana non può escludere questo
tipo di interpretazioni. Emerson stesso non era sempre benevolo nei confronti
del “popolo bue” che non sentiva la necessità di riscattarsi spiritualmente,
pur avendone i mezzi, e che accettava “cristianamente” l’esistenza dell’istituzione
schiavista.
Io penso che la risposta possa
essere trovata nella sostanziale univocità delle voci dei maestri di
impersonalità, illustri esponenti dell’antropologia perenne, che trova un’eco
importante nelle spiegazioni fornite dai Giusti tra le Nazioni a chi li
intervistava per capire perché avessero rischiato la loro vita e quella dei
propri cari per aiutare dei perfetti sconosciuti quando sarebbe stato più
semplice pensare agli affari propri. Non furono molti, ma non furono neppure
pochi, forse uno su mille tra chi viveva nell’Europa occupata dai nazisti:
Abraham Maslow (1908-1970),
uno dei maggiori psicologi del secolo scorso, ha studiato clinicamente questo
fenomeno.
A differenza di Freud, e sulla
scia di Wiliam James, lo psicologo statunitense comprese che questo tipo di
esperienze non erano di carattere patologico ma, al contrario, rappresentavano
i picchi della creatività umana, i record olimpici della coscienza, da
additare ad esempio per il resto dell’umanità, in modo che tutti potessero
trovare una maniera per esprimere il loro intero potenziale
(auto-attualizzazione). Era convinzione di Maslow che una buona parte dei
comportamenti devianti che danneggiavano la società fossero causati dalla
privazione di mezzi di sostentamento (livello dei bisogni fisiologici), della
sensazione di sicurezza (livello della stabilità sociale), dell’affettività e
dell’amore (livello dei bisogni affettivi), dello status e dell’amore proprio
(livello dell'autostima e del rispetto) e, infine, degli strumenti necessari
alla realizzazione personale. In questa prospettiva la soddisfazione dei bisogni
primari conduce a maggiori aspettative nei confronti di quelli superiori e così
via fino al quinto livello. La relativa insoddisfazione è il motore che ci
spinge a chiedere sempre di più da noi stessi. E non c'è nulla di male in
questo, sosteneva Maslow, che soleva dire ai suoi studenti che decidere di non
diventare quel che si potrebbe essere li avrebbe resi infelici per il resto
della loro vita. Il segreto era essere realisti ma puntare in alto: “Quel che
un uomo può essere, lo deve essere” (Maslow, 1954, p. 91). Su, fino alle
esperienze-picco, i momenti di intensa felicità, beatitudine, illuminazione,
contemplazione, estasi. Queste non erano riservate a pochi fortunati ma erano
invece nelle corde di ognuno. Ogni qual volta una persona procedeva lungo la
strada dell’eccellenza personale, o si muoveva liberamente verso una condizione
ideale di giustizia e virtù, era più probabile che si producesse un’esperienza-picco.
Si tratta di una forma avanzata di percezione della realtà, quando il mondo e l’umanità
appaiono come fondamentalmente buoni, giusti, onesti, completi, semplici ed
intensamente vivi. In molti casi la descrizione dell’esperienza non era troppo
dissimile da quella delle estasi mistiche e, in seguito a questo tipo di
esperienza, proprio come i mistici, molte persone sentivano un intenso,
incondizionato, compassionevole, sconfinato amore per il mondo e per il
prossimo, scoprivano in se stessi la capacità di accettare con ironico distacco
la realtà terrena ed infine avvertivano la necessità di fare qualcosa per gli
altri come forma di compensazione per il dono che avevano ricevuto.
Secondo Maslow gli attributi
tipici delle persone psicologicamente e mentalmente auto-attualizzate sono: una
più sofisticata percezione della realtà ed una modalità di interazione con essa
più costruttiva della media, maggiormente tollerante di ambiguità ed
incertezze; una minor sensibilità e vulnerabilità ai sensi di colpa e di
vergogna ed all’ansia: sono più spontanei, meno condizionati dai giudizi della
gente, più disponibili ad ammettere i propri difetti e a comprendere ed
accettare quelli altrui; la relativa assenza di egocentrismo e la disponibilità
verso gli altri; l’autonomia e la cura della propria sfera privata: sono meno
dipendenti dall’incoraggiamento delle altre persone, più selettivi nelle
amicizie, più innovativi e più resistenti alla pressione sociale; la capacità
di sorprendersi e di assaporare la quotidianità; la tendenza ad identificarsi
con l’intera umanità, pur rimanendo realisticamente consapevoli dei limiti
oggettivi della specie; un carattere profondamente democratico, che ignora
barriere sociali e culturali; la preferenza per circoli ristretti di intimi con
i quali coltivare rapporti più profondi.
Credo che questa sia anche una
descrizione piuttosto soddisfacente della personalità dei Giusti e dell’ethos
ideale dei badanti e delle badanti. Anche Jung (1959) aveva stilato una lista
di tratti ammirevoli di quelle che definiva “persone individuate”. Vediamoli
nel dettaglio: vivono la loro vita senza preoccuparsi troppo di conformarsi
alle aspettative degli altri e della società; cercano un punto di equilibrio
tra l’autenticità e l’adesione a gruppi ed associazioni; sono tendenzialmente
solitari ma non reclusi; sono generalmente più tolleranti, profondi,
responsabili e comprensivi della media; si aprono agli altri perché non temono
di perdere il controllo di se stessi; non sono egocentrici né particolarmente
eccentrici, accettano i propri obblighi senza farne un dramma.
Anche qui noto una certa
corrispondenza con gli attributi tipici della coscienza transpersonale dei
soccorritori di Ebrei durante l’Olocausto. Proprio come i Giusti, queste
persone rifiutano ruoli e distinzioni rigide. Come i mistici, le loro
esperienze sono all’insegna della privatezza, dell’impersonalità e dell’universalità.
Maslow potè trarre un’unica conclusione: “È sempre più evidente che questo
fenomeno è una versione, più blanda, più laica e più ordinaria dell’esperienza
mistica che è stata descritta così spesso da diventare quella che Huxley ha
chiamato la Filosofia Perenne. In culture ed epoche diverse assume colorazioni
differenti, eppure la sua essenza è sempre riconoscibile, è la stessa” (Maslow
1973, p. 64).
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