sabato 31 dicembre 2011

Auspici per il 2012...ed il 2013...ed il 2014 e oltre...




I decreti del destino guidano chi è consenziente, e trascinano chi non lo è
Seneca

Che giova a un uomo guadagnare tutto il mondo se perde l’anima sua?
Marco, 8:36

Per cosa è nato l’uomo se non per essere un riformatore, un rimodellatore di ciò che è stato fatto; un rinunciatore delle menzogne; un restauratore della verità e del bene, ad imitazione della grande natura che ci stringe tutti al suo petto, e che mai si assopisce su passato remoto, ma si ripara in ogni istante, offrendoci ogni mattino un nuovo giorno, e con ogni pulsazione una nuova vita?
R.W. Emerson

Pensiamo troppo alla farina, parliamo troppo di farina, scambiamo troppi buoni per la farina, il burro, la carne e il formaggio invece di libri e pensieri. La farina è la nostra unica preoccupazione. Dal tanto guardare farina non riusciamo nemmeno più a vedere che ben altre cose si fanno sempre più rare e razionate, come il diritto, la dignità, il parlare libero. Scordiamoci della farina, di tanto in tanto! Per lo meno della nostra, di farina, e pensiamo un po’ di più a quelli che ne hanno meno o non ne hanno del tutto.
Emmy Moor, lettrice del Berner Tagwacht, 22 aprile 1943

Una regione europea alpina non ha bisogno di ancorarsi ad “un’origine etnica, linguistica e culturale comune a tutti i cittadini”: invece il contratto politico tra le genti alpine si dovrebbe basare su un progetto di tutela del patrimonio comune (le Alpi), definendo strumenti comuni, valorizzando le diverse tradizioni. La regione europea alpina sarebbe espressione di una cultura politica da spirito europeo e federalista, che pone in primo piano la persona, i suoi diritti, la sua capacità di influenzare le decisioni, valorizzando le identità complesse e non il criterio dell’omogeneità etnica
Bruno Luverà, I confini dell’odio. Il nazionalismo etnico e la nuova destra europea, 1999


Lo storico altoatesino Claudio Nolet, che cura la pubblicazione della rivista «Il Cristallo», ha chiesto a me e a Mauro Fattor di immaginare cosa il futuro possa avere in serbo per l’Alto Adige. Alla sua domanda, che fa riferimento al libro “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso” (Raetia, 2010), segue la mia risposta.

“Nella seconda parte Fait svolge il tema che gli sta più a cuore, quello dell’affermazione della libertà della persona rispetto a modelli precostituiti e a norme fissate dalla collettività. È una posizione forte che ci fa chiedere se dalla sua analisi dei miti etnici non risulti che contro di essi non ci sia altra possibilità di riscatto se non con un atto di conversione radicale. Non c’è anche la via di una graduale correzione di abiti mentali generati dall’influenza dominante dell’ambiente?”

La mia risposta è che esistono molti futuri possibili, una situazione analoga alla premessa di “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, di Jorge Luis Borges. Molto dipende dal numero di residenti in Alto Adige che risponderebbero affermativamente alla domanda: “ci sono persone in Alto Adige così ignoranti, faziose e poco lucide che sarebbe meglio privarle della libertà d’espressione e del diritto di voto, almeno localmente?”.
Molti intervistati non risponderebbero sinceramente, quindi non sapremmo mai l’incidenza effettiva di questa mentalità autoritaria. Quel che sappiamo con certezza, invece, è che contrapporre un gruppo all’altro serve unicamente ad ostacolare la maturazione della società civile e quindi a giustificare misure paternalistiche e tecnocratiche da parte delle autorità nei confronti dei cittadini. Dal che ne consegue che il cambiamento non proverrà dall’alto. La storiografia lo conferma: chi detiene il potere non ama il cambiamento, a meno che questo non serva a rafforzarne la posizione. Perciò la conversione, graduale o subitanea che sia, deve cominciare dal basso, dalla gente comune.
Nei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni commentava la difficoltà con la quale pochi riuscivano ad esternare il proprio scetticismo in merito alla reale esistenza degli untori con una frase davvero molto bella: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune” (cf. cap. XXXII). Il potere repressivo della tradizione (il senso comune) sulla voce della nostra coscienza (il buon senso) è quello che, finora ci ha impedito, non solo in Alto Adige, di farci un’idea chiara di come dovremmo stare al mondo. Anche da questo dipende il successo delle riforme auspicate, che sono riforme delle coscienza e, in quanto tali, si avviano solo quando i tempi sono maturi.
Lo sono, in Alto Adige, questi tempi? No.
E quando lo saranno? Credo molto prima di quanto ci si potrebbe aspettare. Il malessere che attraversa il mondo intero lascia intendere che non ci sarà gradualismo, anche se quella sarebbe la via più auspicabile. Ci sarà una cesura, un prima e un dopo. Tutto sta nel capire come ci si arriverà. 

Grandi pensatori si sono succeduti nella storia ripetendo sostanzialmente due verità, rimaste per lo più inascoltate, che ci sarebbero di grande aiuto: “fate agli altri ciò che desiderano sia fatto loro” ed “a ciascuno il suo”, o per meglio dire “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Quest’ultima è una norma di condotta che non si trova solo in Marx ma anche nel Nuovo Testamento, nella forma: “Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (Atti degli apostoli 4, 34-35).
Sono verità facili da memorizzare ma difficili da mettere in pratica per degli esseri viventi così egotisti quali noi siamo. Se li avessimo ascoltati, non ci troveremmo alla mercé delle multinazionali, dei guerrafondai, dei populisti, dei settarismi più disparati (i famosi golem di cui sopra). Se li avessimo ascoltati, avremmo capito che la vita migliore è una vita sobria e che questa civiltà dei bisogni indotti e della loro complicazione e proliferazione ci sta portando alla rovina.
Avremmo anche capito che chi si avvinghia ad un paradigma obsoleto quando questo si sta estinguendo, finirà con esso nell’abisso. Sono convinto che quel momento stia sopraggiungendo – a causa della crisi del capitalismo e della crisi climatica, che avrà effetti imprevedibili e presumibilmente agghiaccianti, nel senso letterale del termine – e che molti rimarranno sorpresi di quanto fragili siano i presupposti, così superficiali ed esteriori, su cui si fondano le nostre società “avanzate”, incluso l’Alto Adige. 
“Contro i Miti Etnici” (CME) è nato anche per offrire una visione alternativa, recuperando quella che ha ispirato le migliori forze riformatrici del passato, l’idea di un luogo in cui uomini e donne godono della piena libertà di cercare la verità e di coltivare la loro vita interiore. Dove ci si riunisce e si lavora assieme per il Bene Comune, quello degli esseri umani e quello della natura.
Era questo lo spirito con cui fu fondata l’America e molti sionisti credevano in un Israele molto simile a questo “luogo dell’anima”. Credo che Alexander Langer fosse sostanzialmente in linea con questo tipo di aspirazioni. Oggi, purtroppo, Israele e Stati Uniti paiono avviati a convertirsi nell’antitesi di queste visioni nobili del destino umano. Il nostro compito dovrebbe essere quello di impedire che ciò accada all’Alto Adige.
Ma, per avere successo, dobbiamo sforzarci di far capire a quante più persone è possibile che è giunto il tempo di lasciar andare la presa, di togliersi dall’ombra dei golem, di allontanarsi, ciascuno nei suoi modi e nei suoi tempi, dai paradigmi che erano validi prima ma che ora rischiano di trascinarci a fondo. È tempo di procedere oltre. “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato” (1 Corinzi 13: 11).
In queste fasi di grandi sommovimenti, di insicurezza, di trepidazione, di enormi sfide, è facile irrigidirsi, tornare sui propri passi, verso il bordo della vasca, verso la riva. Ma è importante insistere, perché molti di noi sanno già nuotare e non devono disperare solo perché tanti altri – quelli che indossano un’armatura di maiuscole totemiche: Disciplina, Tradizione, Patria, Dovere, Natura, ecc. – vogliono convincerci che se gli esseri umani fossero fatti per stare in acqua, avrebbero branchie e pinne.
Per il momento, finché non giungerà il tempo della Grande Cesura, sarà necessario fare buon viso a cattivo gioco e conformarsi alle sue regole, ma nella consapevolezza che quel gioco e quelle regole sono sorpassate – “al tempo stesso dentro e fuori dal gioco, osservandolo e meravigliandosene”, diceva Walt Whitman. Nella consapevolezza che chi si oppone al cambiamento apparterrà al passato e chi invece si lascia sospingere dall’onda del cambiamento apparterrà al futuro, sarà il futuro
Mi rendo conto che sposare una causa che richiede una vera e propria apocalisse della mente non sia semplice, ma i fisici hanno pur dovuto ammettere che il modello newtoniano di un universo meccanico, gerarchico e perfettamente ordinato era una descrizione inadeguata della realtà. Anche noi arriveremo ad accettare il fatto che i golem non hanno mai avuto alcuna esistenza reale, ma erano il parto delle nostre fantasie, delle ombre, dei riflessi, degli idoli di burro che si sciolgono al sole dei fatti, dei parassiti che s’impiantano nella nostra coscienza per poi dirle cosa fare solo a patto che li riconosciamo come nostri signori e padroni: sono qualunque cosa, ma non la realtà.
Capiremo che venerare i golem esige da noi la negazione di quasi tutto ciò che occorre per preservare il nostro equilibrio psichico e la nostra integrità morale ed intellettuale e per indurci alla sottomissione, alla negazione di sé, alla contrizione, all’espiazione, alla docilità, all’umiltà interessata – virtù utili solo a chi cerca di sopprimere il libero arbitrio e la dignità altrui e propria.
Capiremo che credere nella dignità umana significa cercare di sviluppare le proprie potenzialità invece di lasciarle latenti; resistere alla tentazione di imitare gli altri o conformarsi in modo irriflessivo alle usanze, mode e mentalità prevalenti; resistere alla tentazione di fingere di essere ciò che non si è, di recitare una parte per gli altri e per se stesso; e, più importante di tutto il resto, significa attribuire ad ogni singola persona questo pensiero: “ho una vita da vivere, è la mia vita e quella di nessun altro, è la mia unica vita, fatemela vivere. Esisto e nessuno può prendere il mio posto, perché non sono stato programmato per essere ciò che sono diventato” (Kateb, 2011).
Allora saremo anche pronti ad accettare l’idea che il principio fondante delle nostre società sono i diritti, non la democrazia, perché una democrazia che non sia costituzionale (una democrazia plebiscitaria, del tipo che è tanto in voga nelle Alpi) non è più tale: il costituzionalismo limita i capricci della sovranità popolare. I diritti esistono indipendentemente dalla nostra volontà, non scaturiscono dalla volontà popolare. Nessuna maggioranza referendaria li può abolire, anche se fosse un singolo diritto di una singola persona che non se ne curasse più di tanto. Statuti, convenzioni e carte costituzionali non li rendono possibili, li riconoscono, perché non sono stati inventati, sono sempre esistiti. Sono verità di per sé evidenti, evidenti per chi abbia una sufficiente conoscenza, coscienza e sensibilità (Kateb, 2011).
Dopo di che saremo pronti a disfarci della pulizia etnica concettuale attraverso la quale cancelliamo l’altro dalla nostra coscienza, rifiutandoci di riconoscere che il diritto di noi tutti di esistere implica anche l’obbligo di comportarci con decenza l’uno verso l’altro; e che se la mappa non è il territorio, ossia se la nostra mappatura della realtà è soggettiva, solo uno stolto si rifiuterebbe di consultare le mappe altrui, magari persino vietandole. La censura ed il paternalismo sono garanti della menzogna e dell’impostura, annunciatori di sventura.
In Alto Adige ciò renderà possibile il superamento di un sistema che è nemico della dignità umana ed in contraddizione con i diritti umani e che è stato tenuto in vita da chi ha continuato a credere che fosse possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, che si potessero trattare i cittadini da bambini, anche quando sono già adulti.

L'Italia trema - la classe media vuole giustizia




Lettere come questa vanificano tutte le chiacchiere su salvataggi, crescita e senso di responsabilità di scaltri "tecnici" neoliberisti e politicanti più o meno consci di quello che stanno facendo.

“Insegnante io e insegnante lei, scuola pubblica: 3200 euro netti al mese; classe media che, tra mutui per la casa, finanziarie per acquisti a lungo termine, auto per andare al lavoro, spese e varie, riesce a vivere degnamente... Abbiamo vissuto un quindicennio di conquiste, di grandi trasformazioni, di rivoluzioni produttive. Ma, da qualche tempo, è arrivata la crisi e, in quanto classe media, dobbiamo pagarne il costo. E va bene. Ma quante volte dobbiamo pagarla questa crisi?
1) Da due anni abbiamo gli stipendi fermi;
2) I contratti non saranno rinnovati;
3) Gli arretrati sullo stipendio non verranno riscossi;
4) Gli scatti di anzianità e gli adeguamenti sono bloccati e lo saranno fino al 2014 o chissà;
5) L'aliquota IVA è già andata al 21%;
6) La casa grande che con sacrifici abbiamo realizzato sarà tassata;
7) Facciamo 30mila chilometri all'anno per andare al lavoro e la benzina non è acqua;
8) Addizionali comunali;
9) Addizionali regionali;
10) Il lordo del reddito non ci dà diritto ad alcuna prestazione sanitaria;
11) L'ulteriore aumento dell'Iva farà impennare i prezzi e il nostro potere d'acquisto si rosicchierà ancora di più;
12) Andremo in pensione a circa 68 anni godendo di circa il 60% dell'ultima retribuzione (e noi siamo fortunati)

È giusto contribuire alle spese dello Stato in base al principio della capacità contributiva così come previsto dalla Costituzione; è giusto fasi carico nei periodi di recessione o di difficoltà, ma la capacità di carico dei lavoratori ai quali viene detratto tutto in busta è ormai al limite. 
La classe media si sta impoverendo e sta iniziando a contrarre in maniera vistosa i propri consumi; fino a qualche tempo fa la quota non consumata diventava precauzione e risparmio; oggi la consapevolezza di non potere fare quello che si faceva un po' di tempo fa è ormai certezza.
Continuiamo a vivere degnamente, ma diventiamo ogni giorno più poveri, dopo vent'anni di lavoro ci sentiamo seriamente precari..."

Massimo Marzano, lettera a Repubblica, 30 dicembre 2011

Per capire cosa stia succedendo alla classe media:


venerdì 30 dicembre 2011

Arundhati Roy e i gattoni tracotanti




Vorrei capire perché abbiamo fallito; perché, dopo tutti gli scioperi della fame e le iniziative legali, la resistenza nonviolenta è stata repressa con una brutalità pari a quella usata contro la lotta armata. Ci siamo fidati troppo dello stato di diritto? In India i potenti devono prendersi un bello spavento.
Arundhati Roy, impegnata nella lotta contro la diga di Narmada

L'ingiustizia non si può tollerare. Bisogna opporvi resistenza ad ogni costo. La non violenza non diventerà mai una scusa per disertare la lotta contro l'ingiustizia. Forse non abbiamo bisogno di pace in questa società ingiusta; abbiamo bisogno di persone che siano preparate a resistere.
Arundhati Roy

Cosa custodivano qui, care compagne e compagni? Cosa difendevano? Armi. Oro. La civiltà stessa. Questo è ciò che dice la guida…Quando le ossa di pietra di questo leone di pietra saranno interrate nella terra inquinata, quando la Fortezza-che-non-è-mai-stata-attaccata sarà ridotta in macerie e la polvere delle macerie avrà formato dei cumuli, chissà che non nevichi di nuovo.
Arundhati Roy, “The Briefing” (Manifesta 7, 2008)

La scrittrice (autrice del celebre “Il dio delle piccole cose”, Guanda 1997) ed attivista indiana, già vincitrice del Sydney Peace Prize nel 2004, dopo aver visto come “la più grande democrazia del mondo” massacra le sue minoranze nell’indifferenza del mondo e come un’abbondanza pressoché illimitata si concentra nelle mani di pochi, mentre centinaia di milioni di concittadini vivono nella più abietta miseria, senza alcuna prospettiva di migliorare la propria condizione, ha ripudiato la nonviolenza.
La democrazia com’è intesa oggi è un conflitto perpetuo tra gatti a cui sono state tagliate le unghie, un male minore. La dittatura è una falsa armonia in cui si strappano le unghie ai gatti “sconvenienti” e si fanno crescere quelle dei gatti ubbidienti e diligenti.
Arundhati Roy ha constatato che nell’uno e nell’altro caso i gatti più forti riescono comunque a trasformare tutti gli altri in topi. Cosa si può fare quando le persone che dissentono pacificamente vengono intimidite, imprigionate o uccise senza che questo sia di ostacolo ai gattoni tracotanti?

In “Listening to grasshoppers. Field notes on democracy” (London: Penguin Books, 2009) la scrittrice spiega che la gente ha bisogno di una visione e nel contempo di assicurarsi che chi pretende democrazia e giustizia sia giusto e democratico. Nel movimento non ci può essere spazio per le ingiustizie ai danni di donne e bambini. Se si lotta per la libertà bisogna anche pensare alla giustizia, anche a costo di alcune sconfitte nel breve. Opportunismo e convenienze particolari non possono compromettere certi principi, altrimenti nulla ci distinguerà dagli avversari. La lotta deve avere un obiettivo collettivo, ogni conquista deve valere per tutti. Non è un teatrino dei buoni sentimenti, una promozione degli interessi personali o di quelli delle ONG, che in troppi casi rendono più dipendenti e meno politicizzate le popolazioni assistite. Bisogna colpire il portafogli – anche perché il potere ha un codazzo di parassiti che pretendono ricompense. Come spiegava Howard Zinn, ribadisce Arundhati Roy, lo stato di diritto serve anche a legalizzare e rafforzare una condizione di privilegio ed iniquità nella distribuzione della ricchezza e del potere.  
Estratti dal discorso di Arundhati Roy a Zuccotti park il 16 novembre 2011 [Arundhati Roy, “Lo chiamano progresso”, The Guardian, Gran Bretagna]:
“Avete riportato il diritto di sognare in un sistema che cercava di trasformare tutti i suoi cittadini in zombie stregati dall’equazione tra consumismo insensato, felicità e realizzazione di sé. Per una scrittrice, lasciate che ve lo dica, questa è una conquista immensa. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza.
Oggi l’esercito degli Stati Uniti conduce una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni statunitensi uccidono civili in Pakistan e altrove. Decine di migliaia di soldati americani e di squadre della morte stanno entrando in Africa. Se spendere migliaia di miliardi dei vostri dollari per occupare l’Iraq e l’Afghanistan non dovesse bastare, oggi si parla anche di una guerra contro l’Iran. Dai tempi della grande depressione, la produzione di armi e l’esportazione di conflitti sono state gli strumenti fondamentali con cui gli Stati Uniti hanno stimolato la loro economia. L’amministrazione del presidente Barack Obama ha concluso un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di armamenti per 60 miliardi di dollari.
Gli Stati Uniti sperano di vendere migliaia di bombe antibunker agli Emirati Arabi Uniti. E hanno venduto aerei militari per cinque miliardi di dollari al mio paese, l’India, che ha più poveri di tutti i paesi dell’Africa messi insieme. Tutte queste guerre – dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, dalla Corea all’America Latina – sono costate milioni di vite umane. E sono state tutte combattute per garantire l’american way of life.
Oggi sappiamo che l’american way of life – il modello a cui dovrebbe aspirare tutto il resto del mondo – ha fatto sì che negli Stati Uniti 400 persone possiedano la ricchezza di metà della popolazione. Ha significato migliaia di persone sbattute fuori dalle loro case e dal lavoro mentre il governo di Washington salvava le banche e le multinazionali: il gruppo assicurativo Aig ha ricevuto, da solo, 182 miliardi di dollari.
Il governo indiano adora la politica economica statunitense. Grazie a vent’anni di economia di libero mercato, oggi i cento indiani più ricchi possiedono beni che valgono un quarto del pil del pae­se, mentre più dell’80 per cento dei cittadini vive con meno di 50 centesimi al giorno.
Duecentocinquantamila agricoltori trascinati in una spirale di morte hanno finito per suicidarsi. L’India lo chiama progresso, e oggi si considera una superpotenza. Come voi, anche noi indiani abbiamo una popolazione ben istruita, bombe nucleari e un livello di diseguaglianza vergognoso.
La buona notizia è che la gente ne ha abbastanza e non vuole più accettare tutto questo. Il movimento Occupy Wall street si è unito a migliaia di altri movimenti di resistenza in tutto il mondo grazie ai quali i più poveri tra i poveri si alzano in piedi per fermare l’avanzata delle multinazionali.
In pochi sognavamo di poter vedere voi – i cittadini degli Stati Uniti che stanno dalla nostra parte – combattere questo sistema nel cuore stesso dell’impero. Non trovo le parole per spiegare quanto tutto questo significhi.
Loro (l’1 per cento) dicono che non abbiamo richieste precise da fare. Non sanno, forse, che la nostra rabbia da sola sarebbe sufficiente a distruggerli.
Noi vogliamo mettere un freno a questo sistema che fabbrica ineguaglianza. Vogliamo mettere un limite alla smisurata accumulazione di ricchezza da parte di alcuni individui e alcune società.
Da qualche parte, nel suo cammino, il capitalismo ha ridotto l’idea di giustizia al solo significato di “diritti umani”, e l’idea di sognare l’uguaglianza è diventata blasfema. Non stiamo combattendo per giocherellare con la riforma del sistema. Questo sistema deve essere sostituito”.
Traduzione di Giuseppina Cavallo.
Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011

giovedì 29 dicembre 2011

Il cancro è filoamericano?




Luciano Gulli, “Incubo cancro per i leader del Sud America”, Il Giornale, 29 dicembre 2011
omette il dettaglio che sono tutti leader latinoamericani che gli Stati Uniti considerano loro avversari



«Tropico del cancro…», è scappato detto a qualcuno. E certo, cattivo gusto a parte, non si può dire che la battuta non colga atrocemente nel segno. È successo quando in redazione è arrivata la notizia che la presidente argentina Cristina Kirchner, 58 anni, rieletta lo scorso 23 ottobre, ha un cancro alla tiroide e sarà operata il prossimo 4 gennaio.
«Come Chavez», il presidente del Venezuela, ha ricordato qualcuno. «E Lula, Lula da Silva, il brasiliano», ha ribattuto un altro. «E Castro, allora? E Dilma Roussef, che ha sostituito Lula alla presidenza del Brasile?», gli ha fatto eco un terzo.
Così, alla fine, ci siamo messi a far la conta, e insomma, se non è un'epidemia, quella che ha colto molti capi di stato o ex capi di stato dell'America latina, poco ci manca. Sicché non è parso poi così peregrino pensare che quando i Maya avevano pre-visto che il 2012 sarebbe stato l'anno della catastrofe per il pianeta forse non avevano valutato che l'epicentro, che l'occhio del ciclone si sarebbe allargato proprio sulla testa del continente da essi abitato. Un disordine cosmico che si manifesta scegliendosi certi simboli, che colpisce i vertici del Potere, prima… Perché accanto a quelli citati, e sono già cinque, bisogna citare Fernando Lugo, 60 anni, presidente paraguayano, lui pure colpito da un tumore linfatico.
Insomma, Nemesi magari non c'entra, ma vien voglia lo stesso di fare gli scongiuri, se uno cinge la sciarpa di presidente, dal Golfo del Messico in giù.
«Il 22 dicembre - ha esordito il portavoce della presidenza argentina che ha un cognome sicilianissimo, Scoccimarro - durante un controllo di routine è stato rilevato un carcinoma papillare al lobo destro della tiroide della presidente Kirchner». Non ci sono metastasi, ha sottolineato Scoccimarro. La malattia è circoscritta, i linfonodi non sono stati colpiti. Insomma, con un po' di fortuna, tutto potrebbe finire con una buona dose di spavento. «Settantadue ore di ospedale, 20 giorni di convalescenza» e nulla più, ha lasciato intendere Scoccimarro ricordando che la guida dello Stato sarà assunta durante l'assenza della cinquantottenne presidente dal suo vice Amadou Boudou.
Meno rosee sembrano le prospettive per Hugo Chavez, 57 anni, da molti mesi in guerra con un tumore particolarmente aggressivo diagnosticatogli a Cuba. Chavez è già stato sottoposto a una serie di pesanti bombardamenti chemioterapici sia a Cuba che a Caracas, dove molti dei suoi sostenitori, per simpatia e per fargli coraggio, si sono rapati a zero quando il presidente, per effetto delle cure, ha perso i capelli. Quanto lo abbia fiaccato nel fisico, il tumore, nessuno sa dire, visto che le sue condizioni di salute sono coperte da una sorta di segreto di Stato. L'umore, solitamente scoppiettante, pare invece non sia stato neppure sfiorato, tanto che Chavez minaccia di candidarsi - e di vincere, naturalmente - alle elezioni in programma in Venezuela l'anno prossimo.
Di tumore, si diceva, è malato anche Luiz Lula da Silva, 66 anni, ex presidente brasiliano. Anche se il 13 dicembre scorso i medici dell'ospedale Sirio Libanes di San Paolo hanno fatto sapere che le cure hanno avuto successo e che il cancro contro il quale sta lottando Lula - un cancro alla laringe - è regredito di un 75 per cento. Lula come Dilma Roussef, 63 anni, la sua pupilla e attuale presidente, alla quale asportarono un linfonodo sotto l'ascella quasi tre anni fa. Un tumore aggredito in tempo, stavolta. Il solito bombardamento chimico ed ecco Dilma Roussef tornare come nuova. Il che non si può dire di Fidel Castro, colpito nel 2005 da una emorragia intestinale e da allora mai ripresosi.

No agli Stati Uniti d'Europa - le ragioni del dissenso




I cambiamenti tumultuosi generano incertezza e quando le crisi, i sommovimenti, le trepidazioni e le tribolazioni si protraggono a lungo, la popolazione, sfinita, accetta qualunque governo, per quanto dispotico, che prometta stabilità, ordine e fermezza.
È su questo che contano i leader europei.
Io continuo a fare la stessa domanda, senza ottenere una risposta anche vagamente convincente: perché dovremmo ridurci a far nostra un’unica fede (l’europeismo) ed un unico governo (europeo) proprio quando la maggioranza di noi si è resa conto che le organizzazioni politiche centralizzate non funzionano, partoriscono oligarchie, moltiplicano gli sprechi, accrescono le distanze tra elettori ed eletti, sferzano la popolazione con imposizioni tecnocratiche e burocratiche che ignorano le specificità ed esigenze locali? Che genere di comportamento schizofrenico è mai questo? Non è forse evidente a tutti che i paesi meglio organizzati ed amministrati sono piccoli? Guardate le classifiche della qualità della vita e della felicità:
ai primi posti trovate paesi di pochi milioni di abitanti, con pochissime velleità egemoniche, maggiore attenzione alla dignità dei cittadini ed al contenimento delle sperequazioni, una più chiara vocazione meritocratica, ingranaggi amministrativi più efficaci e trasparenti e, più in generale, una democrazia più in salute che altrove. Sono gli stati più grandi ad essere maggiormente afflitti dai “mali della modernità” e sono sempre loro a mettere a repentaglio la pace, la sicurezza, la stabilità economica, la sostenibilità ambientale.
Chi potrebbe essere così stolto da imboccare la strada del gigantismo quando è indiscutibilmente vero che “piccolo è bello” e che una confederazione di staterelli è più adatta a servire le necessità dell’umanità?
Francesi ed Olandesi (e gli Irlandesi) hanno dimostrato una lodevole perspicacia quando hanno rigettato il “Trattato che istituisce la costituzione europea”, una disposizione che sarebbe potuta diventare un cavallo di Troia, il mezzo con cui si potevano indebolire prima ed annientare poi le meravigliose costituzioni dei singoli stati ed in questo modo le libertà dei popoli. Ugualmente degna di encomio è stata la decisione della corte costituzionale tedesca di rintuzzare i tentativi del governo tedesco di mettere in discussione la sovranità della propria nazione.
Sfido chiunque a dimostrare, dati alla mano, che sia falso che gli stati più piccoli sono più trasparenti, meglio amministrati, più equilibrati, più pacifici, più in linea con le aspettative dei cittadini e che più grandi sono gli stati, peggio sono governati.
L’evidenza dei fatti è lì a comprovare che in un grande stato si sacrifica l’obiettivo di contenere le disuguaglianze sociali, a partire dai privilegi accordati alla capitale rispetto alle province. Inoltre l’uniformità amministrativa riduce, iniquamente, la diversità interna. Un popolo maturo non si affiderà mai agli arbitri del governo nella speranza che chi comanda sia saggio e virtuoso: inutile illudersi, lusingare ed ingannare se stessi con la convinzione che i propri governanti saranno sempre probi. Bisogna sperare per il meglio e prepararsi al peggio. Chi esercita l’autorità tende ad usare tutto il potere che viene messo a sua disposizione e, se possibile, ad espanderlo e perciò è assennato evitare di attribuirgliene troppo, come invece avviene nelle grandi potenze.
Al contrario, nelle piccole repubbliche i cittadini rispettano più volentieri la legge, si sentono più legati allo stato, pagano più volentieri (o comunque meno malvolentieri) le tasse. Sentono di avere un maggior controllo sulle dinamiche della nazione in cui vivono Perciò i governi delle piccole repubbliche si comportano più responsabilmente. La conoscenza diretta o semi-diretta dei governanti spinge le persone ad obbedire volontariamente, senza essere costretti a farlo. Una piccola repubblica diventa quindi una scuola di cittadinanza e di pace, perché la guerra viene concepita solo nel senso di una legittima difesa, mai come strumento di aggressione e di conseguenza la cittadinanza si dimostra consapevole del fatto che è una maledizione per qualunque popolo, in quanto distrugge quanto di meglio c’è in una società, a partire dalla compassione, il fondamento dell’etica, moltiplicando i peggiori vizi umani. Una piccola repubblica, tenendo a distanza la guerra quanto più è possibile, rende un servigio all’intera umanità.
Chi accetta questa realtà dovrebbe aderire ad un progetto confederalista [http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/f/f024.htm] e mostrarsi scettico nei confronti di ogni progetto di accentramento del potere.

Ecco una sintesi ideale delle tesi dei confederalisti europei, ossia quelli che criticano le spinte verso una maggiore integrazione politica:

  • L’attuale configurazione dell’Unione Europea va già più che bene: c’è pace, c’è stabilità e ci sarebbe pure prosperità se i politici prestassero più ascolto all’elettorato che alle sirene dell’alta finanza;
  • l’obiettivo dovrebbe essere quello di una confederazione di repubbliche di dimensioni più ridotte, meno militariste, unite dalla gestione della politica estera e delle questioni di interesse generale. Insomma, un’Europa delle comunità e dei popoli, non dei tecnocrati;
  • le riforme dovrebbero riguardare essenzialmente la regolamentazione dell’economia, della finanza, del fisco e del mondo del lavoro – nel senso della tutela di chi produce ricchezza, non di chi si comporta come un parassita e vive alle spalle dei lavoratori, investitori ed imprenditori (speculatori ed evasori);
  • non si attua una radicale riorientamento delle istituzioni dall’alto se manca il consenso popolare (la democrazia prevede strumenti di consultazione della cittadinanza);
  • è mai possibile che le lezioni del nazismo, del comunismo e dell’americanismo non siano state sufficienti?
  • quando il potere si accentra cresce il rischio di corruzione e si rafforza la minaccia di sviluppi oligarchici e tirannici (“il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente);
  • più ampia è la popolazione, più grande sarà la distanza tra elettori ed elettorato, perché ci saranno pochi rappresentanti per numerosissimi cittadini (Montesquieu docet: è improvvisamente diventato un pensatore irrilevante?);
  • l’unionismo europeista comporta un drastico ridimensionamento dell’autonomia dei governi locali, gli unici strettamente a contatto con la realtà locale, eredità della lotta contro gli autoritarismi del passato: vogliamo più autonomie locali, non meno;
  • un’unica capitale federale diventerebbe un ricettacolo di burocrati parassitari e politicanti. Pensiamo a Washington ed a Bruxelles. Hanno forse completamente torto i leghisti quando esclamano: “Roma ladrona”? Non c’è neppure un fondo di verità? Volete che Bruxelles si degradi ulteriormente?
  • in un ordinamento compiutamente confederale dotato di una carta dei diritti (o anche senza di essa se le costituzioni dei vari stati vengono rispettate) potrebbe permettersi un massimo di democrazia diretta senza scivolare nella tirannia delle maggioranze. Si tutelerebbe dagli arbitri della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea che stanno spogliando i cittadini dei loro risparmi per riassegnarli a chi già prospera;
  • in una confederazione non ci sarebbe alcun rischio di una burocrazia federale ipertrofica ed onnipotente come quella dell’attuale Unione Europea;
  • in una confederazione si introdurrebbero procedure che consentano le rotazioni periodiche degli incarichi politici, per evitare che qualcuno si  “incolli” alla sua poltrona, togliendo la delega in caso di incompetenza o disonestà;
  • si bloccherebbe la strada del presidenzialismo, che assegna eccessive prerogative al presidente, senza che ci sia la minima certezza che sia invariabilmente una persona proba (es. Bush negli Stati Uniti e il mentitore, violatore del diritto internazionale e guerrafondaio Tony Blair, la cui candidatura alla presidenza dell’Unione Europea era stata ventilata da più parti);
  • una confederazione abolirebbe gli eserciti professionali (permanenti), preferendo addestrare milizie locali, che non rappresentano mai una minaccia per la democrazia e i diritti civili e non instillano nei cittadini quella mentalità guerriera, aggressiva che affligge il mondo.

Tesi degli unionisti, ossia quelli che spingono per una maggiore integrazione politica europea:

La situazione è drammatica. Siamo sull’orlo della bancarotta e dell’anarchia a causa di un governo europeo impotente:
"Mai il rischio di un'esplosione dell'Europa è stato così grande" (Sarkozy)
"La situazione è grave, l'euro può esplodere e l'Europa disfarsi. Sarebbe una catastrofe non solo per l'Europa e la Francia, ma per il mondo" (Jean Leonetti, ministro francese degli Affari Europei)
“Non si tratta di un dare e di un avere ci sono dei punti deboli nella costruzione dell’Eurozona, non abbiamo una Unione politica e questi punti deboli devono essere superati” (Angela Merkel).
Un governo centrale forte può promuovere la crescita del commercio e dell’economia in genere, ha maggiori poteri di coordinamento:
“Italia e Germania hanno sempre dato prova di esemplare coerenza nell'impegno a favore dell'unità e solidarietà europea. Sono fermamente convinto che anche in futuro opereranno con determinazione per rinnovare lo slancio del processo di integrazione del nostro continente, quale miglior risposta alla crisi finanziaria europea e internazionale” (Giorgio Napolitano).
Si può difendere meglio dalle aggressioni esterne:
“La lotta al terrorismo è una delle nuove missioni che l' Europa unita deve darsi. A molti di noi pare che la contrapposizione agli stragisti debba e possa essere un forte motivo unificante” (Giuliano Amato).
“Uniti, possiamo proporre un progetto politico forte, possiamo ridare fiducia a chi guarda con preoccupazione ai grandi cambiamenti del mondo d'oggi, possiamo essere artefici di una azione internazionale dal volto umano. Uniti, possiamo dare una risposta nuova alla crisi della politica e della democrazia”. (Romano Prodi)
Sa mantenere meglio l’ordine pubblico:
La guerriglia urbana nel Regno Unito e in Grecia e le azioni dei black bloc in tutta Europa sono un perfetto pretesto per fare appello al bisogno di sicurezza dei cittadini e mettere in opera un sistema ancora più capillare e centralizzato di sorveglianza.
Riduce i rischi di una guerra civile:
Merkel e Sarkozy hanno fatto balenare l’idea di una possibile guerra civile europea se l’integrazione non procederà più speditamente, tanto che i media cinesi hanno colto l’occasione per elogiare il centralismo cinese come garanzia di pace e prosperità e sicuro sostegno alle aspirazioni centralistiche europee (con amici del genere, chi ha bisogno di nemici?):
Riduce la faziosità ed i particolarismi:
“Non possiamo lasciare che gli egoismi nazionali tornino a prenderci la mano, e vedo qua e là qualche tentazione di farlo” (José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea)

Chi sono gli unionisti contemporanei, ossia le persone che stanno distruggendo il sogno europeo del dopoguerra?