Non è una misura di buona
salute l’essere ben adattato ad una società profondamente malata
Jiddu Krishnamurti
Nell’ottica dello studio della
coscienza, l’unico, vero discrimine tra esseri umani concerne l’obiettività. Ci
sarà sempre chi si situa più vicino (o per meglio dire, meno distante) al polo
dell’obiettività (vedere la realtà com’è e non come desideriamo che sia) e chi
invece tende a scivolare verso il polo della soggettività, quello di chi vede
esclusivamente ciò che vuole vedere, indipendentemente dalla propria lingua, ma
non dalla propria tradizione: alcune società agevolano l’impegno verso l’oggettività,
altre lo avversano.
Una coscienza più obiettiva
richiede consapevolezza, attenzione, circospezione, conoscenza, saggezza. Ci si
deve distanziare da noi stessi – fare un passo indietro ed uno fuori da noi
stessi – per impedire alle nostre paure, fantasie ed affetti di interferire con
la nostra obiettività.
Le identificazioni collettive
forti rendono molto più arduo questo compito. Infatti ostacolano l’introspezione,
quella che ci rivela che siamo prima di tutto esseri umani e solo in un secondo
momento un maschio, un montanaro, uno scrittore, un marito, un trentino, ecc. È
nella nostra natura la capacità di fare un passo indietro ed un passo in là,
per perseguire l’ideale di un’esistenza più piena, abbondante, vitale di quanto
sarebbe possibile altrimenti. Le tenaci affiliazioni di gruppo interferiscono
anche con l’empatia, che promuove obiettività. Nella sua espressione più
completa, l’empatia ci impedisce di porci troppo al di sopra degli altri, ci
rammenta che non siamo più importanti degli altri, che il loro dolore non è
meno significativo del nostro (Fait/Fattor 2010). L’empatia, se la si lascia
libera di agire, scoraggia l’auto-inganno, le illusioni, ci spinge ad
interessarci agli altri, a preoccuparci per loro, a concentrarci su tutte le
cose che ci consentono di aiutare gli altri, nei loro termini, non nei nostri.
Per farlo, però, occorre una visione e comprensione obiettiva della realtà che,
bloccati come siamo nel nostro egotismo, senza empatia non potremmo mai sperare
di sviluppare.
L’empatia è la precondizione
essenziale per l’individualità impersonale tanto cara a figure disparate quali
Socrate, Simone Weil, R.W. Emerson, Tolstoj, Albert Camus (cf. “La chute”) e
Aung San Suu Kyi, la sconfitta del senso egoistico di essere migliore o più
prezioso del prossimo, la capacità di nutrire le emozioni non-egoistiche, che
sono quiete, non-violente, impersonali ma al tempo stesso profondamente personali.
Le emozioni egoistiche divorano la nostra attenzione verso l’esterno,
sostituendola con automatismi istintivi, reazioni emotive incontrollate ed
imponderate, ci espongono alla conquista delle nostre paure e brame, cosicché
non viviamo più la nostra vita, ma siamo vissuti, rischiando di morire senza
aver realmente vissuto. Idealmente, in una condizione di individualità
impersonale, il sé si dissipa, svanisce, ma la coscienza rimane, come se fosse
un elemento costitutivo della realtà, il fondamento di ciò che è,
obiettivamente.
“Se non ti rendi conto che ciò
che fai è sbagliato, non potrai neppure vergognartene. Vivi nella pura fantasia
– una specie di follia e una totale mancanza di obiettività. Il che si riduce
poi all’incapacità di affrontare la verità. Se vivi in un mondo dove tutto ciò
che fai è giustificato da concetti come “patriottismo” o “il bene del paese”,
non potrai compiere il passo successivo di vergognarti e desiderare di
correggerti”
(Aung San Suu Kyi, 2008).
Qualunque astrazione creata
dall’uomo si trova dunque a due gradi di separazione dalla verità.
Ma non dobbiamo arrenderci al
fatalismo, al determinismo, al potere coercitivo della tradizione sulla voce
della coscienza. Ci sono necessità soggettive o arbitrarie e necessità oggettive
o inevitabili. Quelle oggettive sono realmente incontrollabili: per esempio,
non possiamo volare (senza supporti tecnologici), non possiamo vivere nel
passato, non possiamo dimagrire in un giorno. Quelle soggettive che, in
"Contro i Miti Etnici" (CME), ho chiamato “golem” sono necessità che
descriviamo come incontrollabili ma determinano il nostro fato solo se siamo
così pigri, indolenti e stolti da lasciare che così avvenga. Pensiamo agli
alibi più classici, come “mio marito è violento ma non posso lasciarlo,
altrimenti lo distruggerei”, o “non possiamo permetterci di spendere 18 euro
per un cavolo di libro”, oppure “le guerre sono inevitabili”. È vero che, come
ha osservato un lettore di CME, “la realtà del contesto in cui viviamo ci
impone regole che, a volte, non condividiamo”, ma questa forza che ci sembra
esterna ed insormontabile in realtà non lo è. La costrizione all’allineamento
etnico o politico viene unicamente da dentro di noi ed opera solo se lo
vogliamo. Scriveva Dietrich Bonhoeffer (2009):
“Per chi è responsabile la
domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale
potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda
storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde anche se
provvisoriamente molto mortificanti”.
Nessuno mette in dubbio che
convivere tra mille diversità sia impresa non facile. Siamo già angariati da
mille debolezze, come l’egocentrismo, l’auto-inganno, le fallacie logiche, la
soggettività emotiva, il bisogno di appartenenza, la dipendenza da figure
autoritarie, il pensiero dicotomico (bianco/nero, bene/male), la vulnerabilità
alla pressione gregaria, l’ignoranza e l’accidia (inerzia), la percezione
selettiva della realtà e così via. A tutto questo, che sarebbe già di per sé più
che sufficiente, si aggiunge la babele linguistica, un ulteriore, enorme
ostacolo alla comprensione tra i singoli individui ed i popoli. Ma Socrate, Gesù,
Buddha e Mo Tzu, tra gli altri, si sono sforzati di insegnarci che questo non
può essere un alibi e che superare gli ostacoli (i nostri preconcetti e
pregiudizi sopra tutti gli altri) è un segno di maturità. Pare, però, che molti
dei loro seguaci agiscano come se, al contrario, si trattasse di un comodo
alibi, un’ulteriore dimostrazione del fatto che ciascuno di noi contiene
molteplici identità, anche contraddittorie, e che è poco saggio sceglierne una
e stabilire che è quella che ci rappresenta meglio.
Vorrei completare queste
considerazioni con un lungo, magnifico estratto da “Questa è l’acqua”, di David
Foster Wallace (Wallace, 2009), una gemma che mi è stata suggerita da Gabriele
Di Luca, insegnante, intellettuale, editorialista, recensore ed amico
livornese-altoatesino-sudtirolese e che sintetizza mirabilmente quanto ho
cercato di spiegare "antropologicamente":
“Ci sono questi due giovani
pesci che nuotano insieme e, ad un certo punto, incontrano un pesce più vecchio
che nuota in direzione opposta, il quale fa un cenno di saluto e dice, “‘Giorno,
ragazzi, com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’,
e infine uno dei due si rivolge all’altro e fa, “Che diavolo è l’acqua?”. […].
Il punto fondamentale della storiella dei pesci è che le realtà più ovvie,
invalse ed importanti spesso sono quelle più difficili da vedere e di cui è più
difficile parlare. […]. Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la
mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la
persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa
sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione
sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra
configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri
circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete
vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui
fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra
sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel
che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in
qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo
capiti. Ma vi prego, non temete che mi metta a predicarvi la compassione o l’empatia
o le cosiddette “virtù”. Non è una questione di virtù - è una questione di
scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione
standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere
profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed
interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. […]. Se siete
automaticamente sicuri di conoscere qual è la realtà, e chi e cosa è davvero
importante - se volete operare secondo la vostra configurazione standard -
allora voi, come me, non prenderete in considerazione possibilità che non siano
insignificanti e fastidiose. Ma se imparate davvero come pensare, a cosa
prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di
vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore,
non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa
forza che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le
cose. […]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È
impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo
fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche
specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la
dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile
di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate
finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi
che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza.
Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro
stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre
brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un
milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi
sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore
sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la
vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre
sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto
non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono
configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate
lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a
quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere
pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di
operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini
e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante
della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto
di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza,
e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre
persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una
moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa
è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” -la
costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di
infinito. […]. Riguarda la semplice consapevolezza - consapevolezza di quello
che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista attorno a tutti
noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente: “Questa è l’acqua,
questa è l’acqua”.
*****
2 commenti:
Un bellissimo articolo. Sottoscrivo parola per parola.
Se esiste una "missione" degli scrittori è proprio quella di rappresentare ciò che si trova “così ben nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente: questa è l’acqua, questa è l’acqua.”
Raffaella Foresti
www.raccontopostmoderno.com
IO
l'ho scoperto solo "ora" ...
Grazie
http://amicidimauro.wordpress.com/2014/07/30/lio-divino/
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