lunedì 24 ottobre 2011

La coscienza, dal Buddha a David Foster Wallace




Non è una misura di buona salute l’essere ben adattato ad una società profondamente malata
Jiddu Krishnamurti

Nell’ottica dello studio della coscienza, l’unico, vero discrimine tra esseri umani concerne l’obiettività. Ci sarà sempre chi si situa più vicino (o per meglio dire, meno distante) al polo dell’obiettività (vedere la realtà com’è e non come desideriamo che sia) e chi invece tende a scivolare verso il polo della soggettività, quello di chi vede esclusivamente ciò che vuole vedere, indipendentemente dalla propria lingua, ma non dalla propria tradizione: alcune società agevolano l’impegno verso l’oggettività, altre lo avversano.
Una coscienza più obiettiva richiede consapevolezza, attenzione, circospezione, conoscenza, saggezza. Ci si deve distanziare da noi stessi – fare un passo indietro ed uno fuori da noi stessi – per impedire alle nostre paure, fantasie ed affetti di interferire con la nostra obiettività.
Le identificazioni collettive forti rendono molto più arduo questo compito. Infatti ostacolano l’introspezione, quella che ci rivela che siamo prima di tutto esseri umani e solo in un secondo momento un maschio, un montanaro, uno scrittore, un marito, un trentino, ecc. È nella nostra natura la capacità di fare un passo indietro ed un passo in là, per perseguire l’ideale di un’esistenza più piena, abbondante, vitale di quanto sarebbe possibile altrimenti. Le tenaci affiliazioni di gruppo interferiscono anche con l’empatia, che promuove obiettività. Nella sua espressione più completa, l’empatia ci impedisce di porci troppo al di sopra degli altri, ci rammenta che non siamo più importanti degli altri, che il loro dolore non è meno significativo del nostro (Fait/Fattor 2010). L’empatia, se la si lascia libera di agire, scoraggia l’auto-inganno, le illusioni, ci spinge ad interessarci agli altri, a preoccuparci per loro, a concentrarci su tutte le cose che ci consentono di aiutare gli altri, nei loro termini, non nei nostri. Per farlo, però, occorre una visione e comprensione obiettiva della realtà che, bloccati come siamo nel nostro egotismo, senza empatia non potremmo mai sperare di sviluppare.
L’empatia è la precondizione essenziale per l’individualità impersonale tanto cara a figure disparate quali Socrate, Simone Weil, R.W. Emerson, Tolstoj, Albert Camus (cf. “La chute”) e Aung San Suu Kyi, la sconfitta del senso egoistico di essere migliore o più prezioso del prossimo, la capacità di nutrire le emozioni non-egoistiche, che sono quiete, non-violente, impersonali ma al tempo stesso profondamente personali. Le emozioni egoistiche divorano la nostra attenzione verso l’esterno, sostituendola con automatismi istintivi, reazioni emotive incontrollate ed imponderate, ci espongono alla conquista delle nostre paure e brame, cosicché non viviamo più la nostra vita, ma siamo vissuti, rischiando di morire senza aver realmente vissuto. Idealmente, in una condizione di individualità impersonale, il sé si dissipa, svanisce, ma la coscienza rimane, come se fosse un elemento costitutivo della realtà, il fondamento di ciò che è, obiettivamente.

“Se non ti rendi conto che ciò che fai è sbagliato, non potrai neppure vergognartene. Vivi nella pura fantasia – una specie di follia e una totale mancanza di obiettività. Il che si riduce poi all’incapacità di affrontare la verità. Se vivi in un mondo dove tutto ciò che fai è giustificato da concetti come “patriottismo” o “il bene del paese”, non potrai compiere il passo successivo di vergognarti e desiderare di correggerti”
(Aung San Suu Kyi, 2008).

Qualunque astrazione creata dall’uomo si trova dunque a due gradi di separazione dalla verità.
Ma non dobbiamo arrenderci al fatalismo, al determinismo, al potere coercitivo della tradizione sulla voce della coscienza. Ci sono necessità soggettive o arbitrarie e necessità oggettive o inevitabili. Quelle oggettive sono realmente incontrollabili: per esempio, non possiamo volare (senza supporti tecnologici), non possiamo vivere nel passato, non possiamo dimagrire in un giorno. Quelle soggettive che, in "Contro i Miti Etnici" (CME), ho chiamato “golem” sono necessità che descriviamo come incontrollabili ma determinano il nostro fato solo se siamo così pigri, indolenti e stolti da lasciare che così avvenga. Pensiamo agli alibi più classici, come “mio marito è violento ma non posso lasciarlo, altrimenti lo distruggerei”, o “non possiamo permetterci di spendere 18 euro per un cavolo di libro”, oppure “le guerre sono inevitabili”. È vero che, come ha osservato un lettore di CME, “la realtà del contesto in cui viviamo ci impone regole che, a volte, non condividiamo”, ma questa forza che ci sembra esterna ed insormontabile in realtà non lo è. La costrizione all’allineamento etnico o politico viene unicamente da dentro di noi ed opera solo se lo vogliamo. Scriveva Dietrich Bonhoeffer (2009):
“Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde anche se provvisoriamente molto mortificanti”.
Nessuno mette in dubbio che convivere tra mille diversità sia impresa non facile. Siamo già angariati da mille debolezze, come l’egocentrismo, l’auto-inganno, le fallacie logiche, la soggettività emotiva, il bisogno di appartenenza, la dipendenza da figure autoritarie, il pensiero dicotomico (bianco/nero, bene/male), la vulnerabilità alla pressione gregaria, l’ignoranza e l’accidia (inerzia), la percezione selettiva della realtà e così via. A tutto questo, che sarebbe già di per sé più che sufficiente, si aggiunge la babele linguistica, un ulteriore, enorme ostacolo alla comprensione tra i singoli individui ed i popoli. Ma Socrate, Gesù, Buddha e Mo Tzu, tra gli altri, si sono sforzati di insegnarci che questo non può essere un alibi e che superare gli ostacoli (i nostri preconcetti e pregiudizi sopra tutti gli altri) è un segno di maturità. Pare, però, che molti dei loro seguaci agiscano come se, al contrario, si trattasse di un comodo alibi, un’ulteriore dimostrazione del fatto che ciascuno di noi contiene molteplici identità, anche contraddittorie, e che è poco saggio sceglierne una e stabilire che è quella che ci rappresenta meglio.

Vorrei completare queste considerazioni con un lungo, magnifico estratto da “Questa è l’acqua”, di David Foster Wallace (Wallace, 2009), una gemma che mi è stata suggerita da Gabriele Di Luca, insegnante, intellettuale, editorialista, recensore ed amico livornese-altoatesino-sudtirolese e che sintetizza mirabilmente quanto ho cercato di spiegare "antropologicamente":

“Ci sono questi due giovani pesci che nuotano insieme e, ad un certo punto, incontrano un pesce più vecchio che nuota in direzione opposta, il quale fa un cenno di saluto e dice, “‘Giorno, ragazzi, com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e infine uno dei due si rivolge all’altro e fa, “Che diavolo è l’acqua?”. […]. Il punto fondamentale della storiella dei pesci è che le realtà più ovvie, invalse ed importanti spesso sono quelle più difficili da vedere e di cui è più difficile parlare. […]. Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo capiti. Ma vi prego, non temete che mi metta a predicarvi la compassione o l’empatia o le cosiddette “virtù”. Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. […]. Se siete automaticamente sicuri di conoscere qual è la realtà, e chi e cosa è davvero importante - se volete operare secondo la vostra configurazione standard - allora voi, come me, non prenderete in considerazione possibilità che non siano insignificanti e fastidiose. Ma se imparate davvero come pensare, a cosa prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose. […]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza. Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” -la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito. […]. Riguarda la semplice consapevolezza - consapevolezza di quello che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente: “Questa è l’acqua, questa è l’acqua”.

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2 commenti:

Raffaella Foresti ha detto...

Un bellissimo articolo. Sottoscrivo parola per parola.

Se esiste una "missione" degli scrittori è proprio quella di rappresentare ciò che si trova “così ben nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente: questa è l’acqua, questa è l’acqua.”

Raffaella Foresti
www.raccontopostmoderno.com

Serpente Piumato ha detto...

IO
l'ho scoperto solo "ora" ...
Grazie
http://amicidimauro.wordpress.com/2014/07/30/lio-divino/