sabato 22 ottobre 2011

Alex Langer a Twin Peaks


"In molti film, o serie televisive…ci si accorge progressivamente che una tale xenofobia è la conseguenza di un segreto, o piuttosto di una colpa che tutti conoscono, ma tacciono, di una colpa tenuta nascosta dalla società che compone la piccola città. Lo straniero viene respinto, perché non si vuole che egli scopra questa tara intima, non si desidera che egli esprima il non-detto, il taciuto e il celato, che renda pubblico ciò che deve rimanere affare di una cerchia chiusa, che ravvivi, riattivi, smuova ciò che ognuno si sforza di dimenticare. Lo sguardo dello straniero disturba: egli dà a vedere, e ciò che fa vedere è, all’occorrenza, un’immagine sgradevole e degradante, un panno sporco che dovrebbe essere lavato solo in casa. Lo straniero evidentemente viene a sconvolgere le cose, l’immobilità, la stagnazione, l’inerzia, il marasma, il torpore, l’abbattimento, la letargia che regnano sulla piccola società. Egli introduce un movimento, una turbolenza".
Alain Montandon, “Elogio dell’ospitalità”.

"Dico solo che additarmi come nemico dei tirolesi in quanto sono figlio di mio padre, israelita e per tale ragione…perseguitato… rappresenta a dir poco uno schiaffo che attraverso di me si vuole dare a tutto quello che di civile e di tollerante è nato dopo l’esperienza terrificante dei campi di sterminio. Evidentemente…io non ho diritto di avere delle idee e convinzioni autonome: le mie idee sono condizionate e prestabilite dalla mia origine “etnica”, anzi, “razziale”, che forse dovrebbe persino impedirmi di essere considerato tirolese in quanto “figlio di giudeo”! E sembra di leggere, appena velatamente fra le righe, che i tirolesi di lingua tedesca farebbero male a non usare tale argomento definitivo e liquidatorio per risparmiarsi il confronto con le mie idee".
Alexander Langer risponde all’accusa del dottor Karl Saltner di essere anti-tedesco in quanto figlio di un ebreo.

"Tenete presente che se mi condannate a morte, perché sono come dico di essere, non danneggerete me più di voi stessi: a me, infatti. niente mi può danneggiare, né Meleto né Anito - non ne sarebbero neppure capaci - in quanto, credo, non è permesso che un uomo migliore sia danneggiato da uno peggiore. Forse mi può uccidere o esiliare o disonorare; ma mentre egli e qualcun altro possono credere che questi siano grandi mali, io non lo credo, e considero invece un male molto maggiore fare ciò che sta facendo ora, cioè tentare di condannare ingiustamente a morte un uomo".
Platone, Apologia di Socrate


Alexander Langer era un ospite di un altro mondo. Lo aveva intuito Guido Ceronetti che, a proposito della decisione di Langer di farla finita, scrisse (“Strangolato dalla pena di un mondo avvelenato”, La Stampa, 6 luglio 1995):

"Nulla di strano nel suicidio di questo amico biofilo, di questo filantropo che ha fallito: sono passioni d’infinito di cui la muraglia del Finito disperde e frantuma il volo; frammenti di essere che nel puro esistere materiale non riescono a respirare. Il dolore degli altri è reso più intollerabile dall’essere fatti per qualcos’altro".

Langer si sarebbe probabilmente schermito. Non si rallegrava di essere percepito come radicalmente diverso (Langer, cf. Valpiana, 2005):

"Ma occorre qua qualcos’altro ancora, per togliere al pacifismo – al pari dell’ecologismo – quell’odore di autolesionismo che gli è proprio. Sembra che l’azione ecologista e pacifista si addica solo agli asceti, ai valorosamente puri, a “chi non è di questo mondo”. Ed invece dev’essere evidente a tutti che è anche questione di “qualità della vita”. Liberarsi dalla guerra, dal militarismo, dalla distruzione ecologica, dall’incombere dell’apocalisse “civile” o “militare” che sia – non è solo un imperativo per chi vuole che i nostri figli o nipoti possano ancora vivere o per chi ama i popoli lontani. Non è solo questione dei “generosi”, per capirci meglio".

E tuttavia il mio giudizio non cambia e forse lui, intimamente, lo avrebbe condiviso. Altrimenti perché avrebbe sentito il dovere di spiegare che “a volte bisogna accettare di essere chiamati traditori dai propri compagni”?

Diverse persone tra il pubblico delle presentazioni del libro “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso” si sono congratulate con noi per aver recuperato l’eredità langeriana. In verità Langer è citato solo sporadicamente nel testo e non è stato un punto di riferimento nella sua stesura. Io e Mauro simpatizziamo per Langer e le sue riflessioni, che non sono mai state un punto di arrivo, come non lo è il libro che abbiamo scritto e pubblicato assieme. Entrambi abbiamo tuttavia fatto una scelta precisa, quella di non lasciarci inquadrare in categorie predefinite, un vizio fin troppo comune in Alto Adige, trasmesso da una generazione a quella seguente nella convinzione che sia la cosa più giusta e naturale da fare.
Ciò non toglie che il messaggio di Alexander Langer diventi ogni giorno più attuale, oserei dire salvifico. Alex Langer non era semplicemente un costruttore di ponti. Di quelli ce n’è a bizzeffe: uno in più o uno in meno non farebbe alcuna differenza. Era molto più di questo, era un creatore di mondi, di scenari di vita alternativi per umanità migliori; era un idealista, non un cinico. Gli idealisti sono una risorsa per ogni società quando mantengono un legame con la realtà, ossia quando non pretendono che un’intera comunità li segua sulla loro strada. Sono antropologicamente ottimisti e non vogliono imporre il loro volere al prossimo. Gli utopisti sono invece generalmente pericolosi, perché pretendono che la natura umana si conformi alle loro attese e pretese.
Alexander Langer, come tanti riformatori prima di lui, rientra nel novero di persone che hanno cercato, idealmente appunto, di ispirare le persone, non di rieducarle. Quelli che sostengono che abbia perso la sua battaglia sono persone che si aspettano che le riforme provengano dall’alto, ma ciò avviene molto raramente. Nessuna riforma può germogliare senza un terreno adatto ed una rivoluzione della coscienza è il terreno più adatto. L’attuale crisi globale potrà servire da innesco per questo tipo di rivoluzione, una volta che le vecchie logiche e mentalità saranno dimesse. Questo è anche il pensiero di una magnifica figura del nostro tempo, Aung San Suu Kyi: “Molta gente trova imbarazzante e poco pratico pensare alla vita spirituale e politica come una cosa sola. Io non vedo alcuna divisione. Nelle democrazie esiste questo impulso a dividere il secolare dallo spirituale, ma non è necessario. […]. Quando parlo di rivoluzione dello spirito, mi riferisco alla nostra lotta per la democrazia. Ho sempre sostenuto che una vera rivoluzione deve nascere dallo spirito. Bisogna essere convinti di avere bisogno del cambiamento e di voler cambiare determinate cose, non solo quelle materiali. Occorre un sistema politico ispirato a determinati valori spirituali, valori diversi da quelli del passato” (Aung San Suu Kyi 2008). In precedenza la politica birmana aveva precisato che: “l'autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni ufficiali per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo” (Aung San Suu Kyi 2003).
Alex avrà perso solo se abbandoneremo le cause per le quali si è battuto, però non vedo come questo possa succedere, a meno che i nostri istinti suicidi non prendano il sopravvento sul buon senso.

Dopo la morte suicida di Alexander Langer, Adriano Sofri lo salutò con queste parole, pronunciate al Parlamento europeo in occasione della sua cerimonia di commemorazione (Una Città n. 43 / Settembre 1995):

"Se avessi di fronte a me un uditorio di ragazze e ragazzi, non esiterei a mostrar loro com’è stata bella, com’è stata invidiabilmente ricca di viaggi e di incontri e di conoscenze e imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore, la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri col suo passo leggero, e voglia il cielo che non perdano la speranza".

Il prezzo che Langer dovette pagare per mantenere leggero il suo passo, per emulare “Empedocle dal passo leggero, attento a non essere un peso per la terra”, nella magnifica immagine di Peter Kammerer, fu però eccessivo. Nel suo ultimo messaggio di commiato dalla vita e dal mondo, scrisse:

I pesi mi sono diventati davvero insostenibili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti, anche per questa mia dipartita. Un grazie a coloro che mi hanno aiutato ad andare avanti. Non rimane da parte mia alcuna amarezza nei confronti di coloro che hanno aggravato i miei problemi. “Venite a me voi che siete stanchi ed oberati”. Anche nell'accettare questo invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto.

Sofri ricorda che Langer si era prefissato l’obiettivo di cercare, “con altri, una linea che mi consentisse di restare solidale con la mia comunità (o anche solo di non esserne rigettato) e insieme di non essere nemico dell’altra. Di non esaurirmi nell’identificazione con una fazione, una situazione: di essere anche "altrove" (Una Città n. 43 / Settembre 1995). Era l’ospite di un altro mondo, appunto, e forse di quell’altro mondo, più assennato e meno egotista, continuò a sentire la nostalgia, quando, come san Cristoforo il Traghettatore, una figura che lo affascinava profondamente, si accorse che il fardello era tutt’altro che leggero. Lo ammise ricordando Petra Kelly e Gert Bastian:

"Forse è troppo arduo essere degli Hoffnungstraeger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere".

Langer, come chiunque si impegni ad arginare il Male, vi ci cozzò contro. Fu avversato da chi volle impedirgli di insegnare e successivamente di amministrare la città di Bolzano senza accettare etichette di denominazione di origine etnica controllata, e che ora si rifiuta di dedicare una via o una piazza ad uno dei più illustri, forse il migliore, dei suoi cittadini. Fu avversato dagli integralisti della pace, della nonviolenza e dell’ambientalismo, che troppe volte si rifiutarono di dare spazio alle sue opinioni. Più in generale fu avversato da chi si stizziva per le sue posizioni aperte al compromesso, ossia alla ricerca di un equilibrio tra forze contrapposte, piuttosto che alla lotta continua contro nemici irriducibili. Un impegno gravoso in un mondo in cui l’idea dominante è quella che la propria parte è buona ed alla fine dovrà prevalere. Un impegno che assorbe tutte le energie di un saltatore di muri ed edificatore di ponti. Peter Kammerer ricorda che “qualche volta qualcuno di noi ha tentato di sottrarti almeno un po’ a questi impegni, ma tu hai tenuto duro, sei stato terribilmente pflichtbewusst, coscienzioso, curandoti degli altri” (Una Città n. 43 / Settembre 1995). Coscienza, cura, dedizione, merce rara e poco apprezzata da quelli che non pensano di beneficiarne direttamente, quelli che costringono il prossimo a chiedere le dimissioni dalla vita, per l’esasperazione che uno accumula di giorno in giorno. Così, purtroppo, si doleva Kammerer, “poi abbiamo saputo che indenne non eri rimasto e che sotto il tuo essere coscienzioso, comprensivo, trasparente e ricco di sfumature covava un vuoto sempre più terribile” (ibidem).
Da dove proveniva questo vuoto? Io temo che il suo vuoto sia il nostro vuoto, un vuoto di cui però non siamo tutti ugualmente consapevoli. Proprio questa carenza di consapevolezza rischia di portarci alla rovina, senza peraltro la dignità di un Langer. Questo perché l’umanità è stregata dalla sua ignoranza. Nel Simposio Platone fa dire a Socrate che il male dell’ignoranza risiede nel fatto che chi non è né buono né saggio è comunque soddisfatto di sé, non avverte una mancanza. Langer, che era buono e saggio, percepiva drammaticamente l’ampiezza di questa mancanza, dietro la patina estetizzante e falsamente rassicurante delle apparenze. Langer fu vittima del destino umano, della sindrome della caduta, che ci condanna a non recepire le grandi idee che dovrebbero penetrare i nostri cuori, le nostre coscienze, che ci condanna a replicare Auschwitz e i gulag, Hiroshima e Fukushima, il Vietnam e l’Iraq, a passare da una crisi sistemica a quella successiva, ogni volta nella convinzione che possa essere l’ultima, e non nel senso di definitiva. Poi un nuovo oltraggio, una nuova atrocità, una nuova infamia ci scuote. Questo perché nessuna grande idea pare riuscire ad elevare le nostre coscienze, almeno non permanentemente. Ci scuotiamo per un istante, qualche decina di anni, e poi ripiombiamo nel torpore, fino al prossimo funesto risveglio. Langer si accorse che le grandi idee non hanno alcun potere di trasformare il corso della vita umana. Persino la democrazia e i diritti umani, culmine del pensiero etico e politico umano, sono suscettibili di essere pervertiti e servire il male, potenziandolo e rigenerandolo, vestendolo di luce, una luce oscura ma che ci ammalia. È possibile rendersi conto quotidianamente che non siamo quasi mai all’altezza dei nostri ideali, che questi non raggiungono le profondità della nostra coscienza e dell’inconscio e che quindi non abbiamo il pieno controllo di noi stessi, non siamo interamente responsabili di noi stessi. Il che è francamente sconfortante ed allarmante. “Perché il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio” (Romani 7, 19).
Per questa ragione Socrate e Gesù mettevano in discussione i sistemi di pensiero del loro tempo, chiedendo al loro prossimo di interrogarsi, non di erigere nuovi, ugualmente fallaci, edifici filosofico-religiosi-politici. Lo stesso fece Alexander Langer: ci interrogò e ci chiese di interrogarci, di porci delle domande importanti, di prestare orecchio alle grandi idee che possono renderci persone migliori, invece di farle entrare da un orecchio ed uscire dall’altro. Questa è stata, io credo, la causa principale della sua morte. Troppe persone si vergognavano di se stesse, della loro meschinità, delle torbidezza delle loro coscienze, in sua presenza. Vi è un passo del Simposio in cui Alcibiade esprime perfettamente questo senso di vergogna:

Facendomi violenza, distraggo le mie orecchie da lui, come dalle Sirene, e mi allontano fuggendo, perché non avvenga ch’io invecchi accoccolato vicino a lui. E solo di fronte a quest’uomo io ho provato, cosa che nessuno sospetterebbe in me, la vergogna di fronte a qualcuno. Ma io di lui solo provo vergogna perché riconosco in me stesso che non sono capace di controbattere che ciò che lui pretende non si debba fare; ma, appena mi allontano da lui, sono vinto dall’ambizione di onori pubblici. Lo tradisco come schiavo fuggitivo e lo abbandono, e quando lo vedo, mi assale vergogna per le cose che mi ha fatto riconoscere. E spesso sarei felice se non fosse più tra i vivi! Ma so bene che se ciò avvenisse, ne sarei più angosciato, così che non so proprio cosa farne di quest’uomo.

Tradimento, vergogna, desiderio che si tolga di torno: non abbiamo bisogno di cercare altrove per identificare i responsabili della morte di Alex. Chi ha provato questi sentimenti e non se li è tenuti per sé ma ha lasciato che le sue azioni fossero ispirati da questi guasti morali è complice in quel suicidio, un suicidio che è il risultato della sommatoria di troppe sofferenze personali, generate dalla presa di coscienza della propria pigrizia, ipocrisia, inadeguatezza, pochezza, rispetto alle proprie aspirazioni. Alcibiade, come tanti, ha capito dove sia il vero, ma non è in grado di muoversi in quella direzione. È molto più onesto di tanti altri discepoli di Socrate, convinti erroneamente di aver capito e di mettere in pratica i suoi insegnamenti, ma invece caduti nella trappola dell’intellettualismo, ossia il pensare di aver assimilato un’idea solo perché ne abbiamo compreso il concetto, quando invece le grandi idee richiedono un coinvolgimento morale integrale, per essere colte, di uno stato di coscienza adeguato, che quasi sempre non c’è. La sua assenza spiana la strada al dogma. Sono state le altrui emozioni distruttive, assieme agli altrui dogmi, ad uccidere Langer. In questo senso anch’io, che ero uno studente e simpatizzavo per lui pur non avendolo mai incontrato, sono co-responsabile della sua morte. Quando lessi il titolo del quotidiano che ne annunciava il decesso la mia prima reazione fu: “un altro idealista che non ha retto alla pressione della realtà”. Proprio questo cinismo, assieme al dottrinarismo di chi lo accoglieva solo quando non era in disaccordo con lui, lo spinsero oltre la china. Cinismo e dottrinarismo che ora stanno spingendo verso l’abisso anche noialtri che crediamo alla scienza e non alla verità, alla religione e non a Dio, alla morale e non alla bontà. Che parliamo di armonia, equilibrio e sacrifici per il bene comune quando le nostre azioni sono improntate alla violenza, al moralismo, alla paura, alla paranoia, all’impazienza, alla rabbia. Che pensiamo di trovare il segreto del retto pensare e del retto agire all’esterno, negli innumerevoli sistemi morali, è così produciamo solo immoralità e squilibrio.
Tutti noi, ogni giorno, ci rendiamo complici del male, perché il male esiste. C’è il male che ammutolisce la voce della coscienza e il male dell’identificazione con il nostro ego, con l’immagine che abbiamo di noi stessi e della NOSTRA patria, NOSTRA etnia, NOSTRA classe sociale, NOSTRO genere, NOSTRA religione, a discapito di tutto il resto. Quando qualcuno offende questa nostra identità ci spaventiamo e reagiamo come un dio geloso, tirannico, vendicativo. “Ogni opera e ogni parola umana possono provocare il male”, scriveva Ivo Andric. È la macchina omicida a cui fa riferimento Guido Ceronetti nel già citato pezzo apparso sulla Stampa: “C’è una bellezza nell’essere vinti, ma non bisogna essere troppo masochisti. La macchina che ci schiaccia è di una brutalità senza limiti”. Quella macchina siamo noi, è l’effetto cumulativo delle nostre piccinerie, del nostro rifiuto di ascoltare cosa ha da dire l’altro, di pensare assieme, che è poi l’anticamera dell’agire morale, un esercizio di ginnastica spirituale, perché è allora che ci si disidentifica, che ci si separa dalla propria mente, dal proprio ego, anche se si continua a dissentire dal parere altrui (che può benissimo essere quello di una persona che non ha riflettuto abbastanza su una certa questione). Se si compie lo sforzo di ascoltare l’interlocutore, pur rendendosi conto che le posizioni resteranno irriconciliabili, non si perderà di vista il fatto che l’altro è un essere umano e che è possibile non essere d’accordo con il suo punto di vista, senza essere in disaccordo con lui come persona. A quel punto sarà possibile contenere la nostra naturale violenza. Non arriveremo ad odiare il nostro prossimo. Potremmo persino scoprire di riuscire a rispettarlo anche se su certi temi la pensiamo in modo antitetico.
Questo era il semplice ed inestimabile segreto di Alexander Langer, come conferma Edi Rabini, che fu suo amico e stretto collaboratore (“Una città”, n. 43, settembre 1995:

"Alex apprezzava molto le persone che, pur lavorando in maniera solidale, erano capaci di mantenere una propria autonomia individuale, una propria identità personale, e proprio per questo era capace di vedere, di riconoscere la bellezza delle strade diverse prese dagli altri. E infatti ciò che lo addolorava, fino a non riuscire a sopportarlo fisicamente, non era che, nei rapporti privati o in quelli pubblici, le strade si separassero, ma che da una differenza di idee nascesse un’incompatibilità, un’incomunicabilità sul piano personale. Questo lo feriva tremendamente. […] E, proprio per questo, le divergenze politiche, che erano anche rilevanti, soprattutto di metodo oltre che di contenuto, non lo ferivano più di tanto. Se mai lo ferivano, come ho detto prima, quando si trasformavano in attacco personale o aggressività personale. In quel caso, Alex era veramente disarmato, incapace di reagire. E sapendo di questa sua debolezza, sapendo che quello era il modo per metterlo fuorigioco, c’erano persone che alzavano il tono dell’attacco personale..."

Verso la chiusura dell’intervista, Rabini ci regala un’altra importante riflessione:

"Con la sua morte, Alex sembra voler dire: «In fondo, mi sentivo soffocare, perché non volevo o non ero in grado di porre dei paletti, dei limiti, di dire dei no; oggi, potete togliere di mezzo la mia parte contingente, comprese le difficoltà che vi ho creato, e vivere con pienezza nella riscoperta in profondità di quel che assieme abbiamo fatto o detto".

Come tanti ospiti di un altro mondo, Langer non sa dire di no, non sa negarsi, offre a tutti i suoi servigi, anche se è cosciente del fatto che non potrà assolvere tutti i compiti che si è assunto. È quest’assenza di realismo, di senso della misura, di autodisciplina che, alla fine, lo perderà. Alexander Langer provava gioia nel donarsi, una gioia senza paragoni, ma in questo mondo bisogna fare i conti con i limiti della nostra finitudine e di quella degli altri. La regola aurea per cui non bisogna fare agli altri, quel che non vorresti ti fosse fatto non va intesa semplicisticamente. Uno non porge la mano ad un aggressore che vuole ucciderlo, non accarezza un coccodrillo che gli si avvicina. Arriva il momento di allontanarsi o combattere perché è necessario vivere nel mondo reale, non nell’altro mondo ideale.

Leggendo le testimonianze delle persone che hanno conosciuto Alexander Langer (Boato, 2005), la sua vicenda umana mi ha ricordato da vicino quella dell’agente dell’FBI Dale Cooper, il protagonista di Twin Peaks, interpretato da Kyle MacLachlan. Cooper viene mandato in una cittadine vicina al confine con il Canada, immersa nelle splendide foreste delle Montagne Rocciose per indagare il misterioso assassinio di Laura Palmer, una ragazza dall’aspetto innocente che però nascondeva un terribile segreto. Si innamora presto di Twin Peaks, come chiunque si innamorerebbe dell’Alto Adige, del suo stile di vita, della sua relativa serenità, un eden sopravvissuto in un mondo caduto:

“Sono stato qui a Twin Peaks per poco tempo, ma in questo periodo ho visto decoro, onore e dignità. L'omicidio non è un fatto ordinario qui. Non è un dato statistico da aggiornare tutte le sere. La morte di Laura Palmer ha profondamente scosso tutti, uomini, donne, bambini, perché la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma mi sbagliavo, li ho ritrovati a Twin Peaks”.

Una serenità relativa, però, perché c’è sempre un prezzo da pagare, come chiarisce a Cooper lo sceriffo Harry Truman:

"Twin Peaks è diversa. Lontana dal resto del mondo, l'avrai notato. Ed è proprio per questo che ci piace. Ma c'è anche il rovescio della medaglia, come in tutte le cose. Forse è il prezzo che paghiamo per vivere qui. C'è una specie di malattia nell'aria. Qualcosa di molto, molto strano tra questi vecchi boschi. Puoi chiamarla come vuoi. Una maledizione. Una presenza. Assume forme diverse, ma è stata tenuta lontana da qui da tempo immemorabile. E noi siamo sempre pronti a combatterla. Come i nostri padri. E non finirà con noi. Poi toccherà ai nostri figli".

Anche l’Alto Adige è pieno di sinistri segreti. Ciò che è sotto gli occhi di tutti è già sufficientemente inquietante: il volonteroso collaborazionismo con il Terzo Reich; le simpatie neo-fasciste e cripto-fasciste di molti altoatesini dei nostri giorni; l’assistenza e copertura a fuggiaschi nazisti e fascisti che sostarono o risiedettero clandestinamente per anni in Alto Adige nell’immediato dopoguerra; la contiguità di certa destra sudtirolese con i nostalgici del Terzo Reich (indagata dalla procura di Bolzano); l’indulgenza verso il terrorismo anti-stato (bombe) e di stato (sevizie, torture) in certi ambienti politici e culturali (e nei forum online dei quotidiani locali), il singolare omicidio Waldner. L’Alto Adige è una terra dove si condannano le manifestazioni ed i concerti neo-fascisti organizzati da Casa Pound, ma si celebra lo stesso Ezra Pound, poeta esoterista rosacruciano che per tre anni dimorò a Tirolo, capitale del Tirolo storico, dove gli è stato dedicato un centro studi apologetico, nonostante i suoi beceri sproloqui radiofonici antisemiti, filo-fascisti ed a sostegno del nuovo ordine mondiale nazista e nonostante “Canti Pisani” come il 72, dove interloquisce con Marinetti:

"Vai! Vai! Da Macalè sul lembo estremo del gobi, bianco nella sabbia, un teschio CANTA e non par stanco, ma canta, canta: -Alamein! Alamein! Noi torneremo! NOI TORNEREMO!-" "Lo credo", diss'io, e mi pare che di codesta risposta ebbe pace".

E come il 73, dedicato ai volontari della Repubblica di Salò:

"Gloria della patria!…Nel settentrion rinasce la patria, / Ma che ragazza! / che ragazze, / che ragazzi, / portan’ il nero!"

Ezra Pound, ammiratore di Lenin e Stalin, l’uomo che, dopo la morte di Hitler, definì quest’ultimo “una Giovanna d’Arco, un santo. Un martire. Come molti martiri, porta con sé visioni estreme”. Figuriamoci quanto ci allarmerebbe scoprire ciò che è ancora occultato dietro la patina di rispettabilità della nostra Twin Peaks! Alexander Langer, in “Ciechi dall’occhio destro: il Tirolo fra Andreas Hofer e Haider”, aveva pur denunciato questo stato di cose:

"Perché, dopo la divisione del Tirolo, autorevoli tirolesi a sud del Brennero hanno ben presto elogiato il fascismo come una forma di governo che in fondo andava bene, anche se aveva il difetto di essere italiana, e degli autorevoli tirolesi a nord del Brennero giudicarono positivamente l’austrofascismo autoritario e di matrice cristiano-sociale, senza sentire quanto era lontano dalla democrazia e dal tanto decantato amore per la libertà dei tirolesi? E infine perché così tanti tirolesi – dalle due parti del nuovo confine di Stato – s’infiammarono in massa per Hitler, la sua annessione, la sua marcia, la sua follia della razza, le sue uniformi, le sue bandiere color sangue, il suo mostruoso partito, la sua propaganda per la grande Germania?"

Lo stesso hanno fatto due storici, Leopold Steurer (“Sul nazismo c’è l’oblio”, Alto Adige, 12 dicembre 2010):

"Mi sembra che in una fetta degli italiani ci sia ancora l'idea che in fin dei conti sotto il fascismo tutti abbiano sofferto, che fossimo tutti nella stessa barca. Invece no, il fascismo verso le minoranze linguistiche è stato un'oppressione «in più» rispetto a quella esercitata sugli italiani. Questo troppo spesso si dimentica".

E Andrea Di Michele (“Falsi miti e confronti parziali”, Alto Adige, 21 novembre 2010):

"Il fascismo non viene giudicato in sé ma paragonato sempre col nazismo per darne un'immagine, appunto, moderata. Si arriva così a sminuire o negare la violenza del regime fascista fino a definire «vacanza» le condanne al confino".

Ma per molti è sufficiente una scrollata di spalle collettiva per procedere come se nulla fosse, come se le forze oscure che hanno guidato i loro pensieri e le loro azioni fossero una parentesi curiosa ed irripetibile, come se non avesse senso fare un esame di coscienza sulle ragioni di certe scelte e su certe inquietanti continuità. Alex Langer si comportò diversamente. Allo stesso modo, a Twin Peaks, Cooper sceglie di farsi coinvolgere in questa battaglia contro le “forze oscure”.
È una persona profondamente spirituale, attento ai dettagli e molto meticoloso nell’archiviare le informazioni che raccoglie. Si fa subito ben volere, per una sua spontanea amabilità e socievolezza. La gente si fida istintivamente di lui, sente che è un buono anche se, come ogni forestiero, è un ospite di un altro mondo, ed è perciò imprevedibile. Sembra forte, ed è effettivamente molto determinato, ma dentro di sé cela una grande delicatezza, un forte bisogno di amare ed essere amato. È molto umano ed empatizza con tutti, si fa ben volere e fa presto amicizia con le persone di buona volontà. Non riesce ad astenersi dal congratularsi con la titolare del bar o della pensione in cui alloggia per la bontà della torta alle ciliegie o del caffè “nero come il buio di una notte senza luna”. Si rallegra quando può dare il suo sostegno agli altri. La sua vita è abbondante e cerca di condividere con gli altri questo suo entusiasmo così semplice ed innocente, quasi infantile, per le persone e le cose del mondo. Non è però un sempliciotto. I suoi metodi investigativi davvero poco ortodossi danno buoni frutti. I telespettatori si erano affezionati a questo personaggio e molti confidavano che avrebbero desiderato incontrare una persona del genere. Questo perché, a dispetto della sua approssimazione alla perfezione, si tratta di un personaggio credibile. Si riesce ad immaginare di poterlo incontrare, un giorno. Ecco, sembra di poter dire che Alexander Langer era il tipo di persona che si desidera incontrare, in virtù delle stesse qualità umane esibite dal protagonista di Twin Peaks.
Malauguratamente – poiché viviamo in questo mondo e non in quell’altro – la loro sorte nello scontro con la metà oscura è analoga.
In un’antologia di saggi intitolata “A supposedly fun thing I’ll never do again” (Wallace, 1997), lo straordinario scrittore e filosofo David Foster Wallace, con la sua consueta lucidità e perizia, ci spiega perché questo epilogo era forse inevitabile e perché il regista David Lynch ha capito più della natura umana di tanti antropologi e psicologi. Wallace esordisce chiarendo che i film di David Lynch sono essenzialmente film sul male e che il problema che abbiamo con lui è che le verità che ci squaderna sotto gli occhi ci mettono a disagio. Non vi è catarsi, non vi è il “necessario” trionfo finale dell’eroina incompresa sullo psicopatico o del poliziotto onesto su quello corrotto. Il male come lo descrive Lynch non è banale, ma indossa sempre nuove maschere per rendersi appetibile. Dunque i cattivi di Twin Peaks non sono realmente dei mostri, non sono al di fuori della sfera dell’umano, la loro natura intrinseca non è fatalmente malvagia. Sono integralmente umani, ma si lasciano indossare dal male. Il male, per Lynch, è un’atmosfera, un’ambiente in cui ci si può trovare, ma quasi mai nostro malgrado. È una possibilità, un’opzione, una forza che ci inebria, un’antimateria spirituale, una spada di Damocle. Per questo, continua Wallace, i cattivi sono eccitati ed eccitanti, sono impregnati di questa atmosfera, godono estaticamente di questa possessione. La loro presenza di spirito raggiunge il suo culmine quando compiono il massimo del male e non perché il male li attiva e li programma, ma semplicemente perché li ispira, li incita, li guida, li stimola con la sua influenza che li trascende. Non per questo Lynch li esalta: si limita a fare una diagnosi del livello di corruzione nelle persone. Nessuno è davvero innocente nella tranquilla, bucolica Twin Peaks. Ognuno ha qualche segreto da nascondere, un qualcosa di cui si vergogna. Lynch ha capito che una delle ragioni per cui il male è così potente è che è vitale, robusto ed è quasi impossibile distogliere lo sguardo dal suo volto, come le sirene. Ci pietrifica nell’abbrutimento morale proprio come Medusa. Wallace osserva che l'idea di Lynch che il male sia una forza ha delle enormi implicazioni. Le persone possono essere buone e cattive, ma le forze sono potenzialmente ovunque. Dunque anche il male può spostarsi, pervadere gli spazi, impregnare di sé la psiche umana. Ne consegue che l’oscurità è ovunque, non attende in agguato, non si cela nelle profondità o all'orizzonte. Il male è qui, adesso, come lo è la Luce, l'amore, la redenzione, ossia le forze che Lynch contrappone al male nelle sue opere. Nello schema morale del regista statunitense oscurità e luce non sono mai separati: gli opposti sono congiunti, come nel taoismo e devono restare in equilibrio. Questo è un discorso di importanza basilare per risolvere la questione dell’Alto Adige e lo affronteremo nell’ultimo capitolo, intitolato “Oltre lo scontro”. Gli dedicheremo uno spazio adeguato perché l’opinione pubblica locale, come il pubblico americano, è impreparata a questo tipo di visione, essendo abituata alle demarcazioni nette fin dall’infanzia. Wallace coglie molto bene il problema di Lynch: l’arte deve essere moralmente confortevole e siamo disposti a fare qualunque tipo di ginnastica mentale pur di realizzare questo obiettivo. Similmente, da uno scienziato sociale ci si attendono soluzioni, anche se le uniche soluzioni che chi scrive può proporre partono da una riforma della coscienza, dal basso, e non prevedono alcuna cura istantanea. Tolstoj aveva visto giusto: se dico ad un tizio che può smettere di bere e deve farlo, il tizio si dovrà assumersi la responsabilità di decidere se seguire la mia raccomandazione oppure no. Se invece gli dico che il suo alcolismo è una faccenda molto complicata, che molti esperti se ne stanno occupando, il tizio attenderà che si arrivi ad un consenso su una possibile soluzione prima di provare a smettere. Tolstoj notava che la questione della guerra non era diversa: più ci si ingegna a creare istituzioni, modelli teorici, accordi internazionali, arbitrati e tribunali, ecc. più è facile perdere di vista il fatto che la soluzione è a portata di mano: rifiutarsi di combattere. L’unica via praticabile è quella della propria auto-deprogrammazione. Richiede sacrifici, richiede umiltà, richiede un impegno costante che si protrarrà per tutta la vita. Chi non è disposto a farsene carico favorisce la forza maligna, l’opacità, l’ipocrisia, il rifiuto di scoprire la verità a proposito di se stessi e degli altri. Wallace ritiene che il pubblico americano sia abituato a giudicare con facilità e questo vale anche per l’Alto Adige (come per tutti noi). Il male è male, può nascondersi, ma è consapevole di esserlo e alla fine viene smascherato, denunciato, soppresso, perché vogliamo continuare a sentirci forti, potenti, capaci di controllare la situazione e gli eventi. Vogliamo continuare a credere che il male, che pure esiste, normalmente rimanga sotto la superficie, che irrompa improvvisamente, ma non sia onnipresente ed onnipotente, finché noi non ci impegniamo in prima persona, umilmente e pazientemente, a far sì che non lo sia. Ci piace credere che il marcio dentro di noi possa rimanere dissimulato, sotto controllo. Ci piace credere che quando il male affiora è per essere condannato e purificato. Ci fissiamo, anche inconsciamente, con l'idea karmica che chi semina raccoglie, chi sbaglia riceva la giusta punizione. Questo sarà forse vero – nessuno lo può dimostrare – ma non è detto che avvenga in questo mondo che, al massimo, potrà forse essere un purgatorio, non certo un paradiso trascurato o in potenza.
La logica degli argomenti morali dell'industria dell'intrattenimento americana, continua Wallace, prescrive una fede infantile nella capacità del buono di contrastare il malvagio, per quanto scaltro e manipolatore sia quest'ultimo, e fare giustizia. Allo spettatore rimane solo da immaginare come ciò avverrà. Solo così il suo disagio può essere gestibile e piacevole: sappiamo già come andrà a finire. In Twin Peaks, e nella vita di Alexander Langer, questo non avviene, e allora ci sentiamo traditi, come se il regista (o un qualche dio) avesse infranto un tacito accordo. In Twin Peaks la cittadina non è essenzialmente buona ma in preda ad un temporaneo smarrimento che è scaturito dalle viscere della terra, o ha fatto irruzione dall’esterno. È invece da sempre caratterizzata, come tutta l’umanità, da una evidente schizofrenia morale, dalla tensione che nasce dalla disfida (eternamente in equilibrio, eternamente fecondo, eternamente giusta) tra la Loggia Nera e la Loggia Bianca (cf. Twin Peaks). Laura Palmer è sia innocente sia dannata, sia peccatrice sia vittima di peccatori, sia buona sia corruttrice. Per Wallace questa ambivalenza, questa contraddittoria complessità, questo “sia…sia” ci irrita, perché ci costringe ad affrontare la nostra ambivalenza, la nostra parte corrotta e quella delle persone che ci sono vicine, un'esperienza che genera tensione, disagio e risentimento. Lynch, come Alexander Langer, ci infastidisce lavando i nostri panni sporchi in piazza. Per molti la morte di Alex Langer è stata una tragedia indescrivibile, per alcuni una disfatta personale, per altri - troppi - la sua morte è giunta forse come un sollievo. A questi ultimi rivolgo le parole urlate da Bobby Briggs, compagno della defunta Laura Palmer, al funerale di quest’ultima:

"Maledetti ipocriti, siete rivoltanti! Lo sapevate tutti che Laura era nei guai, ma nessuno ha fatto niente. Nessuno di voi brava gente. Volete sapere chi ha ammazzato Laura? Siete stati voi! Siamo stati tutti. E le belle parole non la riporteranno in vita, risparmiate le preghiere".

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