lunedì 9 novembre 2009

Bianche Vette, Verdi Alpeggi, Camicie Brune


BIANCHE VETTE, VERDI ALPEGGI E CAMICIE BRUNE: ANTROPOLOGIA DI UNA FUNESTA UTOPIA


La democrazia è una forma molto artificiale e assai poco naturale di vita associata...richiede dosi molto alte di disponibilità all’ascolto, molta capacità di sopportazione, una notevole capacità di vivere in assenza di illusioni, dando scarso spazio alle utopie e all’idea di una totale rigenerazione. […]. La democrazia è prevalentemente legata ad una filosofia (l’empirismo) che non dà i brividi lungo la schiena, che sembra a molti scarsamente eccitante, che è nata in polemica con l’entusiasmo, che insiste sui limiti del possibile, sulla provvisorietà delle soluzioni, sulla loro parzialità e rivedibilità, che preferisce i compromessi alle decisioni carismatiche.
Paolo Rossi
Perché dovrebbe essere un ideale pensare ed agire nello stesso modo? Perché una sola religione e non molte? Perché una sola opinione politica o sociale o spirituale e non infinite opinioni? Il bello, il perfetto, non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà e il contrasto.
Luigi Einaudi
ABSTRACT
Nell’area alpina i movimenti etno-populisti hanno conquistato una proporzione dei voti oscillante tra il 15 e oltre il 30 per cento. Questo è uno degli effetti più sgradevoli della globalizzazione e dell’unificazione europea nella regione alpina. Il presente scritto intende prendere in esame il rapporto tra autenticità e ibridità, isole identitarie e globalizzazione nella suddetta area, comprendere la natura di questa forma di populismo – lo si può ridurre ad un mero “sciovinismo della prosperità” o c’è qualcosa d’altro? – e le ragioni del suo successo e infine stabilire se esso costituisca una reale minaccia per la democrazia e per la stessa antropologia come disciplina autonoma da strumentalizzazioni politiche.

L’onda lunga etnopopulista

L’etnopopulismo ha preso piede nell’Europa dell’ultimo decennio, a mano a mano che si è diffusa la sensazione che il nostro stile di vita fosse minacciato da un’“arrogante marea” di immigrati stranieri (una massa organica, non persone) intenti a colonizzare il continente, senza limitarsi a riempire le periferie metropolitane, ma cominciando a risalire le valli (un’epidemia, non persone). Questa sensazione è più intensa nei paesi di dimensioni ridotte, come l’Austria, la Svizzera, la Slovenia, le Fiandre, il Nord-Est italiano, perché le nazioni più ampie e popolose non temono che la loro identità sia stravolta, per ragioni demografiche e storiche (sono in genere ex-potenze coloniali con una lunga tradizione di contatti interetnici). In senso generale, le piccole patrie sono a rischio di assimilazione mentre i grandi stati-nazione assimilano; questo è un aspetto che bisognerebbe sempre tenere in debito conto quando si parla di “secessione leggera”. Le dimensioni ridotte possono rappresentare un fattore ansiogeno e questa è una delle ragioni del successo del populismo di destra europeo, il “vecchio che avanza”. Da alcuni anni a questa parte, per resistere all’“assalto” degli stranieri, la destra populista ha cominciato a ventilare l’idea di una rivoluzione conservatrice in grado di purgare l’Europa dal liberalismo relativista, pluralista e cosmopolita e dalla sua propensione a generare pluriversi ibridi e sincretici. Quel che hanno in mente è un modello etnopluralista di “eterogenee omogeneità”, cioè di enclavi etnicamente differenziate l’una dall’altra e libere di svilupparsi a modo loro, senza un coordinamento centrale (es. Bruxelles). In questo tipo di istituzioni i confini semantici tra libertà, autorità ed ordine si confondono, e lo stesso avviene per quelli che distinguono i concetti di individuo, gruppo etnico e patria (Holtmann et al. 2006). La cultura non è più il risultato storico di conflitti, differenze e compromessi, ma lo strumento principe per la costruzione di un’identità personale e collettiva, ed un talismano contro l’impurità e l’inautenticità. Non esistono universali, nella Heimat, ma solo identità e particolarismi, il qui e l’ora, e l’individuo è la più falsa delle astrazioni (Weber, 1997). Questa visione antropologica e politica è diametralmente opposta a quella formulata dai philosophes dell’Illuminismo e prima ancora dagli umanisti rinascimentali. Di conseguenza essa cozza violentemente con lo spirito delle costituzioni liberali europee e con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
L’evidenza statistica dei più recenti flussi elettorali mostra come l’onda populista prealpina, nata come fenomeno tipico del contesto urbano che investiva principalmente operai, commercianti e liberi professionisti, lambendo l’elettorato dei distretti propriamente alpini (Holmes, 2000; Caldiron, 2001), abbia sommerso anche le valli. In alcune zone dell’Alto Adige i Freiheitlichen raggiungono il 33-34 per cento, la Lega Nord è il partito più votato in provincia di Belluno ed è in netta crescita anche in Trentino. La suddetta deriva populista è tanto più minacciosa quanto più incide sulla teoria dei diritti identitari e culturali, che possono essere facilmente manipolati e comprimere, piuttosto che ampliare, le libertà ed i diritti del singolo, contrapponendosi ad essi. Ad esempio la libertà può trasformarsi nel diritto di perseguire programmi di separazione etnica e l’eguaglianza nel diritto di vedersi garantite pari opportunità solo in quanto membro di un gruppo etnico riconosciuto e non in quanto cittadino. L’attuale stato di diritto – e non le euroregioni – rimane l’unico baluardo contro l’incubo di una segregazione permanente, semi-castale, delle minoranze etniche allogene. Un’Europa mosaico etnofederalista che sposasse una concezione multiculturale dei diritti umani, semi-bloccata da veti incrociati e che dovesse affrontare una duratura crisi economica globale, quale quella attuale, potrebbe trovarsi nell’impossibilità di impedire a certi stati membri di creare una divisione legale e socio-culturale fatta di diritti e doveri distinti, per poi ridurre al rango di meteci la forza lavoro immigrata. A quel punto l’antropologia sarebbe piegata alle esigenze della classe dominante e della sua casta di riferimento.
Alla fine degli anni Novanta questi movimenti avevano già raggiunto risultati analoghi per poi subire una drammatica flessione. Ora sono tornati in auge, a dimostrazione del fatto che i loro destini sono interconnessi all’instabilità del mercato interno e dell’economia internazionale. È dunque probabilmente vero che si tratta di un fenomeno legato essenzialmente all’insofferenza delle classi medie nei confronti di uno Stato considerato troppo farraginoso, costoso ed invadente e ad un’immigrazione che produce scompensi e interferenze nel sistema esistente. Detto questo, se si potesse risolvere la questione in maniera così semplice – quando l’economia tornerà a correre la forza lavoro non-indigena tornerà ad essere indispensabile, l’Islam non farà più tanta paura ad una popolazione meno insicura e i populismi si contrarranno – allora non avrebbe senso discuterne in un breve studio antropologico. In realtà, a mio parere, il fenomeno è ben più complesso di quel che ci piacerebbe credere e va sviscerato adeguatamente, per rivelare i legami logico-simbolici che costituiscono un sistema di pensiero solo apparentemente frutto dell’assemblaggio di asserti scompaginati.

Aberrazione?

Il populismo prealpino ed alpino s’innesta in un robusto e longevo filone di riflessioni sulla genuinità, tenacia ed invidiabile praticità del “Buon Selvaggio” alpino di chiara matrice urbana. Anche questo si nutre delle ansie da mondializzazione, da atomizzazione spersonalizzante e da contaminazione identitaria, oltre che della paura dei conflitti sociali che scaturiscono dalle esperienze multiculturali. Si manifesta nella forma di un singolare pot-pourri di destra libertaria anti-statista e destra nazionalista, conservatrice e razzista che trova dei punti di contatto nella politicizzazione dell’identità, nell’uso del territorio e dell’Heimat come fattori di stabilizzazione simbolica in un mondo in continuo fluire (Pasinato, 2000), e nella critica al modello liberal-democratico (Rosenzweig, 2000). Questo genere di populismo, che trova un habitat ideale nelle democrazie semi-dirette di tipo referendario che stanno gradualmente prendendo piede nell’area alpina, si fonda sulla stravagante premessa che l’etnicizzazione della società sia garanzia di una duratura pace etnica. Si tratta, ovviamente, di una pericolosa fesseria. L’unica possibile conseguenza è la feticizzazione delle differenze, il mascheramento delle divergenze d’opinione tra la gente comune e la dirigenza politica ed il rinfocolamento delle tensioni interetniche. Questo tipo di logica ed orientamento ideologico non è solo il frutto dell’astuzia di pochi politici cinici, ma anche di correnti carsiche xenofobe ed esclusiviste presenti in ogni società e della tendenza delle culture locali ad indigenizzare la modernità per poterla commercializzare come “esotica”. Esiste una tacita complicità di parte dell’opinione pubblica che vede nei confini etnici un valido surrogato di quelli geopolitici, oramai sempre più porosi. Di qui la rivalutazione dell’ethnos - radici comuni necessarie ed immutabili - a discapito del demos - adesione libera e volontaria ad una comunità politica. Non stiamo parlando di un fenomeno passeggero, ma della periodica riemersione di particolarismi egoistici ed anti-umanisti che fanno appello a potenti interessi convergenti e che traggono linfa vitale dai profili psicologici summenzionati. Chi si mobilita attorno a certi simboli identitari lo fa sia perché in preda a bisogni o impulsi primordiali, sia perché intuisce che la sua scelta gli apporterà vantaggi materiali tangibili. Una seria analisi storico-antropologica indica che non esistono aberrazioni, degenerazioni irripetibili ed incidenti della storia. Il nazional-socialismo rappresenta semplicemente la radicalizzazione di premesse socio-culturali e strutture mentali che riemergono negli attuali movimenti etno-populisti e ciò che dobbiamo scoprire è se la società europea sia vaccinata contro questo virus. Prenderò inizialmente le mosse dagli aspetti apparentemente più innocui del fenomeno, come le strategie di commercializzazione e consumo del medesimo. Nella seconda parte tenterò di dimostrare come dietro la maschera materialista, consumista, edonista, molto spesso dozzinale, si celi un abisso magmatico della psiche umana che, se ridestato da uno shock collettivo più vasto degli altri (es. depressione economica sulla quale si sovrappone una pandemia, o un attacco terroristico senza precedenti, o una guerra extra-regionale, o una catastrofe ecologica) ed istigato da interessi e poteri forti, potrebbe riportare in auge i regimi totalitari già sconfitti nel secolo scorso, sebbene in forme nominalmente diverse. Credo che il compito dell’antropologo sia quello di mettere in guardia l’opinione pubblica di fronte ad ogni potenziale manipolazione di elementi simbolico-identitari, sociali e storici.

Feticci consumistici e mitopoiesi

Il “populismo prealpino” è una delle tante manifestazioni del fenomeno dell’auto-essenzializzazione, vale a dire l’appropriazione e la riconfigurazione di tradizionali stereotipi a fini di auto-promozione, auto-realizzazione e stabilizzazione identitaria/psicologica. Un caso analogo è quello dell’“auto-orientalizzazione” in Asia, cioè a dire la trasformazione di una comunità nello stereotipo di sé stessa. Si tratta di un ancoraggio per tutti quelli che vedono il nuovo come una minaccia piuttosto che come un’opportunità. Questa tensione tra modernità e tradizione si può rintracciare anche nelle osservazioni conclusive del rapporto redatto da una commissione parlamentare svizzera del 1929 secondo cui “una Svizzera senza un popolo montanaro forte e sano, moralmente e fisicamente, non sarebbe più la Svizzera nel senso storico del termine”.
Com’è il caso di quasi tutti i movimenti di rivitalizzazione etnica, il populismo prealpino è guidato da leader con una formazione cosmopolita che recitano la parte di zelanti guardiani della tradizione. Esso ricrea e commercializza una mistica della naturale e salvifica autenticità e purezza dell’Alpe come via di fuga dalla metropoli corruttrice e tentacolare, dalle sue manipolazioni, contaminazioni ed imbastardimenti. Nello specchio dell’Alpe il cittadino vede il riflesso idealizzato e nostalgico di un’identità più sincera e genuina. In questo modo la natura viene nazionalizzata, la nazione si naturalizza e la Naturschutz finisce per coincidere con la Heimatschutz. Quand’era in vita, le performance alpinistiche dell’imprenditore Haider evidenziavano il nesso tra la sacralità della montagna, l’intento di generare un’adesione essenzialmente emotiva al movimentismo anti-istituzionale e l’idealizzazione nazionalista della sfida esistenziale dell’individuo, che è rappresentante del suo popolo sulle pareti rocciose come sui mercati finanziari.[1] Questo processo è inoltre intensificato da campagne di promozione turistica incentrate sull’hartnäckige Heimatliebe der Menschen – il tenace amore della gente per la propria Heimat – che si estrinseca nella tutela dell’ambiente e delle tradizioni (Heimatgefühl). Il connubio di ruralismo, tradizione, ansia etnica e modernismo è puramente strumentale. Esso produce un’identità collettiva fittizia che abili operazioni di commercializzazione trasformano in “feticci consumistici”, rendendoli particolarmente seducenti agli occhi del consumatore urbano, desideroso di superare il disincanto della modernità, grazie alla reintroduzione del sacro, del mistico e del trascendente – vale a dire del sublime – in una società che ha in parte ripudiato la presenza del divino. Il modello etnoambientalista “Heimat und Umwelt” non è un ritorno al passato ma un’alternativa all’idea piuttosto caricaturale di una modernità globale incarnata dallo spauracchio McWorld. Una questione importante è capire se la globalizzazione sta spingendo la gente a cercare riparo nei vecchi sistemi simbolici oppure se sta prendendo piede una risposta dinamica in cui vecchie idee e concetti vengono recuperati per dar vita a nuove nozioni di appartenenza. È probabile che entrambi i processi siano in corso e che l’uno non escluda l’altro. Il modello etno-populista riscuote successo perché reintroduce il sacro come antidoto al disincanto del mondo moderno[2] e perché funge da pretesto per contrastare le politiche fiscali e “tecnocratiche” delle capitali degli stati nazionali e di Bruxelles. In questa prospettiva l’identità del singolo è inscindibile dalla valorizzazione delle risorse naturali e culturali della sua piccola patria. Il paesaggio, i riti, il folklore, certe convenzioni ed intimità offrono un saldo ancoraggio per chi non è aduso ai continui riorientamenti identitari imposti dalle metropoli multietniche. Haider è stato certamente molto abile nello sfruttare quest’aspetto dell’immaginario austriaco, puntando su una formula eco-etno-nazionalista in cui ogni offesa o aggressione alla natura diviene un’offesa alla cultura ed all’identità etnica ed individuale, e vice versa. L’Heimat, come proiezione a livello regionale dell’istituzione familiare e del confortevole ambiente domestico (Heim) diventa un bastione di solidarietà per una società gelosamente chiusa in se stessa, uno scudo che protegge aspetti della tradizione che non si vogliono annacquati dalla mondializzazione e dal cosiddetto turbocapitalismo. Questa colonizzazione simbolico-commerciale è destinata al successo in misura proporzionale alle fluttuazioni degli standard di vita nell’ambito urbano ed agli umori oscillanti dell’elettorato. Si tratta quindi di un nazionalismo etnicista difensivo che deve esorcizzare il declino di un certo modello societario sulla scia del conflitto tra centro e periferia, tra globale e locale ed in coincidenza di fasi di incertezza ed instabilità del mercato del lavoro e degli investimenti. In questo senso si tratta di un messaggio molto appetibile per gli elettori sia di destra sia di sinistra e che acquista forza proprio in coincidenza di disastrose congiunture storiche o economico-finanziarie come l’11 settembre 2001 o come lo tsunami speculativo che negli anni Novanta si abbatté su Estremo Oriente, Messico, Brasile e Russia, devastando la fiducia nel futuro di milioni di persone, la credibilità dei governi e la stessa sovranità nazionale di quei Paesi[3]. L’odio verso la finanza apolide che fa il bello e cattivo tempo sulla pelle delle economie più vulnerabili nasce proprio da questa sensazione di totale esposizione ai marosi delle speculazioni su scala globale.
I leader etno-populisti cavalcano quest’istinto di auto-conservazione collettiva (Selbsterhaltungsgefühl). In questi frangenti la funzione della figura carismatica è quella di placare le ansie di quegli appartenenti alla classe media che temono di vedere ridimensionati il loro status e stile di vita e deteriorata la situazione socio-economica della propria comunità. Per questo non è del tutto esatto interpretare lo sciovinismo economico e sociale ed il pessimismo culturale dell’area alpina come la reazione dei perdenti della globalizzazione. Paragonare i popoli prealpini ed alpini, veri vincenti della Storia, con redditi pro capite tra i più alti d’Europa, alle masse proletarie del resto del mondo, è moralmente e storicamente improponibile. Sono invece gli “uomini bianchi arrabbiati” (angry white men) a percepire come una minaccia la competizione globale degli investimenti, dell’innovazione e della forza lavoro che li potrebbe rendere superflui. Per questo i successi elettorali dei partiti populisti alpini in genere coincidono con dei picchi di partecipazione politica ed affluenza alle urne della componente maschile della popolazione: ovverosia quella che ha più da perdere in un mercato competitivo[4].
Il folklore può divenire parte integrante di questa reazione immunitaria. Il folklore, anche in contesti urbani ed industriali, assolve importanti funzioni sociali ed illustra le motivazioni che spingono la gente a fare quello che fa e dire quello che dice, cioè fa emergere i tratti salienti dell’identità di una popolazione, l’immagine che essa ha di se stessa e del suo modus vivendi. Le tradizioni folkloristiche sono tendenzialmente conservatrici, ma non possono fare a meno di evolvere gradualmente, perché sono, in un certo senso, dei “sistemi viventi”. Tuttavia musei, festival e celebrazioni possono anche servire a stabilire chi può rivendicare un diritto proprietario su una certa tradizione, chi è incaricato di proteggerla e chi ne può ricavare dei profitti. La musealizzazione del folklore, spesso suo malgrado, finisce per alimentare la sua commercializzazione nella forma di bene di consumo, pressoché immutabile nel tempo. Questo è precisamente quel che è accaduto in Scozia con il kilt, che non esisteva fino al 1745 e che si è poi trasformato nel simbolo universale della “scozzesità” in virtù di rivendicazioni indipendentiste e, in seguito, di potenti interessi economici. Un caso ancor più eclatante è quello norvegese. In Norvegia, fino alla creazione di uno Stato indipendente, i costumi regionali (i bunad) avevano un valore accessorio. Poi, a cavallo del ventesimo secolo, due studiosi e nazionalisti militanti norvegesi, il linguista autodidatta Ivar Aasen e la scrittrice Hulda Garborg crearono a tavolino rispettivamente il nynorsk (Nuovo Norvegese) ed il costume regionale norvegese (il bunad). Il Nuovo Norvegese nacque dall’arbitraria selezione di termini dialettali che Aasen ritenne più autentici. Esso viene oggi parlato da una minoranza di Norvegesi, nel nord, ma per legge riceve un’importante spazio all’interno della programmazione della televisione pubblica.[5] La Garborg invece raccolse e classificò quei motivi decorativi di costumi regionali norvegesi che secondo lei erano intatti e genuini. Oggi i bunad sono diventati un fenomeno di massa associato all’affermazione dell’identità nazionale ed i relativi motivi decorativi sono protetti da una speciale commissione che ne garantisce la fedeltà a tradizioni regionali (anch’esse stabilite in modo del tutto arbitrario). Ciò ha naturalmente fatto innalzare il loro prezzo, cosicché il valore complessivo di tutti i bunad si aggira odiernamente sui 4 miliardi di euro! Recentemente, un giovane imprenditore sino-norvegese ha deciso di commercializzare bunad prodotti a Shanghai permettendo quindi a molti più norvegesi di poterne acquistare uno. Non potendo denunciarlo per plagio, poiché non esiste un copyright sui motivi decorativi e perciò i bunad non possono essere considerati una proprietà inalienabile, la commissione di tutela si è limitata a condannare la perversione della funzione originaria del costume, cioè quello di incarnare tecniche e caratterizzazioni estetiche che non potevano essere percepite e comprese da tessitori stranieri. Insomma, secondo la suddetta commissione, un bunad made in China non potrebbe mai soddisfare i bisogni emotivi dell’acquirente norvegese e costituisce una vera e propria violenza simbolica alla locale costellazione di valori. Assistiamo qui alla più classica lotta per l’egemonia simbolica sul capitale culturale nell’era della globalizzazione e del multiculturalismo da boutique. In fondo, se l’impatto della cultura russa e cinese si stempera nel contesto del ristorante etnico, l’autoctono può fruirne senza doversi confrontare con queste culture nella vita di tutti i giorni. In questo caso possiamo parlare di un’alterità edulcorata o disinnescata: la si consuma, la si compra, ma senza mai mettere a rischio la propria identità ed il proprio sistema di valori e convinzioni. Un bunad made in China è invece visto come una vera e propria violenza simbolica alla locale costellazione di valori. Il fatto che migliaia di bunad siano stati prodotti nei Paesi Baltici non costituisce un problema, perché Baltici e Scandinavi sono, dopo tutto, etnicamente “cugini”[6].
Per tornare al contesto alpino, un’analoga forzatura è quella della rivitalizzazione delle lingue minori come simbolo di inscalfibile identità locale e giustificazione delle rivendicazioni autonomiste (e dei relativi benefici) di un popolo di montanari “puri ed incontaminati”. Tutto questo a dispetto del fatto che ormai sempre più residenti non sono autoctoni e che l’agricoltura, la pastorizia e la produzione casearia sono mandate avanti da immigrati extracomunitari. Così, paradossalmente, la necessaria tutela delle etnie minoritarie di fronte allo sfruttamento commerciale del loro patrimonio culturale e genetico alimenta proprio quei processi di essenzializzazione che fanno il gioco degli etno-populisti. Questi traggono profitto dal binomio perdita-rigenerazione / morte-vita e dal “feticcio consumistico” di un folklore e di un’identità etnica che, trasformati in una proprietà collettiva durevole, placano le ansie del consumatore urbano contemporaneo, malato di disincanto. Mentre la modernità fa sì che tutto ciò che è solido (la tradizione) si dissolva nell’aria, la reazione etnicista, per recuperare un’intuizione del giovane Marx, rispecchia la locuzione del diritto di successione francese le mort saisit le vif - ciò che è morto s’aggrappa a quel che è vivo trasmettendogli la sua essenza. È anche qui che s’innesta la retorica etnopopulista, che nega la transitorietà, permeabilità, molteplicità e contestualità delle identità, che non sono cose reali, ma solo prospettive sulla vita e sul mondo. Le nega perché solo così può sostenere la finzione di una presunta essenza etnica che si trasmette di generazione in generazione, assieme al latte materno, un corpus mysticum come promessa di immortalità che trionfa sulla morte del singolo e sullo scorrere del tempo e che acquisisce un considerevole valore nel mercato globale.
Il “prodotto comunità”, distribuito sul mercato delle identità per essere acquistato e consumato da chi necessita di più saldi vincoli simbolici e di più ampie affiliazioni di gruppo, non è soltanto un’innocua manifestazione di “tribalismo consumistico” conseguente all’atomizzazione dell’individuo nella società moderna[7]. Esso è il frutto della spontanea divisione del lavoro tra città da un lato ed aree rurali e montane dall’altro, le prime incaricate di produrre capitale economico e socio-culturale, le seconde destinate alla produzione di capitale simbolico-folklorico. L’identità di gruppo è un fattore positivo finché non esclude, finché non si trasforma in fissismo differenzialista di fronte allo spettro della globalizzazione appiattente ed omogeneizzante. della McDonaldizzazione ed americanizzazione del mondo. Un esempio classico di cultura come strumento di mobilitazione politica (e commercializzazione di una tradizione) è quello del movimento slow food – e della retorica del terroir –, che s’inserisce in un fenomeno globale di grande sensibilità verso la tutela di forme di vita e di cultura locali di fronte all’avanzare delle tendenze omogeneizzanti del consumismo mondializzato. Non animali e tribù, ma tradizioni culinarie e mestieri ad esse associati sono a rischio estinzione in Europa[8].
Questa ricolonizzazione simbolico-commerciale fornisce un’enorme quantità di materiale simbolico che può essere rielaborato in funzione delle esigenze contingenti (stagnazione, immigrazione, pluralismo culturale, terrorismo internazionale, fanatismo fondamentalista, concorrenza cinese, ecc.), in modo da articolare nuove identità individuali e collettive più adatte a fronteggiare le sfide della globalizzazione (competizione globale, atomizzazione, snazionalizzazione, precarietà, flessibilità, dissoluzione delle frontiere, porosità dei confini culturali/identitari e continuo stato di flusso ed interscambio). D’altra parte un pubblico particolarmente sensibile alle mode consumistiche e meno legato a sistemi assiologici trascendentali è allo stesso tempo più ricettivo nei confronti delle sirene del marketing elettorale etno-nazionalista, il cui programma politico va ben oltre l’innocua rivitalizzazione culturale, mirando a trasformare gli interessi etnici e di ceto in valori collettivamente percepiti come validi e reali. Ciò è dovuto al fatto che la circolazione di massa di icone ed immagini attinge a pulsioni inconsce e registri affettivo-nostalgici, cioè a dire tocca corde particolarmente sensibili.
Bisogna anche tener conto del fatto che le tecniche di commercializzazione ed affermazione di un marchio (branding) sono ancora oggi robustamente influenzate dai miti borghesi novecenteschi dell’unicità e dell’autenticità come ultimo baluardo della cultura d’élite contro la massificazione della società moderna, conseguenza dall’alfabetizzazione delle masse e dell’introduzione del suffragio universale. Mi riferisco al connubio tra l’aspirazione all’eccellenza dei singoli ed il bisogno di omologazione sociale, che è contraddittorio solo in apparenza. Il fondamentale paradosso del marketing di massa - che deve spingere i consumatori ad acquistare un prodotto che li faccia sentire speciali anche se già lo possiedono in tanti[9] - si rispecchia nella commercializzazione di un’etnicità autentica ad uso e consumo sia dei residenti sia dei fruitori saltuari (specialmente turisti): di qui la tendenza a mercificare le identità etniche, trasformandole in prodotti di largo consumo ed auto-espressione, e le comunità, convertendole in tribù urbane e peri-urbane postmoderne.
Paradossalmente, il marketing stesso, uno dei fattori che più hanno alimentato la secolarizzazione, desacralizzazione e disincanto (l’Entzauberung di Max Weber) della società moderna, diviene un veicolo di risacralizzazione, di “rimagificazione” politeistica (Verzauberung), sulla scia di un feticismo consumistico piuttosto paganeggiante[10]. In questo modo il populismo prealpino ed alpino raduna le energie latenti di una popolazione locale affetta da apatia e distacco dalla politica e le traduce in una forma di attivismo che trascende le consuete appartenenze ideologiche. La riuscita di questo progetto è in buona parte dovuta alla capacità di penetrazione delle strategie di marketing fondate sulla segmentazione dei consumatori in neo-tribù più o meno esclusive di potenziali acquirenti accomunati da stili di vita, aspirazioni e gusti. Questo è il risultato di un lungo processo storico. In quelle società in cui le libertà personali e le scelte volontarie sancite dal contratto sociale hanno finalmente prevalso sugli obblighi tradizionali i legami sociali hanno subito una profonda trasformazione. Per alcuni, specialmente coloro i quali preferiscono definire sé stessi in rapporto agli altri, ad un soggetto collettivo, questi legami si sono eccessivamente sfilacciati. Le recenti strategie di vendita neo-tribalistiche[11] o l’ossessiva, elitista e vagamente nazionalista glorificazione del terroir - a significare che tradizioni e luoghi hanno un gusto, una qualità speciale, che non possono essere riprodotti altrove e che per questo vanno protetti ad oltranza - sono perciò, in un certo senso, l’altra faccia della politica delle identità. Esse hanno origine nel bisogno di risocializzazione di individui che si sentono spersonalizzati dalla frenetica circolazione di beni, capitali, servizi, genti ed idee e che cercano di identificare strategie di resistenza, accogliendo l’uso politico delle specificità culturali, dei localismi e dei prodotti tipici, segni tangibili del radicamento territoriale.

Il leader è il mio pastore: pur se andassi per valle oscura non avrò a temere alcun male

L’etnopopulismo è una minaccia reale per chi ama la libertà e la specie umana al punto da farne il suo oggetto di studio. Vediamo di capire meglio perché. Partiamo dalla strutturazione dell’ideologia etnopopulista e del suo modello di società ideale per come si configura nei discorsi pubblici dei leader e negli orientamenti valoriali dei simpatizzanti. L’organizzazione è tipicamente piramidale, per molti versi neo-feudale. Al vertice si trovano leader carismatici che propugnano valori al tempo stesso reazionari e modernisti e una concezione plebiscitaria della democrazia in cui l’investitura per acclamazione del capo, o pastore, gioca un ruolo centrale e la “democrazia diretta” è vista come un valido strumento per neutralizzare gli intollerabili formalismi e le “vergognose garanzie” della democrazia liberale rappresentativa che, in verità piuttosto correttamente, è descritta come un sistema di potere oligarchico. Il favore riscosso in questi ambienti da un credo neo-liberista temperato è in piena sintonia con la diffusione del Darwinismo sociale degli inizi del secolo scorso: il più forte deve poter stabilire le regole del gioco, il più debole può solo adeguarsi, allontanarsi o perire. Il tanto conclamato liberismo vale poi esclusivamente quando si tratta di penetrare un mercato straniero, mentre sono le scelte protezionistiche ad essere privilegiate quando è il mercato interno ad essere “invaso”, secondo l’accattivante e semplicistica logica della massimizzazione delle utilità globali e minimizzazione dei rischi locali. Secondo la stessa logica, lo sciovinismo del welfare si manifesta nella pretesa che solo l’autoctono possa beneficiare dei servizi dello stato sociale, non gli immigrati “parassiti”, a dispetto del fatto che essi sono indispensabili per l’economia e la demografia locale e producono più ricchezza del valore dei servizi che ricevono.
Si tratta, a tutti gli effetti, di una forma di neo-feudalesimo predatorio il cui rapporto col mondo, inclusi i cittadini, è palesemente strumentale, secondo la tradizionale logica della Rangordnung, che stabilisce una differenza morale ed ontologica tra persone a prescindere dalle loro azioni. Idealmente a ciascuno è assegnato il ruolo che gli compete nella microsocietà alla quale appartiene, la vita è tesa costantemente al raggiungimento di un fine comune e regna un sentimento di solidarietà ed armonia. Tutto ciò che interferisce con questo disegno è, per citare Mary Douglas, impuro, sporco e fuori posto. La libertà tanto propagandata risiede nella spontanea sottomissione a questo assetto, formalmente nell’interesse di tutti i suoi membri, ma in realtà specialmente di chi risiede in vetta alla piramide. È un’ideologia cinicamente realista, strettamente pragmatica, adatta ai conformisti ed arrivisti, un alibi, non una motivazione. La sua evoluzione finale sarebbe un sistema totalitario in cui si è schiavi verso l’alto e tiranni verso il basso, laddove la sovranità in una direzione deve compensare la mancanza di libertà nell’altra. L’inganno è sistematico, quasi inconscio – lo si nota nelle continue contraddizioni, voltafaccia, salti della quaglia, ipocrisie, ecc. – perché le cause culturali e psicologiche sono radicate ed inveterate. Il profilo psicologico-antropologico del leader etno-populista è molto imprenditoriale, nell’accezione negativa del termine. È quello di una persona aggressiva, predatoria, sempre al limite delle proprie capacità e magari oltre, che desidera possedere più di quanto gli spetta, che vede il potere come un’opportunità di trasgressione e prevaricazione, che rifiuta il limite e la proporzione (l’euthymia di Democrito) in virtù dell’ethos virilista che incornicia tutto questo. Sono dominatori, amano il potere di per sé, bramano il controllo degli altri. Sono spietati, intimidiscono, sono vendicativi. Cinici verso chi aiuta il prossimo, preferiscono essere temuti piuttosto che amati. Non sono religiosi, ma possono fingere di esserlo se serve ai loro scopi. I principi cardine della loro azione politica sono l’antagonismo come ordine cosmico (cf. la contrapposizione amico-nemico del politologo filo-nazista Carl Schmitt), l’ideale della mascolinità, il desiderio di prendere invece che dare, di sfruttare invece che accordarsi, una solidarietà sociale organica ed anti-democratica, un ordine morale repressivo, la supremazia di gruppo e l’organizzazione gerarchico-corporativa, un potere autoritario e monolitico accentratore di poteri e con ampia discrezionalità nel loro esercizio, il conformismo, l’omogeneità etno-razziale, il familismo patriarcale ed il tradizionalismo culturale. Non è una mera coincidenza che i leader etno-populisti, che incarnano l’io ideale della massa e per questo esigono devozione, rispetto e fedeltà, siano quasi sempre imprenditori, liberi professionisti o comunque corifei del turbo-capitalismo, della dottrina del laissez-faire. Il sistema sociale a cui aspirano è fondato sullo sfruttamento, sul consumo smodato e sul controllo. Chi sta sotto tende a sognare di prendere il potere al posto del padrone, non di mitigare, trasformare o abolire il sistema. Il risultato è la promozione dell’uniformità, dell’omologazione e della conformità, di una società civile strettamente controllata e di una visione del mondo in cui ogni cambiamento crea nuovi problemi che possono essere gestiti e risolti solo da un’élite carismatica ed illuminata. Gerarchia ed autorità divengono assolute e intoccabili espressioni dell’ordine naturale. È la realizzazione del sogno utopico di Platone di ridurre il caos all’ordine, di neutralizzare definitivamente il conflitto eliminando la pluralità e polifonia delle visioni del mondo, come nella società delle api, che non può tollerare un potere diffuso e partecipato. L’entomologia è più adatta a descriverla dell’antropologia. È anche la concretizzazione della filosofia nietzscheana, incapsulata in questo aforisma (259), tratto da “Al di là del bene e del male”: “Lo ‘sfruttamento’ non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita”.
Difficile credere che una vasta maggioranza di elettori di questi partiti accolgano a braccia aperte questo tipo di futuro distopico, eppure è proprio lì che condurrebbe quest’impostazione antropologica e politica, se venisse seguita coerentemente. In realtà molti abitanti della regione alpina votano per questi partiti perché credono ciecamente al mito dell’eroe bandito e del ribelle maledetto, sebbene questi divengano frequentemente dei politici dispotici, perché sono tendenzialmente immaturi, petulanti, mancano di autodisciplina, grondano di narcisismo. Gli eroi tradiscono, sempre, perché pretendono di essere sempre nel giusto, perché convincono i seguaci che un fine così nobile come quello che delineano giustifica ogni mezzo, perché impongono regole di comportamento e di lealtà che in altre circostanze non saremmo disposti a tollerare, perché si assumono tutte le responsabilità al loro posto e li trattano paternalisticamente. Ciò spiega il paradosso per cui l’individualismo libertario tipico dell’etnopopulismo procede sempre mano nella mano con una robusta fede paternalista e militarista, inquadrata in una fitta gamma di regole e rituali gerarchici e condita di retorica neo-ruralista (la nostalgia di un’Arcadia mai esistita). L’attaccamento agli eroi riflette la tendenza a deificare i genitori per placare le ansie rispetto ad un mondo percepito come ostile e fuori controllo. Ci si affida al supereroe e si finisce per dipendere da lui. La necessità, ammoniva William Pitt il giovane, è l’argomentazione dei tiranni ed il credo degli schiavi.
Qual è invece il profilo psicologico-antropologico del militante (non necessariamente dell’elettore) etno-populista? Spesso ha una personalità autoritaria, cioè a dire tende alla subordinazione alle autorità (“papà e mamma sanno cosa è meglio per me”), all’aggressività nel nome delle autorità (“rispetta il capo”) ed al convenzionalismo-conformismo (“tutti devono seguire queste regole, nessuno escluso”). Ciò conduce al paradosso che il leader è sempre al di sopra delle leggi, anche delle norme da lui imposte. L’aggressività è spesso rivolta verso i deboli, perché i militanti etnopopulisti temono i confronti alla pari e preferiscono comunque aggredire se le autorità li giustificano. Sono giustizialisti verso i “diversi” e i “devianti”, comprensivi verso i potenti e spietati verso chi è il bersaglio delle autorità. Punire qualcuno li fa sentire bene, li fa sentire puri. C’è un vulcano dentro di loro che attende di eruttare con l’approvazione del potere. Desiderano essere normali, non diversi. Aspirano a dissolversi in un mare di ordinarietà e convenzionalità. Credono che l’universo sia intrinsecamente giusto e che le cose cattive succedono alle persone cattive. Loro sono virtuosi e se le cose non vanno bene trovano subito un capro espiatorio. Timorosi, pessimisti, inquieti: i genitori li hanno educati a temere novità, cambiamenti, dissidenti e devianti – omosessuali, radicali, atei, femministe, ecc. Solo all’interno del gruppo e nella conformità verso le sue norme si sentono al sicuro. Mobilitarsi e combattere è una delle cose che fa sentire meglio gli impauriti. Rimanere con le mani in mano fa crescere l’ansia. Diversi studi mostrano che i loro ragionamenti sono falsati da pregiudizi, salti logici, compartimentazione della conoscenza, omissioni, doppiopesismo, ipocrisia, mancanza di autocritica, ritrosia a mescolarsi a persone che la pensano diversamente, rimozioni, inferenze erronee, etnocentrismo e dogmatismo (Altemeyer, 2007). Dunque la logica e l’evidenza empirica non possono modificare le loro opinioni: “So di avere ragione perchè le persone che sono d’accordo con me lo confermano”. Chi si circonda di gente piena di pregiudizi finirà per credere che quegli stessi pregiudizi siano diffusi e veritieri. Ad esempio Eichmann e Hitler erano blandamente anti-semiti, ma lo diventarono ferocemente frequentando certi ambienti. D’altra parte non hanno scelta, queste persone hanno un terribile bisogno di appartenere ad un gruppo, essere parte di qualcosa di più grande che li accetti. La lealtà verso il gruppo è una delle massime virtù e chi critica i leader è un traditore. In effetti, in termini figurativi, non si tratta di un gregge di pecore guidate da un pastore, ma di un’armata di formiche che protegge il formicaio e la regina. Per questa ragione si fanno menare per il naso dai capi: sono pronti a credere alle più grandi menzogne se queste sono in sintonia con le loro convinzioni. In pratica è sufficiente che qualcuno sia d’accordo con loro, non importa quali siano i suoi fini. Si fideranno di chiunque dica loro che hanno ragione e che finga di pensarla come loro. Ma come può succedere che l’umano proceda sulla strada della sua conversione in borg (una specie partorita dall’universo fantascientifico di Star Trek, le cui menti sono unificate e il singolo è incapace di pensare con la propria testa)? Una predisposizione non è un destino e non tutti reagiscono alle crisi e sollecitazioni allo stesso modo, perché la componente biografica è decisiva. È qui che interviene l’ideologia.

Macrantropologia

La macrantropia è l’ideologia che sta dietro al concetto di Persona Cosmica, pantheos, il dio che è l’universo, l’universo come un unico essere antropomorfo, dove macrocosmo e microcosmo coincidono. L’organizzazione dello Stato corrisponde a quella della Natura. La Nazione, il Popolo e il Leader costituiscono un organismo, la Persona Cosmica appunto. Così per il Nazional-Socialismo il Volk è una creatura vivente con una mente (der Volksgeist), una volontà (der Volkswille) ed un corpo (der Volkskörper). Ogni nazista fa parte del Volk e quindi deve sentirsi permeato dall’impulso esistenziale dell’organismo a cui appartiene. I corpi si fondono assieme a costituire un corpo gigantesco ed onnipotente: la Patria, la Razza, la Casta, ecc. Il grande uomo sa che è piccolo e accetta questa sua condizione, il piccolo uomo teme la verità e la rifugge. Cela la sua piccineria e chiusura dietro illusioni di forza e grandezza, la forza e la grandezza di qualcun altro. È orgoglioso di qualcun altro, non di se stesso. Ammira un’idea che non ha mai avuto, non quelle che ha. Dice “noi” perché ciò gli dà coraggio. Dire “io” presuppone un certo coraggio. Il piccolo uomo sublima la sua individualità nella dedizione alla collettività e all’etica della comunità, secondo cui il mondo è una collezione non di persone ma di istituzioni, famiglie, tribù, corporazioni, chiese e parrocchie varie. Lo scopo delle regolamentazioni e norme di condotta è allora quello di proteggere l’integrità morale di queste entità astratte, non dei suoi membri in carne ed ossa. La macrantropia è una fantasia simbiotica, che ha origine dalla fase in cui il bebè si sente fuso con la madre. La paura più grande di un essere umano, insieme a quella della morte cui è spesso associata, è di non valere agli occhi degli altri, di poter essere considerato in modo negativo o con ostilità. Il disagio di chi ha un’autostima insufficiente, di chi sospetta di essere sbagliato, di non valere abbastanza, di essere inadeguato alla vita, per propria colpa. Ne nasce un amore masochistico: do via me stesso, il mio spirito d’iniziativa ed integrità per lasciarmi sommergere da un’altra persona o gruppo che sento più forte, che mi fa sentire più sicuro e vivo, perché sento che non riesco a stare in piedi da solo, sulle mie proprie gambe. È una forma di idolatria e di annichilimento del sé che trova la sua controparte nell’amore sadico del dominatore, il leader carismatico etno-populista, che ingoia i suoi sostenitori trasformandoli in uno strumento della sua volontà. Anche questa tendenza deriva dall’incapacità di stare bene autonomamente e dal bisogno di simbiosi.
A questo punto l’individuo ha trasferito la propria identità al gruppo di riferimento e non si può concepire al di fuori di esso e senza di questa. Ha cercato di estendersi lasciandosi assorbire dal gruppo. Diviene co-estensiva con il gruppo di appartenenza. Appartiene al gruppo e non più a se stesso, perché senza di esso si deprezza drasticamente: una ferita narcisistica intollerabile. L’identità di gruppo è più reale della sua identità personale di origine, più dignitosa, più meritevole di rispetto ed apprezzamento. Non è un atto di generosità o di solidarietà ma un gesto compulsivo il suo. Non ha mai avuto una scelta, non se l’è mai data. La natura di questo comportamento è essenzialmente egotistica ed egoistica: non stava bene con se stesso e ha dovuto prendere provvedimenti, trovare un mondo per confermare la sua esistenza ed il suo valore, magari rendendoli immortali grazie al riconoscimento degli altri membri del gruppo che, inevitabilmente, funzionano da specchi. L’egotista comunitario che sposa anima e corpo la causa etnopopulista cerca negli altri un riflesso di se stesso, gente che la pensa esattamente come lui, che è come lui. Per questo le persone più straordinariamente egoiste sono anche i cantori più fanatici della devozione più assoluta. Il tribalismo degli etnopopulisti è, a tutti gli effetti, la sublimazione del narcisismo individuale in narcisismo di gruppo. Il militante non vede le persone come sono ma come dovrebbero essere a suo parere, ossia elementi del gruppo, parti dell’ologramma che rimandano al tutto. Infatti come ogni punto dell’ologramma contiene tutte le informazioni dell’immagine complessiva, essendone una rappresentazione unitaria, così lui sente di essere la personificazione del gruppo e della sua identità e che tutti gli altri quantomeno si avvicinano a questo ideale, come tante repliche. Un solo io non basta, ma quando se ne possono trovare migliaia, simbioticamente uniti nel Macrantropo, allora ne scaturisce una grande forza interiore, con la quale non si scherza: sono sempre io, ma molto più grande e forte. Ecco come Ingmar Bergman, nella “Lanterna magica”, ricorda la sua partecipazione ad un comizio di Hitler: “Non avevo mai assistito a qualcosa che potesse assomigliare a quella esplosione di forza smisurata. Gridai come tutti gli altri, ululai come tutti gli altri, amai come tutti gli altri. […]. Come Austauschkind ero piombato, impreparato e non vaccinato, in una realtà scintillante di idealismo e di culto eroico. Venni inoltre messo brutalmente a contatto con un’aggressività che corrispondeva ampiamente a quella che provavo io. Lo sfolgorio esteriore mi abbagliò. Non vidi la tenebra”. Il filosofo e saggista svizzero Denis de Rougemont, scrive nel suo “Journal d’Allemagne” (1938): “Quel che avverto è qualcosa che si dovrebbe chiamare sacro timore. Pensavo di trovarmi ad una manifestazione di massa, ad un evento politico. Ma stanno celebrando il loro culto. Sta avendo luogo una liturgia, la suprema e sacra cerimonia di una religione alla quale non appartengo – e che mi schiaccia e mi respinge con molta più forza di tutti quei corpi tesi”.
L’etnopopulista commette un grossolano errore di falsa coscienza: percepisce un io insufflato, ma si tratta di un’illusione. Beandosi nella sua “meritata” magnitudine, non muove un dito per irrobustire l’individualità reale. Si autoinfantilizza e permette che il sistema ne tragga beneficio, mantenendolo in quello stato per addomesticarlo meglio. Perde la capacità di prendere le distanze, di ponderare la sua situazione e guardare la società in cui vive con un certo distacco, con l’occhio di un alieno o di un nemico. Finisce per lasciarsi arruolare in progetti che non sono mai stati i suoi, forse autodistruttivi, ma ai quali si accoda per senso del dovere e sconfinata fiducia nella logica retrostante. È l’alienazione finale: non è più sé stesso, ma l’idea che qualcuno si è fatto di lui. L’ironia vuole che il narcisista egoista quintessenziale sia spacciato – e si prenda per tale in assoluta buona fede – per una persona solidale, cooperativa, altruista e disinteressata. Però l’essere al servizio della causa è solo un modo per rimanere a galla in un’era di grandi cambiamenti e di dolorose crisi. Se gli altri dicessero al militante che non hanno più bisogno di lui, finirebbe per odiarli. Non sta dando, sta prendendo da loro, dal Macrantropo, per salvaguardare la sua esistenza dall’insignificanza e dalla mediocrità. La vanità di chi serve, anche di chi professa la più totale umiltà, può essere tanto sconfinata quanto quella di chi ama farsi servire. L’etnopopulista è automaticamente nel giusto e chi lo critica ha torto. “Si tolgano di torno e ci lascino lavorare (l’etnopopulista tende a parlare al plurale: noi contro di voi). Non ci interessano le società pluraliste e policrome, non ci interessa il cambiamento. Le cose sono già abbastanza complicate così. Vogliamo vivere in un mondo piccolo, semplice, statico, gestibile, in cui ci sia una sostanziale uniformità di obiettivi, interessi e mentalità. La mia decisione è quella del gruppo e vice versa. Nessuno è unico ed irripetibile, ciascuno è interscambiabile e solo in virtù di questo siamo veramente uguali. Questa è la vera democrazia, non gli interminabili dibattiti e gli insulsi e corrotti compromessi. Bando ai bizantinismi, un unico movimento, un unico passo di danza garantisce la sintonia e l’armonia, e quindi la giustizia. Le differenze, le divergenze, i contrasti, i conflitti, i dissapori, le deviazioni creano solo confusione. Semplificare, semplificare! Non funzionerebbe tutto meglio se tutti mettessero al primo posto il bene comune? E il bene comune non è, alla fine, il bene mio e della mia famiglia? Se siamo tutti simili allora non dovrebbe essere difficile realizzare questa legittima aspirazione di ordine ed efficienza. Se si vuole essere coerenti e realisti, solo una comunità chiusa può assicurare il buon esito di questi sforzi, può stabilire quale sia il corretto modo di vivere e pensare, ossia quello che previene le disarmonie, le ribellioni, le – Dio ce ne scampi! – rivoluzioni”. L’ordine si ottiene solo se si enfatizza la coerenza, la regolarità, l’affidabilità, il senso del dovere, la diligenza, l’obbedienza, l’efficienza, la dedizione, la coesione, il controllo, la disciplina. Se ciò comporta una radicale potatura delle inclinazioni umane, delle passioni e degli interessi, forse non è poi un prezzo troppo alto da pagare. In questa cornice gli individui diventano particelle immerse nell’eterno flusso di un’entità astratta superindividuale che li contraddistingue (Razza, Etnia, Nazione, Cultura, Religione, ecc., ossia il Macrantropo) per affiliazione ascrittiva, cioè non per scelta ma per l’assunzione alla nascita di legami di carattere mistico/trascendentale, intesi però come reali, tangibili, autoevidenti. Non muoiono di loro propria morte perché non hanno mai vissuto un’esistenza indipendente; si estinguono, invece, cellule di un organismo più vasto che subito li rimpiazza, dopo una vita trascorsa tranquillamente nelle strettoie di dogmi, fissi orizzonti, Colonne d’Ercole del pensiero.

La Legge di Jante

L’ultima domanda che necessita di una risposta è: perché soprattutto nelle Alpi e nell’Est Europa?
Non ci si può disfare di certe illusioni perché gli esseri umani spesso attribuiscono un valore superiore all’ideale (semplice) rispetto al reale (complesso). Per questo i governi hanno sempre sofferto della sindrome di Licurgo, il legislatore spartano che, come racconta Plutarco, aveva dato disposizioni precise affinché le future generazioni di Spartani provvedessero a premunirsi contro le infezioni di costumanze straniere, viste come vere e proprie pestilenze. Questa è la perfetta ricetta per una società chiusa ed opprimente, votata all’auto-estinzione. In effetti, la ricerca etnografica – e la narrativa di autori di grande spessore come Carlo Levi, Sciascia, Silone, Verga, ecc. – ha mostrato che le popolazioni delle aree rurali sono tendenzialmente meno tolleranti nei confronti di comportamenti non conformi alla norma rispetto a chi vive in città, a prescindere dal livello di istruzione. Il contesto urbano garantisce spazi di anonimato che permettono alla “devianza” di esplorare nuovi territori, mentre le piccole comunità non accolgono benevolmente le opinioni divergenti (Stouffer, 1966). Il geografo e filosofo tedesco Werner Bätzing, in una prospettiva storica, conferma che “Le società agricole non erano affatto omogenee: alcuni gruppi di persone (girovaghi, ebrei, braccianti agricoli) erano rigidamente emarginati. Inoltre la comunità di villaggio era una “comunità coatta”, con un forte controllo sociale, che non lasciava ai singoli praticamente alcuno spazio di libertà individuale e in cui i comportamenti devianti venivano pesantemente puniti e sbeffeggiati” (Bätzing, 2005, p. 344). Il tanto decantato egualitarismo contadino si rivela dunque essere un sistema di fossilizzazione dei ruoli gerarchici. Ognuno deve stare al suo posto, che gli è assegnato fin dalla nascita, e questo vale specialmente per i giovani e per le donne. Le norme collettive di regolazione dei dissidi, che sarebbero potenzialmente catastrofici per comunità di queste dimensioni, servono a preservare un’armonia spesso solo di facciata, estirpando però ogni germoglio di iniziativa personale non in linea con la prassi locale. La diversità e l’originalità sono inoltre penalizzate da pettegolezzi e maldicenze che costituiscono un ulteriore ingranaggio nel meccanismo di controllo sociale. Fin da piccoli si viene educati a non farsi notare troppo e a non manifestare pubblicamente il proprio dissenso per paura di “ciò che dice la gente”. Di conseguenza l’ambizione e lo spirito imprenditoriale sono visti non come dei pregi ma come dei problemi. L’invidia è forse il sentimento più diffuso e più determinante per le dinamiche interne alla comunità (Zucca et al., 2007). Per questo in diverse lingue europee esiste il detto “l’aria delle città rende liberi”. Nella Germania e nell’Olanda medievali (Blok, 2001), mentre i paesi e le cittadine dell’interno si chiudevano in sé stesse all’interno della cerchia delle mura, i centri urbani commerciali e le città portuali si aprivano e si liberavano gradualmente del sistema simbolico incentrato sull’onore (Ehre) e sul disonore (Unehrlichkeit). Questo vale per tutte le società umane. L’evidenza empirica raccolta dagli etnografi nei paesi latini, in India, Cina, Giappone ed in Russia (Burds, 1998) è sovrabbondante.
Negli anni Cinquanta Oscar Lewis (Lewis, 1952) completò un periodo di ricerca sul campo nel villaggio messicano di Tepoztlan e ne segnalò il diffuso egoismo, la mancanza di cooperazione tra le famiglie, la tensione tra villaggi limitrofi, le fratture insanabili all’interno del villaggio, la paura, l’invidia ed il sospetto che avvelenavano le relazioni interpersonali. C’era poi l’onnipresente gossip, la ferocia e tenacia delle malelingue che distorcevano i fatti per mettere in cattiva luce le persone, gettando fango e seminando sospetti sulle loro reali motivazioni, in special modo se erano persone di successo. In Calabria e Lucania Fredrick G. Friedmann incontrò un mondo che non sapeva cosa fosse lo sforzo cooperativo e la collaborazione per il bene comune, un mondo in cui “amare il prossimo, abbassare la guardia di fronte all’irrefrenabile lotta per l’esistenza, equivaleva ad un suicidio” (Friedman, 1976). Edward Banfield, nella sua celebre ricerca antropologica intitolata “Le basi morali di una società arretrata” (Banfield, 2006, orig. 1958), coniò l’espressione “familismo amorale” per definire la tendenza delle famiglie nucleari di un paesino del Meridione a massimizzare i propri vantaggi materiali nel breve, presupponendo che tutti gli altri avrebbero fatto lo stesso. Per questa ragione ogni paesano era a favore di qualunque cambiamento che potesse beneficiare la comunità solo era certo di poterne fruire anche lui. Era invece ostile a ciò che avvantaggiava alcuni ma non lui, perché se gli altri vivevano meglio, lui nel confronto ci perdeva, anche se in termini assoluti nulla era cambiato in casa sua. Questo tipo di comunità, che non conosce la solidarietà e la giustizia, crede in un peccato originale che avvelena le coscienze e teme la legge solo se è in grado di catturare il malfattore con le mani nel sacco, predilige uno stato autoritario che obblighi le persone ad essere buone, dato che non lo sono di natura. L’unico regime degno di rispetto è quello che accentra i poteri ed impone l’obbedienza e l’ordine con la forza. Frustrato da quest’esperienza, l’amara conclusione di Banfield è che “forse non si esagera nel dire che i Montegranesi (nome fittizio, NdR) si comportano come bambini egoisti perché sono stati cresciuti come bambini egoisti…Non avendo interiorizzato alcun principio morale che lo guidi, la decisione del singolo dipenderà dalla certezza della pena o del compenso. La sua relazione con i detentori del potere si formerà sulla base del modello offerto dai suoi genitori” (Banfield, op. cit., p. 161). Dal canto suo George M. Foster osservò che, mentre era pur vero che in questo tipo di comunità era raro che qualcuno in difficoltà fosse abbandonato a se stesso, come invece avveniva di sovente (e avviene ancora oggi) nelle grandi città, era anche vero che “con una così ampia porzione del mondo non soggetta al proprio controllo e pressoché incomprensibile, non sorprende che il senso critico dei contadini sia estremamente limitato…il contadino è capace di credere alle cose più improbabili ed ai complotti (Foster, 1962, p. 49).
Il problema fondamentale sembra dunque essere la chiusura autarchica di questa società: chiusura nei confronti delle persone, delle idee e di tutte quelle innovazioni che rischiano di sovvertire un fragile equilibrio. Quel che c’era e c’è di male nella vita rurale non è imputabile a manchevolezze nella natura umana, o a delle peculiarità biologiche dovute ai rapporti di consanguineità. In un mondo realisticamente dominato dalla percezione che le risorse sono limitate e che il benessere di una famiglia va a discapito del resto della comunità, l’atmosfera non potrebbe essere in alcun modo diversa. Allo stesso modo il legame quasi ossessivo con la terra ed il lignaggio è tipico di una società contadina che pone in cima alla lista delle priorità la trasmissione della terra (l’unica vera risorsa) alle nuove generazioni ed i “buoni matrimoni”. L’alternativa è la fame e l’emigrazione. Le società più aperte non hanno alcun merito particolare: si sono arricchite prima, per ragioni storiche e geografiche, e la sicurezza economica ha reso la gente psicologicamente più disponibile ad accettare il nuovo, l’esotico e l’imprevedibile. Inoltre, pur con tutte le cautele che è doveroso adottare nei raffronti interdisciplinari, è noto che se si restringono gli spazi nelle gabbie di un gruppo di primati, questi tenderanno ad intensificare le norme di buona condotta e la cura reciproca, per evitare scontri fratricidi. È possibile che un qualcosa di simile possa anche avvenire tra gli esseri umani costretti a convivere in spazi ristretti, come un villaggio nella stagione invernale o un condominio, con la differenza che gli esseri umani, oltre all’omicidio, possono anche avvalersi dell’ostracismo, della coercizione sociale, del gossip, della calunnia e dell’azione legale insistita.
La normativizzazione del vivere comune fa ancora parte della quotidianità scandinava ed è stata battezzata Janteloven (la “Legge di Jante”) dal nome di una cittadina rurale immaginaria che compare in un racconto dello scrittore danese Aksel Sandemose del 1933. Oggi la Janteloven si riferisce alla tendenza, rilevata in Scandinavia, ma già presente nella democrazia ateniese e nelle assemblee vichinghe, e probabilmente generalizzabile all’intero arco alpino – pur con mille eccezioni –, a non pensare in termini di libertà personale ma di libertà di gruppo: della famiglia, delle comunità, delle etnie; non in termini di diritti umani, ma di diritti collettivi di autodeterminazione. Non in termini di confronto aperto, ma di comunione spirituale che possa rendere superflua la mediazione. La suddetta legge si può applicare a tutte quelle società agrarie che si fondano sull’assolutizzazione dei principi di equità, stabilità ed uniformità e che per questo sono funestate da invidie, gelosie e livelli soffocanti di controllo sociale, che escludono ogni istanza pluralista e liberale. Queste sono le 10 regole della legge di Jante, che sono imposte e fatte rispettare dalle stesse vittime della loro tirannia, cioè i membri della comunità:
1. Non penserai mai di essere speciale;
2. Non penserai mai di avere la nostra stessa dignità;
3. Non penserai mai di essere più sveglio di noi;
4. Non immaginarti migliore di noi;
5. Non penserai mai di sapere più cose di noi;
6. Non penserai mai di essere più importante di noi;
7. Non penserai mai di distinguerti per bravura in qualche cosa;
8. Non riderai di noi;
9. Non penserai che qualcuno si preoccupi per te;
10. Non penserai che ci puoi insegnare qualcosa.
Come si vede la prima preoccupazione è quella di mantenere un forte spirito comunitario, a qualunque costo. Anche a costo di sacrificare l’originalità, la varietà, l’ambizione e l’iniziativa personale, in breve, il benessere. L’uguaglianza delle opportunità perde di senso, non esistendo alcun criterio meritocratico. Non è forse un caso che due società geograficamente molto distanti come la Svezia ed il Giappone abbiano analoghi sistemi di coercizione (förbudsstat in svedese) e corporativismo sociale, una simile esaltazione dell’armonia e mortificazione della tradizione liberale[i] ed un presente ancora in parte segnato dalla medesima retorica delle tradizionali virtù contadine (nōhonshugi). In Svezia, come nel resto della Scandinavia, en god uppväxtmiljö, cioè un ambiente adatto alla crescita dei bambini, dev’essere armonioso, privo di conflitti e dispute[ii]. L’egalitarismo (jämlikhet) e la giusta misura (lagom) sono i principi trainanti di una società che esteriormente appare smaccatamente moderna, ma il cui cuore batte per un romantico comunitarismo organicistico à la Tönnies[iii]. Lagom, come in lagom är bäst, vale a dire “lagom è il meglio”, indica il giusto mezzo, ciò che è appropriato quantitativamente, qualitativamente e moralmente – un concetto presente anche nelle altre lingue scandinave.[iv] L’accezione non è però quella della giusta misura filosofica. Pare che il termine derivi dall’espressione ga laget om, che significa “fare un giro (di birra)”. Essere lagom significa essere uno del gruppo, uno che vale né più né meno degli altri. In Svezia quando si beve con gli amici da un recipiente comune nessuno può bere più degli altri o meno degli altri, men che meno rifiutarsi di bere perché non ne ha voglia: chi viola questa norma non scritta infrange lo spirito comunitario. Questo dettaglio rivela delle insospettabili analogie con la cultura collettivista giapponese. In Giappone se si esce a cena con amici bisogna bere e mangiare quel che prende il gruppo. Chi non lo fa è considerato estremamente maleducato, perché prende pubblicamente le distanze dal gruppo con cui si accompagna. La società giapponese non è per nulla egalitaria, essendo organizzata in senso gerarchico-verticale, ma finge di esserlo. Analogamente, il principio d’ordine della società svedese, come di quelle alpine, è l’equità (rettferd) che si realizza nell’esigenza di evitare che qualcuno sorpassi gli altri per status o proprietà[v]. Ovviamente ciò è virtualmente impossibile. In Giappone si riscontra la stessa logica nel famoso detto deru kugi wa utareru, “il chiodo che sporge va ribattuto”.
L’origine di questa ideologia non è difficile da individuare. È la teoria del gioco a somma zero: alla fine della partita la vincita di un giocatore equivale alla perdita dello sconfitto. Non v’è alcun afflusso di beni dall’esterno, se non per grazia divina, né una parte viene distrutta. Nella realtà questo può solo accadere in un’economia chiusa, come quella dei paesi contadini appunto. Il mio successo deve per forza essere ottenuto a spese del resto della comunità, il che è inaccettabile in termini di coesione sociale. Per questo ancora oggi in Trentino può accadere che un paesano di successo sia costretto a nascondere il miglioramento delle sue condizioni di vita, per evitare ritorsioni collettive (Zucca et al., 2007). Questo significa anche che la competizione è intrinsecamente immorale, perché crea vincitori e vinti, cioè disarmonici squilibri sociali ed infelicità. Inoltre non è lecito far trasparire la propria felicità. In una società fatalistica essere fortunati attira il rischio di una qualche calamità, magari invocata da chi nutre invidia. Essere felici significa sottolineare l’infelicità altrui e quindi generare ulteriore invidia. In Giappone si è risolto questo problema tramite l’usanza di elogiare gli altri e biasimare se stessi. Una falsa umiltà di rara ipocrisia ma utilissima in una società conformista e prepotentemente gerarchica. La legatura dei piedi o il bonsai sono efficaci metafore di queste restrizioni auto-imposte per non risaltare troppo nella massa. Essere diversi, pensare con la propria testa, è visto come una minaccia. Anche l’Italia rinascimentale era vittima di questa sindrome livellatrice. Allora si chiamava sprezzatura, da cui “disprezzare”, ed era una forma di dissimulazione. Non potendo impegnarsi per essere migliore, la persona di talento – in generale il nobiluomo – doveva fingere di eccellere in modo disinvolto, come se non potesse farci niente. “Ce l’ha nel sangue, non è certo colpa sua”. Una predisposizione così dirompente che uno non può tenerla sotto controllo è un dono divino e la comunità se ne fa una ragione; anzi si può arrivare ad ammirare questa specialità, perché non è acquisita in cattiva fede o togliendo qualcosa a qualcun altro. Non è inappropriato suggerire che i leader etnopopulisti siano dispensati dalle norme comunitarie proprio come effetto di questo stesso tipo di meccanismo psicologico. Sono gli eroi palingenetici, toccati dalla Provvidenza ed inviati a rigenerare e rinnovare una società in frantumi.
Quante possibilità ci sono di fare strada in una società del genere? Se sai che il tuo successo dipende in ogni caso dal fallimento di qualcun altro, allora non sarai mai privo di sensi di colpa, e ti sentirai sempre in debito. Sarai caritatevole verso i bisognosi non in maniera disinteressata ma per non incorrere in qualche sciagura karmica/divina riequilibrante; non semplicemente perché è giusto così, perché è bello poter fare qualcosa di buono per qualcuno che ne ha bisogno. Come detto, la legge di Jante opera in tutto il mondo, non solo negli ambienti rurali. In fondo il condominio altro non è che un villaggio ricontestualizzato. Pensiamo a come il gruppo schernisce uno dei suoi membri perché “si sente speciale”, “si sente migliore di noi”, “adesso si è montato la testa”, invitandolo a “scendere prima di farsi male”, ecc. Oppure quando i lettori delle riviste si deliziano nell’apprendere delle ultime scelleratezze dei vip e delle star, augurandosi in cuor loro che siano riportati tra i mortali, se possibile con una caduta fragorosa. È quel che in tedesco si chiama Schadenfreude, “piacere nelle altrui sventure”. Nei paesi anglosassoni si chiama tall poppy syndrome, dal racconto liviano di come Tarquinio il Superbo insegnò al figlio Sesto Tarquinio come domare i Gabii: decapitandone i capi come il padre aveva reciso i papaveri più alti. A dimostrazione della sua universalità ed antichità, essa è presente anche tra gli Oroikava della Nuova Guinea: “Gli uominibianchi non sembrano essere soggetti alla normale economia morale delle relazioni interpersonali, quella per cui la vista della ricchezza fa crescere negli altri il desiderio e la cupidigia, mettendo in azione quei processi che fanno decrescere la ricchezza, o distribuendone una parte a chi l’ha vista, come forma di compensazione, o altrimenti generando dei sentimenti negativi di desiderio frustrato e gelosia che spingono le persone a contraccambiare distruttivamente, con un atto criminale oppure con un sortilegio” (Bashkow, 2006, p. 209). Esiste naturalmente nelle valli alpine (Zucca et al., op. cit.) e, guarda caso, si accompagna ad una maggiore certezza etica e ad una minore disponibilità al cambiamento ed all’accoglienza degli immigrati (Gubert e Pollini, 2006). Nel suo “Il pane di ieri”, Enzo Bianchi, pur ammettendo che la vita nelle campagne del Monferrato poteva essere un incubo per donne, minori e non-conformisti, non si avvede che le virtù contadine che vorrebbe preservare come “magistero umano” sono al fondo del suo autoritarismo e soffocante moralismo. Per il priore della comunità monastica di Bose, Fa’ el to duvèr, cherpa ma va’ avanti!, è “una sorta di traduzione popolare dell’imperativo categorico kantiano: fare il proprio dovere a costo di crepare è il fondamento dell’etica individuale”. A dire il vero è una massima perfettamente compatibile con l’interpretazione che Adolf Eichmann – “Agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo Paese” – e il giurista nazista Hans Frank – “Agisci in maniera tale che il Führer, se conoscesse le tue azioni approverebbe” – hanno dato della medesima. In altre parole obbedire alla legge significa allinearsi di buon grado alla volontà della comunità. L’è question ‘d nen pièssla, “Si tratta di non prendersela”, la seconda massima, sembra invece esprimere l’ideologia dell’armonia e della conformità assoluta. La terza massima, Mesciùma nenta el robi!, “Non mescoliamo le cose!” è corredata da un ambiguo commento del priore: “Principio minimo di ordine che successivamente, durante i miei studi, ho scoperto essere alla base delle prescrizioni bibliche contenute nella tradizione sacerdotale sulla «purità». Non mescolare le cose – «non adulterare» recita letteralmente il comandamento biblico di solito tradotto con un improbabile «non fornicare» o con un sessuofobo «non commettere atti impuri» – è principio di ordine che esige trasparenza di pensiero, chiarezza del discorso, rettitudine nell’agire. […]. Nessun ibrido, nessun sconfinamento di campo, nessun appiattimento in un magma indefinito, ma il sapore schietto di un vino non tagliato”. O il sapore schietto dell’ossessione per la Terra e per il Sangue (Blut und Boden), per la razza pura e l’Heimat incontaminata da elementi esterni. Infine Esagerùma nenta! “Non esageriamo!”, che equivale al lagom svedese ed al deru kugi wa utareru giapponese. Nel Monferrato, come nelle Alpi, la ricerca (estorsione?) del consenso è sempre stato uno dei valori imperanti. Risulta difficile da un lato accettare il disaccordo e lo scostamento dal codice etico collettivo, e dall’altro dare il giusto peso alle istanze private che abbiano una rilevanza generale, laddove la nozione stessa di sfera privata è quantomai precaria ed il livellamento sociale è la norma. Da ciò deriva la forte staticità della società e l’indolenza nel provvedere a distinguere tra gruppo di appartenenza ed individui, questi ultimi inchiavardati in un destino predefinito ed incapaci di percepire se stessi come possessori di un’identità separata dalla società nella quale vivono. La rimozione di ogni discrimine tra i vari membri della comunità tradizionale significa in ultima analisi che non possono esistere interessi qualitativamente differenti dei quali è necessario tener conto: “Se siamo tutti uguali, non c’è ragione di prendere sul serio delle differenze solo apparenti”. Un compromesso, per quanto insoddisfacente, rimane un’opzione preferibile rispetto alla collisione di posizioni contrapposte che impediscono di tutelare il sistema di reciprocità (do ut des) che regge le sorti degli agglomerati rurali. Questo tipo di società, che ricalca il modello Gemeinschaft di Ferdinand Tönnies, è totemizzato: la sua rappresentazione simbolica coincide con i legami di lealtà, alleanza e mutualità tra i suoi membri. Questi vincoli costituiscono un quadro di riferimento assoluto che è raramente messo in discussione, perché la totemizzazione conferisce alla società stessa la sua legittimità e ragion d’essere e permette di venerarla. La condizione di estrema prossimità dei suoi membri fa sì che, anche se nessuno crede davvero di essere uguale al vicino, ognuno senta il dovere di dar mostra di credere di non essere migliore degli altri, per non diventare il bersaglio dell’invidia sociale. Questa finzione di massa permette alla comunità di conservare intatti ed immutati i rapporti, i ruoli, la serialità dei comportamenti e delle relazioni e soprattutto le norme tradizionali e quindi le ragioni della propria identità. In cambio chi non è parte della comunità è virtualmente inesistente, perché la funzione totemica è intrinsecamente esclusivista: non avrai altra comunità all’infuori di me. Questa è la sostanza di cui sono fatti gli incubi del fondamentalismo religioso e del totalitarismo politico.
Quel che si perde in questo genere di assetto sociale “permeante”, fondato sulla solidarietà organica, è il valore dei singoli – che risulta derivato, mai originario – e la funzione e l’importanza del conflitto. Non un conflitto fine a se stesso, non una divisione permanente, che sarebbe autolesionistica. Ma l’antagonismo come corollario del pluralismo, che genera quei legami che mantengono coese le democrazie, in vista del fine ultimo dell’impersonalità, che esploreremo nell’ultima parte del libro. Una società che non è capace di superare l’autoreferenzialità e di comprendere ed assorbire ciò che le manca non è sana. È una distopia falsamente egalitaria che abolisce ciò che potrebbe distinguere una persona dall’altra, sancendo che il mero atto di far valere la propria personalità, anche senza causare danno alcuno agli altri, è intrinsecamente sbagliato e disdicevole; in altre parole, che qualcosa è andato storto nell’evoluzione umana. Terreno oltremodo fertile per l’etnopopulismo.

Conclusioni

Lo studio dell’etno-populismo pre-alpino sembra confermare le intuizioni del sociologo indiano-statunitense Arjun Appadurai, secondo il quale il conflitto interetnico è spesso frutto di una massiccia dose di ansia da incompletezza – la maggioranza etnica non riesce ad occupare l’intera società, rendendola più omogenea. Questa è a sua volta amplificata dal narcisismo predatorio di quelle maggioranze che si sentono minacciate dalle minoranze. In buona sostanza l’impulso esclusivista, etnocida, o genocida di una maggioranza conformista ed autoritaria nei confronti di una minoranza indesiderata ha un’origine simbolica e pratica. Da un punto di vista tassonomico, le entità che violano i confini categoriali sono spesso giudicate repellenti da coloro i quali non possono fare a meno di notare quanto sia breve il passo verso un sistema simbolico uniforme e incontaminato[12]. Da un punto di vista pratico le minoranze portano con sé delle istanze e degli interessi particolari che possono mal conciliarsi con quello che certi leader politici stabiliscono essere “l’interesse generale” e con il “senso comune”.
La maggiore conquista della modernità è stata la valorizzazione del soggetto umano contro le dottrine che ne auspicavano la sconfessione. Tutte le ideologie più misantropiche del passato – quelle totalitarie, quelle organiciste e quelle fondamentaliste – hanno sempre fatto dell’anti-individualismo il loro cavallo di battaglia. Di contro l’uguaglianza politica non può essere pensata che all’interno del modello del suffragio universale (una testa, un voto) che segna l’avvento dell’era dell’individuo, il cui valore risiede nel suo essere un umano, a prescindere dalle sue specificità e qualità[13]. Un’era in cui, finalmente, come ha correttamente osservato Norberto Bobbio, l’individuo sia assiologicamente superiore alla società di cui fa parte, o sceglie di far parte, ed in cui la democrazia venga intesa “non come veniva definita dagli antichi, “il potere del popolo”, ma come il potere degli individui presi uno per uno”. L’obiettivo dovrebbe essere quello di una società interculturale in cui le somiglianze tra gli esseri umani siano giudicate di importanza primaria e le differenze di importanza secondaria. Il commento di una “ladina” riportato da Cesare Poppi – “I Ladini? I Ladini sono quelli dell’Union di Ladins. Io, per me, sono di Penia”[14] – è beneagurante. Beneaugurate perché preannuncia un’epoca più generosa verso quelli che, come l’antropologo ghanese-statunitense Anthony Appiah, credono nel “cosmopolitismo radicato”, uno stile del vivere e del pensare dove l’affetto per la propria terra e la propria gente convivono con affetti, lealtà ed identità universali, che sono ugualmente spontanei per chi ha avuto la possibilità di risiedere all’estero. Quegli stessi sentimenti ed attaccamenti che sono il nutrimento dell’empatia verso il forestiero e lo straniero e le loro sofferenze e paure, che sono invariabilmente le nostre[15].


[1] Esistono delle evidenti analogie simboliche ed ideologiche tra Haider e due intellettuali filo-nazisti come Julius Evola e Marc Augier (Saint-Loup), entrambi provetti alpinisti, sciatori e promotori di una mistica naturalista e neo-pagana rivolta ai giovani, potenziali fautori della palingenesi europea. Augier, oltre ad essere attivo nella promozione della rete di ostelli della gioventù francese fu anche un teorico dell’Europa delle patrie carnali (patries charnelles) in cui veniva enfatizzata la componente biologica dell’etnicità.
[2] A. MASTROPAOLO, La mucca pazza della democrazia.
[3] D.R. HOLMES, op. cit.
[4] A. GINGRICH, “Neo-nationalism and the reconfiguration of Europe”.
[5] Qualcosa di simile accade in Scozia, dove quasi nessuno parla il gaelico o è interessato ad apprenderlo – stando al censimento del 2001 il numero di bilingui gaelico-inglese era sceso sotto la soglia dei 60.000 su una popolazione totale di circa 5.000.000, registrando un calo dell’1 per cento annuo – ma il governo locale investe ingenti somme per mantenerlo in vita.
[6] T. H. ERIKSEN, “Keeping the recipe, Norwegian folk costumes and cultural capital”.
[7] V. COVA & B. COVA, Alternatives Marketing.
[8] A. LEITCH, “Slow food and the politics of pork fat, Italian food and European identity”,
[9] Si vedano gli spot pubblicitari che fanno leva sul tema del segreto e della confidenzialità.
[10] M. MAFFESOLI, Le temps des tribus, le déclin de l'individualisme dans les sociétés de masse.
[11] Es. La tribù TIM.
[12] A. APPADURAI, Modernity at large; A. APPADURAI, Sicuri da morire.
[13] P. ROSANVALLON, Le sacre du citoyen.
[14] C. POPPI, “La frontiera è nascosta, ma nascosta dove?”, p. 313.
[15] K.A. APPIAH, The Ethics of Identity.


[i] P.O. ENQUIST, “On the art of flying backward with dignity”.
[ii] P. COLLA, “Garantire l’autonomia”, Il sistema educativo svedese, Parolechiave, 4, 1994, pp. 97-118.
[iii] A. RUTH, “The second new nation, the mythology of modern Sweden”, Daedalus 113, 1984, 1984, pp. 53-96.
[iv] Passeli in finlandese, passe in norvegese e passende in danese.
[v] H. F. DAHL, “Those equal folk”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Awesome post. È piaciuto molto leggere il tuo post sul blog.