Saggio pubblicato in “Politika.
Annuario di Politica” della Società di Scienza Politica dell’Alto Adige.
Incluso (con revisioni ed
ampliamenti) in “Contro i miti etnici : alla ricerca di un Alto Adige diverso”,
di Stefano Fait e Mauro Fattor. Bolzano: Rætia, 2010.
I
Sudtirolesi hanno continuato, sempre e comunque, a sentirsi degli eroi. Il
continuo inneggiare alla Heimat minacciata addormenta le coscienze.
Reinhold Messner
L’Heimat
è il luogo dove dormono i nostri morti e dove vegliano i loro pensieri.
Eva Klotz
ABSTRACT
Il culto dell’Heimat legittima
la trasmutazione degli esseri umani in simboli ed immagini, proiezioni del
proprio narcisismo. È nocivo nella misura in cui intrappola gli individui in
una gabbia di simbolismi, stereotipi, pregiudizi, etichettature e reificazioni
irrazionali e rozze, talora al limite del patologico. È una religione laica che
idolatra la Patria in virtù della sua vocazione a conferire ai cittadini un’identità
eterna e salvifica, ossia l’immortalità. In Alto Adige questo fenomeno è
aggravato dalle tensioni etniche e da una sensibilità liberale ancora immatura.
Ciò comporta che molti altoatesini si identifichino più agevolmente in
relazione alle loro differenze piuttosto che agli interessi comuni, alle
preoccupazioni condivise ed all’appartenenza alla specie umana. Per questa
ragione il Freeistaat Südtirol rimarrà un esercizio intellettuale. Infatti l’autodeterminazione
avrebbe senso solo se ci si lasciasse alle spalle il paradigma identitario
neo-tribale ora dominante ma, mancando quello, si estinguerebbe anche l’aspirazione
all’autodeterminazione.
The Heimat cult serves the
purpose of legitimizing the conversion of human beings into symbols and images,
the projections of one’s own narcissism. It is toxic to the extent that it
traps individuals into a cage of irrational and callous symbolisms,
stereotypes, prejudices, brandings and reifications, sometimes bordering on the
pathological. It is a surrogate religion and the Homeland is the idol bestowing
an eternal, salvific identity, that is, immortality on its citizens. In South
Tyrol this phenomenon is exacerbated by ethnic tensions and by an undeveloped
liberal sensibility, leading many locals to identify themselves on the basis of
their differences rather than their common interests, shared concerns, and
human fellowship. The Freeistaat Südtirol idea seems destined to remain an
intellectual exercise: national self-determination would become meaningful and
viable only through the elimination of the currently prevailing neo-tribalist
paradigm, which is the driving force behind the self-determination movement.
Sono convinto che la società
altoatesina, che pretende di essere moderna, persino un modello per il resto
del mondo, è almeno in parte culturalmente arcaica. Il problema che denuncio è
quello dell’eccessiva invadenza di ideologie illiberali ed antidemocratiche
come l’identitarismo, il patriottismo localistico e nazionale, l’integralismo
cattolico e la xenofobia mascherata da tutela della tradizione e dell’etnia. La
mia impressione è che in Alto Adige manchi una genuina cultura liberale, cioè
una cultura del rispetto e della dignità dell’individuo, perchè la tradizione locale
non ha mai realmente saputo che farsene, o l’ha addirittura giudicata nociva.
Ancora oggi sembra essere una sorta di esotismo buono per le chiacchiere da
salotto, ma di nessuna utilità pratica, se non addirittura pericoloso per i
sottili equilibri di questa società. La cultura liberale è avversata da ogni
parte: cattolici, estrema sinistra ed estrema destra, l’intera rappresentanza
politica di lingua tedesca e a volte persino dai Verdi, che pure, in quanto
partito mistilingue, costituiscono un’avanguardia politica ed intellettuale in
Alto Adige. È come se uno dei valori in comune tra i gruppi etnici del Sud
Tirolo fosse proprio il rigetto del liberalismo. Diritti ed interessi
collettivi affiancano e talora sovrastano quelli della persona. L’autonomia per
come è concepita odiernamente ha una grave responsabilità per questo stato di
cose, perché non ha aiutato chi vive in Sud Tirolo a guardarsi attorno, ad
accorgersi che ogni individuo è magnificamente originale e prezioso, che etnie
e culture non sono marchi di fabbrica o d’infamia. Peggio, ha ostacolato quella
che dovrebbe essere una rivelazione spontanea, una graduale presa di coscienza.
Purtroppo, date le condizioni attuali, il superamento dell’autonomia su base
etnica attraverso l’emergere di un’autonomia territoriale non risolverebbe tout
court i problemi esistenti; sposterebbe piuttosto il punto focale della
contrapposizione dall’interno verso l’esterno (aree confinanti). In questo
scritto io sostengo che senza un cambio di mentalità generalizzato che ponga al
centro l’individuo e non le collettività, ogni tentativo di superare il “disagio”
sarà infruttuoso. Ignorare il problema della logica immanente all’autonomismo
altoatesino significa accettare implicitamente che se verranno a mancare le
risorse economiche, si tornerà al punto di partenza ed il confronto identitario
che è rimasto congelato per decenni riemergerà, com’è purtroppo già avvenuto
altrove. Certi politici sembrano continuare a giocare col fuoco,
irresponsabilmente, sulla pelle della gente, difendendo l’assetto etnico
esistente, fomentando il patriottismo dell’Heimat ed il nazionalismo italiano,
accettando che l’arte, la cultura e la scienza possano essere censurate. Questa
è una patologia sociale che potrebbe risultare fatale, in circostanze meno
favorevoli (Obkircher 2006). Alexander Langer sosteneva che in Alto Adige c’è
necessità di “traditori” della compattezza etnica, cioè di persone che
obiettano alle pratiche e schemi mentali del proprio gruppo etnico di
riferimento. Ma il problema è di portata ben più ampia. L’essere umano deve
venire sempre e comunque prima di qualunque astrazione. Purtroppo il futuro
prossimo sembra volgere al peggio. I partiti popolari della Baviera e della
regione alpina sono tutti in ritirata, ma non di fronte all’avanzare di
movimenti liberal-progressisti. La vittoria va invece ai movimenti
etno-populisti. Non è la libertà del singolo che ricercano, non la sua
autodeterminazione, ma la fuga dalla libera circolazione dei capitali, delle
idee e delle persone. Il concetto di autodeterminazione assume un significato
particolarmente angusto – questa è casa mia e ci faccio quel che mi pare – come
se un fazzoletto di terra su questo vasto pianeta potesse chiudersi a riccio e
far finta che la globalizzazione non esista o possa essere arrestata. Un’illusione
pericolosa anche per chi la coltiva. La conseguenza più nefasta è l’imposizione
di una visione monocroma del passato, del presente e del futuro, la diffusione
della credenza che all’Arcadia seguirà l’Utopia. Ma i Mondi Ideali (le Heimat
appunto) sono sempre ostili alle persone reali, perché si prefiggono degli
obiettivi irrealistici, rispetto ai quali gli esseri umani non potranno mai
essere all’altezza. Ciò comporta la condanna dell’autonomia decisionale dei
singoli; e quando l’individuo abdica dalla propria autonomia morale si
abbandona alle forze superiori della storia e del fato, cioè si deumanizza.
Qui sta il paradosso: l’interpretazione
della nozione di autodeterminazione in voga nella regione alpina (collettiva) di
fatto nega o restringe sostanzialmente quella originale e più nobile, ossia
quella individualista-umanista. Chi si oppone al separatismo sudtirolese e all’idea
di un piccolo stato altoatesino dovrebbe usare argomenti più radicali dell’analogia
con il Tibet che, sebbene sottoposto ad un governo coloniale, non richiede l’indipendenza
ma l’autonomia. Il Dalai Lama è perfettamente consapevole del fatto che
pretendere l’indipendenza causerebbe immani sofferenze ai Tibetani. Il suo è un
atto di responsabilità. La ragione per cui al momento attuale l’Alto Adige, a
mio parere, non “merita” la forma statuale (Freistaat Südtirol) è che qui manca
una cultura liberale e dunque non esistono le garanzie minime necessarie a
potersi dire certi che in uno stato indipendente i diritti degli individui non
saranno condizionati dall’enfasi sui doveri e sui diritti collettivi. Queste
garanzie minime per la sopravvivenza di una società genuinamente aperta,
antitetica alle democrature, esisteranno solo quando: (a) l’inquadramento
etnico sarà un imbarazzante ricordo del passato; (b) le municipalità, i mezzi d’informazione,
gli istituti scolastici, i cittadini in generale saranno trattati da adulti,
messi nelle condizioni di decidere da sé, e non sottoposti alla tutela
paternalistica della Provincia di Bolzano. Ciò presumibilmente non si
verificherà nel breve. Infatti solo i grandi stati nazionali con una lunga
tradizione di efficace gestione della globalizzazione riescono a difendere il
loro assetto di società aperte. Una fetta considerevole dell’elettorato delle
piccole patrie non sembra considerare la possibilità di vedere l’incertezza ed
il cambiamento come un’opportunità. Piccolo è forse bello, ma piccolo è anche
insicuro, l’insicurezza genera paura e la paura è seguita dall’aggressività.
Per questo promuovere l’autodeterminazione dell’Alto Adige è un errore. Bisogna
unirsi, non dividersi – e forse anche un Grande Tirolo non basterebbe –, perché
solo così si possono diluire gli effetti negativi della globalizzazione e
ricavare il massimo dai suoi benefici. Solo così si cresce e si matura come
persone e come società. Ma ciò comporta un ulteriore e probabilmente
inaggirabile paradosso. Il Sudtirolo potrebbe secedere solo se si lasciasse
alle spalle il paradigma identitario neo-tribale che lo caratterizza, volente o
nolente, ma se ciò avvenisse non ci sarebbe forse più ragione di farlo.
LA SUPERBIA DEL PATRIOTA
Contemplare l’Heimat significa immaginare uno spazio incontaminato, il regno dell’innocenza e dell’immediatezza.
Eric Rentschler
L’irrigidimento
etno-patriottico-populista si autoalimenta ed il suo combustibile è, a mio
avviso, la superbia, una manifestazione del narcisismo. Siamo tutti superbi,
chi più chi meno, in varie forme. È un vizio connaturato alla condizione umana.
Esistono tanti tipi di superbia: quella del credente, quella del fanatico,
quella del tecnocrate, quella dell’eterna vittima, quella dell’eterno innocente
e puro, quella del moralista, quella del cinico, quella del falso modesto,
quella dell’eterno risentito, ecc. In particolare la falsa modestia e il
risentimento di certi patrioti sono espressione di superbia, per di più
ipocrita, perchè dissimulata. Il patriota è un localista su più ampia scala.
Invece di ritenere speciale il campanile, ritiene speciale un certo territorio
ed il popolo che vi risiede. Spesso così speciale che chi è diverso dal gruppo è
in torto, ed è – somma ironia della psiche umana – etichettato come superbo e
sprezzante. “Abbassa la cresta” è il tipico ammonimento delle società chiuse e
conservatrici che non rispettano il valore dell’individualità e non sanno
quindi valorizzarla come risorsa per il bene comune. Non è forse
quintessenzialmente superba la presunta identità di popolo che si fa più
stridente e soffocante a misura che si fa strada il dubbio che non esista
alcuna identità di popolo, essendo quest’ultima solo l’abbaglio di chi guarda
una foresta da lontano e la vede sostanzialmente omogenea e uniforme,
rifiutandosi di apprezzare la varietà e diversificazione del bosco misto?
Alexander Langer è rimasto vittima di questo abbaglio, dell’impulso
ostracizzante etnico e patriottico che condanna come traditori, come corpi
estranei da espellere, chiunque diverga da una norma stabilita da chi detiene
il potere politico e simbolico ed esercita un’egemonia culturale. Non era lui
ad essere sbagliato e “disarmonico” – come qualcuno ancora sostiene –, era la
società in cui viveva che era arrogantemente superba a tal punto da non poter
accogliere chi ne denunciava gli eccessi, i pregiudizi ed i vizi. Forse l’Alto
Adige non è ancora cambiato a sufficienza da allora, anche se certamente c’è
molta più tolleranza ed autoanalisi da parte di tutti, anche degli stessi
politici (Stecher 2008).
Il patriottismo chiamato in
causa dai politici di lingua italiana e tedesca per giustificare l’avversione
ad ogni tentativo di superare le barriere linguistiche e psicologiche in Alto
Adige, è il retaggio di un modo retrogrado di intendere i rapporti umani ed è
quindi una sciagura per l’intera società e per i principi che hanno ispirato l’idea
di stessa di Europa moderna. Ne consegue che la concezione di autonomia, libertà
e patria/Heimat che domina il dibattito locale ed è più o meno esplicitamente
accettata da entrambi i “blocchi” maggiori è corresponsabile del deficit
democratico locale e non può che alimentare gli antagonismi etnici. C’è da
chiedersi come sia possibile che, dopo i disastri del secolo scorso, non sia
ancora sufficientemente chiaro che patriottismo/heimatismo, localismo e
campanilismo, nazionalismo ed etnocentrismo sono fenomeni sociali
potenzialmente tanto devastanti quanto il razzismo. Possiamo realisticamente
continuare a credere che i pensieri e le azioni dei nostri cari e delle persone
che ci circondano siano il precipitato di una Cultura e di una Razza che non
esistono in natura e non invece il frutto di una creazione soggettiva, bella o
brutta che sia? Possiamo continuare a credere che il meticciato etnico e l’ibridazione
culturale siano una minaccia per la solidità della comunità, a causa del loro
potenziale di diluzione delle essenze collettive?
Se mi si passa l’analogia
volutamente provocatoria, questo è “il mondo che è stato messo davanti agli
occhi della gente per nascondere la verità” nella Matrix sudtirolese, la gabbia
che, sempre per citare la celebre trilogia, “non si può odorare, toccare e
vedere”. Queste gabbie sono un acido che corrode la democrazia e non i nobili
fondamenti sui quali essa ufficialmente si sostiene. Concordo pienamente con
quanto sostiene il filosofo politico statunitense George Kateb, secondo il
quale, “tutta questa energia ed impegno che emanano dall’amore per la patria
irrobustiscono alcuni dei peggiori aspetti della vita politica moderna e, come
tale, questo amore, questo patriottismo, sacrifica i principi morali universali
nella venerazione di un falso dio. Il patriottismo non è solo una forma
dissimulata di auto-venerazione, non è solo volonterosa auto-abiezione, non è
solo consapevole auto-sfruttamento; più di tutto, è un’idolatria” (Kateb 2006).
Se sostituiamo etnia o lingua al termine patria/Heimat, il giudizio non cambia.
Patriottismo, etnicismo e culturalismo sono espressioni della spinta
collettivistica generata dalla paura di essere liberi, di poter decidere del
proprio destino, con tutta la zavorra di insicurezze che questo comporta. Il
mio contributo, come detto, intende mostrare come il patriottismo autonomistico
ed etnicista tanto in voga nell’odierno Sudtirolo sovverta i valori e principi
fondanti della democrazia costituzionale. A partire dalla stessa libertà,
sbandierata come slogan buono per ogni stagione fin dai tempi di Andreas Hofer,
ma vilipesa nella sua interpretazione collettivistica di libertà di popolo, a
detrimento della libertà degli individui. O come l’uguaglianza e la
fratellanza, mortificate da un assetto sociale che è intrinsecamente
inconciliabile con il loro carattere universalistico.
Un aspetto positivo della questione
è che l’amore per l’Heimat Sudtirolo è comunque più ampio e inclusivo di quello
del proprio paese, della propria valle, o del proprio partito e questo sta ad
indicare che, con il tempo, i confini dell’inclusione sono destinati ad
estendersi ulteriormente fino a comprendere l’intera umanità. L’obiettivo di
spingersi verso forme di egoismo simpatetico sempre meno ristrette e tronfie
non pare essere una chimera se pensiamo che già di per sé l’attaccamento al
Sudtirolo comporta in ogni caso un legame affettivo con centinaia di migliaia
di sconosciuti, cioè entità astratte di cultura, aspetto, estrazione sociale,
fede e lingua diversa. Questa rimane una fase transitoria. Necessaria, ma
transitoria. Il razzismo ed il nazionalismo sono stati condannati dalla storia –
al prezzo di milioni di vite, non solo umane –, ma sono ricomparsi nella forma
più mite, sebbene ancora pericolosa, dell’etnicismo e del patriottismo. La
battaglia civile e morale del progressismo liberale per questo secolo dovrà
dunque essere quella di infiacchire questi feticci, confidando nel fatto che il
buon senso della gente possa sottrarci alla prospettiva di altri disastri che
spazzino via sanguinosamente ogni residua idolatria e superbia.
IL VIZIO PATRIOTTICO
L'identità è la matrice della
vita di una persona
Pius Leitner
L’Italia agli Italiani
Donato Seppi, Unitalia
Ecco un estratto della
deposizione al processo di Norimberga di Karl Brandt, medico personale di
Hitler e responsabile del “Progetto T4” per la soppressione dei Tedeschi “inadatti
alla vita”: “Posso, come individuo, separarmi dalla comunità? Posso rimanere
fuori e farne a meno? Posso, come parte della comunità, eluderla dicendo che
voglio vivere in questa comunità, ma non voglio fare alcun sacrificio per essa,
fisico o spirituale che sia? […]. Noi, quella comunità ed io, siamo in un certo
senso la stessa cosa”. Vorrei chiedere la stessa cosa ai lettori. È possibile
farlo? Io penso proprio di sì. Il ragionamento di Brandt è viziato da un errore
di fondo: manca un nesso di conseguenza logica. Da (a) “Io cresco in una
determinata comunità ed ho degli obblighi nei suoi confronti” (ad esempio il
rispetto delle norme, se non le ritengo immorali o obsolete) non consegue (b) “Non
posso abbandonarla, non posso ‘tradirla’, perché io e la mia comunità di
riferimento siamo una cosa sola”. È una visione patriarcale dei rapporti tra
individui e società che deriva dall’assolutizzazione della pietà filiale, che
rende incontestabili ed inappellabili le decisioni dei genitori, anche nella
sfera delle scelte affettive e lavorative. In una società liberale questo,
fortunatamente, accade più di rado. Brandt era nato a Mülhausen in quella che
allora era l’Elsass, l’Alsazia Lorena tedesca. È più che probabile che sia
stato influenzato fin dall’infanzia dalla convergenza degli chauvinismi
francesi e tedeschi e dalla mistica dell’Heimat che, come in Alto Adige, si fa
soffocante ai confini con aree culturali non germaniche. Nel 1947 il medico
alsaziano si rivolse al figlio per educarlo all’amore per l’Heimat, prima che
fosse troppo tardi (la sua esecuzione era prevista per l’anno successivo): “Il
suolo che ha assorbito la nostra gioventù dovrebbe esserci sacro e dovrebbe
rimanere tale. I nostri genitori ed antenati hanno calcato la stessa terra
prima di noi, hanno respirato lo stesso odore di terra, hanno visto le stesse
colline e boschi e valli ed hanno sentito lo stesso vento che soffiava. Come si
può lasciarsi tutto questo alle spalle? Le montagne, i castelli, il mormorio
dei fiumi e lo scrosciare dei ruscelli! Heimat!” (Schmidt 2007). Non è
singolare che questo legame assoluto si possa essere riprodotto con uguale
intensità nei confronti di una personalità autoritaria alla quale consegnarsi
anima e corpo, qualcuno come Hitler, appunto. Chi non appartiene a sé stesso ma
alla terra in cui vive ed alla sua storia, alla gente con cui vive ed alla loro
cultura, è facile preda degli incantatori. Brandt cercava una casa per la sua
coscienza ed un padre che lo guidasse. Li trovò, come li trovarono altri come
lui, e ciò decreto la morte di milioni di esseri umani. Non era forse un
patriota anche Eichmann? Le sue ultime parole prima dell’esecuzione furono: “Lunga
vita alla Germania. Lunga vita all’Austria. Lunga vita all’Argentina. Queste sono
le nazioni con le quali mi sono identificato più strettamente e non mi
dimenticherò di loro. Ho dovuto obbedire alle regole della guerra ed alla mia
bandiera. Sono pronto”. L’inabilità di pensare di Brandt e Eichmann era dovuta
al loro fanatico attaccamento ad identità collettive, che li aveva convinti del
fatto che le loro responsabilità morali andavano riservate al Führer, all’Heimat
ed al Volk e che il loro comportamento infantile, narcisistico, megalomane e
nichilista era in realtà nobile, lucido, solerte e solidale. Tali sono gli
effetti delle intossicazioni comunitariste.
A questo punto qualcuno
potrebbe controbattere che un patriottismo depurato dalla mistica del sangue e
del suolo è del tutto accettabile e che è esattamente questo che si cerca di creare
in Alto Adige. In effetti Luis Durnwalder, l’attuale presidente della Provincia
di Bolzano, ha dichiarato che “la patria è qualcosa di più di un pezzo di terra
o di un insieme di persone che parlano la stessa lingua. Patria significa anche
pluralismo e rispetto del prossimo” (Durnwalder 2006). Un patriottismo dello
statuto sarebbe quindi la migliore garanzia per il buon funzionamento di un
eventuale Sudtirolo indipendente sul modello sanmarinese. Io credo che questa
posizione sia sbagliata. Credo che il patriottismo in ogni sua forma sia una
calamità e non un pilastro della democrazia. A differenza dell’ex presidente
Ciampi ritengo che il patriottismo sia un ospite-parassita delle democrazie
liberali che si nutre delle loro sostanze vitali, i valori e principi
costituzionali, per poi infestarle con il suo manicheismo distorcendone il
significato e le finalità. Così facendo il patriottismo rende più probabile il
ricorso alla violenza, l’arrendevolezza della cittadinanza di fronte a
decisioni del governo che andrebbero contestate pubblicamente e l’uso di
strumenti nominalmente razionali nel perseguimento di obiettivi irrazionali. Il
patriottismo, come l’etnicismo, è una forma di feticismo del valore intrinseco
di un’astrazione che viene normalmente legittimata spiegando che non si possono
abbandonare le persone a se stesse. I cittadini, se lasciati soli, tendono all’egoismo,
all’anarchia, al “tutti contro tutti”, ecc. Invece il patriottismo produce quel
tipo di legame emozionale che tiene insieme una comunità e rafforza la
percezione dell’esistenza di una volontà e di un interesse comune. In una
società secolarizzata in cui la religione dominante non funge più da collante,
senza una religione civile come il patriottismo non si possono ottenere quella
fiducia, coesione, solidarietà e lealtà civica che permettono ad una società di
funzionare. Solo così – si sostiene – si potrà costruire quella “comunità
intensa”, quella Gemeinschaft aggiornata ai tempi moderni, quella comunità di
destino (Schicksalsgemeinschaft) che è indispensabile nelle società complesse a
rischio di atomizzazione ed alienazione.
Il fatto che: (a) nessuna
ricerca empirica abbia individuato un interesse ed una volontà comune a tutti
gli abitanti di un gruppo umano anche di ridotte dimensioni; (b) l’esperienza
abbia dimostrato che gruppi umani isolati non scivolano irrimediabilmente verso
uno scenario à la “Signore delle Mosche”, ma si auto-organizzano; (c) proprio
il comunitarismo nelle sue varie forme (nazi-fascismo, fondamentalismo,
maoismo, colonialismo ed imperialismo, ecc.) sia stato responsabile dei
peggiori disastri del passato, non sembra scuotere la sicurezza di questi
cantori del patriottismo. La patria deve rimanere l’elemento primario di
identificazione dei cittadini, che sono tenuti a prendersi cura di lei, ad
effettuare un investimento emotivo in essa, responsabilmente, mettendo da parte
il proprio interesse privato, come se si trattasse della propria famiglia.
Anche se nel farlo si erigono degli steccati tra gli esseri umani, poco importa,
in fondo essi sono naturalmente inclini a sentire un attaccamento tribale e
territoriale alla propria gente ed alla propria terra. Negare le identità
collettive significa andare contro natura, cancellare la propria stessa identità.
Non esistono cittadini del mondo ed anche se esistessero, i loro cuori
sarebbero freddi e calcolatori. Questa è il nocciolo della vulgata comunitaria
fin dai tempi di Rousseau e del contro-illuminismo. Non c’è pensatore liberale
che non abbia dovuto impegnarsi a fondo per contrastare quello che rimane,
ancora oggi, il sentimento dominante tra la popolazione: l’idea che le persone
non siano neutrali, ma tendenzialmente egocentriche e per questo malvagie e
potenzialmente pericolose. Non v’è un ordine interiore senza un ordine imposto
dall’esterno, dallo Stato, dalla patria o da Dio e dai suoi rappresentanti in
terra. Ancora oggi si tende a credere che una democrazia laica e liberale debba
porre rimedio alla contraddizione tra “convincimenti personali” e “bene comune”,
sebbene questa istituzione sia nata proprio dall’intuizione che l’unico bene
comune concepibile è il benessere e la felicità del maggior numero possibile di
cittadini, e che questo non può essere definito e stabilito da uno Stato
etico-confessionale.
La domanda che dovremmo porci è
invece quanta coesione sociale sia realmente necessaria in una società moderna?
I principi costituzionali non danno forse per scontato che una democrazia
liberale si fondi sulla libera circolazione delle opinioni, anche se
conflittuali, e sulla valorizzazione della variabilità umana, considerata un
fattore congeniale allo sviluppo della creatività e del progresso? Pur
accogliendo la considerazione che c’è un limite al livello di diversità che una
democrazia può gestire, come possiamo impedire che, in determinate circostanze,
il patriottismo conferisca allo Stato, o al governo di una provincia autonoma,
uno status morale superiore, tale da poter esercitare una vera e propria
autorità morale? E quanto efficace può essere il patriottismo nel cancellare
lealtà più localizzate e privatistiche che metterebbero a repentaglio la
coesione dell’intero sistema? Non è forse plausibile concludere che esso
semplicemente aggiunge altre linee di demarcazione esclusive senza peraltro
indebolire in modo decisivo quelle pre-esistenti? In fondo gli Statunitensi
sono stati patriottici per la loro intera storia nazionale, ma non sembra che
ciò abbia sradicato il razzismo, il fondamentalismo religioso e politico, il
sessismo, il localismo, il classismo ed ogni altra forma di discriminazione
generalmente praticata dalla nostra specie. Al contrario l’Olanda è un caso
esemplare di nazione che pur non coltivando il patriottismo si è avvicinata più
di molte altre agli ideali della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Forse proprio perché in quel paese ci si è gradualmente liberati della credenza
conscia o inconscia nel Peccato Originale o nella Bestia Interiore, secondo cui
gli individui sono troppo ignoranti, empi, scellerati, deboli e carenti per
poter condurre la propria esistenza senza abbisognare della guida illuminata di
un guru, di una tradizione o di un’istituzione che siano al di là di ogni
possibile biasimo. Il fatto è che troppe volte accade che la patria/Heimat
finisca per rappresentare l’innocenza stessa, giustificando ogni tentativo di
compartecipare alla sua sacralità, assolvendo i patrioti da ogni responsabilità,
autorizzando la salvaguardia dello status quo e della mentalità dominante. La
Storia ha dimostrato ripetutamente che le persone tendono a commettere azioni
spregevoli nella convinzione che, in quanto essenzialmente buone, coscienziose
e rispettose della legge, queste stesse azioni non possono che essere
legittime. Non abbiamo certo bisogno del patriottismo per rafforzare la
convinzione che un atto riprovevole possa essere dettato dalla propria
coscienza e quindi diventare non solo consentito ma persino lodevole.
Va anche detto che la
convinzione che una società comunitaria sia più idonea alla produzione di
capitale sociale è contraddetta dai fatti. Un numero sempre crescente di studi
empirici, che in precedenza non erano mai stati intrapresi in modo così
sistematico, sta dimostrando che è invece vero il contrario. Più una società
coltiva un ethos individualista più i suoi membri sono felici, autonomi,
interagiscono responsabilmente e disinteressatamente e non con una passiva,
acritica, consuetudinaria accettazione di regole e norme desuete o persino
autolesionistiche (Kasser 2002; Houtman 2003; Allik/Realo 2004; Inglehart et
al. 2004; Van de Vijver et al. 2008). L’evidenza empirica dimostra che quando
le persone si liberano dai sensi di colpa e di vergogna imposti da autorità
esterne, cioè quando cominciano a sentirsi padroni della propria vita e del
proprio destino, esse cominciano anche a beneficiare di una maggiore autostima
e benessere. Ciò a sua volta permette loro di sviluppare una personalità più
estroversa, tollerante ed aperta al cambiamento ed alla sperimentazione.
Insomma una società moderna che pone al centro la valorizzazione dell’individualità
democratica è più felice, ottimista, meno aggressiva, più disponibile alla
negoziazione, più responsabile e più equa. Ne consegue che l’individualità
democratica, che rifiuta patriottismo ed etnicismo, è l’architrave della
coesione sociale, dello sviluppo economico e civile e della fiducia nel
prossimo (Lyubomirsky et al. 2005; Veenhoven 2008). Che questa evidenza
empirica non sia ancora stata presa in considerazione è un’evidente indicazione
della potenza e tenacia di certi preconcetti nella ricerca sociologica e nell’opinione
comune.
Se non ce ne rendiamo conto è
perché più le persone si sentono libere più, almeno inizialmente, sono a
rischio di sentirsi a disagio con la loro libertà e conseguente carico di
responsabilità, e possono sentire il bisogno di donarla al più presto a
chiunque – in genere un demagogo, la figura chiave delle società in via di
modernizzazione e democratizzazione – prometta loro di accollarsi le loro
responsabilità e di farli sentire meno isolati ed alienati. Così le persone
finiscono per diventare ancor più dipendenti nei confronti di nuove istituzioni
e nuovi padroni. Invece di promuovere una società ed una cultura diversa ed
aperta, la nuova dirigenza politica sarà egocentrica ed opaca e incline al
populismo, alla tecnocrazia, alla strumentalizzazione della democrazia diretta
(nella forma della volontà generale di Rousseau). Il patriottismo è strumento
principe di questa strategia ed è per questo che esso infesta invariabilmente
le società coinvolte in una rapida transizione verso la democrazia liberale.
Queste esperiscono moti di reazione al cosmopolitismo ed al pluralismo
universalista che potremmo classificare come “comunitarismo atomistico” o “individualismo
statista” e che molto probabilmente affondano le loro radici nel paternalismo
ed autoritarismo libertario delle società contadine tradizionali. Un
libertarismo da enclave chiusa che non è indirizzato al singolo ma alla comunità,
ferocemente coercitiva ed intollerante nei confronti delle interferenze esterne
ed interne.
A questo punto alcuni avranno
forse concluso che se il processo di transizione è inevitabile, non rimane che
attendere tempi migliori. Questo è certamente vero, ma il problema è che la
reazione comunitarista all’apertura della società insiste su virtù civiche,
definite impropriamente primarie, come l’obbedienza, la disciplina, la lealtà
(indiscussa), l’armonia, l’autocontrollo, il senso del dovere e del rispetto
(acritico), la coesione del gruppo, ecc. e ciò può avere conseguenze
devastanti. Basti pensare ai risultati allarmanti delle celebri ricerche
effettuate da Asch, Sherif, Milgram, Zimbardo e da tanti altri psicologi
sociali, sul problema dell’influenza nefasta del gruppo e del ruolo sui
singoli, nonché su quello del conformismo, della polarizzazione sociale e dell’obbedienza
all’autorità (Sunstein 2000). Queste sono le virtù tanto care ai leader in
preda alla sindrome del cane pastore che non resiste alla tentazione di
radunare le pecore, sempre e comunque.
In una società complessa noi
dovremmo coltivare un’etica dell’autonomia che valorizzi i principi universali
ed il senso critico, fiduciosa nella ragionevolezza della gran parte dei
cittadini. Dovremmo invece respingere un’etica della comunità cinicamente
diffidente verso gli esseri umani in generale, che soffoca l’autonomia
decisionale e morale nel nome di un determinismo cosmico che pone le persone al
servizio dei morti (idealizzazione del passato, arcadismo) o dei non nati
(idealizzazione del futuro, utopismo) senza saper apprezzare il presente ed il
valore intrinseco di individui che non sono così miserabili da doversi fondere
in un gruppo per acquistare pregio. Dovremmo anche respingere chi ci invita a
corrompere il significato stesso della parola amore ingiungendo di non
limitarsi ad amare gli esseri viventi ma di estendere il nostro sentimento alle
cose ed alle costruzioni dell’immaginario, come la patria e la volontà
generale. Il fine ultimo della politica è il benessere degli esseri umani e
degli altri esseri viventi o la preservazione di certe istituzioni ed idee che
sono di ostacolo alla felicità degli individui? E se è vera la prima cosa,
allora la Costituzione Italiana e perciò lo Statuto di Autonomia (redatto “sulla
base dei principi della Costituzione”, Art. 1) meritano un amore incondizionato,
un’indulgente deferenza, come se fossero Sacre Scritture, o piuttosto il mio
rispetto ed apprezzamento per quel che rappresentano, ossia l’ufficializzazione
da parte di un popolo dell’evidenza del fatto che gli esseri umani valgono in
quanto tali e solo secondariamente come membri di una qualche categoria? Se
anche questo è vero allora il concetto di patriottismo costituzionale e, per
estensione, di patriottismo dello statuto è a tutti gli effetti un ossimoro.
HEILIGES LAND TIROL
Ogni persona ha bisogno di una
patria (Heimat). Noi Sudtirolesi sappiamo anche troppo bene che cos’è la
patria: è l’amore per la propria terra, il senso di protezione e sicurezza, di
familiarità e amicizia.
Siegfried Brugger
Dopo lo spettacolare
fallimento della moralità convenzionale (di stampo comunitario) nel corso del
secolo scorso, la mansueta, meccanica identificazione dell’individuo ad una
collettività, sia essa un’etnia, una patria o una corporazione, è estremamente
problematica e va trattata come ogni altra forma di idolatria o tribalismo,
ossia con il più lucido scetticismo. L’Heimat è un territorio dell’immaginario,
non un’entità naturale. Gli esseri umani fanno già abbastanza fatica a non
fuggire da se stessi per paura di essere inadeguati e a non essere prevenuti
nei confronti degli sconosciuti per paura di scottarsi l’anima: indurli ad
amare una finzione che esalta le differenze verso l’esterno ed annulla l’unicità
di ciascuno di noi è irresponsabile.
Dunque il valore dell’Heimat/Patria
non solo non esercita effetti virtuosi sulla società civile, ma addirittura la
danneggia, sia a livello morale sia a livello pratico. Vediamo meglio come e in
che misura ciò avvenga nel contesto altoatesino. C’è una significativa
testimonianza di Bernhard Pircher che fu intervistato dalla rivista “Una Città”
quando aveva 19 anni ed era membro della compagnia di Schützen venostana di
Glurns/Glorenza (Pircher 1997). Illustrando le ragioni che lo avevano indotto a
diventare uno Schütze, Pircher spiega che “Quello che mi affascinò di più era
questo essere dalla parte della Heimat, delle tradizioni, della religione e
anche del bisogno di coesione, il fatto cioè che ci si raduni per le
celebrazioni pubbliche e per marciare insieme. L’ammissione nella compagnia
degli Schützen di un nuovo membro deve essere unanime”. Questa scelta fu resa
più facile da un evento particolarmente spiacevole, una rissa con degli
italiani per futili motivi. Così Pircher confessava di essere stato per lungo
tempo anti-italiano: “Adesso però la vedo diversamente. Anche gli italiani sono
esseri umani e hanno quindi molto in comune con noi”. Una frase che chiarisce
meglio di dozzine di saggi la natura disumana e de-umanizzante, per entrambi i
gruppi etnici, della separazione etnica in vigore nella Heimat altoatesina,
specialmente per i giovani, inesperti e quindi estremamente influenzabili. E l’Heimat?
Cos’era l’Heimat per quel giovane Schütze della Val Venosta? “Heimat è quel
luogo in cui ci si sente “a casa”. Qui da noi ci si conosce tutti. Ci si saluta
anche se non ci si conosce e si ha fiducia negli altri…Heimat è per me lì dove
si sta volentieri. Io nella mia terra posso fare le cose che amo fare…Nella mia
Heimat io ho l’aria pura e un ambiente quasi incontaminato, che rispetto”. Per
Pircher l’Heimat non è chiusa ai forestieri: “Essa è per tutti, questo lo
voglio ben sperare. Anche per quegli italiani che sono nati qui. Io vorrei
anche che ognuno si prendesse cura di questa Heimat, anche delle sue
tradizioni. Quando ad esempio si preparano i fuochi per il “Sacro Cuore di Gesù”,
è bello perché vecchi e giovani si incontrano, salgono insieme sulla montagna e
condividono il piacere di queste tradizioni. Si ascoltano storie di tempi
passati, e quando poi bruciano i falò, si sente dentro di sé una gioia e un
senso di comunione così unico e profondo. Tutti aiutano, tutto il paese si dà
da fare affinché queste feste riescano bene. È anche un modo per incontrare
persone che altrimenti non si incontrerebbero. È un’alternativa al solito bar,
e magari pure alla discoteca in cui i più vecchi in ogni caso non vanno. Anche
questi incontri sono Heimat”. O forse no. Forse l’idea di Heimat è una sovrastruttura
del tutto superflua. Tant’è che in italiano basta dire – “sentirsi a casa” –
senza tanti fronzoli mistici politicamente manipolabili. Heimat non è l’unica
risposta, o la migliore, allo spaesamento da globalizzazione. “La mia terra” o “mon
pays” offrono uno spettro di connotazioni che si sovrappone in gran parte a
quello di Heimat. Nelle lingue slave Heimat si traduce senza problemi come dom,
dòmovina, domov o rodina. Il paesaggio emotivo tedesco non è poi così diverso
da quello latino o slavo. Così in Trentino si possono fare le stesse cose e
provare le stesse sensazioni senza che la mente chiami in causa come un
automatismo del tipo “stimolo-risposta” la nozione di patria/Heimat. C’è chi si
è chiesto come mai una parte del mondo germanico sia così fermamente aggrappata
a questa idea di Heimat. Ad esempio Peter Blickle, docente di germanistica
presso l’Università del Michigan, ritiene (Blickle 2002) che essa nasca dalla
fusione di Romanticismo ed anti-Illuminismo e che il bisogno psicologico derivi
in primo luogo dal desiderio di ricavarsi uno spazio idealizzato e protettivo,
un’appartenenza di tipo neo-tribale percepita come naturale nella quale
perdersi. È una provincia dello spirito che è emanazione di una spiritualità
provinciale, locale e che impregna una “individualità collettiva” che “rassicura
i germanofoni circa il loro valore, identità e unicità” (Blickle, op. cit.,
50). Il sé, come detto, si perde nell’Heimat e diviene un sé diverso da quello
descritto da Freud, un sé “preconscio, dipendente dal gruppo e sociale…bisognoso
di radici. Un sé sradicato è percepito come sminuito o guastato” (ibidem, 69)
che confonde persone e cose, l’errore ontologico del pensiero
magico-superstizioso che un tempo si chiamava idolatria pagana. In passato
quest’invenzione del pensiero umano è servita a tenere in piedi un sistema di
valori, poteri e rapporti umani fortemente lesivo della dignità delle donne e
discriminatorio nei confronti dei bambini e delle minoranze (Boa/Palfreyman
2000).
Inoltre l’aura di innocenza
che spira attorno all’Heimat è saldamente legata alla semplice e perniciosa
equazione di bello e buono. Se l’Heimat è un idillio di bellezza, innocenza e
purezza, allora chi la ama è buono ed irreprensibile per definizione. Anzi, è
un eletto. Non è quindi per nulla sorprendente che l’Heimat sudtirolese attiri
le personalità narcisistiche. Tutti, anche se in misura diversa, siamo affetti
da narcisismo. Il militante etnicista o patriottico va oltre, dando libero
sfogo alla sua immaginazione ipertrofica. In talune circostanze la discrepanza
tra realtà e immaginazione è tale che questo tipo di narcisista inveterato
trova arduo non provare disgusto per ciò che stona, fosse pure una certa classe
di esseri umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli altri
come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, si chiude
autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale universo di
riduzionismi che lo deresponsabilizzano e spostano la colpa sui difetti
congeniti degli altri. Necessita di ordine e chiarezza e li può trovare nella
superstizione del gene onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità
totalizzante e neo-tribale, cioè nell’idea in quanto tale, immacolata ed
omogenea. Il Südtirol o l’Italia come filo a piombo dell’anima (Stecher 2008).
Un’idolatria che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia
tutto ciò che contamina la purezza dell’idea, arrivando a negare la realtà,
come nel risibile “no a un’Italia multi-etnica” di Berlusconi. Se questa
minaccia non è opportunamente neutralizzata la condanna è all’alienazione. Un
inconscio processo di alienazione è già comunque in atto, perché il narcisista
immaginifico è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi altro non sono
che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno, vere e proprie
epidemie di narcisismo. Ciò potrà sembrare strano per chi è abituato,
erroneamente, a pensare al narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo
amor proprio. In realtà il narcisista, se privato della sua sorgente di
conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo,
amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima
e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare
questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o
idea dominante che fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione,
perché queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può
conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi padrone-servo
potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché entrambi sono narcisi ed
hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino di
un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza
del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un
problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo
pensiero non è mai profondo – è arendtianamente banale –, né lo è la sua stima
nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai davvero suoi simili e
per questo possono essere ordinatamente incasellati in categorie arbitrarie. Il
feticismo, l’illusionismo nella sua accezione più ampia è il vizio caratteristico
del narcisista. Non potendo contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo
spettro della morte concentrandosi sull’immagine e sull’idea – la Patria, l’Etnia
–, rendendole immortali, e si autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il
suo amor proprio è dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è
molto precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico ad un
movimento e ad un leader che incarnino le idee fisse che danno senso alla sua
esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è autonomo ed
indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua esistenza. Al contrario è
eterodiretto, e si lascia facilmente assimilare da fazioni, sette, tribù,
razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi distorti della
realtà. Si intossica di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, apprezzamenti di
un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha bisogno di ripetute conferme e
le trova nella grandezza del Gruppo. È una comparsa nella sua vita, non il
protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e risorse per
rinsaldare ancora di più questo stato di cose.
Oggi, in Alto Adige come in
gran parte dell’Europa, la logica etnarchica, - essenzialmente narcisistica –
che antepone il particolare all’universale sacrificando il motto Liberté, Égalité,
Fraternité sull’altare della Cultura e dell’Identità, è sopravvissuta alla
sconfitta del nazismo e del comunismo. Si è tornati a parlare di identità
naturali anche se nessuno ha saputo ancora spiegare cosa ci sia di naturale e
di univoco in queste identità. D’altronde quello identitario non è un appello
alla ragione, ma alle emozioni, ai sensi di colpa ed alla paura di chi,
sentendosi in dovere di appartenere “anima e core” ad un insieme più ampio, non
si sente di poter affrontare il giudizio altrui e l’ostracismo degli altri
membri del gruppo. La moda etnarchica non va però affrontata in modo
sbrigativo. Non è un atavismo incontrollabile ma piuttosto un nobile stimolo
umano primordiale (quello al raggruppamento ed alla condivisione di sforzi ed
aneliti) che può essere male indirizzato, nel qual caso trova pretesti e
razionalizzazioni eminentemente moderne quando il modello universalista segna
il passo, cioè ad ogni seria crisi internazionale o sotto la spinta dell’immigrazione
di massa.
Essa rimane una strategia
fallimentare sotto ogni punto di vista. A livello etico perché non rispetta la
dignità intrinseca e l’autonomia delle persone e dissimula la loro unica,
comprovabile appartenenza, quella alla specie umana. A livello pratico perché
non esiste alcun modo per tenere sotto controllo le forze centrifughe ed
atomizzanti messe in moto da una politica della differenziazione identitaria.
Ci sarà sempre una minoranza che pretenderà il pieno autogoverno se non riceverà
un’adeguata compensazione. Pensiamo a quel che sta avvenendo in Bosnia, dove la
Republika Srpska a forte maggioranza serba sta già meditando di seguire l’esempio
del Montenegro, distruggendo quindi ogni sforzo pacificatore ed unitario della
comunità internazionale in Bosnia. Oppure pensiamo alla contrapposizione tra
Scozia ed Inghilterra, tra Catalogna ed Andalusia, tra Fiandre e Vallonia, tra
Padania e Meridione. In caso di separazione, il paradigma etnico che la
giustifica sarebbe nel contempo il maggiore ostacolo alla realizzazione di una
società equa, giusta, e solidale. La maggioranza etnica sarebbe autorizzata a
decidere in funzione dell’interesse primario della conservazione della sua
egemonia. E non è precisamente quel che avviene in Alto Adige – e in Italia –,
con la ben remunerata connivenza di quasi tutti i partiti? Cosa succederebbe in
Alto Adige se si arrivasse al distacco dall’Italia? Cosa farebbe la maggioranza
italofona di Bolzano e dell’Oltradige-Bassa Atesina? E come si può evitare che
degli standard etici locali logorino la coesione dell’Unione Europea attorno ai
principi universalistici ereditati dall’ecumenismo cristiano, dall’Umanesimo e
dall’Illuminismo? Il separatismo localistico ed il differenzialismo identitario
non sono né assennati né moralmente giustificabili. Non possono costituire una
risposta ai problemi dell’autogestione territoriale né possono mitigare l’impatto
della globalizzazione a livello socio-economico, se non altro perché i
movimenti etnopopulistici europei sono sempre ed invariabilmente libertari (di
destra), in quanto il loro bacino elettorale si concentra soprattutto nella
piccola e media impresa, cioè tra elettori che troppo spesso sono più propensi
a pretendere tutele per sé stessi, anche se a discapito del resto della
popolazione e degli immigrati che pure loro stessi assumono in gran numero (Tamás
2000). Quel che è scandaloso è che una parte della sinistra, in nome dell’anti-imperialismo,
si sia sentita in dovere di combattere la destra su un campo come quello delle
identità collettive, che è il terreno naturale della destra stessa.
CONCLUSIONI
Negli ultimi anni un numero crescente di filosofi ha
riconosciuto l’importanza di accettare una nozione di “sacralità laica” non
fondata su un ragionamento puramente razionale e che incorpora un profondo,
intuitivo rispetto per la vita umana. Quest’idea di rispetto non ha molta presa
quando la si ancora ai valori della razionalità, della dignità e dei diritti
inalienabili. Sono concetti sfuggenti. Per questa ragione Gaita preferisce
enfatizzare la “condivisione della vita umana” e un “senso di comunanza tra
individui” (Gaita 1991). Per Iris Murdoch non esiste una vera comprensione
senza amore, giustizia, apertura all’Altro e compassione: “Il concetto centrale
della moralità è l’individuo inteso come conoscibile attraverso l’amore”
(Murdoch 2001, 29). Sullo stesso tono la riflessione di Martha Nussbaum su ciò
che è determinante in una condotta eticamente esemplare: “Il dolore di un’altra
persona mi coinvolgerà solo se riconosco l’esistenza di un qualche tipo di
accomunamento con questa persona, che sarà a sua volta strettamente legato al
riconoscimento della mia vulnerabilità ed incompletezza. […]. Senza questo
senso di accomunamento, reagirò con sublime indifferenza o curiosità
intellettuale – come uno scienziato marziano, o un qualche genere di dio”
(Nussbaum 1994, 143). Il culto dell’Heimat procede nella direzione opposta. Il
futuro non appartiene alle appartenenze forti ma a quella multiple, flessibili
ed universaliste. L’esempio di Singapore, una piccola Heimat governata da un
governo autoritario, paternalista e tradizionalista, dovrebbe essere
sufficiente a evidenziare i rischi che si corrono in una piccola patria, per
quanto prospera e pulita, quando le dimensioni limitate facilitano il compito
di chi fissa ed applica d’imperio delle norme di condotta in virtù di una “superiore”
interpretazione dell’essenza della cultura locale. In questo caso, come in
molti altri, la libertà di autodeterminazione collettiva finisce per
confondersi con la soppressione delle libertà personali. Compresa la libertà di
rifiutare una certa modalità di adesione alla cultura nella quale si è nati e
cresciuti, o rifiutare la cultura stessa nella sua interezza, o rifiutare di
appartenere ad alcunché e specialmente ad un’astrazione. Un governo che
promuove appartenenze gelose ed autoritarie non è migliore di un padre che
obbliga i figli a scegliere: o me o tua madre!
1 commento:
Thank you for sharing the info. I found the details very helpful.
paxil
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