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domenica 1 gennaio 2012

Si fa presto a dire amore




Ci sono solo quattro domande che contano nella vita, Don Octavio: Cosa è sacro? Di cosa è fatto lo spirito? Per cosa vale la pena vivere? E per cosa vale la pena morire?... La risposta ad ognuna è la stessa: solo l'amore.
Don Juan de Marco

Dici che ami il pollo e l'hai mangiato, dici che ami il fiore e l'hai tagliato, dici che ami il gatto e l'hai castrato. Dici che mi ami: sono preoccupato
Anonimo

L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L'amore non verrà mai menoLe profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.
Lettera ai Corinzi (13: 4-10)

Tre cose differenziano il vivere con l’anima di contro al vivere solamente con l’Io: la capacità di sentire e apprendere modi nuovi, la tenacia per percorrere una strada impervia, la pazienza di apprendere nel tempo l’amore profondo. L’Io, tuttavia, ha la tendenza naturale e la propensione a evitare l’apprendimento. La pazienza non è una sua dote.
Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi”

Voi pensate che noi siamo degli spietati criminali. Ma noi uccidiamo per amore, l’amore della nostra patria…Stiamo solo facendo della pulizia etnica, nulla di più
Paramilitare serbo, 6 giugno 1999.

Per amore dell' umanità, siate inumani!
Petizione rivoluzionaria alla Convenzione di Parigi.

In un romanzo vero ci sono tre personaggi che vivono e agiscono. Possiamo chiamarli San Giorgio, il Drago e la Principessa. Ogni romanzo deve conoscere il duplice tema dell'amore e della battaglia. Ogni romanzo deve avere tre personaggi: deve esserci una Principessa, l'oggetto da amare; deve esserci il Drago, l'oggetto da combattere, e deve esserci san Giorgio, che é il personaggio che ama e combatte. La nostra civiltà moderna mostra molti sintomi di cinismo e decadenza, ma di tutti i segnali della fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non ce n'è nessuno così superficiale o pericoloso come questo: che i filosofi di oggi abbiano cominciato a dividere l'amore dalla guerra, e a collocarli in campi opposti. Non c'è sintomo peggiore di quello che vede l'uomo, fosse pure Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece che amare. Non c'è sintomo peggiore di quello che vede l'uomo, fosse pure Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a combattere. Una cosa implica l'altra. Una cosa implicava l'altra nel vecchio romanzo e nella vecchia religione, che erano le due cose permanenti dell'umanità. Non si può amare qualcosa senza voler combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo. Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non é amore, ma lussuria.
G.K. Chesterton, “Una gioia antica e nuova : scritti su Charles Dickens e la letteratura”

Ci riempiamo la bocca con la parola amore, però amiamo rozzamente, narcisisticamente, in preda all’ansia, alla gelosia, alla dipendenza, all’aggressività, alla devozione, al desiderio, all’autocommiserazione ed all’invidia. Ci piace sapere che la persona che amiamo dice in giro che ci appartiene, come se amore e possesso coincidessero; preferiamo amare qualcuno finché la pensa come noi; uccidiamo per amor patrio.
Eppure, se non fosse per i mille modi, più o meno sgraziati o fulgidi, con cui tentiamo di amarci l’un l’altro, non sarebbe possibile attribuire alcun significato all’idea della dignità della persona, dell’inalienabilità dei suoi diritti: sarebbero involucri vuoti.
Non sappiamo amare, ma cesseremmo di essere umani se smettessimo di provarci. Qualcosa in noi, una saggezza più profonda ma non facilmente accessibile, ci spinge nella direzione giusta, anche se procediamo a tentoni. C’è speranza per noi.

Reinhold Niebuhr su Governo Mondiale, angelismo, rivoluzione ed imperialismo umanitario




Amo Reinhold Niebuhr. È uno dei miei filosofi preferiti. Da lui ho appreso che esiste un male reale nel mondo e avversità e dolore e che dovremmo essere umili e modesti nella nostra convinzione di poter eliminare queste cose. Ma non dovremmo usarla come scusa per giustificare il nostro cinismo ed inazione. Ho appreso il senso che dobbiamo fare questi sforzi consapevoli che sono ardui, senza oscillare tra l’idealismo ingenuo ed il realismo amaro.
Senatore Barack H. Obama, candidato alle presidenziali statunitensi, 2007

La società occidentale è stata salvata dal destino del “mondo nuovo” descritto da Aldous Huxley da fortunate confusioni della democrazia, da quel poco di buon senso rimasto alla gente comune e dalla sconfitta dei presunti signori della storia nel creare un progetto politico che desse loro quell’onnipotenza che la loro onniscienza sembrava meritare.
Reinhold Niebuhr

Uno dei consigli favoriti degli studiosi di scienze sociali è quello di giungere a un accomodamento. Se due parti sono in conflitto, fatele negoziare, moderare le loro pretese, giungere a un modus vivendi…senza dubbio innumerevoli conflitti possono essere risolti in questo modo. Ma un gruppo diseredato, come per esempio i neri, potrà mai ottenere piena giustizia per questa via? Le sue anche più minime richieste non sembreranno esorbitanti ai bianchi dominanti, solo una piccola minoranza dei quali guarda con un obiettivo senso di giustizia al problema dei rapporti razziali? O come faranno gli operai a seguire questo consiglio quando devono trattare con i proprietari delle industrie, i quali hanno talmente tanto potere da poter uscire vincitori da un dibattito per poco convincenti che siano le loro argomentazioni? Ben pochi sociologi hanno capito che la soluzione – basata su un compromesso tra le parti – di un conflitto sociale causato da uno squilibrio di potere nella società è difficile che sia conforme a giustizia fintanto che tale squilibrio di potere sussiste….La maggior parte degli studiosi delle scienze sociali è costituita da razionalisti talmente convinti da ritenere che gli uomini al potere limiteranno immediatamente il loro sfruttamento e le loro pretese non appena avranno appreso dai sociologi che le loro azioni e i loro atteggiamenti sono antisociali […] . Ciò che manca a questi moralisti, siano essi religiosi o razionalisti, è la comprensione del carattere brutale del comportamento di tutte le collettività umane, e della forza dell’interesse personale e dell’egoismo collettivo in tutte le relazioni tra gruppi….Questi pensatori guardano al conflitto sociale come a un metodo mediante il quale non si possono conseguire dei fini moralmente approvabili, oppure come a un espediente momentaneo che un’educazione più perfetta o una religione più pura renderanno superfluo. Essi non si avvedono che le limitazioni dell’immaginazione umana, e la facile soggezione della ragione ai pregiudizi e alla passione, specialmente nei comportamenti di gruppo, rendono il conflitto sociale un fenomeno inevitabile nella storia dell’uomo, probabilmente fino alla fine di essa.
Reinhold Niebuhr

Affrontare con il riso le delusioni e le frustrazioni, le irrazionalità e le contingenze della vita è una forma di superiore sapienza…Un’accettazione umoristica del destino è veramente espressione di un’alta forma di distacco da se stessi. Se gli uomini non si prendono troppo sul serio, se hanno qualche senso della natura precaria dell’avventura umana, dimostrano che stanno guardando all’intero dramma della vit, non soltanto dal punto di vista limitato dei loro interessi ma da un orizzonte visuale più lontano e superiore.
Reinhold Niebuhr

C’è chi mi ha chiesto quali siano i miei pensatori di riferimento. Io ho moltissimi pensatori di riferimento, perché mi rifiuto di privilegiare un’unica fonte. Devo però dire che ho scoperto, abbastanza recentemente, che c’è un pensatore con cui mi trovo sostanzialmente in accordo su quasi tutto. Questa cosa mi mette un filino a disagio, perché dimostra che non c’è quasi nulla di originale in quello che penso e scrivo. Tanti anni di studi e riflessioni per arrivare a dire cose già dette, scrivere cose già scritte!
A differenza di Obama, Bush aveva dichiarato che il suo filosofo preferito era Gesù Cristo e, durante la sua amministrazione, Niebuhr fu eclissato. Obama ha anche affermato di essere stato influenzato da Friedrich Nietzsche – per il quale Niebuhr coltivava una tenace avversione – e da Paul Tillich, amico personale di Niebuhr. Niebuhr lo aiutò ad emigrare e provò a fare lo stesso con Bonhoeffer (suo allievo tra il 1930 e 1931), il quale prima gli diede ascolto e poi però decise di rientrare in patria e caricarsi sulle spalle la croce del tirannicidio.
Reinhold Niebuhr (1892-1971) è stato uno dei giganti della cultura statunitense del dopoguerra, la cultura egemone a livello globale. Dunque merita la nostra attenzione.
È stato il teologo americano più influente del ventesimo secolo. Non era un biblista, ma un teologo morale e politico che si domandava, molto socraticamente, come ciascuno di noi dovrebbe agire, individualmente e collettivamente, nel mondo post-edenico.
Niebuhr distingueva l’etica dalla politica ma le considerava intrecciate, interpenetrate.
La coscienza e il potere, l’etica e la coercizione, l’idealismo ed il realismo, sono fattori della vita umana che non possono non incontrarsi e che devono coesistere attraverso compromessi per nulla facili, spiegava nel suo testo più noto, intitolato “Moral Man and Immoral Society” (1932). Il realista privo di uno sguardo morale è uno stolto tanto quanto l’idealista che non tiene conto della realtà della vita umana. Abbiamo l’obbligo morale di vedere il mondo come è, non come preferiremmo che fosse e di astenerci dal ricrearlo in funzione dei nostri desideri e valori (che non sono universali).
L’egoismo comunitario è inevitabile e le nazioni sono tenute assieme dal collante della forza e delle emozioni, non dalla ragione, per questo sono essenzialmente egotistiche. Per di più lo Stato conferisce potere agli impulsi collettivi più egotisti e convince l’individuo ad identificarsi sempre più saldamente con essi. Poiché la negatività della nostra natura non si può cancellare, è assurdo pensare di poter pianificare il futuro. Dunque le politiche debbono essere modeste e moderate, se non si vuole rischiare di peggiorare le cose, a causa dei limiti della razionalità umana, dell’incompletezza delle nostre conoscenze e della parzialità del nostro comportamento.
Non si fondano istituzioni globali (governo planetario, nuovo ordine mondiale) finché non esiste una coscienza cosmopolita e questa, finora, è un miraggio.
In breve, questi sono gli elementi chiave dell’approccio niebuhriano alla politica ed alla società:
1. compromesso invece di utopismi e dottrinarismi;
2. Realismo morale;
3. Necessità del potere;
4. Limiti morali all’azione politica;
5. Esigenza di umiltà;
6. Azione politica responsabile;
7. Fermezza realistica e speranza;

NIEBUHR E IL NUOVO ORDINE MONDIALE (GOVERNO GLOBALE) – Niebuhr ravvisa nel racconto futuristico “The shape of things to come” di H.G. Wells (1933) i tratti distintivi di un ipotetico governo globale: “i tecnici moderni, simbolizzati da un gruppo cospiratore di aviatori, avrebbero stabilito un’autorità mondiale sufficientemente potente per imporre i principi della verità universale attraverso un programma educativo destinato a tutta l’umanità. Questo programma educativo avrebbe infine creato la mentalità universale e la cultura globale indispensabile per la stabilità della comunità universale. Il movimento del suo [di Wells] pensiero dalla democrazia alla tirannia è la prova della sua disperazione”.
In “the myth of world government” (“The Nation”, 1946), Niebuhr spiega che, in assenza di una comunità organica mondiale, il governo mondiale diventerebbe una costruzione artificiale priva di alcuna autorità. Incrementerebbe il chaos e l’anarchia nel tentativo di esercitare la propria autorità in un mondo diviso, pieno di disparità, socialmente diversificato, multiculturale e, in breve, plurale, senza un obiettivo comune ed un’identità condivisa. Un tale governo sarebbe o totalmente inefficiente e perciò irrilevante, oppure dispotico, di un dispotismo senza precedenti, una nuova tirannia imperialistica, globale, sanguinaria, totalizzante, distopica e, in ultimo, caotica. L’alternativa quindi sarebbe da un lato l’impotenza, dall’altro la tirannia e il caos.
Senza una comunità organica non si formano istituzioni durevoli. Nel numero di Times che gli dedicò la copertina, un numero importante perché celebrava l’anniversario del suo venticinquesimo anno di pubblicazioni, N. dichiarava: “non si fa un governo mondiale redigendo una splendida costituzione. Lo si fa all’interno di un processo storico, maturando fino ad essere pronti”.
Per N. un tale ordinamento transnazionale sarebbe inevitabilmente caratterizzato da un blando capitalismo, una blanda democrazia, un blando filantropismo ed una religione aristocratica: se a qualcuno tutto questo non bastasse o non stesse bene, sarebbe bollato come minaccia pubblica ed eretico, violatore dei decreti divini.
Un governo globale non potrebbe mai fabbricare dal nulla uno spirito di comunità e quindi, alla lunga, fallirebbe, ma la sua ascesa sarebbe facilitata dalla stupidità (sic!) dell’uomo medio, che assiste l’oligarca nei suoi sforzi di dissimulare i suoi reali intenti. N. pensa che la maggior parte delle persone non sia dotata di quelle capacità intellettuali sufficienti a formarsi dei giudizi autonomi e per questo il conformismo prevale in ogni società.
“L’illusione di un governo mondiale” (da “Christian Realism and political problems”, 1953): “il nostro problema è che la tecnica ha creato un abbozzo di comunità mondiale, ma non l’ha integrata organicamente, moralmente o politicamente; ha creato una comunità di reciproca dipendenza, ma non di reciproca fiducia e rispetto…era probabilmente inevitabile che la condizione disperata del nostro tempo dovesse persuadere alcuni uomini ben intenzionati che le lacune di una comunità tecnicamente integrata, ma politicamente divisa, si potessero colmare con il semplice espediente di stabilire un governo mondiale attraverso il dominio della volontà umana e di creare una comunità mondiale tramite il dominio di un governo mondiale…Purtroppo la nostra precaria situazione non è una prova né della capacità morale di creare un governo mondiale con un atto di volontà, né della capacità politica di un simile governo di integrare una comunità mondiale ancor prima di organizzare una crescita più graduale del “tessuto sociale” di cui ogni comunità ha bisogno ancor più che di un governo…L’apparato per l’applicazione della legge può essere efficace quando la comunità nel suo complesso obbedisce implicitamente alle leggi, cosicché l’applicazione coercitiva può essere limitata a una minoranza riottosa…La falsità implicita nell’idea di governo mondiale si può esprimere con due semplici proposizioni: la prima è che i governi non si creano per decreto (benché talora li si possa imporre con la tirannia), la seconda è che i governi hanno un’efficacia limitata nell’integrare una comunità. I sostenitori del governo mondiale propongono di convocare un’assemblea costituente mondiale, che creerebbe l’apparato per un ordine costituzionale globale e poi inviterebbe le nazioni ad abrogare o ridurre la loro sovranità al fine di dare a questa sovranità universale di nuova istituzione un dominio incontrastato…I governi non possono creare le comunità, per il semplice motivo che l’autorità del governo non è primariamente l’autorità della legge o della forza, ma l’autorità della comunità stessa. Le leggi vengono obbedite perché la comunità le accetta come corrispondenti, nella loro globalità, alla sua idea di giustizia”.
Come dopo di lui Norberto Bobbio, anche Niebuhr si domanda come si possa costituire una forza di polizia fedele a uno stato mondiale
Per Niebuhr la figura allegorica dell’Anticristo è il nume tutelare di questo organismo transnazionale. Cita il Nuovo Testamento: “Poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: “Io sono il Cristo”. E ne sedurranno molti” (Matteo 24: 5) – “Perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli così da ingannare, se possibile, anche gli eletti” (Matteo 24: 24) – “…Ma sappi questo, che negli ultimi giorni ci saranno tempi difficili. 2 Poiché gli uomini saranno amanti di se stessi, amanti del denaro, millantatori, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, sleali, 3 senza affezione naturale, non disposti a nessun accordo, calunniatori, senza padronanza di sé, fieri, senza amore per la bontà, 4 traditori, testardi, gonfi [d’orgoglio], amanti dei piaceri anziché amanti di Dio, 5 aventi una forma di santa devozione ma mostrandosi falsi alla sua potenza; e da questi allontanati” (2 Timoteo 3:1-5).

NIEBUHR E L’IDEOLOGIA DEL SALVATORE DEL GREGGE UMANO – N. è un severo critico dell’esigenza psicologica umana di attendere che qualcuno – un re o un semidio scomparso ma che ha promesso di tornare dal suo popolo – arrivi a salvarla, sollevandola dalle proprie responsabilità. Trova che questo motivo archetipico sia infantile, indegno di adulti maturi e dignitosi. Perciò mette in guardia i suoi lettori dal cadere nella trappola del “re messianico davidico, il re-pastore, che porterà la rettitudine e la giustizia, che guiderà benevolmente il suo gregge e porterà gli agnelli in seno. In breve, egli unirà amore perfetto e grande potere, risolvendo così la perenne ambiguità morale di tutti i sistemi politici, derivante dal fatto che il potere non è mai perfettamente armonizzato con i fini della giustizia”.

NIEBUHR CONTRO L’ANGELISMO – “se soltanto più gente andasse in chiesa o all’università, i ricchi che ora hanno troppe ricchezze si priverebbero dei loro privilegi e farebbero giustizia tra le nazioni e al loro interno. Questa facile soluzione ai mali del mondo viene proposta nonostante tutta la storia dell’umanità provi il contrario….Esso non affronta il fatto che i gruppi umani, le classi, le nazioni e le razze sono egoisti, indipendentemente dall’idealismo morale degli individui all’interno dei gruppi” – “i figli delle tenebre sono malvagi perché non conoscono altra legge al di là dell’io. Benché malvagi, sono avveduti perché comprendono il potere dell’interesse individuale. I figli della luce sono virtuosi perché hanno una certa comprensione dell’esistenza di una legge superiore alla loro volontà, ma in genere sono stolti perché non conoscono il potere della volontà individuale. Sottovalutano il pericolo dell’anarchia sia nella comunità nazionale sia in quella internazionale” – “si deve comprendere che i figli della luce sono stolti non soltanto perché sottovalutano il potere dell’interesse individuale nei figli delle tenebre, ma perché lo sottovalutano in se stessi. Il mondo democratico è giunto così vicino alla catastrofe non soltanto perché non ha mai creduto che il nazismo possedesse la furia demoniaca che esso dichiarava apertamente: la civiltà ha rifiutato di riconoscere all’interno delle sue comunità il potere degli interessi di classe. Parlava con disinvoltura di coscienza internazionale ma nel frattempo i figli delle tenebre riuscivano abilmente a mettere una nazione contro l’altra”.

NIEBUHR E L’IMPERIALISMO AMERICANO – Per N. il Vietnam è “un esempio dell’illusione di onnipotenza americana”. L’idea di una missione sacra dell’America in difesa dell’umanità e della civiltà è un indice di bancarotta morale: “è intollerabile il pensiero di un’America così potente da essere ritenuta responsabile dei grandi eventi storici in ogni parte del globo, al di là delle sue possibilità di conoscenza e progettualità. Per una nazione potente niente è più pericoloso della tentazione di nascondere i limiti del proprio potere. Sarebbe la nostra rovina se ci ritenessimo i signori della storia contemporanea”.

NIEBUHR E LA RIVOLUZIONE – C’è sempre un gruppo dominante e quelli che prevalgono sono i suoi interessi e la loro massimizzazione. Nessun gruppo dominante rinuncia volontariamente al proprio potere ed al proprio prestigio. Non basta la persuasione razionale e morale, servono pressioni economiche e politiche, proteste e anche rivoluzioni, laddove tutte le altre strade sono state tentate. La ragione è serva, non padrona, dell’interesse personale. Anche laddove uno è smascherato, farà di tutto per mantenere lo status quo, usando una varietà di argomentazioni che ritiene plausibili per giustificare il suo egoismo. La mente affila le unghie del predatore e siccome il predatore umano si nutre di idee e non solo di cibo e la sua immaginazione è sconfinata, il suo istinto predatorio sarà insaziabile.
Ciò detto, le ideologie rivoluzionarie sono autoreferenziate, totalitarie, ricercano il potere assoluto, non possono riconoscere la legittimità di istanze diverse dalle loro.

NIEBUHR SU PACIFISMO E NONVIOLENZA
Rifiutare di usare ogni metodo coercitivo significa che non ci si è resi conto che ognuno li usa continuamente, che tutti viviamo […] in un sistema politico ed economico che mantiene la sua coesione anche con l’uso di varie forme di coercizione politica ed economica.
“Why I leave the FOR”, in “The Christian Century”, LI, 1934, pp. 18-19; p. 18
Il pacifismo è incapace di distinguere tra la pace della capitolazione di fronte alla tirannia e la pace del Regno di Dio.
“Christianity and Power Politics”, New York 1940
Se alla fine Hitler sarà sconfitto, lo sarà perché la crisi ha risvegliato in noi la volontà di conservare una civiltà nella quale la giustizia e la libertà sono delle realtà e ci ha fatto conoscere che per le ambiguità della storia sono necessari metodi ambigui. Coloro che sono disgustati da tali ambiguità abbiano la decenza e la coerenza di ritirarsi in un monastero, dove i perfezionisti medievali trovano il loro rifugio.
“An end to illusions”, in The Nation, CL 1940, p. 779
Crede nel valore del pacifismo assoluto, il pacifismo di testimonianza, che ci ricorda l’esistenza di una dimensione trascendente in cui la legge della nonviolenza è l’unica legge, una testimonianza essenziale per chi non vuole sprofondare nel cinismo che legittima qualunque uso della forza. L’importante è che non ci spinga a rifiutare categoricamente la politica, privilegiando il Regno di Dio.
N. considera deplorevole il pacifismo come strategia per purgare il mondo dai conflitti politici ed internazionali.
Per lui l’unica distinzione significativa è tra nonresistenza e resistenza in tutte le sue forme, che sono tutte violente in quanto coercitive, seppure in diverso grado e vanno valutate a seconda dei loro presumibili effetti. In certi casi la resistenza violenta può essere malauguratamente preferibile, perché produce conseguenze meno dannose e dolorose di quella “nonviolenta”.
Rilassare la tensione tra essere e dover essere, tra reale e ideale, abbracciando un pacifismo assoluto significa commettere il peccato di superbia, credersi Dio, negare la nostra finitezza: “le esigenze etiche esposte da Gesù non possono trovare la loro realizzazione nelle attuali condizioni di esistenza dell’uomo” (“An interpretation of christian ethics”, London, SCM Press, 1936, p. 64).
Contemporaneamente, rilassare la tensione nel senso di concentrarsi sulla corporeità, sulla natura, significa cadere nuovamente, renderci ancora più animali, controllati da istinti ed impulsi, dall’autoconservazione e dal benessere materiale.
In altre parole: non serve attendere il Regno di Dio per usare l’insegnamento di Gesù come bussola morale. Però lo si consideri un esempio, un modello, senza pretendere di emularlo. Lo scimmiottamento è eretico ed autolesionistico, perché rende superbi. È un ideale etico, non una strategia politica e di vita quotidiana. Possiamo farci illuminare, ma non saremo mai la luce, in questo mondo.
Nelle pagine di “Christianity and Society” N. polemizza con Richard Roberts, uno dei più importanti pacifisti canadesi. I pacifisti non paiono essere consapevoli del carattere tragico dell’esistenza, sono inclini a credere che la lotta per il potere possa essere placata rinunciando all’uso dei mezzi violenti di controllo sociale. Partono da un’erronea comprensione della natura e condizione umana. Gesù non ha salvato gli uomini dalla caduta, ha solo mostrato la via della redenzione. La violenza e le guerre non sono accidenti, casualità, sono i sintomi della nostra realtà, dell’inevitabilità storica della conflittualità. Non per questo bisogna abbandonarsi al cinismo: per evitare questo rischio è necessario tenere sempre a mente la sopracitata tensione tra reale ed ideale e ricordarsi anche che il compito del cristiano è quello di difendere e valorizzare la dignità e la giustizia
Chi non vede la differenza tra la barbarie nazista e l’imperialismo britannico e preferisce la remissività nei confronti della tirannia nazista alla guerra lo fa per cecità auto-indotta. In generale, le critiche alla sua posizione insistono sulla speranza di eliminare i conflitti attraverso una sottomissione ancora più radicale alla legge dell’amore. Per lui questo è un argomento scarsamente convincente: senza un’assoluta certezza della sua efficacia si possono solo commetere errori irreparabili, causando danni ingenti a persone incolpevoli.
La natura umana è violenta, votata all’autoperpetuazione, alla sopravvivenza, alla competizione per le risorse. Nessuna teologia cristiana può fingere che non sia mai esistito il peccato originale. Camminiamo su un terreno minato di egoismi, interessi privati, pregiudizi e preconcetti.
N. cita spesso Matteo 13, 24-30: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio“.
E 1 Giovanni 1: 8-10: “Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto, da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo e la sua parola non è in noi”.
Chi ama gli assolutismi non deve entrare nell’arena politica, il terreno dei chiaro-scuri, della sobrietà, dell’attitudine al compromesso, della flessibilità, della tolleranza, della giustizia, ecc. dove un Goebbels è nonviolento ed un Bonhoeffer è un violento, dove si cerca di praticare la giustizia, invece di limitarsi ad attenderla dall’alto.

NIEBUHR, LA MODERNITÀ E LA NATURA UMANA
Non c’è alcun fondamento cristiano nell’industria moderna. È basata su una concezione della vita puramente naturalistica e si fa beffe, cinicamente, di ogni comprensione spirituale degli esseri umani. La cristianità non ha nulla a che fare con l’organizzazione della civiltà industriale (1923).
La modernità vive di due dogmi indiscutibili, l’idea del progresso e l’idea della perfettibilità dell’uomo: “questa religione essenziale della modernità non è meno dogmatica per il fatto di essere implicita anziché esplicita e non è più autentica perché si riveste con tutta l’armatura della scienza”. Il paradosso è che più l’umanità sembra capire la natura, meno sembra capace di comprendere se stessa. Una cosa che proprio non vuole capire è che le possibilità del male crescono assieme a quelle del bene, più cresce l’ordine, più si moltiplicano le occasioni per il caos. L’uomo è una creatura finita che non può fare a meno di vedere il mondo da una prospettiva limitata, in funzione del suo istinto di sopravvivenza, che lo induce a tradurre la sua brama di vivere in brama di potere, per trascendere la sua finitezza, la sua mortalità. Il suo orgoglio gli impedisce di capirlo e lo rende pericoloso. Così, le inconsapevoli illusioni dell’utopia si trasformano nelle consapevoli menzogne, l’idealismo in cinismo. Quando la storia dimostra di non essere in grado di colmare lo scarto tra ciò che l’uomo è e ciò che vorrebbe essere, gli uomini si incaricano di reindirizzarla a loro discrezione.
L’uomo è un essere vivente che sa riconoscere il flusso vitale in cui è immerso. Dunque non vi può appartenere integralmente, pur non essendo completamente al di sopra della natura. La natura non produce individui, ma tipi, specie e generi. L’individualità umana è il frutto della libertà, che a sua volta deriva dallo spirito, l’intelletto puro, che è universale, come la logica e la matematica, che sono i mezzi con cui si esprime. Questo comporta un problema: essendo al tempo stesso fuori e dentro il mondo, l’uomo può cadere vittima della tentazione alla megalomania, a sentirsi un dio al centro dell’universo.

NIEBUHR E LA DEMOCRAZIA
Il sentimento umano di giustizia rende possibile la democrazia; la sua inclinazione all’ingiustizia la rende necessaria.
“The Children of Light and the Children of Darkness” (1944)
Mentre la tirannia amplifica e glorifica la superbia e la brama di potere, la democrazia mitiga questi peccati, pur non potendo eliminarli.
La democrazia permette di controllare il potere, favorisce la libertà e ne limita gli eccessi, ossia il “carattere perenne e persistente dell’egoismo umano”. L’individuo è “morale” solo se è in accordo con gli standard del gruppo, ossia se si sacrifica per esso. Chi dissente di fronte ad un comportamento discriminatorio del proprio gruppo nei confronti di altri, diventa immorale, sebbene da una prospettiva universale sia l’unico la cui condotta sia autenticamente morale (es. Socrate e Gesù morti perché giudicati non sufficientemente altruistici e umili). Tutti i gruppi sono ipocriti perché devono placare gli scrupoli dei loro membri e quindi proclamano di incarnare i più nobili principi e virtù e di perseguire i fini più virtuosi e condivisibili, quando dovrebbe essere chiaro a tutti che gli obiettivi e le motivazioni di ogni gruppo sono egoistiche, gruppo-centriche (egoismo collettivo), perché quella è la sua ragion d’essere. Il sacrificio e l’abnegazione del singolo si prestano ad abusi e condotte immorali da parte della comunità.

NIEBUHR E LA GIUSTIZIA – La giustizia distributiva è il più razionale e supremo obiettivo che una società possa porsi. Non possiamo più permetterci di gratificare i nostri desideri a spese degli altri, al prezzo dell’ingiustizia sociale e globale. L’ordine e la pace borghesi sono incompatibili con il dovere di garantire una minore disparità sociale.
Chi vuole eliminare l’ingiustizia parte svantaggiato, perché viene accusato di mettere a repentaglio la stabilità della società, anche quando usa metodi pacifici. Una passione per la pace che in alcuni è estremamente ipocrita, disonesta ed egoistica ed in altri è coltivata in buona fede, perché chi è privilegiato tende a considerare i suoi privilegi come dei diritti e a trascurare gli effetti delle disparità sociali su quelli che stanno alla base della piramide sociale. Il loro malcontento è ingiustificato e dettato dall’ignoranza, l’gnoranza della violenza coercitiva e della violenza psicologica implicite nel mantenimento dello status quo. Per questo aborrono la violenza dei contestatori e sorvolano, perché non la percepiscono, sulla violenza strutturale della società in cui vivono.

NIEBUHR SUL BENE E SUL MALE
Reputo che il peccato cardinale del liberalismo sia stato quello di conferire all’egoista un’opinione di sé eccessivamente benevola (1930).
La nobiltà degli ideali non implica un’assenza di egoismi ed egotismi. La giustezza della causa non rende automaticamente giusti. Ogni virtù è soggetta a corruzione, il male che mi fanno gli altri non è molto dissimile da quello che faccio agli altri. Tendiamo a malgiudicare chi non è all’altezza dei nostri ideali, senza capire che siamo noi i primi ad esserne distanti. Il problema degli esseri umani è che trasformano in bene infinito il loro ego ed i loro valori soggettivi e parziali: è questo il peccato.
Il male, che è inclinazione ad un eccessivo amore di sé, è negativo e parassitario nella sua origine, è attivo, i suoi effetti possono essere positivi. Il mito biblico del serpente è molto profondo, perché mostra come l’uomo sia stato tradito dalla sua incredulità e dal suo orgoglio.
Il peccato originale risiede nel nostro dualismo: siamo corpo ed anima, immanenza e trascendenza, sentiamo un impulso a trascendere la materia alla ricerca della perfezione, dell’eternità e dell’infinito, ma non possiamo farlo perché siamo finiti e questa conflittualità ci porta a credere di aver ottenuto l’autorità dell’assoluto quando invece la nostra condizione ci permette l’accesso solo a verità molto parziali. Consideriamo i nostri valori assoluti quando sono solo l’espressione dei nostri interessi. Il nostro egoismo ci rende bigotti e smaniosi di imporre la nostra volontà e punto di vista sugli altri. La superbia è un problema spirituale permanente dell’uomo. Il male peggiore proviene dalla furia degli zeloti.
L’uomo è più inumano proprio quando crede che i suoi impulsi naturali ed i suoi valori soggettivi siano al servizio di un bene assoluto.
L’uomo è ignorante, finito e limitato ma immagina di non esserlo, si convince di non esserlo, di poter trascendere i suoi limiti e fare in modo che la sua mente si universalizzi e colga la Verità Assoluta. È il peccato di superbia al servizio della volontà di potenza, che piega e subordina ciò che ci circonda al nostro ego ipertrofico, aggressivamente votato a porsi al centro della Creazione.
L’uomo ama se stesso eccessivamente ma una voce dentro di lui sa che questo abbandonatissimo amore è ingiustificato ed immorale, per questo ciascuno si inventa una tecnica di mimesi per continuare a venerare se stesso anche se all’apparenza ci si vota ad una causa che ci trascende. La prima persona da ingannare con questa manipolazione siamo noi stessi. S’ingannano gli altri per poter ingannare e tacitare meglio la nostra coscienza. Ma se non ci fosse qualcosa di buono in noi, tutto questo non avrebbe senso. Dunque proprio gli sforzi dissimulatori sono la miglior prova del fatto che non siamo radicalmente depravati (cf. “The nature and destiny of man”), che ci vergogniamo del nostro status privilegiato, del nostro benessere, che sentiamo che c’è qualcosa che non va quando costringiamo gli altri ad adeguarsi al nostro volere, anche se per la gran parte del tempo facciamo finta di niente. Solo il dogmatismo, il fanatismo e la frenesia omicida possono sopprimere la voce della coscienza.
Il peccato ci unisce, la colpa ci separa: vi sono essenziali distinzioni tra l’ammontare di responsabilità che spettano a ciascun singolo e ciascun gruppo per il male nel mondo. Bisogna schierarsi con quelli che si debbono far carico del minor fardello di iniquità. Chi esercita maggior potere è anche maggiormente responsabile delle condizioni in cui versa il mondo.
Come Agostino, N. ritiene che uno non scelga volontariamente di peccare ma lo faccia credendo di compiere il bene (anche se in un angolo del cervello sappiamo di aver peccato). Perché siamo liberi ma non riusciamo a non peccare, ad essere meno ostili, violenti, egotisti e più amabili ed amorevoli, pur sapendo che ciò comporta solo guai? Agostino e N. pensano che ci sia un pregiudizio intrinseco, un meccanismo, una forza interiore che fa in modo che si compia più facilmente il male: dunque non siamo completamente liberi, ma non siamo neppure innocenti in quanto completamente subordinati al corpo ed ai suoi bisogni. Infatti, come detto, sentiamo rimorso e vogliamo pentirci.
Un inconscio determinatore delle nostre azioni consapevoli ci rende più insensibili, più egocentrici, più ingiusti ed iniqui di quanto potremmo essere se facessimo attenzione ai nostri gesti ed alle nostre motivazioni. È come se ogni volta che abbassiamo la guardia dessimo il peggio di noi e, una volta causato il danno, ci sforzassimo di giustificare gli errori retroattivamente. Adamo ed Eva sono i simboli di questa condizione umana, non certo gli originatori di un peccato trasmesso ereditariamente. Gli automatismi mentali ci spingono a porci al centro del nostro universo, a credere di dover essere autosufficienti (a spese altrui), per sfiducia nei confronti dell’altro e per via dell’istinto di autoconservazione: per questo siamo cronicamente ingiusti. Idolatriamo il nostro ego attraverso la venerazione di idoli esterni come la patria, la nazione, la classe, la razza, la chiesa, ecc. che ci rendono aggressivi e violenti, ossia malvagi.

NIEBUHR SU NIETZSCHE E NAZISMO
Il moralismo dell’accomodamento immagina che non ci sia un conflitto che non possa essere aggiudicato. Non capisce cosa significhi  incontrare un nemico risoluto che desidera solo la tua distruzione o asservimento
Nietzsche si è fatto veicolo di una religione demoniaca perché non riconosce altra legge che la propria volontà di potenza e non ha altro Dio all’infuori della propria illimitata ambizione. Il nazismo è la radicalizzazione di tendenze intrinseche all’umanità. I nemici del nazismo non sono ai suoi antipodi, sono solo meno estremi, o più moderati. Il nazismo resta un’opzione universale che esisterà finché esisterà l’umanità.

NIEBUHR CONTRO IL PATRIOTTISMOIl patriottismo è solo un particolarismo su più vasta scala, un familismo ipertrofico. “La più decisiva prova del fatto che l’egoismo delle nazioni è una caratteristica della vita spirituale, e non una mera espressione dell’istinto naturale di sopravvivenza, è il fatto che le sue espressioni più tipiche sono la brama di potere, l’orgoglio (incluse le considerazioni di prestigio e “onore”), il disprezzo per gli altri (altra faccia dell’orgoglio e suo necessario fattore concomitante in un mondo in cui l’autostima è costantemente sfidata dai successi altrui), l’ipocrisia (l’inevitabile pretesa di conformarsi a una norma più alta dell’interesse individuale), e infine la pretesa dell’autonomia morale, mediante la quale l’autodeificazione del gruppo sociale viene resa esplicita dal fatto di presentarsi come fonte e fine dell’esistenza…L’orgoglio delle nazioni consiste nella tendenza a porre pretese incondizionate per i loro valori condizionati. Il carattere incondizionato di tali pretese ha due aspetti. La nazione proclama una devozione ai valori che la trascendono più assoluta di quanto venga testimoniato dai fatti, e considera i valori ai quali è fedele come più assoluti di quanto siano realmente… nessuna nazione, razza o classe sacrifica se stessa. I gruppi umani fanno dell’affermazione del proprio interesse una virtù…il meglio che ci si possa aspettare da un gruppo umano è un interesse individuale intelligente anziché stupido. Poiché la maggior parte dei gruppi umano non ha ancora raggiunto questo ideale minimo e il mondo corre il pericolo di sprofondare nel caos perché ogni nazione moderna sta perseguendo l’interesse del momento a discapito di un interesse ultimo più generale che condivide con vicini e nemici”.

NIEBUHR, LE VIRTÙ PRIMARIE E LA LORO PERVERSIONE – gentilezza reciproca, fiducia, sollecitudine, tolleranza, generosità, libertà, cooperazione, responsabilità sono virtù primarie. Ma queste stesse possono essere pervertite e servire a generare superbia, intolleranza, disprezzo e crudeltà verso chi non fa parte del nostro gruppo (che invece si merita una mia condotta in pieno accordo con le suddette virtù).
La reciprocità è la migliore guida etica che abbiamo trovato e che può andar bene per una specie di esseri non innocenti e puri è la reciprocità. Le norme di mutualità, esercitate con spirito di umiltà e giustizia sono il meglio che possiamo fare. Reciprocità significa usare l’empatia per rendersi sensibili, porosi, ricettivi alle esigenze, sentimenti e prospettive altrui. L’umiltà tiene sotto controllo il nostro istinto di dominare chi è più debole di noi, la nostra aggressività e ci permette di raggiungere dei compromessi, nel rispetto degli altri.

LA TEOLOGIA DI NIEBUHR
Il panteismo irrobustisce quelle forze nelle religione che tendono a santificare il reale invece di ispirare l’ideale.
Punto di partenza di N.: gli imperativi di Gesù il Cristo non sono praticabili dagli esseri umani nel mondo decaduto, ma devono servire di ispirazione. Occorre cercare di modellare la propria esistenza in modo che questi ideali impossibili non divengano un pretesto per diventare indifferenti e crudeli nei confronti delle persone in carne ed ossa, con tutte le loro debolezze. La perfezione del Cristo sarà realizzata nel Regno di Dio, dopo l’Apocalisse/Rivelazione che ce lo renderà visibile. N. non reinterpreta Gesù, sa che il Sermone della Montagna ingiunge di comportarsi in ogni circostanza non violentemente: la sua etica è assoluta, intransigente, un’etica universalista e perfezionista. Ma N. ritiene che l’enfasi sul perfezionismo sia relativamente recente, rinascimentale, e che i primi cristiani fossero molto più consapevoli del fatto che la natura umana è difettosa. Gli esseri umani non sono intrinsecamente buoni, ma egoisti, egocentrici, con tutto quel che ne consegue. Pretendere da un essere umano che raggiunga la perfezione significa spingerlo lungo un percorso che lo costringerà a compromettere altre virtù di primaria importanza, il che sarebbe socialmente e moralmente irresponsabile. È assurdo pensare che il peccato originale sia stato cancellato dalla morte sulla croce. Gli esseri umani di oggi non sono migliori di quelli di ieri e di prima della venuta di Gesù il Cristo.
John Haynes Holmes, teologo pacifista, lo attaccò ferocemente: “appare chiaro che la serena fiducia di Gesù nella natura umana, il suo rigido plauso della legge morale, la sua fede assoluta nelle forze spirituali, il suo solare ottimismo, la sua radiosa passione, sarebbero sembrati alquanto ridicoli agli occhi di Niebuhr. Egli non si sarebbe opposto all’Uomo della Galilea, ma lo avrebbe certamente disprezzato. E con quanto sollievo si sarebbe rivolto al cinico e realista Pilato. Pilato: l’uomo del momento”. Niebuhr, prevedibilmente, la prese molto male, parlando di una mostruosa ingiustizia nei suoi confronti. Holmes replicò che, in quanto suo amico, riteneva di doverlo aiutare a “porre rimedio alla sua bancarotta intellettuale e spirituale”. Niebuhr non lo considerava un amico, anzi spiegò ai suoi veri amici che lo disprezzava. Ma su una cosa ammise che i suoi critici avevano ragione: credeva che l’insegnamento di Gesù fosse fondamentale perché indicava l’esistenza di una realtà superiore, di ideali morali autentici, ma non forniva alcuna linea-guida su come affrontare un mondo corrotto fino all’avvento del suo Regno, su come assicurare la giustizia e l’equilibrio dei poteri, su come mantenere sotto controllo la tensione di forze contrastanti, che porta ai confitti, ossia alla violenza. Contestava la credenza del cristianesimo liberale che una società autenticamente cristiana avrebbe mantenuto la pace senza l’uso della forza coercitiva. La loro visione della cristianità si riduce ad una sua interpretazione come predicazione che gli esseri umani non seguono, ma dovrebbero seguire. Un perfezionista morale dovrebbe fare come i francescani, i mennoniti, gli amish, ecc. e ritirarsi da un coinvolgimento attivo nella sfera pubblica. Erano ciechi di fronte “alla tragica inevitabilità dell’esistenza umana, all’irriducibile irrazionalità del comportamento umano, alle tortuosità della storia umana”.
Dopo essersi opposto ai piani di riarmo di Roosevelt, nel 1940 dovette ammettere che il presidente aveva anticipato i rischi del nazismo meglio di chiunque altro e cominciò a sostenere l’idea dell’intervento armato contro la barbarie nazista.  Già nell’aprile dei 1939, l’amico Dietrich Bonhoeffer, il celebre teologo protestante tedesco poi coinvolto nell’attentato ad Hitler del 1944, lo aveva avvertito che negli ambienti militari si parlava di un piano di attacco alla Polonia previsto per l’inizio di settembre. A ottobre, mentre si trovava ad Edinburgo, aerei tedeschi bombardarono una base navale a poche miglia da dove stava esponendo le sue tesi nelle celebri Gifford Lectures intitolate “La natura ed il destino dell’uomo”. In esse criticava il liberalismo cristiano e la sua fissazione per Gesù come “uomo molto, molto, molto buono”. “E se dovesse arrivare una persona ancora più buona?” domandava. I cristiani dovrebbero allora ri-orientare la loro devozione? Il senso dell’ammonimento era quello di non credere di poter trascendere le relatività della storia aumentando il numero di superlativi applicati alla figura di Gesù, che serve solo a svalutarne la rivelazione della possibilità di redimersi dalla caduta nel peccato, causata dalla superbia e dalla brama di potere di ego, che si pone al centro della creazione e subordina inevitabilmente tutto il resto al suo volere, disseminando ingiustizia, perché è finito, non infinito, e quindi accede solo a verità parziali, soggettive, illusorie ed ingannevoli.

BIBLIOGRAFIA
Gary Dorrien, “Social Ethics in the Making: Interpreting an American Tradition”, Chichester: Wiley-Blackwell, 2009.
Langdon Gilkey, “On Niebuhr: A Theological Study”, Chicago and London: University of Chicago Press, 2001.
Menno R. Kamminga, “Standing in the Shadows of Niebuhr: U.S. President Barack Obama and Reinhold Niebuhr’s Christian Realism”. PHILICA.COM Article number 243, 2011.
Eyal Naveh, “Reinhold Niebuhr and Non-Utopian Liberalism: Beyond. Illusion and Despair”, Brighton/Portland, Oregon: Sussex Academic Press, 2002.
Reinhold Niebuhr, “Love and Justice: Selections from the Shorter Writings of Reinhold Niebuhr”, ed. DB Robertson, Philadelphia: Westminster Press, 1957.
Reinhold Niebuhr, “Uomo morale e società immorale”, Milano : Jaca book, 1968.
Reinhold Niebuhr, “The Essential Reinhold Niebuhr: Selected Essays and Addresses”, ed. Robert McAffee Brown, Yale: Yale University Press, 1986.
Reinhold Niebuhr, “Il destino e la storia: antologia degli scritti”, a cura di Elisa Buzzi; traduzione di Antonella Bartoletti, Milano: Rizzoli, 1999.
Massimo Rubboli, “Politica e religione negli USA : Reinhold Niebuhr e il suo tempo (1892-1971)”, Milano: Angeli, 1986.

mercoledì 28 dicembre 2011

L'imperialismo umanitario e la resistenza hoferiana (ieri e oggi)





Anche l’anti-hoferismo ha i suoi scheletri nell’armadio e può servire, a suo modo, ad impedire l’affermazione in Alto Adige di una cultura sinceramente democratica.

Albert Camus osservava molto acutamente che “il male che c’è nel mondo deriva sempre dall’ignoranza, e le buone intenzioni possono fare altrettanto danno della malevolenza, se mancano di discernimento”. Nei piani napoleonici c’erano ben poche buone intenzioni e molto cinismo amorale (machiavellismo) e, anche laddove, tra gli amministratori dei suoi domini, c’era sincero idealismo, non era certo immune da una feroce intransigenza robespierriana, che trovava il suo equivalente nel fanatismo reazionario dell’integralismo cattolico.
Non c’è nulla di più sanguinario di queste due patologie della coscienza – l’amoralità e l’intransigenza –, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo. Dopo il declino del cristianesimo e la fine del comunismo, l’umanitarismo è la nuova crociata redentrice (Brauman, 2009). Mentre sarebbe sbagliato non intervenire, è altrettanto sbagliato intervenire con tutto il proprio peso: sarebbe meglio intervenire un po’, con moderazione e rispetto, perché, come sottolinea Tzvetan Todorov nell’introduzione al libro: “il diritto o la morale non sostenuti dalla forza rischiano di essere impotenti, ma la forza senza diritto e senza morale conduce al crimine”. 
Il parallelo tra un Terzo Mondo immaginato come una landa desolata, popolata da eterne vittime bisognose di incessante soccorso ed un’analoga percezione degli ambienti alpini è del tutto legittimo (Arnoldi, 2009). 
Come oggi si esporta la democrazia ed il benessere, così, ai tempi di Andreas Hofer, le baionette franco-bavaresi imponevano il diritto napoleonico e la medicina moderna sollecitati dal medesimo impulso che anima l’umanitarismo contemporaneo, quello della legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se non ci sono forze che la limitano. Andreas Hofer fu il catalizzatore di quelle forze. Possiamo discutere della bontà dei suoi valori e dei più vasti disegni politici che lo coinvolsero, forse a sua insaputa, ma dobbiamo prendere atto del fatto che tutti noi, come i franco-bavaresi di un tempo, siamo abituati a pensare che la violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici, civili ed umanitari e gli altri o non lo sono, o lo sono sensibilmente di meno
Crediamo che la nostra violenza redentrice sia un male minore, che in fondo è un bene, e quindi si giustifica da sé, ma il diritto non coincide sempre con la giustizia e l’umanitarismo può degradare l’umanitario, allo stesso modo in cui il moralismo è una perversione della morale
I detrattori dell’hoferismo e del napoleonismo a volte incappano nella trappola cognitiva di pensare che ogni critica ad una causa giusta (la loro) sia ingiustificata e dietrologica. L’umanitarismo (come la lotta per l’autodeterminazione e contro gli invasori) elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo gerarchicamente tra vittime e carnefici, vittime e soccorritori, trasformandosi in un modo di leggere (erroneamente) il mondo (Brauman, 2009). Quello attuale, e quello di chi combatteva Hofer, è un messianismo laico, l’ennesimo mito che ci permette di condensare una pluralità di significati complessi in un codice binario.
Le armate napoleoniche, come quelle della NATO, non praticavano forse il “cannibalismo umanitario” tipico dell’orco filantropico, come l’ha chiamato Octavio Paz, Premio Nobel per la Letteratura nel 1990? 
Vi liberiamo, vi soccorriamo, vi emancipiamo dai vostri vizi: abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a sentirci dei salvatori. L’ingerenza “umanitaria” diventa allora un dovere (dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non farlo). Si scambiano le intenzioni per i risultati, ci si munisce di una falsa coscienza compiaciuta, si pontifica, prigionieri del proprio gioco di specchi. In questo modo, a causa di questa ideologia redentrice, la meravigliosa conquista dei diritti umani, nel diciannovesimo secolo come nel ventunesimo secolo, può fungere da vettore di guerra, oppressione ed iniquità, per strappare i barbari alla loro barbarie.
La sofferenza patita e la giustezza della causa conferisce l’immunità morale alla propria fazione. Gli uni e gli altri, francobavaresi ed hoferiani, volevano salvare il Tirolo, per cambiarlo oppure per conservarlo eternamente. Non era un Tirolo realmente esistente, ma una costruzione della loro mente, un ideale da difendere ad ogni costo, che fungeva per gli uni e per gli altri come valvola di sfogo di angosce esistenziali, reazione all’anomia, all’insoddisfazione ed al bisogno di autostima, ma anche come pretesto per imporre il proprio ego e le proprie proferenze ed esigenze.
L’umanitarismo produce perversioni anche tra chi ne beneficia, come il vittimismo. Il vittimismo partorisce la vittimologia e la vittimocrazia: in Alto Adige gli imprenditori etnici amano presentarsi come rappresentanti di un popolo vittimizzato, in un mondo in cui l’ideologia umanitarista esige che si intervenga in favore delle vittime e moltiplica le vittime per potersi sostenere. L’esito è profondamente anti-umano, oltre che anti-umanitario, perché perpetua l’immagine dicotomica delle vittime e dei carnefici, dominati e dominatori e tiene bene in vista la prospettiva del capro espiatorio e della violenza indiscriminata: “qualcuno deve pagare per tutto quel che abbiamo dovuto subire!”. Altro che grandi ideali: è contabilità spicciola. Dall’una e dall’altra parte.
La convivenza si costruisce sulla capacità di ascoltare l’altro e di imparare da lui, non certo sulla presunzione di auto-sufficienza e sulle brame messianiche. Altrimenti la valutazione obiettiva della realtà lascia il posto alle monocolture della mente, che elidono la diversità e fanno presentire una drammatica mancanza di alternative che in realtà non esiste e non esisterà mai, laddove la necessità è l’alibi del tiranno.
Ogni identità è una relazione, ossia un’interdipendenza. Non si protegge un’identità separandosi dagli altri o stabilendo dall’alto come questa vada tutelata: così facendo la si condanna a morte. Alla mancanza di riconoscimento dell’altro corrisponde una percezione deficitaria di noi stessi ed una concezione strumentale della politica: le persone sono mezzi in vista di un fine, la realtà è argilla da modellare a nostro piacimento, finché non assume i contorni da noi desiderati. Come se fosse possibile cambiare l’altro senza cambiare anche noi stessi
Il vero cambiamento parte da noi stessi, da un auto-esame, dal mettersi in discussione, da una revisione delle nostre relazioni con gli altri. È patologicamente narcisistico pretendere che gli altri debbano cambiare per venire incontro alle nostre esigenze ed arrivare così a vivere la vita che desideriamo per noi, o separarsi dagli altri pur di averle sempre vinte. Purtroppo questo genere di desiderio trova un terreno fertile in una società del consumo e dell’edonismo, che ci instilla deliri di onnipotenza, insegnandoci ad espandere ininterrottamente le nostre brame, a credere che possiamo e dobbiamo mirare ad una sorta di onnipotenza ed autarchia, che è giusto e doveroso superare la nostra naturale condizione di incompiutezza, di carenza strutturale: “l’uomo che non deve chiedere mai”, “il lusso è un diritto”, “perché io valgo”, “tutto intorno a te” ed altre fesserie sensazionalistiche, emotive e manipolatorie all’origine della pandemia depressiva del mondo occidentale. 
Si chiama hybris ed è l’indisponibilità a riconoscere che abbiamo dei limiti e che questi limiti non sono ostacoli che dobbiamo cercare freneticamene ed ossessivamente di superare ma rappresentano i diritti di cui sono titolari gli altri esseri viventi che popolano questo pianeta, che non sono nostre appendici, continuazioni di noi stessi, non sono terre di conquista su cui allungare le mani, non sono alterità da cancellare perché scomode, sconvenienti, irritanti
Per questo il patriottismo, l’orgoglio etnico, l’umanitarismo (quando è "civilizzatore"), quasi senza eccezioni, sono il volgare sentimentalismo di chi crede di prendersi cura di qualcosa che è al di fuori di se stesso, ma in realtà sta proiettando all’esterno il suo amor proprio: i successi ed i patimenti della patria, della comunità, della civiltà sono prima di tutti i suoi ed è questo che lo gratifica o lo affligge. Ogni ingiuria alla patria è un’occasione per sentirsi protagonista di un melodramma cosmico che soddisfa le sue fantasie di grandezza. Se la patria non è sufficiente ci sarà la classe, la fede religiosa, la civiltà, ecc. L’amor patrio, come l’amore per l’umanità, è la menzogna di chi non vuole confessare il proprio narcisismo e lo trasla su una collettività, per mimetizzarlo. Lo aveva capito perfettamente don Lorenzo Milani che, nel 1966 (Gesualdi, 1975), scrive ad una studentessa napoletana:

Non si possono amare tutti gli uomini...Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più... Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio.

Sulla scia di Paolo di Tarso, che scriveva (1 corinzi 13, 3-7: 3):

Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.

mercoledì 30 novembre 2011

Il Gesù poderosamente nonviolento di John Milton



Io che ho cantato il giardino gioioso perduto per la disobbedienza di un solo uomo, canto ora il paradiso riconquistato per tutta l’umanità dalla tenace obbedienza di un solo uomo, messo alla prova fino in fondo da ogni tentazione; e il tentatore fallì in tutte le sue astuzie, sconfitto e respinto, e l’Eden sbocciò nello squallido deserto.
John Milton, Paradiso Riconquistato.

Per Paolo di Tarso, e quindi per la Chiesa, Gesù il Cristo è il nuovo Adamo, il figlio di Dio che ci ricorda com’era Adamo prima della caduta. È l’uomo perfetto, immerso nel tempo e nel divenire, ma modello dell’uomo a venire, ponte tra l’uomo caduto ed il Creatore. Gesù insegna che la morale non proviene dalla nostra esperienza empirica, dall’accumulazione di conoscenza e valori, è un a priori che proviene dal nostro intimo, dalla profondità di ciò che siamo, dal nostro legame con il Regno di Dio e si realizza nella spontaneità dell’atto d’amore che, come spiega molto bene Paolo ai Corinzi: “è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità. Ci riempiamo la bocca con la parola amore, però amiamo rozzamente, narcisisticamente, in preda all’ansia, alla gelosia, alla dipendenza, all’aggressività, alla devozione, al desiderio, all’autocommiserazione ed all’invidia: ci piace sapere che la persona che amiamo dice in giro che ci appartiene, come se amore e possesso coincidessero; preferiamo amare qualcuno finché la pensa come noi; uccidiamo per amor patrio. Eppure, se non fosse per i mille modi, più o meno sgraziati o fulgidi, con cui tentiamo di amarci l’un l’altro, non sarebbe possibile attribuire alcun significato all’idea della dignità della persona, dell’inalienabilità dei suoi diritti: sarebbero involucri vuoti.
Non si può comunque ridurre il messaggio di Gesù al Discorso della Montagna ed alla predicazione dell’Amore per il prossimo. La resistenza alle tentazioni (simile a quella di Gauthama) e l’apocalisse sono elementi fondamentali, forse anche più importanti della dottrina dell’amore, perché essa non si può realizzare pienamente se non dopo la fine dei tempi mondani. Questo perché Satana – come Mara, il tentatore di Gautama Siddharta – si proclama signore di questo mondo e Gesù non lo contraddice, non lo smentisce. Anzi, resiste fattivamente alle tentazioni del Signore del Mondo: non le considera illusorie o ludiche. Non è nel Mondo Caduto che intende stabilire il Regno di Dio: “il mio regno non è di qui” (Giovanni 18, 36). Non è della corruzione della carne che si preoccupa: “E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccider l’anima; temete piuttosto colui che può far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Matteo 10, 28).
Invece di scegliere la via della dominazione o della rivoluzione (come gli zeloti), sceglie la via del servizio: “E Gesù, chiamatili a sé, disse: “Voi sapete che i sovrani delle nazioni le signoreggiano e che i grandi esercitano il potere su di esse, ma tra di voi non sarà così; anzi chiunque tra di voi vorrà diventare grande sia vostro servo;  e chiunque tra di voi vorrà essere primo sia vostro schiavo. Poiché anche il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” (Matteo 20: 25-28).
Resiste a tutte le tentazioni: quelle diaboliche, quelle del popolo che lo acclama re, quella della fuga di fronte alla prospettiva di una morte certa. Come il Buddha, in luogo dei piaceri edonistici preferisce la vita dello spirito: “Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Matteo 4, 4). Infatti, “chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per me, esso la salverà. Infatti, che giova all’uomo l’aver guadagnato tutto il mondo, se poi ha perduto o rovinato se stesso?” (Luca 9:24-25).
Gesù sconsacra il mondo e consacra la coscienza (Lenoir, 2007). Insegna che sopravvivere non basta, bisogna esserne degni. Vivere senza una coscienza integra è peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. Gesù ci rammenta che c’è un confine che i giusti non osano oltrepassare, ci sono azioni che non commetterebbero mai, indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente, che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci sarebbe più un’ulteriore occasione per marcare il confine del nec plus ultra (non oltre). L’integrità morale è più preziosa della vita. Infatti: «Gesù disse, "Se esprimerete quanto avete dentro di voi, quello che avete vi salverà. Se non lo avete dentro di voi, quello che non avete vi perderà"» [Tommaso, 70]. Gesù è pienamente autorizzato ad usare toni perentori e definitivi. È riuscito a resistere alle tentazioni di Satana, mostrando di essere pronto ad assolvere i compiti per cui si è incarnato in quel tempo ed in quel luogo.
Trovo che la rilettura di questa disputa effettuata da John Milton ne “Il Paradiso Riconquistato” sia particolarmente illuminante. Per Milton, come per tanti altri pensatori, l’incarnazione è una degradazione ontologica, una spiacevole caduta in una gerarchia monistica materiale che va invertita. Quest’opera parte dalla premessa che Gesù sia il secondo Adamo e che il ritiro spirituale nel deserto, dove sarà “aggredito” da Satana, sia un viaggio alla scoperta di sé – come l’Odissea, come la cerca del Graal. Il dialogo miltoniano tra Gesù e Satana mostra un Satana molto retorico e sofisticato ed un Gesù semplice, preciso, conciso ed incisivo. Satana si affida al potere dello scrutinio razionale, come ogni formalista (la storia della Chiesa insegna). Tenta Gesù informandolo di un difetto fondamentale della sua opera: le sue virtù non sono sufficientemente pubblicizzate. Se solo il mondo si potesse accorgere della sua grandezza, la gloria e la fama sarebbero garantite. Gesù però sa che non trarrebbe alcun beneficio dall’adorazione delle folle, che non sono certamente sagge e non potrebbero mai veramente capire la specificità della sua missione. Le folle hanno dimostrato a più riprese di non essere in grado di discernere a chi spetti la loro ammirazione, intessendo le lodi di despoti e condottieri sanguinari. La vera gloria si consegue “per vie molto diverse”, cioè “senza ambizione, guerra o violenza; con opere di pace, saggezza eminente, pazienza e temperanza” (PR III). 
Satana insiste: libera Israele, come puoi restare indifferente di fronte all’oppressione dei popoli? Gesù mette in dubbio l’interpretazione della realtà formulata dal Tentatore: a chi verrebbe mai in mente di liberare chi è interiormente schiavo, prigioniero per sua stessa mano? Le persone che sono spiritualmente schiave non possono essere liberate: finché non scelgono di cambiare dall’interno non saranno in grado di capire cosa sia la libertà e la scambieranno per qualcos’altro
A questo punto Satana batte la strada che ha già portato alla rovina Eva ed Adamo. Se vuoi farcela, insinua il Tentatore, ti conviene equipaggiarti con la sapienza classica. Gesù ribatte che la comunione con Dio gli offre tutta la conoscenza di cui abbisogna: “Chi riceve la Luce dall’alto, dalla Fonte di luce, non necessita di altre dottrine, per quanto siano date per veridiche; ma esse sono false, o poco più che sogni, congetture, fantasticherie, costruite su fragili fondamenta” (PR IV, 286-292).
Satana non è un rivoluzionario, ma un controrivoluzionario: gli piacciono le gerarchie feudali, ma vuole essere lui il capo. Gesù invece predica l’uguaglianza, ossia l’abolizione di tutte le gerarchie. Satana parla di libertà, ma le sue azioni sono all’insegna della dominazione, della gloria, della fama personale. Non riconosce gli altri come suoi pari. Non è neppure più un mentitore patologico, è una menzogna ambulante, così innamorato di sé stesso da aver rinunciato ad interessarsi a Dio, da desiderare di esistere per conto suo, da credere di non essere mai stato creato. Crede che lui ed i suoi angeli siano autogenerati "self-begot, self-raised" in virtù della loro potenza, in una sorta di percorso evolutivo spontaneo (fatal course). L’orgoglio, l’invidia, il risentimento, l’odio, la furia, la gelosia sono le sbarre della sua prigione infernale. Si sente vittima pur essendo la causa dei suoi mali e questo vittimismo perpetuo lo imprigiona e lo corrompe progressivamente.
Che cosa dovrebbe impedire alle legioni dell’Inferno di deporre Satana stesso, ora che quest’ultimo ha tracciato la strada della ribellione? Satana, come Robespierre, è un aspirante tirannicida con il cuore di un tiranno. Stabilisce una gerarchia infernale di carattere monarchico e nel farlo si appella proprio alla logica del sistema di potere che vuole abbattere. È un ipocrita. Usa le stesse parole per condannare gli uni e giustificare se stesso. Non è davvero possibile avere un dialogo con lui, perché il suo intelletto è gravemente compromesso, è virtualmente reso autistico dalla sua assoluta preferenza per se stesso. Di conseguenza, nelle tentazioni della Partia, di Roma e di Atene non possiamo fare a meno di notare la futilità dell’interloquire, che rende onore a Milton, disposto a sacrificare l’intrattenimento pur di preservare l’integrità dell’opera. Satana non è strutturalmente in grado di capire le argomentazioni di Gesù e quest’ultimo non è minimamente interessato alle profferte di Satana, che considera ben poca cosa rispetto a ciò che già possiede.
Satana gli dice: tu pensi di sapere molto, ma io ti posso garantire che la fonte di conoscenza che ti offro è infinitamente più vasta. Potrebbe farcela, com’è già successo con Eva, perché Gesù si è ritirato nel deserto proprio alla ricerca della conoscenza che gli permetterà di realizzare la sua missione (Yim, 2003). Ma Gesù, come già Socrate, sa che la vera conoscenza è già dentro di lui e si tratta solo di recuperarla scandagliando la sua interiorità: “conosci te stesso” è il motto dell’oracolo delfico. Il rifiuto di questa profferta indica il grado di consapevolezza acquisito da Gesù: “sono già in comunione con il divino”, non ho bisogno di altro. 
Allora Satana si gioca l’ultima carta, deponendolo sul pinnacolo del tempio: dimostra che sei chi pretendi di essere. Il primo Adamo è caduto, il secondo Adamo resiste. Narcisismo, ipocrisia e orgoglio non lo condizionano. La Caduta è l’incapacità di separare l’idea dalla realtà, la sovrapposizione delle proprie idee alla realtà, che impedisce di vederla come effettivamente è (“potrebbe essere”, “dovrebbe essere”, in luogo di “è”), fino al distacco completo dalla realtà stessa, che è il nostro fato: un estetismo cronicizzato che cancella il realismo, la visione obiettiva dei fatti.
La critica letteraria Carol Barton (Barton, 2000) ha osservato che i lettori del Paradiso Riconquistato si lamentano della staticità della trama, della passività del protagonista (Gesù), della mancanza di tensione nello scontro tra Bene e Male, del ripudio della cultura umanistica da parte di Gesù. Ma Gesù non deve fare altro che smascherare l’illusione, per annientare il potere del “mago”, come ne “Il meraviglioso Mago di Oz”. Non c’è alcun bisogno di un duello fisico o di un elaborato confronto filosofico. Una volta che l’eroe si rende conto del meccanismo che sorregge l’illusione, questa cessa di esercitare il suo potere su di lui e si dissolve. Gesù non agisce solo perché ha capito fin dall’inizio che le varie opzioni che gli vengono presentate sono fuorvianti e corrompenti, dietro un’apparenza di stuzzicante appetibilità. Compiere qualunque azione sollecitata da Satana (incluso sfamare gli affamati e liberare un popolo) equivale a rendersi suo complice e servo.
Gesù non deve dimostrare la sua divinità o superiorità, perché sono un dato di fatto, non un motivo di vanagloria. Non deve prevalere sul Male, ma su di sé. Se Adamo ed Eva avessero avuto la stessa intuizione, non ci sarebbe stata alcuna Caduta. 
La grande impresa di Gesù il Cristo è  precisamente questa: saper dire di no alle tentazioni, con determinazione, senza tentennare. Da quel momento in poi potrà portare a buon fine la sua impresa. È maturo per far sì che ogni sua azione sia equilibrata, attenta e tempestiva. È Adamo redivivo, prima della Caduta. Ogni azione va compiuta al momento opportuno, né prima, né dopo. Non spetta a Gesù o a chiunque altro alterare o accelerare il corso e la manifestazione della volontà divina. Ciò lo rende inattaccabile. Non deve scegliere tra le alternative proposte da Satana: sono inevitabili solo perché Satana vuol far credere e vuol credere lui stesso che lo siano. Non è certo Satana a dover stabilire quali siano le opzioni disponibili.
Satana semplicemente non sa abbastanza delle cose dell’universo, mentre Gesù sa che affidarsi alla conoscenza umana sarebbe come guardare il mondo con delle lenti distorcenti ed opacizzate. Perché rinunciare ai suoi 11 decimi di visione? Perché dovrebbe accontentarsi delle ombre sulle pareti della caverna quando può vedere il cielo stellato, cioè la Verità? Adamo ed Eva non dimostrarono la stessa lucidità.
A Gesù non è richiesto di annullare se stesso in Dio. Dio non è un divoratore di anime, non chiede nulla di più di quanto chiederebbero una moglie o un marito: non anteporre te stesso alla nostra unione. L’obbedienza non è una virtù in quanto tale se ci si piega alla tradizione o alla tirannia. L’obbedienza ha valore e significato solo se si fonda sull’amore e sulla sapienza. 
Ne “Il Paradiso Perduto”, l’arcangelo Raffaele spiega: “serviamo liberamente, perché amiamo liberamente” (5.538-9). Gesù ama e si fida, Adamo ed Eva no: si comportano impulsivamente ed egoisticamente e si prendono di nascosto quel che decidono sia loro per diritto acquisito, senza neppure domandarsi se sia saggio fidarsi di uno sconosciuto, tradire la fiducia di chi ti ama e dare per scontato che quel frutto ti sarà per sempre negato – e, se anche così fosse, che ciò avviene per futili motivi e non per il tuo bene.
Gesù preserva il suo libero arbitrio, scegliendo di non agire, che è di per sé un’azione. Infatti non è immobile, passivo, inerte. Sembra inattivo, ma è attivo, perché mentre il suo corpo appare inoperoso, la sua coscienza è attiva, circospetta, lungimirante: le tentazioni lo rendono consapevole di quale sia la sua natura ed il suo ruolo cosmico, lo aiutano a capire la differenza tra quel che lui vuole e la volontà della Provvidenza. Satana sembra in moto perpetuo, ma si affanna a correre senza riuscire a spostarsi dal luogo in cui si trova. Alla fine perde il controllo e precipita, ancora più dannato di prima, ancora più statico. È altrettanto significativo che Dante lo descriva come immobilizzato in una glaciale perpetuità.
Come Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore, Milton non assegna al suo Gesù alcuna missione se non quella di resistere alla manipolazione della sua coscienza. Si salverà solo chi imiterà il suo rifiuto. L’immobilità di Gesù sul pinnacolo è quella di un uomo in cui la volontà personale è sorretta da quella divina, senza che le due possano essere distinte, perché la natura umana si è fatta umilmente e prontamente veicolo, strumento di quella divina, ricevendone in cambio l’onnipotente agape. Satana impone un “o…o”, Gesù risponde con un “e…e” (Barton, op. cit.). Solo in quell’istante si manifesta il Cristo, ossia una figura investita di poteri e funzioni speciali. Infatti, nei vangeli sinottici, sebbene gli angeli e i magi lo riconoscano come tale, il dubbio serpeggia. Giovanni Battista sospetta che sia proprio lui, ma non ne è certo. Gesù non si proclama tale ed anzi invita gli apostoli a mantenere un basso profilo: “Allora egli intimò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno” (Marco 8, 30). Nel Paradiso Riconquistato, Milton non lo chiama mai Cristo, ma “il Figlio”, a riecheggiare le parole di Giovanni: “ma a tutti coloro che lo hanno ricevuto, egli ha dato l'autorità di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome” (Giovanni 1, 12) e di Paolo: “Poiché tutti quelli che sono condotti dallo Spirito di Dio sono figli di Dio” (Romani 8, 14). Ancora più chiaramente, nella prima lettera di Giovanni: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (1 Giovanni 3, 1-3).
Fino alla fine dei tempi non potremo essere come Gesù, ma tutti possono sforzarsi di essere più simili al secondo Adamo, rispetto al primo. 


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http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/etienne-de-la-boetie-un-uomo.html