domenica 23 ottobre 2011

Democrazia è bello



La democrazia come mezzo importante per la realizzazione della dignità umana di tutti dunque, nonostante le difficoltà che indubbiamente scaturiscono da un atteggiamento intimamente democratico, appunto perché si deve tener conto di tutti. Chiaro che la democrazia come forma culturale è qualcosa di diverso dal semplice prevalere della maggioranza.
Alexander Langer, “Segni dei tempi”, in “die Brücke”, 1 novembre 1967


Mi piacerebbe pensare che sarà una democrazia dal volto più compassionevole. Una democrazia più gentile...più gentile perché più forte. [...]. Nei regimi autoritari, dove è lecito esprimere solo certe cose, la crescita del talento viene distorta. Non può sbocciare, Come un albero che cresce in una sola direzione perché è costretto: la direzione che aggrada alle autorità. Non potrà mai esservi un’autentica fioritura di talenti e creatività.
Aung San Suu Kyi, "La mia Birmania" 2008.

La democrazia piace a tanti, ma non è eccitante. Non c’è nulla di eroico, seducente, melodrammatico, virile nella democrazia. La democrazia, quella autentica, è mite, pacifica, non esportabile con la forza
Due grandi studiosi, Tzvetan Todorov e Paolo Rossi, hanno definito magnificamente il vero punto debole della democrazia, il suo essere scarsamente elettrizzante, appunto. “Il totalitarismo contiene una promessa di pienezza di vita armoniosa e di felicità. È vero che non la mantiene, ma la promessa perdura e ci si può sempre raccontare che la prossima volta sarà quella buona e che verremo salvati. La democrazia liberale non contiene invece una promessa simile; si impegna soltanto a permettere a ognuno di cercare per proprio conto la felicità, armonia e pienezza” (Todorov, 2001). 
Il filosofo e storico italiano è ancora più tranciante: “Molti si sono resi conto che la democrazia è una forma molto artificiale e assai poco naturale di vita associata. È strutturalmente e non occasionalmente connessa ad una serie di imperfezioni. È una forma di vita sociale che richiede dosi molto alte di disponibilità all’ascolto, molta capacità di sopportazione, una notevole capacità di vivere in assenza di illusioni, dando scarso spazio alle utopie e all’idea di una totale rigenerazione. L’incompatibilità fra i valori proposti rendono inevitabili i conflitti e rendono incoerente, obsoleta e illusoria l’idea di un Tutto Perfetto nel quale coesistano tutte le Cose Buone. La democrazia è prevalentemente legata ad una filosofia (l’empirismo) che non dà i brividi lungo la schiena, che sembra a molti scarsamente eccitante, che è nata in polemica con l’entusiasmo, che insiste sui limiti del possibile, sulla provvisorietà delle soluzioni, sulla loro parzialità e rivedibilità, che preferisce i compromessi alle decisioni carismatiche. Vive perennemente nel contrasto fra la ricerca del consenso e la necessità di misure impopolari, fra la necessità delle competenze (che sono di pochi) e la necessità del controllo dei molti sulle decisioni dei pochi. La rinuncia a identificare l’Avversario con il Nemico, la ricerca di un equilibrio sempre minacciato” (Rossi, 1995). Come se ciò non bastasse, non esiste alcun fondamento ontologico per la democrazia, i principi che stanno alla sua base non sono scientificamente difendibili. “Vive di presupposti di valore che non può produrre direttamente” (Rusconi, 1999).
Eppure, gradualmente, al prezzo di enormi sacrifici, la democrazia è riuscita ad affermarsi e, pur tra mille difficoltà, è probabile che sia qui per restare. È quel che dovremmo augurarci tutti, inclusi molti dei suoi critici. Infatti la democrazia ha successo perché funziona. James Surowiecki, esperto finanziario per il New Yorker, ha raccolto una considerevole mole di dati che sembra dimostrare che mentre l’individuo immerso in una folla disperde il suo discernimento morale ed intellettuale, la sommatoria delle stime di individui inseriti in un gruppo (come, appunto, in una società democratica) si avvicini al valore esatto in misura a dir poco stupefacente (Surowiecki, 2007). Lo aveva già notato lo statistico britannico Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Nel 1906 era in visita ad una fiera zootecnica e fu colpito da evento che contraddiceva le sue credenze riguardo alla stupidità del popolino ed all’innata superiorità delle classi altolocate (credenze che lo avevano spinto sulla strada dell’eugenetica e della sterilizzazione degli “inadatti”). La fiera metteva in palio un premio per chi avesse fatto la stima più precisa del peso di un bue, una volta macellato. Galton, che era maniacalmente attratto da tutto ciò che poteva essere ridotto ai suoi dati numerici, osservò che i partecipanti non erano tutti esperti e che il loro insieme poteva essere considerato un campione rappresentativo dell’elettorato di una democrazia. Il valore centrale verso cui tendevano le 787 stime era di 1207 libbre, contro le 1198 effettive; un divario insignificante, inferiore all’1 per cento. La validità del modello democratico trovava dunque una conferma empirica. Un esperimento analogo fu tentato da un docente di economia statunitense Jack Treynor, che chiese ai suoi studenti di indovinare il numero di palline in un vaso di vetro. Il recipiente conteneva 850 palline e la stima del gruppo fu di 871. Soltanto uno dei 56 partecipanti si era avvicinato al numero esatto più del gruppo di studenti preso nel suo insieme. Questi ed altri test indicano che un gruppo, per raggiungere delle valutazioni affidabili, deve soddisfare due requisiti principali: (a) serve una notevole eterogeneità dei suoi componenti, ossia una considerevole diversificazione delle competenze e delle informazioni disponibili; (b) le scelte personali devono essere il più possibile indipendenti. Il grande nemico è il cosiddetto “groupthink” (“pensiero di gruppo”), cioè la ricerca del conformismo e la dissuasione del dissenso, che riducono la varietà di stime e l’efficacia della valutazione finale. Le conclusioni di Surowiecki sono inequivocabili: “Quando i nostri giudizi imperfetti sono aggregati nel modo giusto, la nostra intelligenza collettiva spesso raggiunge livelli di eccellenza”. Di conseguenza, il compito di un leader è quello di fare in modo che il maggior numero di voci trovino ascolto, per poi decidere sulla base di tutti i riscontri.
La democrazia vince ogni forma di governo concorrente anche se posta a confronto coi rivali sulla base dei risultati effettivi. Ciò è dovuto al fatto che la sua ragion d’essere è la divisione dei poteri e la responsabilizzazione di molti più cittadini. Lord Acton soleva dire che “il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente”. Rudolph J. Rummel, professore emerito di scienze politiche all’Università di Hawaii, ha dimostrato, dati alla mano, che “il potere uccide, il potere assoluto uccide assolutamente”. Senza una netta divisione dei poteri, la stessa vita dei cittadini è a rischio. Rummel ha analizzato migliaia di stime sulle vittime di massacri compiuti dai poteri centrali nel corso della storia (non direttamente causati da un conflitto bellico), per un computo totale di 300 milioni di vittime, di cui oltre la metà nel ventesimo secolo, il secolo dei totalitarismi di destra e di sinistra. Un numero astronomico che non include le vittime dei combattimenti e dei bombardamenti. Il risultato delle sue analisi è univoco: l’unica maniera per fermare gli eccidi (li chiama democidi) è istituire delle autentiche democrazie, quelle dove il potere è distribuito e non accentrato ed i cittadini sono liberi. I dati dimostrano ciò che era facilmente intuibile, cioè che più autoritario è un governo, più alta sarà la mortalità dei cittadini per azioni intraprese dal governo stesso. La centralizzazione dei poteri è una minaccia per i cittadini perché rischia di rivoltarsi contro di loro mentre, al contrario, le democrazie raramente entrano in guerra tra loro. Quasi sempre, nel caso di un conflitto internazionale, una delle due nazioni è un governo non-democratico. Questo perché è assai arduo persuadere l’opinione pubblica a scegliere la via della guerra; serve un pretesto. Se non si tratta di una guerra difensiva, in genere, i governi democratici devono ricorrere all’inganno ed alla manipolazione dell’opinione pubblica oppure appoggiano colpi di stato, omicidi politici e guerre per procura. In ogni caso, anche se si opta per la guerra, le democrazie tendono storicamente a limitare la ferocia e la durata del conflitto, perché i governi temono di irritare l’opinione pubblica. Inoltre le democrazie non eliminano i propri cittadini pubblicamente: più deboli sono le democrazie, ossia più oligarchica è la natura del loro potere, maggiore sarà il rischio che ciò avvenga impunemente, specialmente perché il potere attira un certo tipo di personalità autoritaria ed aggressiva. Le atrocità commesse dalle democrazie sono state compiute a dispetto del fatto che erano democrazie, o perché il processo democratico non era in uno stato sufficientemente avanzato. Hanno tradito la loro natura, il loro spirito. Di conseguenza trasparenza, partecipazione della società civile e libertà civili sono la miglior immunizzazione contro la violenza in generale e la guerra in particolare, perché promuovono i principi della negoziazione, del compromesso, dell’associazionismo, della tolleranza delle differenze. Ciò dimostra che la specie umana, di norma, non ama la violenza (e non ama pagare le tasse che servono a perpetrarla). La risposta al perché delle guerre non va cercata nella psiche o nella natura umana, come sono inclini a fare i commentatori di destra, perché non c’è nulla di inevitabile ed irreversibile. Non è neanche un problema riconducibile a fattori economici o alla scelta di pessimi leader: una spiegazione prediletta dai commentatori di sinistra. La chiave è invece la struttura sociale: più la sovranità è condivisa con la società civile, più rare saranno guerre, eccidi e carestie. Infatti, fino al momento attuale, nessuna democrazia ha dovuto fronteggiare una carestia. Altri dati significativi sono che, di norma, le democrazie hanno abbandonato le loro colonie meno violentemente rispetto ai regimi non-democratici e che i tassi di criminalità violenta sono più bassi nelle democrazie, anche se includiamo gli Stati Uniti.
In sintesi, democrazia è bello perché le decisioni sono più ragionate e precise, perché ci sono meno possibilità di lasciarci la pelle e perché c’è maggiore prosperità. Già questo dovrebbe essere sufficiente ad accontentarci. Ci sono però tanti altri vantaggi che forse ormai diamo per scontati. 
Ecco gli assunti fondanti di una democrazia (Merriam, 1938): l’essenziale dignità dell’essere umano; l’importanza di proteggere e coltivare la personalità dei cittadini in un clima di collaborazione e non di divisione (pluralità unitaria); l’eliminazione di privilegi basata su interpretazioni arbitrarie ed esagerate delle differenze tra esseri umani; l’idea che l’umanità possa migliorare; la convinzione che i profitti debbano essere ridistribuiti il più possibile tra tutti ed in tempi ragionevoli; il pari diritto dei cittadini di far sentire la propria voce su questioni delicate (coesistenza del maggior numero possibile di opinioni, o pluralismo) e di decidere autonomamente chi li debba rappresentare; la premessa che i cambiamenti sono normali, possono essere molto vantaggiosi e vanno realizzati tramite processi decisionali consensuali (spirito del compromesso, suffragio universale) e non con la prevaricazione e la forza bruta. Le democrazie non riconoscono l’esistenza di persone comuni e medie, si compongono di persone che hanno valore in quanto tali e che, idealmente, non temono le opinioni altrui, non hanno paura di chi non la pensa come loro e guardano ai propri governanti con una salutare misura di scetticismo.
È forse vero che le democrazie non sono “eccitanti”, ma è anche vero che i regimi più “dinamici” sono spesso anche quelli meno tolleranti, meno flessibili, meno in grado di venire incontro alle necessità di milioni di cittadini. È presumibile che la maggior parte delle persone preferisca una vita serena ad una vita sempre sul chi vive. Ad ogni modo il processo di democratizzazione non è assolutamente concluso, neppure nelle democrazie di lungo corso. Al mondo vi sono molte democrazie formali, ma non c’è nessuna democrazia compiuta, perché nessuna delle premesse sopraelencate è stata soddisfatta. Inoltre milioni di cittadini di società democratiche non hanno sviluppato una propensione democratica, uno stile del vivere e del pensare pienamente democratico. Lo si nota al momento del voto e nelle interazioni quotidiane. C’è ancora molto lavoro da fare. Innanzitutto è necessario che sempre più cittadini comprendano che la coscienza viene sempre prima degli appetiti e delle lealtà collettive. Una lezione che abbiamo ricavato dall’esperienza del nazismo e degli altri totalitarismi ma che non sempre è stata debitamente assimilata. “Lo stato è fatto per l’individuo e non vice versa” (Bobbio, 1999). Sempre Bobbio: “Occorre diffidare di chi sostiene una concezione antiindividualistica della società. Attraverso l’antiindividualismo sono passate più o meno tutte le dottrine reazionarie – assiologicamente, l’individuo è superiore alla società di cui viene a far parte. […]. Non sarà mai sottolineata abbastanza l’importanza storica di questo rovesciamento. Dalla concezione individualistica della società nasce la democrazia moderna, che deve essere correttamente definita non come veniva definita dagli antichi, “il potere del popolo”, ma come il potere degli individui presi uno per uno…La democrazia moderna riposa sulla sovranità non del popolo ma dei cittadini” (Bobbio, 1997). La logica del suffragio universale non può essere malinterpretata: “una testa, un voto è un principio irrinunciabile della democrazia ed estraneo, in principio, allo spirito comunitario ed organicistico, così come a quello corporativo. […] A un sistema laico non si confà il riconoscimento delle comunità, quali che esse siano, come soggetti pubblici nel senso di soggetti che bussano alla porta della rappresentanza politica” (Pavone, 2005).
Perciò si deve concludere che non esiste democrazia senza individualità, ossia la capacità di ragionare con la propria testa e di agire responsabilmente non perché così è richiesto dalla legge ma perché ce lo suggerisce la coscienza, il nostro giroscopio morale. I cittadini non sono mattoni nell’edificio della società, non sono dei mezzi per un fine: sono dei fini in se stessi. La maturazione di una coscienza individuata non porta all’egotismo ma ad un diverso e migliore – più saldo, più profondo, più significativo, più intenso, soprattutto più adulto – rapporto di interconnessione con gli altri (Kateb, 2003). 
Come vi è una fede religiosa matura, così esiste un civismo maturo, basata sull’autonomia dei singoli e l’iniziativa personale e non su routine interiorizzate, convenzioni incontestate, superstizioni ritualizzate, preconcetti fossilizzati e lealtà ascritte, una tesi confortata dai dati empirici raccolti in 90 società tra il 1981 ed il 2007 (cf. Inglehart/Welzel, 2010). 
Il cittadino democratico maturo non necessita di tutele paternalistiche e non delega la propria volontà a qualcun un altro, lasciandosi condurre per mano. “Una democrazia debole ed inefficace non riflette una carenza di disciplina collettiva, di conformità di gruppo e di osservanza delle regole. E' più probabile che l’inadeguatezza della disubbidienza civile e dell’autoespressione dei cittadini facilitino sensibilmente il compito dei governanti autoritari. Non l’acquiescenza ma l’emancipazione rendono le società più democratiche” (Inglehart/Welzel, 2005). 
In una democrazia si parte dal postulato che ciascuno, anche la persona più mediocre, ha qualcosa da esprimere che merita la nostra attenzione, che ha valore di per sé e non in relazione ad un gruppo di appartenenza o riferimento, e che nessuno ha la verità in tasca. Di qui l’obbligo di concedere spazi di sperimentazione per le coscienze. La società democratica è una grande scuola dove tutti sono alunni e nessuno è un maestro, dove tutti imparano insegnando ed insegnano imparando, dove è indispensabile essere curiosi, attenti e ricettivi e nel contempo difendere la propria indipendenza di giudizio; dove ciascuno deve fare la sua parte nel processo di democratizzazione delle relazioni umane, di rafforzamento del senso di uguaglianza tra le persone, di espansione della capacità di sospendere il nostro giudizio prima di aver ben compreso. Ascoltare, dibattere, partecipare, deliberare, acconsentire, mettere in discussione: solo così ogni singolo cittadino acquista valore, “peso”, diventa consapevole del suo ruolo nella società e nel mondo e dell’importanza del parere altrui. Questo perché “la politica democratica come pratica sempre rivedibile comporta un’attenzione particolare alle conseguenze dell’agire. Non è così per i regimi basati sulla verità del bene e del male. La verità assoluta, infatti, non teme le conseguenze. Fiat veritas, fiat iustitia, pereat mundus. Lo spirito democratico è invece quello in cui le convinzioni della coscienza e conseguenze dell’agire formano un circolo sempre aperto nel quale si determinano le norme dei soggetti responsabili” (Zagrebelsky, 2007).
Oggi lo spirito democratico evocato da Zagrebelsky non gode di una salute robusta, assediato com’è dalle oligarchie, dai lobbismi delle grandi industrie e dei cartelli finanziari. L’insigne giurista austriaco Hans Kelsen era convinto che le spinte autoritarie fossero anti-moderne, residui di mentalità antiquate. Ciò potrà anche essere vero, ma non pare che si siano affievolite, con il passare del tempo. Tutti sappiamo il peso che hanno esercitato ed esercitano certe aziende sulle decisioni dei governi e dei parlamentari italiani. Altrove le cose non vanno diversamente. La Toyota e la Sony condizionano pesantemente la vita politica giapponese. In Finlandia la Nokia fa in modo che certe misure sulla privacy siano approvate piuttosto che altre. Nel Regno Unito la GlaxoSmithKline, una multinazionale farmaceutica, assume nel direttivo (con un salario di 116.000 sterline all’anno) Sir Roy Anderson, consulente del governo britannico per le emergenze epidemiologiche. Quant’è il peso dell’industria bellica statunitense sulla politica internazionale americana? Lo stesso Obama ha speso oltre mezzo miliardo di dollari per essere eletto. Siamo certi che non debba niente a nessuno, che non ci siano legami particolari tra parte del suo staff e i lobbisti delle multinazionali? I rapporti tra politica ed impresa sono inevitabili e non sono necessariamente nocivi, anzi, lo diventano solo quando il bene pubblico non solo passa in secondo piano, ma viene sacrificato in nome dell’interesse privato del grande capitale. Si chiude un occhio, si permette che il voto di un imprenditore valga migliaia di volte quello di un comune cittadino.
Nel lungo periodo, questo vizio di fondo delle nostre società è pernicioso per la stessa economia, non solo per la democrazia. Incrementa l’entropia nel sistema. Una prospettiva a corto raggio limita i poteri creativi dell’immaginazione degli investitori e dei politici, che rischiano di adagiarsi nel solco di logiche consuete inadatte ad un mondo in rapida trasformazione. Come abbiamo visto, la virtù precipua della democrazia è invece proprio quella di avvalersi del giudizio di molte teste, ciascuna con le sue competenze. La frammentazione in gruppi di pressione identitari, la deindividualizzazione dei cittadini, la salda gerarchizzazione sono tutti indizi che la democrazia formale non si riesce a tradurre in una democrazia sostanziale e che il potere è riuscito a dividere i governati, indebolendoli. Questo è l’obiettivo degli oligarchi. Chi non apprezza la democrazia preferisce cittadini passivi e facili da tenere in pugno. L’oligarchia è una sistema di potere simile a quello aristocratico, ma sorretto dalla ricchezza e non dal lignaggio (il sangue). In termini pratici si tratta di una plutocrazia: i ricchi comandano, i poveri obbediscono. Storicamente è stato l’avversario più acerrimo della democrazia, anche perché non è difficile per dei demagoghi e dei ciarlatani far credere ai cittadini di vivere nella più autentica delle democrazie, di essere loro a scegliere chi li governa, quando invece l’assetto è di stampo oligarchico e non si persegue il bene comune ma quello privatistico. Per riuscirvi è sufficiente controllare l’informazione, la conoscenza dei fatti. L’informazione è potere e la percezione della realtà può essere abilmente manipolata senza che i cittadini se ne rendano conto (specialmente quelli che credono di essere già sufficientemente informati).
Pensiamo all’influenza dei vari tychoon del nostro tempo e, prima ancora, di Henry R. Luce sulla politica estera americana e sul dibattito sui diritti degli americani comunisti (Luce finanziò segretamente il maccartismo). Andrea Barbato ha osservato che “negli anni cruciali prima e durante il maccartismo, la capacità di convinzione dei giornali editi da Luce era incalcolabile, e quasi sempre aveva un effetto deformante sulla verità. Il mitico giornalismo americano, così celebrato per la propria indipendenza, accettava che Henry Luce in persona cambiasse il senso degli articoli inviati dai corrispondenti dall’estero per renderli al massimo antisovietici” (Barbato, 1996). 
Una democrazia non sopravvive se i giornalisti non fanno il loro mestiere di segugi dell’informazione. C’è democrazia solo laddove c’è libero arbitrio ed un libero arbitrio ignorante o disinformato non vale nulla. Nessun essere umano può “funzionare” se il raziocinio è rimpiazzato dagli slogan, dalla retorica, dalla propaganda, dall’attenzione selettiva e distorcente dei mezzi d’informazione, dai clichè e se un doveroso scetticismo verso le esternazioni e promesse dei potenti perde terreno a favore della militanza conformista e dell’accidia.
A quel punto la cittadinanza è completamente inaffidabile e, in un sistema di democrazia diretta, tutto è teoricamente possibile, anche il sovvertimento di tutto ciò che caratterizza come democratica una società. D’altra parte non è certo escludendo i cittadini dai processi democratici che si possono educare alla democrazia. 
La grande scommessa dei nostri tempi sarà dunque quella di respingere gli assalti oligarchici allo stato di diritto ed alle funzioni parlamentari, confidando nel fatto che una maggioranza di cittadini re-imparerà la lezione che, nel tempo, abbiamo scordato.

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