La democrazia come mezzo
importante per la realizzazione della dignità umana di tutti dunque, nonostante
le difficoltà che indubbiamente scaturiscono da un atteggiamento intimamente
democratico, appunto perché si deve tener conto di tutti. Chiaro che la democrazia
come forma culturale è qualcosa di diverso dal semplice prevalere della
maggioranza.
Alexander Langer, “Segni dei
tempi”, in “die Brücke”, 1 novembre 1967
Mi piacerebbe pensare che sarà
una democrazia dal volto più compassionevole. Una democrazia più gentile...più
gentile perché più forte. [...]. Nei regimi autoritari, dove è lecito esprimere
solo certe cose, la crescita del talento viene distorta. Non può sbocciare,
Come un albero che cresce in una sola direzione perché è costretto: la
direzione che aggrada alle autorità. Non potrà mai esservi un’autentica
fioritura di talenti e creatività.
Aung San Suu Kyi, "La mia
Birmania" 2008.
La democrazia piace a tanti,
ma non è eccitante. Non c’è nulla di eroico, seducente, melodrammatico,
virile nella democrazia. La democrazia, quella autentica, è mite, pacifica,
non esportabile con la forza.
Due grandi studiosi, Tzvetan Todorov e Paolo
Rossi, hanno definito magnificamente il vero punto debole della democrazia, il
suo essere scarsamente elettrizzante, appunto. “Il totalitarismo contiene una
promessa di pienezza di vita armoniosa e di felicità. È vero che non la
mantiene, ma la promessa perdura e ci si può sempre raccontare che la prossima
volta sarà quella buona e che verremo salvati. La democrazia liberale non
contiene invece una promessa simile; si impegna soltanto a permettere a ognuno
di cercare per proprio conto la felicità, armonia e pienezza” (Todorov, 2001).
Il filosofo e storico italiano è ancora più tranciante: “Molti si sono resi
conto che la democrazia è una forma molto artificiale e assai poco naturale di
vita associata. È strutturalmente e non occasionalmente connessa ad una serie
di imperfezioni. È una forma di vita sociale che richiede dosi molto alte di
disponibilità all’ascolto, molta capacità di sopportazione, una notevole
capacità di vivere in assenza di illusioni, dando scarso spazio alle utopie e
all’idea di una totale rigenerazione. L’incompatibilità fra i valori proposti
rendono inevitabili i conflitti e rendono incoerente, obsoleta e illusoria l’idea
di un Tutto Perfetto nel quale coesistano tutte le Cose Buone. La democrazia è
prevalentemente legata ad una filosofia (l’empirismo) che non dà i brividi
lungo la schiena, che sembra a molti scarsamente eccitante, che è nata in
polemica con l’entusiasmo, che insiste sui limiti del possibile, sulla
provvisorietà delle soluzioni, sulla loro parzialità e rivedibilità, che
preferisce i compromessi alle decisioni carismatiche. Vive perennemente nel
contrasto fra la ricerca del consenso e la necessità di misure impopolari, fra
la necessità delle competenze (che sono di pochi) e la necessità del controllo
dei molti sulle decisioni dei pochi. La rinuncia a identificare l’Avversario
con il Nemico, la ricerca di un equilibrio sempre minacciato” (Rossi, 1995).
Come se ciò non bastasse, non esiste alcun fondamento ontologico per la
democrazia, i principi che stanno alla sua base non sono scientificamente
difendibili. “Vive di presupposti di valore che non può produrre direttamente”
(Rusconi, 1999).
Eppure, gradualmente, al
prezzo di enormi sacrifici, la democrazia è riuscita ad affermarsi e, pur tra
mille difficoltà, è probabile che sia qui per restare. È quel che dovremmo
augurarci tutti, inclusi molti dei suoi critici. Infatti la democrazia ha successo
perché funziona. James Surowiecki, esperto finanziario per il New Yorker, ha
raccolto una considerevole mole di dati che sembra dimostrare che mentre l’individuo
immerso in una folla disperde il suo discernimento morale ed intellettuale, la
sommatoria delle stime di individui inseriti in un gruppo (come, appunto, in
una società democratica) si avvicini al valore esatto in misura a dir poco
stupefacente (Surowiecki, 2007). Lo aveva già notato lo statistico britannico
Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Nel 1906 era in visita ad una fiera
zootecnica e fu colpito da evento che contraddiceva le sue credenze riguardo
alla stupidità del popolino ed all’innata superiorità delle classi altolocate
(credenze che lo avevano spinto sulla strada dell’eugenetica e della
sterilizzazione degli “inadatti”). La fiera metteva in palio un premio per chi
avesse fatto la stima più precisa del peso di un bue, una volta macellato.
Galton, che era maniacalmente attratto da tutto ciò che poteva essere ridotto
ai suoi dati numerici, osservò che i partecipanti non erano tutti esperti e che
il loro insieme poteva essere considerato un campione rappresentativo dell’elettorato
di una democrazia. Il valore centrale verso cui tendevano le 787 stime era di
1207 libbre, contro le 1198 effettive; un divario insignificante, inferiore all’1
per cento. La validità del modello democratico trovava dunque una conferma
empirica. Un esperimento analogo fu tentato da un docente di economia
statunitense Jack Treynor, che chiese ai suoi studenti di indovinare il numero
di palline in un vaso di vetro. Il recipiente conteneva 850 palline e la stima
del gruppo fu di 871. Soltanto uno dei 56 partecipanti si era avvicinato al
numero esatto più del gruppo di studenti preso nel suo insieme. Questi ed altri
test indicano che un gruppo, per raggiungere delle valutazioni affidabili, deve
soddisfare due requisiti principali: (a) serve una notevole eterogeneità dei
suoi componenti, ossia una considerevole diversificazione delle competenze e
delle informazioni disponibili; (b) le scelte personali devono essere il più
possibile indipendenti. Il grande nemico è il cosiddetto “groupthink” (“pensiero
di gruppo”), cioè la ricerca del conformismo e la dissuasione del dissenso, che
riducono la varietà di stime e l’efficacia della valutazione finale. Le
conclusioni di Surowiecki sono inequivocabili: “Quando i nostri giudizi
imperfetti sono aggregati nel modo giusto, la nostra intelligenza collettiva
spesso raggiunge livelli di eccellenza”. Di conseguenza, il compito di un
leader è quello di fare in modo che il maggior numero di voci trovino ascolto,
per poi decidere sulla base di tutti i riscontri.
La democrazia vince ogni forma
di governo concorrente anche se posta a confronto coi rivali sulla base dei
risultati effettivi. Ciò è dovuto al fatto che la sua ragion d’essere è la
divisione dei poteri e la responsabilizzazione di molti più cittadini. Lord
Acton soleva dire che “il potere corrompe, il potere assoluto corrompe
assolutamente”. Rudolph J. Rummel, professore emerito di scienze politiche all’Università
di Hawaii, ha dimostrato, dati alla mano, che “il potere uccide, il potere
assoluto uccide assolutamente”. Senza una netta divisione dei poteri, la stessa
vita dei cittadini è a rischio. Rummel ha analizzato migliaia di stime sulle
vittime di massacri compiuti dai poteri centrali nel corso della storia (non
direttamente causati da un conflitto bellico), per un computo totale di 300
milioni di vittime, di cui oltre la metà nel ventesimo secolo, il secolo dei
totalitarismi di destra e di sinistra. Un numero astronomico che non include le
vittime dei combattimenti e dei bombardamenti. Il risultato delle sue analisi è
univoco: l’unica maniera per fermare gli eccidi (li chiama democidi) è
istituire delle autentiche democrazie, quelle dove il potere è distribuito e
non accentrato ed i cittadini sono liberi. I dati dimostrano ciò che era
facilmente intuibile, cioè che più autoritario è un governo, più alta sarà la
mortalità dei cittadini per azioni intraprese dal governo stesso. La
centralizzazione dei poteri è una minaccia per i cittadini perché rischia di
rivoltarsi contro di loro mentre, al contrario, le democrazie raramente entrano
in guerra tra loro. Quasi sempre, nel caso di un conflitto internazionale, una
delle due nazioni è un governo non-democratico. Questo perché è assai arduo
persuadere l’opinione pubblica a scegliere la via della guerra; serve un
pretesto. Se non si tratta di una guerra difensiva, in genere, i governi
democratici devono ricorrere all’inganno ed alla manipolazione dell’opinione
pubblica oppure appoggiano colpi di stato, omicidi politici e guerre per
procura. In ogni caso, anche se si opta per la guerra, le democrazie tendono
storicamente a limitare la ferocia e la durata del conflitto, perché i governi
temono di irritare l’opinione pubblica. Inoltre le democrazie non eliminano i
propri cittadini pubblicamente: più deboli sono le democrazie, ossia più
oligarchica è la natura del loro potere, maggiore sarà il rischio che ciò
avvenga impunemente, specialmente perché il potere attira un certo tipo di
personalità autoritaria ed aggressiva. Le atrocità commesse dalle democrazie
sono state compiute a dispetto del fatto che erano democrazie, o perché il
processo democratico non era in uno stato sufficientemente avanzato. Hanno
tradito la loro natura, il loro spirito. Di conseguenza trasparenza,
partecipazione della società civile e libertà civili sono la miglior
immunizzazione contro la violenza in generale e la guerra in particolare, perché
promuovono i principi della negoziazione, del compromesso, dell’associazionismo,
della tolleranza delle differenze. Ciò dimostra che la specie umana, di norma,
non ama la violenza (e non ama pagare le tasse che servono a perpetrarla). La
risposta al perché delle guerre non va cercata nella psiche o nella natura
umana, come sono inclini a fare i commentatori di destra, perché non c’è nulla
di inevitabile ed irreversibile. Non è neanche un problema riconducibile a
fattori economici o alla scelta di pessimi leader: una spiegazione prediletta
dai commentatori di sinistra. La chiave è invece la struttura sociale: più la
sovranità è condivisa con la società civile, più rare saranno guerre, eccidi e
carestie. Infatti, fino al momento attuale, nessuna democrazia ha dovuto
fronteggiare una carestia. Altri dati significativi sono che, di norma, le
democrazie hanno abbandonato le loro colonie meno violentemente rispetto ai
regimi non-democratici e che i tassi di criminalità violenta sono più bassi
nelle democrazie, anche se includiamo gli Stati Uniti.
In sintesi, democrazia è bello
perché le decisioni sono più ragionate e precise, perché ci sono meno
possibilità di lasciarci la pelle e perché c’è maggiore prosperità. Già questo
dovrebbe essere sufficiente ad accontentarci. Ci sono però tanti altri vantaggi
che forse ormai diamo per scontati.
Ecco gli assunti fondanti di una democrazia
(Merriam, 1938): l’essenziale dignità dell’essere umano; l’importanza di
proteggere e coltivare la personalità dei cittadini in un clima di
collaborazione e non di divisione (pluralità unitaria); l’eliminazione di
privilegi basata su interpretazioni arbitrarie ed esagerate delle differenze
tra esseri umani; l’idea che l’umanità possa migliorare; la convinzione che i
profitti debbano essere ridistribuiti il più possibile tra tutti ed in tempi
ragionevoli; il pari diritto dei cittadini di far sentire la propria voce su
questioni delicate (coesistenza del maggior numero possibile di opinioni, o
pluralismo) e di decidere autonomamente chi li debba rappresentare; la premessa
che i cambiamenti sono normali, possono essere molto vantaggiosi e vanno
realizzati tramite processi decisionali consensuali (spirito del compromesso,
suffragio universale) e non con la prevaricazione e la forza bruta. Le
democrazie non riconoscono l’esistenza di persone comuni e medie, si compongono
di persone che hanno valore in quanto tali e che, idealmente, non temono le
opinioni altrui, non hanno paura di chi non la pensa come loro e guardano ai
propri governanti con una salutare misura di scetticismo.
È forse vero che le democrazie
non sono “eccitanti”, ma è anche vero che i regimi più “dinamici” sono spesso
anche quelli meno tolleranti, meno flessibili, meno in grado di venire incontro
alle necessità di milioni di cittadini. È presumibile che la maggior parte
delle persone preferisca una vita serena ad una vita sempre sul chi vive. Ad
ogni modo il processo di democratizzazione non è assolutamente concluso,
neppure nelle democrazie di lungo corso. Al mondo vi sono molte democrazie
formali, ma non c’è nessuna democrazia compiuta, perché nessuna delle premesse
sopraelencate è stata soddisfatta. Inoltre milioni di cittadini di società
democratiche non hanno sviluppato una propensione democratica, uno stile del
vivere e del pensare pienamente democratico. Lo si nota al momento del voto e
nelle interazioni quotidiane. C’è ancora molto lavoro da fare. Innanzitutto è
necessario che sempre più cittadini comprendano che la coscienza viene sempre
prima degli appetiti e delle lealtà collettive. Una lezione che abbiamo
ricavato dall’esperienza del nazismo e degli altri totalitarismi ma che non
sempre è stata debitamente assimilata. “Lo stato è fatto per l’individuo e non
vice versa” (Bobbio, 1999). Sempre Bobbio: “Occorre diffidare di chi sostiene
una concezione antiindividualistica della società. Attraverso l’antiindividualismo
sono passate più o meno tutte le dottrine reazionarie – assiologicamente, l’individuo
è superiore alla società di cui viene a far parte. […]. Non sarà mai
sottolineata abbastanza l’importanza storica di questo rovesciamento. Dalla
concezione individualistica della società nasce la democrazia moderna, che deve
essere correttamente definita non come veniva definita dagli antichi, “il
potere del popolo”, ma come il potere degli individui presi uno per uno…La
democrazia moderna riposa sulla sovranità non del popolo ma dei cittadini”
(Bobbio, 1997). La logica del suffragio universale non può essere
malinterpretata: “una testa, un voto è un principio irrinunciabile della
democrazia ed estraneo, in principio, allo spirito comunitario ed
organicistico, così come a quello corporativo. […] A un sistema laico non si
confà il riconoscimento delle comunità, quali che esse siano, come soggetti
pubblici nel senso di soggetti che bussano alla porta della rappresentanza
politica” (Pavone, 2005).
Perciò si deve concludere che
non esiste democrazia senza individualità, ossia la capacità di ragionare con
la propria testa e di agire responsabilmente non perché così è richiesto dalla
legge ma perché ce lo suggerisce la coscienza, il nostro giroscopio morale. I
cittadini non sono mattoni nell’edificio della società, non sono dei mezzi per
un fine: sono dei fini in se stessi. La maturazione di una coscienza
individuata non porta all’egotismo ma ad un diverso e migliore – più saldo, più
profondo, più significativo, più intenso, soprattutto più adulto – rapporto di
interconnessione con gli altri (Kateb, 2003).
Come vi è una fede religiosa
matura, così esiste un civismo maturo, basata sull’autonomia dei singoli e l’iniziativa
personale e non su routine interiorizzate, convenzioni incontestate,
superstizioni ritualizzate, preconcetti fossilizzati e lealtà ascritte, una
tesi confortata dai dati empirici raccolti in 90 società tra il 1981 ed il 2007
(cf. Inglehart/Welzel, 2010).
Il cittadino democratico maturo non necessita di
tutele paternalistiche e non delega la propria volontà a qualcun un altro,
lasciandosi condurre per mano. “Una democrazia debole ed inefficace non
riflette una carenza di disciplina collettiva, di conformità di gruppo e di
osservanza delle regole. E' più probabile che l’inadeguatezza della
disubbidienza civile e dell’autoespressione dei cittadini facilitino
sensibilmente il compito dei governanti autoritari. Non l’acquiescenza ma l’emancipazione
rendono le società più democratiche” (Inglehart/Welzel, 2005).
In una
democrazia si parte dal postulato che ciascuno, anche la persona più mediocre,
ha qualcosa da esprimere che merita la nostra attenzione, che ha valore di per
sé e non in relazione ad un gruppo di appartenenza o riferimento, e che nessuno
ha la verità in tasca. Di qui l’obbligo di concedere spazi di sperimentazione
per le coscienze. La società democratica è una grande scuola dove tutti sono
alunni e nessuno è un maestro, dove tutti imparano insegnando ed insegnano
imparando, dove è indispensabile essere curiosi, attenti e ricettivi e nel
contempo difendere la propria indipendenza di giudizio; dove ciascuno deve fare
la sua parte nel processo di democratizzazione delle relazioni umane, di
rafforzamento del senso di uguaglianza tra le persone, di espansione della
capacità di sospendere il nostro giudizio prima di aver ben compreso.
Ascoltare, dibattere, partecipare, deliberare, acconsentire, mettere in
discussione: solo così ogni singolo cittadino acquista valore, “peso”, diventa
consapevole del suo ruolo nella società e nel mondo e dell’importanza del
parere altrui. Questo perché “la politica democratica come pratica sempre
rivedibile comporta un’attenzione particolare alle conseguenze dell’agire. Non è
così per i regimi basati sulla verità del bene e del male. La verità assoluta,
infatti, non teme le conseguenze. Fiat veritas, fiat iustitia, pereat mundus.
Lo spirito democratico è invece quello in cui le convinzioni della coscienza e
conseguenze dell’agire formano un circolo sempre aperto nel quale si
determinano le norme dei soggetti responsabili” (Zagrebelsky, 2007).
Oggi lo spirito democratico
evocato da Zagrebelsky non gode di una salute robusta, assediato com’è dalle
oligarchie, dai lobbismi delle grandi industrie e dei cartelli finanziari. L’insigne
giurista austriaco Hans Kelsen era convinto che le spinte autoritarie fossero
anti-moderne, residui di mentalità antiquate. Ciò potrà anche essere vero, ma
non pare che si siano affievolite, con il passare del tempo. Tutti sappiamo il
peso che hanno esercitato ed esercitano certe aziende sulle decisioni dei
governi e dei parlamentari italiani. Altrove le cose non vanno diversamente. La
Toyota e la Sony condizionano pesantemente la vita politica giapponese. In
Finlandia la Nokia fa in modo che certe misure sulla privacy siano approvate
piuttosto che altre. Nel Regno Unito la GlaxoSmithKline, una multinazionale
farmaceutica, assume nel direttivo (con un salario di 116.000 sterline all’anno)
Sir Roy Anderson, consulente del governo britannico per le emergenze
epidemiologiche. Quant’è il peso dell’industria bellica statunitense sulla
politica internazionale americana? Lo stesso Obama ha speso oltre mezzo
miliardo di dollari per essere eletto. Siamo certi che non debba niente a
nessuno, che non ci siano legami particolari tra parte del suo staff e i
lobbisti delle multinazionali? I rapporti tra politica ed impresa sono
inevitabili e non sono necessariamente nocivi, anzi, lo diventano solo quando
il bene pubblico non solo passa in secondo piano, ma viene sacrificato in nome
dell’interesse privato del grande capitale. Si chiude un occhio, si permette
che il voto di un imprenditore valga migliaia di volte quello di un comune
cittadino.
Nel lungo periodo, questo
vizio di fondo delle nostre società è pernicioso per la stessa economia, non
solo per la democrazia. Incrementa l’entropia nel sistema. Una prospettiva a
corto raggio limita i poteri creativi dell’immaginazione degli investitori e
dei politici, che rischiano di adagiarsi nel solco di logiche consuete inadatte
ad un mondo in rapida trasformazione. Come abbiamo visto, la virtù precipua
della democrazia è invece proprio quella di avvalersi del giudizio di molte
teste, ciascuna con le sue competenze. La frammentazione in gruppi di pressione
identitari, la deindividualizzazione dei cittadini, la salda gerarchizzazione
sono tutti indizi che la democrazia formale non si riesce a tradurre in una
democrazia sostanziale e che il potere è riuscito a dividere i governati, indebolendoli.
Questo è l’obiettivo degli oligarchi. Chi non apprezza la democrazia preferisce
cittadini passivi e facili da tenere in pugno. L’oligarchia è una sistema di
potere simile a quello aristocratico, ma sorretto dalla ricchezza e non dal
lignaggio (il sangue). In termini pratici si tratta di una plutocrazia: i
ricchi comandano, i poveri obbediscono. Storicamente è stato l’avversario più
acerrimo della democrazia, anche perché non è difficile per dei demagoghi e dei
ciarlatani far credere ai cittadini di vivere nella più autentica delle
democrazie, di essere loro a scegliere chi li governa, quando invece l’assetto è
di stampo oligarchico e non si persegue il bene comune ma quello privatistico.
Per riuscirvi è sufficiente controllare l’informazione, la conoscenza dei
fatti. L’informazione è potere e la percezione della realtà può essere
abilmente manipolata senza che i cittadini se ne rendano conto (specialmente
quelli che credono di essere già sufficientemente informati).
Pensiamo all’influenza dei
vari tychoon del nostro tempo e, prima ancora, di Henry R. Luce sulla politica
estera americana e sul dibattito sui diritti degli americani comunisti (Luce
finanziò segretamente il maccartismo). Andrea Barbato ha osservato che “negli
anni cruciali prima e durante il maccartismo, la capacità di convinzione dei
giornali editi da Luce era incalcolabile, e quasi sempre aveva un effetto
deformante sulla verità. Il mitico giornalismo americano, così celebrato per la
propria indipendenza, accettava che Henry Luce in persona cambiasse il senso
degli articoli inviati dai corrispondenti dall’estero per renderli al massimo
antisovietici” (Barbato, 1996).
Una democrazia non sopravvive se i giornalisti
non fanno il loro mestiere di segugi dell’informazione. C’è democrazia solo
laddove c’è libero arbitrio ed un libero arbitrio ignorante o disinformato non
vale nulla. Nessun essere umano può “funzionare” se il raziocinio è rimpiazzato
dagli slogan, dalla retorica, dalla propaganda, dall’attenzione selettiva e
distorcente dei mezzi d’informazione, dai clichè e se un doveroso scetticismo
verso le esternazioni e promesse dei potenti perde terreno a favore della
militanza conformista e dell’accidia.
A quel punto la cittadinanza è completamente inaffidabile
e, in un sistema di democrazia diretta, tutto è teoricamente possibile, anche
il sovvertimento di tutto ciò che caratterizza come democratica una società. D’altra
parte non è certo escludendo i cittadini dai processi democratici che si
possono educare alla democrazia.
La grande scommessa dei nostri tempi sarà
dunque quella di respingere gli assalti oligarchici allo stato di diritto ed
alle funzioni parlamentari, confidando nel fatto che una maggioranza di
cittadini re-imparerà la lezione che, nel tempo, abbiamo scordato.
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