martedì 25 ottobre 2011

"La stiamo perdendo!" - Salvare la democrazia, prima che sia troppo tardi








Talvolta sembra quasi che si stia dissolvendo la solidità delle democrazia nate dal dopoguerra. Potremo dirci fortunati se il livello di violenza delle manifestazioni riuscirà a essere contenuto al livello attuale.



John Lloyd, “Quando Londra fu devastata”, la Repubblica, 20 ottobre 2011

Chi ha messo al potere Mubarak? Chi l'ha tenuto al potere? Quali dittature arabe hanno finanziato i ribelli libici? Di chi sono alleati quei regimi dispotici? Quali democrazie occidentali non hanno appoggiato le proteste popolari nello Yemen e nel Bahrein, hanno chiuso un occhio quando l'esercito saudita ha sedato le proteste in Bahrein, continuano a giustificare ogni azione di Israele, violano il diritto internazionale con guerre illegali, torture e carceri segrete, appoggiano colpi di stato contro governi legittimi, spianano la strada agli abusi delle loro multinazionali, corrompono le dirigenze locali, spendono cifre sproporzionate per gli armamenti rispetto ai regimi non-democratici, usano l'umanitarismo e i diritti umani come un cavallo di Troia, cospargono il pianeta di basi militari (ora anche il Canada), hanno ridotto il dibattito interno alla falsa (farsa) alternativa tra due partiti maggioritari, beneficiano della Guerra al Terrore per restringere i diritti civili dei propri cittadini?
Insomma, com'è possibile continuare a credere che la democrazia possa sopravvivere nonostante questo colossale dispiegamento di forze ostili?
Trovo stupefacente che così tanta gente continui a vedere solo i tasselli presi singolarmente e non si renda conto del quadro generale, che è a dir poco angosciante. Ci si cimenti nel rispondere alle domande con obiettività e non sarà difficile notarlo.

La sopravvivenza della democrazia è in forse. Dobbiamo smetterla di fare come i bimbi che si coprono gli occhi nella convinzione che se loro non vedono ciò che li circonda, nessuno li vedrà o disturberà. Siamo schiacciati come un sandwich tra aspiranti rivoluzionari (dal basso) ed aspiranti tiranni plebiscitaristi (dall’alto) e non si vede davvero come la democrazia possa continuare ad esistere senza un incessante, attivo sostegno di chi ancora crede a questa nobile istituzione, l’unica che ci abbia permesso di tenere un minimo a bada i peggiori istinti della nostra specie.
Il Vaticano sta già preparando il terreno per un Governo Mondiale ed una Banca Centrale Mondiale, come se volesse far avverare le peggiori profezie dei cosiddetti “complottisti”:
Jacques Attali non si tira indietro e sembra sicuro del fatto suo, in quanto a previsioni:
Qualcuno, come ad esempio Marco Panara, curatore di Affari & Finanza, supplemento di Repubblica, sembra aver mangiato la foglia (“Eurolandia ostaggio dei rating”, 11 luglio 2011, pagina 3): “c'è un elemento che inquieta, ed è l'impressione che siamo parte di un sistema che fa di tutto per rendere non praticabili tutte le ipotesi di soluzione, anche quelle di buon senso, che si sta cercando di mettere in piedi”.
Maggiori dettagli qui:
Molti studiosi giudicano che le cose stiano esattamente così: al momento attuale le forze che speculano sul disordine, sul conflitto e sulla progressiva degenerazione della democrazia stanno avendo la meglio (Eco, 2006; Palano, 2010; Ciliberto, 2011; Gallino, 2011; Urbinati, 2011). Massimo Salvadori, che parla di “oligarchie elettive”, scrive nell’introduzione al suo “Democrazie senza democrazia” (2009, pp. IX-X):
La democrazia è venuta ad assumere il carattere di un sistema che ha riconsegnato per aspetti cruciali il potere a nuove oligarchie, le quali detengono le leve di decisioni che, mentre influiscono in maniera determinante sulla vita collettiva, sono sottratte a qualsiasi efficace controllo da parte delle istituzioni democratiche. Si tratta sia di quelle oligarchie che, titolari di grandi poteri, privi di legittimazione democratica, dominano l' economia globalizzata, hanno nelle loro mani molta parte delle reti di informazione e le pongono al servizio degli interessi propri e dei loro amici politici; sia delle oligarchie di partito che in nome del popolo operano incessantemente per mobilitare e manovrare quest' ultimo secondo i loro intenti; sia dei governi che tendono programmaticamente a indebolire il peso dei parlamenti (...) e soggiacciono all' influenza del potere finanziario e industriale, diventandone in molti casi i diretti portavoce e gli strumenti”.
Salvadori, nel 2009, non poteva ancora immaginare cosa sarebbe accaduto di lì a due anni:
Carlo Galli, storico delle dottrine politiche all’Università di Bologna, avvalora questa descrizione della situazione globale (cf. Portinari, 2011, p. 43-45):
“Oggi, proprio nel momento in cui si manifesta la sua debolezza davanti al conflitto e alla violenza, lo Stato si mostra in preda a un’ossessione per la sicurezza, che – se non inverte la tendenza a reagire al crescere (reale o percepito) della violenza con progressive restrizioni della libertà – alla democrazia lascerà ben poco spazio: si affacciano nuovi conformismi e nuovi autoritarismi, nuove imposizioni di ‘identità’ obbligatorie, nuove e immediate forme di potere che fanno leva sulla paura (anche producendola) e non certo sulla libertà o sulla virtù civica, sostituita da una cupa chiusura dei cittadini su se stessi. In parallelo, le istituzioni liberaldemocratiche, rappresentative e di garanzia, sono travolte dalle nuove forme che la politica assume: populismo, plebiscitarismo, fittizie mobilitazioni di massa contro fittizi nemici inventati dai poteri politici ed economici in modo che i cittadini non si sentano del tutto assoggettati e impotenti davanti al governo reale delle “cricche” economico affaristiche. […] La democrazia rischia di uscire trasformata in una democrazia della sicurezza, delle identità (delle civiltà, delle culture) in conflitto, delle ‘radici’ da riscoprire, del controllo sociale e del dominio sulla vita biologica della persona, del plebiscito autoritario, dell’ignoranza acritica, dell’apatia e del risentimento, soprattutto, in una democrazia del mercato
Giustificandosi con la necessità di contenere il malcontento nelle sue forme violente, le classi dirigenti occidentali stanno alterando le nostre democrazie facendole assomigliare sempre più a quella di Singapore, una società governata da un’oligarchia castale iper-materialista, iper-pragmatica, etnocentrica e favorevole all’eugenetica che si proclama “illuminata” e “meritocratica”, priva di movimenti sindacali e di protesta e persino di un dibattito pubblico, di forme di decentramento del potere, di informazione libera. Uno stato di polizia che si definisce società securitaria, popolato da una cittadinanza inerte se non intimorita da un governo tecnocratico che stabilisce meticolosamente come debba funzionare l’intera MegaMacchina, monitorandola senza posa attraverso un numero sproporzionato di telecamere a circuito chiuso (McCarthy, 2006).
Singapore è la realizzazione in terra dell’utopia del Grande Inquisitore di Dostoevskij, sicuro che “l’uomo si inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è più indiscutibile del pane”, un concetto ripreso da Bertolt Brecht nell’”Opera da tre soldi”: “Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral” (“la pappatoria viene prima, la morale dopo”).
Fortunatamente c’è chi ancora crede che l’uomo non viva di solo pane. Gustavo Zagrebelsky, riguardo al dialogo del Grande Inquisitore – che sarebbe meglio definire un monologo, visto che Gesù contempla silenziosamente e compassionevolmente il patetico tentativo di razionalizzare il male e di giustificare la corruzione della propria coscienza operato dall’Inquisitore – usa parole molto sagge: “Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l'essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del “pane terreno”, simbolo della mercificazione dell'esistenza. Il “pane terreno” che l'uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: “il superfluo, cosa molto necessaria”. È libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore? […] La libertà, oggi…è insidiata da queste ragioni d'omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l'amore per la diversità; l'opportunismo, con la legalità e l'uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà” (“Le parole della politica”, Repubblica, 16 giugno 2011).
In un lungo dialogo con Ezio Mauro, direttore di Repubblica, Gustavo Zagrebelsky avverte i suoi lettori che il termine “democrazia” è così vantaggioso in termini di immagine e potere persuasivo, che nessuna classe politica rinuncerebbe a definirsi democratica, pur non essendolo, specialmente quando così tanti cittadini “di bocca buona, si lasciano persuadere facilmente d’essere loro a tenere in mano le carte del gioco democratico” (Mauro/Zagrebelsky, 2011, p. 9). Egli teme che l’intera civiltà cosiddetta democratica stia scivolando gradualmente verso il “dispotismo democratico” anticipato da Tocqueville verso la metà del diciannovesimo secolo (Democrazia in America): “il sovrano allunga le sue braccia sulla società tutta intera; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali gli spiriti più originale e le anime più vigorose non sanno distinguersi per oltrepassare la folla; non spezza le volontà, le rende molli, le piega e dirige; raramente obbliga ad agire, ma si oppone senza sosta all’azione; non distrugge, bensì impedisce di nascere; non tiranneggia, ma intralcia, limita, irrita, inebetisce e infine riduce ogni nazione ad un gregge di animali timidi e industriosi, il cui pastore è il governo”. L’insigne giurista lamenta che mentre in passato si misuravano i progressi della democrazia, oggi la tendenza è quella di constatarne i regressi ed una manipolazione semantica per cui la democrazia, che era l’obiettivo principe dei diseredati, l’unico strumento che poteva permettere loro di ridurre le disparità ed i soprusi, ora assume un “volto minaccioso”, è sulla bocca dei potenti, dei privilegiati, è diventato il loro “orpello”, il puntello del loro potere, “un’assoluzione preventiva dell’arbitrio sui deboli, sugli esclusi, sui senza speranza, in nome della forza del numero” (p. 11).
A questo riguardo, Marco Revelli (2010) parla di “rivoluzione copernicana linguistica”, di “rovesciamento integrale del senso condiviso del linguaggio e della sua pratica sociale”, al punto che ormai “democrazia” è diventato “un termine quasi impronunciabile” ed in ogni caso non pronunciato proprio da quella società civile che con la sua partecipazione e contestazione ragionata è erede diretta di chi ha combattuto per essa.
Tutto questo induce Zagrebelsky a concludere che le dittature, ormai, nel tempo in cui l’uomo è al servizio della macchina e non il contrario, sono diventate superflue, ricordando che al tempo del maccartismo si diceva che il fascismo negli Stati Uniti sarebbe stato chiamato democrazia: “perfino l’antidemocrazia deve vestire i panni della democrazia”. Si esporta la democrazia con la guerra, si approva la tortura, le carceri speciali (un nuovo universo concentrazionario), si evoca “stato d’eccezione”, si pratica la sospensione dei diritti, si abusa del segreto di Stato, ecc.
Due presidenti statunitensi ci avevano messo in guardia. Franklin D. Roosevelt, nel 1938:
“La libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile. Oggi tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l'efficacia dell'impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego al capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni tra il popolo della nazione tutta”.
E Dwight D. Eisenhower, nel suo discorso di addio alla nazione, il 17 gennaio 1961:
Nei concili di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l'acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l'ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l'enorme macchina industriale e militare di difesa ed i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme”.
Pare che non siano stati presi troppo sul serio quando ancora si poteva cercare di intervenire. Nel fondamentale “Shock economy”, Naomi Klein (2007), ricompone il puzzle raccapricciante della realtà del nostro tempo, affidandosi alle analisi degli editoriali e delle inchieste dei maggiori quotidiani internazionali, ossia ad un tipo di informazione che è accessibile a milioni di persone ma che, a causa della sua frammentazione e diluzione, non è quasi mai tradotta in un quadro d’insieme. Eccolo questo quadro: milioni di persone morte, mutilate o torturate nel mondo per mano di governi “democratici” e servizi segreti in combutta con le multinazionali e dittatori vari per promuovere i loro interessi comuni. Multinazionali che si macchiano di incredibili infamie, implicate in colpi di stato, nel drastico taglio dei servizi sociali, nell’inquinamento doloso, nella privatizzazione dei beni pubblici (incluso il DNA umano). La strategia è quella della terapia shock che si usa sui prigionieri: guerre, atti terroristici, disastri naturali sono opportunità per sfruttare le masse ed aumentare il proprio potere e ricchezza in un libero mercato che non ha nulla di libero, essendo controllato da pochi grandi interessi finanziario-industriali.
Zagrebelsky percepisce l’imminenza di grandi trasformazioni: “Osserviamo i segni dei tempi. Questo è un tempo apocalittico. Segni premonitori e letteratura, analisi dotte ed elevate (non ciarpame new age o ciarlatani pseudo-religiosi e millenaristi) colgono nel tempo presente segni catastrofistici che spianano la strada a una mentalità apocalittica” (ibidem, p. 43).

Alla luce di quanto è stato detto in merito alla maniera in cui gli autoritarismi si travestono da democrazie e tenuto conto della esorbitante forza degli interessi finanziari, militari ed industriali, chi scrive dubita che il disegno di un Nuovo Ordine Mondiale possa mantenersi genuinamente democratico. Per la verità, non sono il solo a manifestare un forte scetticismo a questo proposito. Un Nuovo Ordine Mondiale sarebbe una buona cosa se potesse fermare le guerre, perché le guerre consentono al potere una margine di azione impensabile in tempi di pace. A “beneficio” della sicurezza di tutti, si rendono insicure le garanzie costituzionali di tutti. Ricordiamoci della famigerata constatazione di Joseph Goebbels: “in tempo di guerra ci si è aperta un'intera gamma di possibilità che ci sarebbero state precluse in tempo di pace”. Ma come si possono evitare le guerre? Servirebbe un’organizzazione mondiale armata, ma allora come si potrebbe evitare che divenga un dispotismo interessato solo a rendere il mondo più omogeneo, con la promessa di renderlo più pacifico o più equanime, costringendo le nazioni ad una redistribuzione delle ricchezze attraverso un apparato burocratico capillare ed oppressivo? A questo punto sarebbe meglio una guerra occasionale rispetto a questo genere di “pace” perpetua (Kateb, 2011).
I fautori del Nuovo Ordine Mondiale dovrebbero essere sottoposti al test di Ivan Karamazov sui costi morali e psicologici delle loro visioni utopiche: sareste disposti a sacrificare la vita di milioni di persone come prezzo da pagare per un secolo ancora migliore? È doveroso accettare un dispotismo “illuminato” se è un prerequisito necessario per aumentare il piacere e diminuire la sofferenza? E chi mi dice che sia necessario, che non esistano alternative, che il caos contemporaneo sia stato inevitabile e non il risultato di certe logiche e di certi interessi minoritari? È accettabile la schiavitù di una minoranza per il benessere di una maggioranza? Il diritto alla vita di una maggioranza vale di più di quello di una minoranza? Se i più importanti diritti di una minoranza sono limitati o aboliti per poter assicurare quelli di una maggioranza, allora questi cessano di essere tali e diventano privilegi. Si può ancora parlare di democrazia, in questo caso? Il criterio dell’utile applicato su scala planetaria in un contesto di centralizzazione del potere, non aprirebbe forse la strada ad un continuo stato emergenziale e di eccezione, per annullare il dissenso? Non renderebbe più probabile la sospensione dei diritti, la loro rivedibilità, provvisorietà, invece di irrobustirli? Le minoranze non finirebbero per ridursi a mero strumento della maggioranza, a sua volta manovrata da un ristretto numero di potenti, anche più di quanto avviene oggigiorno? (Urbinati, 2007; Wolin, 2011; Khanna, 2011).

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Senza democrazia si finisce qui:

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