giovedì 20 ottobre 2011

I Giusti tra le Nazioni - salvare qualcuno è salvare se stessi



ESTRATTO DA:
Stefano Fait e Mauro Fattor, "Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso", Raetia, 2010, 224 pagine.

I Giusti, preservando l’idea fondamentale della speranza nell’uomo, hanno difeso la civiltà umana.
Antonia Grasselli e Sante Maletta

L’anello più debole è anche il più forte. Spezza la catena.
Stanislaw Lec

Nella tradizione mistica ebraica i Tzadikim Nistarim sono 36 Giusti che vivono su questo pianeta senza essere consapevoli della loro natura “speciale”. Nessuno li conosce – sono in un certo senso “nascosti” (nistarim), ma in ogni momento della storia ce ne saranno sempre 36 e la loro presenza assicura l’esistenza del mondo stesso. Nella narrativa europea orientale il viandante forestiero che giunge in una comunità giusto in tempo per salvarla dalla catastrofe è molto probabilmente uno dei 36, ma è troppo umile per rendersene conto. Terminata la sua missione, come ogni supereroe che si rispetti, fa il suo ritorno nell’anonimato. Nessuno sa chi siano i 36, ma ogni ebreo dovrebbe cercare di conformare il più possibile il suo comportamento e stile di vita a quello dei 36, dovrebbe cioè agire come se fosse uno di loro e tenere a mente il detto talmudico che “chi salva una vita salva il mondo intero”.
Personalmente trovo che questa pratica sia estremamente salutare e lodevole e garantisce una vita pienamente, genuinamente umana che funge anche da antidoto al virus identitario. Come? È quello che proverò a dimostrare in questo capitolo. Quel che si apprende dai vari studi che approfondiscono il tema della mentalità e spiritualità dei soccorritori degli Ebrei durante l’Olocausto (Todorov 1992; Oliner et al. 1993; Paldiel 1993; Geras 1995; Fogelman 1996; Monroe 1996, 2004; Perlasca 1997; Reykowski 2001; Zamperini 2001; Picciotto 2006; Grasselli & Maletta 2006), è che molti di loro coltivavano una forte autonomia di giudizio. Il loro non era un anticonformismo fine a se stesso, ma la volontà di ascoltare la voce della propria coscienza prima di prendere in considerazione quella del gruppo di riferimento.
Mentre la maggior parte delle persone si preoccupava per l’incolumità propria e delle proprie famiglie, essi si prodigarono per degli sconosciuti, gli outsider per antonomasia, etichettati come anti-umani dalla propaganda nazista. Erano spinti a farlo da valori che non dipendevano dall’approvazione altrui – i vicini erano spesso inclini a condannarli per il modo in cui mettevano a repentaglio la vita degli altri e non solo la loro – ma dalla personale convinzione di essere nel giusto o, per meglio dire, di non poter agire diversamente. Cosa li distingueva dagli altri? La fede? Gli orientamenti politici? Il tasso di  scolarità? Il ceto? Nessuna di queste variabili accomuna i Giusti. Sappiamo che uno dei fattori determinanti era l’educazione. I loro genitori insegnarono ai figli la tolleranza, il sincero apprezzamento per ogni vita umana, la compassione per le persone in difficoltà. In breve, i soccorritori appresero dai propri genitori il valore dell’estensività, ossia della capacità di ciascun essere umano di decentrarsi, spersonalizzarsi, accogliendo nel proprio Io ogni altro pronome personale. Un altro termine per "individualità democratica".
Leggiamo cosa hanno pensato di se stessi e delle loro motivazioni. Ecco alcune delle risposte date a chi voleva sapere dove avevano trovato la forza e le motivazioni per fare quello che avevano fatto. “Non è una questione di come mai l’abbiamo fatto... non si poteva fare diversamente. Punto e basta”. “Si vedevano gli Ebrei non come Ebrei, ma come esseri umani perseguitati, che lottavano disperatamente per la propria vita ed avevano bisogno di aiuto”. “Una voce dentro di me mi disse che dovevo farlo, altrimenti non sarei più stato me stesso”. “Non so esattamente perché ho aiutato. È semplicemente che sono fatto così. Quando vedo qualcuno che ha bisogno di aiuto lo aiuto”. “Ci hanno insegnato ad amare l’umanità”. “Tutti gli esseri umani sono una grande famiglia”. “L’unica cosa che non potevo sopportare da piccola era l’ingiustizia”. “Se non si poteva vivere per gli altri... non aveva senso vivere. Essere umani significa avere bisogno degli altri”. “Un giorno ho visto un bambino ebreo in strada, di circa nove anni, ed un altro bambino gli è corso incontro e gli ha detto: ‘Sei un Ebreo!’ e poi l’ha colpito. Un uomo, un manovale come tanti, aveva visto quanto era successo e gli aveva detto: ‘Perché l’hai fatto? È un bambino proprio come te. Guarda le sue mani e la sua faccia. Non c’è alcuna differenza...’. Così il bambino che aveva colpito il bambino ebreo, triste, gli ha poi detto: ‘Ah, sì, scusami’. L’ho ascoltato, sono andata a casa, ho guardato le mie mani e ho pensato: ‘No, non c’è differenza’. Così, vede, ho ascoltato ed ho imparato”. Un Olandese, spiegando cosa lo avesse spinto ad aiutare un tedesco, odiato nemico, evoca inconsapevolmente il San Paolo della lettera ai Galati, “Ebrei o Tedeschi – non faceva nessuna differenza per me, finché li riuscivo a vedere come esseri umani”. Un ingegnere tedesco in Polonia ricorda invece che sua madre gli aveva insegnato “a non approfittarsi della vulnerabilità delle persone” e “a prendere la gente per quel che è, non per la loro professione o religione, ma per quell che sono come persone” (Geras 1995). Nessun soccorritore ha dovuto riflettere molto a lungo prima di prendere una decisione così cruciale. La gran parte di loro ha agito d’impulso, senza soffermarsi a valutare i rischi, senza premeditazione (Fogelman 1996; Powell, 2000). Come ha spiegato il figlio di uno dei superstiti salvati dagli abitanti di Le Chambon, “la gente che si preoccupa troppo non agisce e chi agisce non si preoccupa troppo”. Il che conferma l’intuizione della scrittrice e filosofa anglo-irlandese Iris Murdoch che “nei momenti decisivi la gran parte della scelta è già stata fatta” (Murdoch 2001, 36); oltre alla riflessione di William Blake su Gesù, da lui definito un uomo che “era tutto virtù e agì per impulso, non secondo le norme”.
Un altro soccorritore olandese (Tony) ribadisce la predisposizione all’universalismo dei soccorritori. “Non credo alle cause giuste o sbagliate... Credo alle persone buone. Le persone sono le stesse da una parte e dall’altra. Potrebbero stare assieme se lo volessero, ma l’educazione è un serio ostacolo [...]. Le persone sono terrorizzate dall’idea di lasciar andare la loro coperta di Linus, qualunque essa sia: la religione, il corpo dei marines, la fede ebraica o cristiana. Senza di esse si troverebbero a dover affrontare la propria umanità”.
Ecco invece il suo punto di vista sulla natura umana: “Penso che stiamo tutti assieme come le cellule del corpo. Sono entità individuali, ognuna in lotta per la propria sopravvivenza. Eppure, a volte, si sacrificano per la sopravvivenza dell’insieme... Ma, ai nostri giorni, Statunitensi, Europei e Cinesi non possono sopravvivere in questo mondo se non come parti di un tutto, in un certo senso. La difficoltà maggiore è farlo senza cadere nella trappola del governo totalitario”.
 E come ci si riesce?
“Proprio nel modo in cui lo fa il corpo. È quasi un modo istintivo, involontario di sentire. È una combinazione di educazione, nuova moralità fondata sull’amore e la sollecitudine, e sulla scelta di non incentrare la propria vita sull’accumulazione di quanto più è possibile. È sapere che la tua felicità dipende da vibrazioni che sono in armonia con il tuo ambiente, con la natura e con le persone che ti circondano e da una certa dose di coraggio che deriva dalla consapevolezza che la vita non dura per sempre”.
Tony riesce ad aggirare la dicotomia comunità costrittiva (Gemeinschaft) – società atomizzante (Gesellschaft) optando per una sintesi che sovrasta entrambe, la convinzione di fare tutti parte della medesima forza vitale e quindi di avere lo stesso valore e pari dignità, oltre che la medesima capacità di compiere il bene ed il male (Monroe 1996). Bert, un altro olandese poi trasferitosi negli Stati Uniti, confida all’intervistatrice di non aver mai aderito ad alcun sistema etico preciso: “Non vivo secondo qualche regola speciale... Ma immagino, anche se non ci ho mai pensato prima, che forse esiste una qualche legge superiore a quella umana”. E tuttavia non è in grado di definirla. Sembra piuttosto che, kantianamente, si sia comportato in modo tale che la legge che informava le sue azioni potesse essere una legge universale della natura; oppure che, come Emerson, abbia creduto che quel che era intimamente vero per lui, lo fosse anche per tutti gli esseri umani. Bert non ha mai pensato molto a quel che faceva, non aveva altra scelta se non farlo. Non si sente eroico e neppure coraggioso. “Chi arrampica è coraggioso”, chi salva delle vite umane non lo è, “perché quella è una cosa che si deve fare, mentre arrampicare una parete è una scelta”. Insomma, la decisione di Bert era inevitabile, involontaria e del tutto normale, dal suo punto di vista (Monroe 1996). Che è poi il punto di vista di Giorgio Perlasca, militante fascista e volontario in Abissinia e Spagna, e poi salvatore di oltre cinquemila ebrei ungheresi. “Non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Alla fin dei conti, io ho avuto un’occasione e l’ho usata” (Deaglio 2003, 16).
Come ho già avuto modo di rimarcare in precedenza, una delle virtù dei Giusti è quella di sapersi disfare di una morale rigida, incardinata in regole astratte ed inflessibili che non tollerano la variabilità dell’esperienza umana. Prevalgono l’impulso compassionevole e l’elisione temporanea dell’Io. Non possiamo far passare sotto silenzio, anche se spiace rilevarlo, il fallimento morale delle religioni rivelate, istituzionalizzate ed identitarie. Ci sono casi di esponenti del clero cattolico che nascosero degli Ebrei cercando di convertirli (Picciotto 2006). Nel dopoguerra ci sono stati Ebrei che hanno continuato a dubitare di essere stati salvati da un gentile. È il caso di un rabbino che, quando la guerra finì, chiese ancora una volta alla donna che l’aveva salvato se lei fosse ebrea e, alla sua replica che non lo era affatto, esclamò: “Sei decisamente pazza!”. Possiamo immaginare che il tono fosse benevolmente canzonatorio, ma il fatto stesso che per lungo tempo il salvato non abbia voluto credere alla donna indica uno dei limiti oggettivi delle religioni tradizionali. Il comportamento di un soccorritore è comprensibile se esiste un legame religioso, etnico o nazionale, altrimenti è quantomeno curioso ed inatteso, se non stupefacente. Come se il sacrificio personale per un compatriota o correligionario fosse un fatto naturale, ma non quello per uno sconosciuto al quale ci lega solo la comune umanità. Ha perfettamente ragione la filosofa politica Valentina Pazé (Pazé 2007) quando insiste che “ciò che va sfatato è il mito romantico in base al quale l’amore per i compatrioti e i connazionali sarebbe originario, naturale, spontaneo mentre la solidarietà nei confronti degli ‘altri’ sarebbe in un certo senso ‘contro natura’, richiedendo di mettere a tacere i sentimenti profondi per mettersi all’ascolto della voce della ragione. [...] Il concetto di solidarietà non può essere definito a partire dall’idea di comunità, se non al prezzo di un suo impoverimento e travisamento”.
Sfortunatamente, per troppe persone, ancora adesso, l’umanità non costituisce una comunità morale. Si continua a credere che le nazioni e le piccole patrie siano entità naturali, quando non lo sono, e poi si appicca il fuoco ad un senzatetto in carne ed ossa, giusto per vedere cosa succede, stupendosi di essere condannati dalla gente. Mentre il comportamento del rabbino può essere giustificato dalle circostanze, questo non può valere per dei filosofi morali di fede ebraica come Lawrence A. Blum e Victor J. Seidler che, pur giudicando encomiabile l’ecumenismo dei soccorritori, si dicono risentiti del fatto che la preservazione di un’etnia che definiscono come “distinta” (escludendo quindi i discendenti di matrimoni misti) come quella ebraica non fosse in cima alla lista delle priorità dei Giusti (Oliner et al 1993). Sembrano non rendersi conto del fatto che proprio il basso livello di identificazione con un particolare gruppo etnico o nazionale ha permesso il salvataggio di decine di migliaia di Ebrei e che, al contrario, un alto livello di identificazione collettiva ha indotto così tanti Tedeschi a scatenare una guerra mondiale e concepire e perpetrare l’Olocausto, mentre odiernamente rende improponibile una soluzione pacifica della questione palestinese. Molti dei Tedeschi che aderirono entusiasticamente al nazismo lo fecero perché erano persuasi del fatto che la loro cultura, la loro patria e la loro razza fossero seriamente minacciate. Per questo il patriottismo, l’etnicismo ed il culturalismo sono moralmente insostenibili. La riflessione conclusiva di Tzvetan Todorov (Todorov 1992) ha un carattere definitivo:
Eroi e soccorritori sono molto diversi anche perché questi ultimi non combattono in nome di concetti astratti, ma per degli individui. Quando agiscono, si preoccupano poco di ideali e doveri, che tra l’altro sarebbero quasi sempre incapaci di esprimere a parole, ma di persone concrete che vanno aiutate con i gesti più quotidiani”.
A mio avviso è assolutamente rincuorante scoprire che le scelte amicali dei giusti fossero molto meno influenzate rispetto alla media dalle differenze religiose (il 63% a fronte del 38% ha dichiarato di avere avuto amici intimi di un’altra religione prima della guerra), dalle differenze di classe (61% a 43%) e da quelle etniche (46% a fronte di un 37% che aveva amici ebrei) (Oliner & Oliner 1993). È la dimostrazione che queste persone furono in grado di espandere i confini del proprio Ego fino ad includere dei totali sconosciuti. Una capacità, questa, che sarebbe bene estendere gradualmente agli altri animali ed alle piante, perché il nostro destino, è molto probabilmente quello di una totale compartecipazione nell’esperienza della vita sul pianeta e oltre. È importante rilevare come l’ottica dell’individualità impersonale caratterizzasse anche alcune delle vittime più illustri dell’Olocausto e della guerra, come Anna Frank, Etty Hillesum, Edith Stein e Simone Weil. In tutte loro non si può fare a meno di notare un sentimento di profonda, intima condivisione alle vicende umane nella loro totalità ed integralità. Ne scaturisce una comprensione e condivisione universale che va oltre i confini del tempo, dello spazio e del giudizio morale sulle motivazioni dei loro stessi carnefici. Umanissime protagoniste della propria e dell’altrui vita, della propria e dell’altrui storia, queste filosofe della vita e dell’amore hanno sconfitto il progetto nazista di deumanizzare la civiltà umana irradiando un potente narcisismo collettivo ed il sogno hitleriano di imporre una morale pre-moderna, improntata alla durezza egoista e virilista ed all’esclusivismo etnico-razziale. Il loro maggior merito, a mio parere, è stato quello di cogliere il senso più ampio della sofferenza umana, trasformandolo, esorcizzandolo e cercando di arginare nel contempo la disistima dei posteri nei confronti della storia e dell’umanità in generale.
Possiamo esaminare altri casi e la conclusione sarà sempre la medesima. Else Krug, ex prostituta specializzata in pratiche sado-maso, si rifiuta di bastonare un’altra detenuta, sebbene ciò la condanni a morte. Un soldato tedesco si rifiuta di fucilare dei civili serbi destinati all’esecuzione per rappresaglia e viene ucciso dai suoi commilitoni. Avrebbe potuto far finta di sparare, o mirare alto, invece ha scelto la morte. Con questo suo gesto ha salvato il suo onore e contribuito a salvare quello dell’umanità. Nell’Orrore, l’unico modo per rimanere umani è prendersi cura degli altri, uscendo da noi stessi e sentendoci responsabili di tutti, in nome dell’agape, il senso interiore di bene e di giustizia che alberga in noi. I soccorritori tendono dunque ad essere non conformisti, per temperamento sono restii ad ubbidire senza aver compreso cosa comporti la loro ubbidienza, ma non rifiutano ogni legge. Sono perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, anche se non sono innamorati dei principi e delle astrazioni fini a se stessi. Sono portati all’universalizzazione e simultaneamente inclini all’individualizzazione.
Todorov (Todorov 1992) constata che spesso i soccorritori sono costretti ad emigrare perché, agli occhi di vicini e conoscenti, rappresentano la prova vivente che anche loro avrebbero potuto o dovuto fare qualcosa. Come Giobbe, fungono da capri espiatori di colpe non loro, delle responsabilità di chi non è stato all’altezza e non può tollerare l’esistenza di qualcuno moralmente impeccabile, di qualcuno che se ne è infischiato dell’obbligatorietà dei precetti morali e delle regole tradizionali, ha ragionato con la sua testa, ascoltato il suo cuore e si è rifiutato di obbedire a ciò che veniva propagandato come un destino imposto dalla storia. Ma chi fu più normale? Le migliaia di Giusti d’Europa o le masse che assistettero a questi tragici eventi più o meno passivamente, più o meno immiserite e mortificate? Questi studi dimostrano che i soccorritori non hanno facoltà di ragionamento morale superiori agli altri e che la religione e l’educazione, che convenzionalmente si ritengono essere importanti sorgenti di valori morali, non hanno l’effetto che si è sempre ipotizzato. Non creano eroi della morale, perché la teoria morale ha poco a che vedere con la pratica morale. L’immedesimarsi nella vittima provoca da parte del soccorritore una risposta spontanea di aiuto, scaturita più per istinto che come conseguenza di un ragionamento. I dati empirici mostrano quindi che gli esseri umani, o almeno una parte di loro, possiedono un istinto naturale che li spinge a battersi contro gli orrori e le ingiustizie e che gli idoli socio-culturali (la morale della norma e del dovere) che ho attaccato in questo mio scritto non hanno altro effetto che di stornare o ammutolire gli impulsi più nobili della nostra specie. Ma mostrano anche che non si può insegnare l’etica (la morale dei principi) a scuola. Si apprende a vivere moralmente solo vivendo in una società che comprende, apprezza e valorizza i migliori impulsi umani, che sono quelli che uniscono, non quelli che dividono.
In sintesi, le tanto decantate virtù locali – diligenza, parsimonia, sobrietà, modestia, pacatezza – potrebbero non essere poi così distintive o, peggio ancora, la loro esaltazione potrebbe aver rallento la crescita di altre virtù anche più cruciali per la maturazione dei cittadini e della società civile. Dopo tutto ogni virtù, se in eccesso, sfocia in un vizio e lo storico Jonathan Steinberg ha dimostrato magistralmente che, durante il nazismo, le virtù civiche come l’igiene, l’efficienza, la dedizione, l’onestà, il senso del dovere e la responsabilità furono di ostacolo al dispiegamento di virtù primarie come l’amore, l’autonomia, la compassione, la giustizia e la solidarietà umana. Ciò rese possibile la guerra totale e la Shoah (Steinberg 1997).

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