La volontà di tutto un
popolo non può rendere giusto quel che è ingiusto
Benjamin Constant
Perché ci sia democrazia
basta il consenso della maggioranza. Ma appunto il consenso della maggioranza
implica che vi sia una minoranza di dissenzienti. Che cosa facciamo di questi
dissenzienti una volta ammesso che il consenso unanime è impossibile e che là
dove si dice che vi sia, è un consenso organizzato, manipolato, manovrato e
quindi fittizio, è il consenso di chi, per ripetere il famoso detto di
Rousseau, è obbligato ad essere libero? Del resto, che valore ha il consenso
dove il dissenso è proibito? I dissenzienti li sopprimiamo o li lasciamo
sopravvivere? E se li lasciamo sopravvivere, li recintiamo o li lasciamo
circolare, li imbavagliamo o li lasciamo parlare, li espelliamo come reprobi o
li teniamo fra di noi come liberi cittadini?
Norberto Bobbio
L’arsenale della
democrazia diretta è un’arma istituzionale nelle mani di interessi organizzati
(partiti, lobby, associazioni industriali e sindacati) e non dei
cittadini
Uwe Serdült, vicedirettore del
Centro di Ricerche sulla Democrazia Diretta (Università di Ginevra)
Se il problema della
democrazia rappresentativa è che non manda al potere i migliori, ma i migliori
persuasori, ossia le persone senza scrupolo, perché la democrazia diretta
dovrebbe migliorare le cose, invece di peggiorarle? Dopo tutto, nell’Azerbaigian
le donne hanno ottenuto il diritto di voto nel 1919, in Italia nel 1946 e nella
tanto ammirata Svizzera solo nel 1971 (in alcuni cantoni non prima degli anni
Novanta).
Esaminiamo allora l’esperienza
elvetica, segnata da considerevoli trepidazioni in materia di immigrazione,
fede religiosa e forza persuasiva delle narrazioni etnopopuliste-plebiscitarie.
Storicamente, la democrazia diretta in Svizzera è servita a rallentare il
riconoscimento dei diritti civili universali. Il cantone di Vaud aveva
introdotto nel 1959 il voto per le donne ma un referendum federale lo respinse
a livello federale. Si dovette attendere fino al 1971 perché la Svizzera
facesse il suo ingresso nel consorzio dei paesi civili. Fino al 1971 le
cittadine svizzere non ebbero diritto di voto, ultime in Europa ad eccezione
del Liechtenstein, anche perché con vari referendum federali la popolazione
maschile si oppose alle misure progressiste proposte dai politici che li
rappresentavano. In alcuni distretti dell’Appenzell il diritto di voto alle
elezioni comunali per le donne non fu concesso fino al 1990. L’effettiva parità
tra uomini e donne fu sancita costituzionalmente solo nel 1981 ed il referendum
del 1985 sulla modifica del codice civile che stabiliva l’uguaglianza dei
diritti tra i sessi all’interno della famiglia passò con 921.743 voti a favore
e ben 762.619 voti contrari. Il referendum del 1962 respinse una legge che
impediva l’installazione di armi atomiche sul territorio elvetico. Nel giugno
del 1970 un referendum che chiedeva l’espulsione di 300.000 lavoratori
immigrati legalmente residenti ed impiegati ottenne il 46 per cento dei voti e
la maggioranza assoluta nei cantoni più tradizionalisti ed anti-federalisti.
Nel novembre del 1972, tra chi andò a votare per ridurre entro cinque anni a
500mila il numero di immigrati residenti in Svizzera, il 34 per cento era
favorevole a questo progetto di legge (Steinberg, 1976). In seguito, ed a più
riprese, con le varie Ausländerinitiativen, gli elettori svizzeri si sono
rifiutati di rendere più facile se non automatica la naturalizzazione dei
residenti di terza generazione, che sono spesso indistinguibili da un
ipotetico, ma virtualmente inesistente, Svizzero “puro” o “medio”. Leonardo
Coen, nella sua sconsolata analisi del voto referendario svizzero sui minareti
intitolata “L’orologio a cucù dell’intolleranza” (Repubblica, 30 novembre
2009), scrive: “stimolando la xenofobia e promettendo di esaudire gli interessi
immediati (meno tasse, per esempio), il referendum si trasforma in uno
strumento assai pericoloso nelle mani dei demagoghi, perché li autorizza poi ad
andare sempre più oltre: così si istigano le caccie alle streghe, così si
autorizzano le ronde contro gli extracomunitari, così si favoriscono l’intolleranza
assoluta, la repressione, l’odio nei confronti degli oppositori, la censura, il
pensiero “unico”; così diventa prassi l’idiosincrasia nei confronti dei diritti
e della dignità umana, della libertà di stampa e di quella politica”. Anche il
commento di Renzo Guolo insiste sul valore paradigmatico di quel referendum (“Adesso
l'Europa teme il contagio”, 30 novembre 2009): “Battaglia che la destra
xenofoba e nazionalista svizzera e le correnti evangeliche più legate al
cosiddetto "sionismo cristiano", movimento diffuso negli Usa che
nell'islam vede un ostacolo alla realizzazione messianica della loro
apocalittica dottrina, conducono in nome di un identità cristiana iperpolitica,
che prescinde dalle posizioni delle leadership delle confessioni maggioritarie.
Tanto che mentre i proponenti chiedevano di inserire il divieto in
Costituzione, come misura “atta a mantenere la pace fra i membri delle diverse
comunità religiose”, le altre confessioni osteggiavano apertamente tale
indicazione. La stessa Chiesa cattolica giudicava la vittoria del “sì” un
ostacolo sulla via dell'integrazione e del dialogo. Icona di un cristianesimo
senza Cristo, quella veicolata dalla destra cristiana xenofoba, in Svizzera
come altrove, che tende a impugnare la Croce sottraendola alle Chiese, accusate
di non interpretare il vero “sentire del popolo”. (…). L’oggetto non era tanto,
o solo, l’immigrazione proveniente dai paesi islamici, il 5% della popolazione,
circa quattrocentomila persone, ma la rigerarchizzazione delle culture e delle
religioni per via politica”. Nella stessa occasione gli Svizzeri hanno respinto
una proposta che ingiungeva alla Confederazione di sostenere gli sforzi per il
disarmo e controllo degli armamenti. Buon l'ultimo il referendum del febbraio
del 2011, che ha preservato il diritto di tenersi in casa le armi automatiche
fornite dall'esercito. Oltre il 56% degli elvetici ha rifiutato il bando del
fucile d’assalto militare dalle case (63,5% nel Canton Ticino). In cambio
nessun referendum ha mai intaccato lo strapotere del sistema bancario elvetico,
che non è mai stato costretto a redistribuire i suoi proventi o a votarsi ad
una maggiore trasparenza.
*****
In Svizzera, come nel New
England, le due patrie della democrazia diretta, le assemblee popolari non si
fecero scrupolo di bruciare centinaia di streghe, mentre invece nei paesi
cattolici dominati dall’autorità monarchica e pontificia i processi alle streghe
furono sporadici. Più recentemente, la Commissione Indipendente d’Esperti
Svizzera sul ruolo della Confederazione nella Seconda Guerra Mondiale (Bergier
et al. 2002) ha concluso che: “L’evidente giro di vite imposto nel 1938 alla
politica svizzera nei confronti dei profughi non faceva che segnare una
recrudescenza dell’ostilità verso certe persone e gruppi sociali che,
delineatasi sin dall’inizio del Novecento, era andata rinforzandosi negli anni
Venti. In concreto, tale sviluppo si manifestò nel trattamento riservato a rom,
sinti e jenische, cui a partire dal 1926 vennero sistematicamente sottratti i
figli. Questo ed altri fatti contraddicono l’immagine che, dall’Ottocento in
poi, pone la Confederazione in una tradizione umanitaria, la quale cristallizzatasi
nell’idea di sé del popolo svizzero, si prestava a legittimare moralmente la
neutralità del paese. […] Nel suo atteggiamento verso i profughi la neutrale
Svizzera non solo venne meno ai suoi propri parametri, ma violò pure elementari
principi di umanità”.
La crescente aggressività ed
intolleranza delle scelte referendarie elvetiche nasce dal fatto che la
costruzione dell’identità nazionale svizzera non si è fondata solo sul rispetto
per la diversità ma anche sull’estirpamento di certe differenze giudicate
non-elvetiche o anti-elvetiche attraverso la mobilitazione di determinati “discorsi
identitari” – la storia che un popolo ama raccontare di se stesso – e non altri
(Mottier, 2009). Sono queste storie che marcano i confini del noi e dell’altro-da-noi
e possono escludere quel che fino a prima era parte di noi decretandone o
accentuandone l’alterità. È perciò falsa l’autopercezione svizzera di essere
una nazione particolarmente accomodante nei confronti delle differenze. Questo è
vero solo in parte: la coesione sociale fu conquistata ai danni di chi non era
ritenuto degno di partecipare alla comunità, come gli Ebrei, gli Jenisch, i
malati mentali e le persone “inadatte a procreare” (Kreis, 1992; Heller,
Jeanmonod, Gasser, 2002; Gerodetti, 2005).
*****
Uwe Serdült, vicedirettore del
Centro di Ricerche sulla Democrazia Diretta dell’Università di Ginevra è
scettico e, nel marzo del 2007, concludeva il suo intervento alla Conferenza
Internazionale per la Democrazia Diretta tenutasi a Buenos Aires invitando i
promotori della democrazia diretta ad una maggiore sobrietà e realismo: “L’arsenale
della democrazia diretta è un’arma istituzionale nelle mani di interessi
organizzati (partiti, lobby, associazioni industriali e sindacati) e non dei
cittadini”. Yanina Welp e Nina Massüger, due studiose di democrazia diretta
all'Università di Zurigo, rilevano invece come i quesiti referendari trattino
sempre più di questioni estremamente delicate da un punto di vista sia
giuridico sia etico, come quella della carcerazione a vita per reati sessuali di soggetti
giudicati irrecuperabili (2004), delle naturalizzazioni (2008), dell'edificazione di
minareti (2009), dell'espulsione di delinquenti di origine straniera (2010). Più
recentemente, è stata interrotta spontaneamente un’iniziativa che mirava ad
introdurre la pena di morte per omicidio con abuso sessuale. Questo genere di
consultazioni sono in grado di “mettere radicalmente in discussione l’ordine
costituzionale” (Kiener/Krüsi, 2009) e sono in contrasto con diverse
convenzioni internazionali per la tutela dei diritti umani: "a parte il
fatto che tra queste iniziative, diverse perseguono obiettivi quantomeno
discutibili, non c'è dubbio che al giorno d'oggi la crescente
internazionalizzazione del diritto e la crescente importanza della tutela dei diritti
umani impongono limiti all'impiego dei meccanismi della democrazia
diretta", specialmente dato l’elevato astensionismo che li caratterizza
(Welp/ Massüger, 2010). Le due ricercatrici segnalano anche la medesime
problematica messa in luce dai colleghi statunitensi: la democrazia diretta
costa e “i gruppi meglio organizzati sono avvantaggiati al momento di convocare
un referendum, giacché gli interessi più generali e quelli dei meno
privilegiati non troveranno un’adeguata rappresentanza” (Welp/ Massüger,
ibidem). La requisitoria di Regina Kiener e Melanie Krüsi prende le mosse dalla
constatazione che negli ultimi anni, in Svizzera, si è diffusa l’ideologia
secondo cui la sovranità popolare è assoluta e la sua forza deliberativa deve
prevalere anche sui principi sanciti dalla costituzione federale e dalle
convenzioni internazionali per i diritti umani. La democrazia diretta deve
perciò configurarsi come il valore fondativo dello Stato. Le due giuriste
elvetiche imputano questa deriva al potere propagandistico della demagogia che
separa tassativamente il “proprio” dall’”altrui”, il dentro e il fuori e che in
nome dell’esclusività e dell’esclusione nega il principio delle democrazie
moderne per cui non esiste alcuno stato di diritto senza democrazia e non esiste
alcuna democrazia se lo stato di diritto non viene rispettato. Mentre nell’America
della Guerra al Terrore le più gravi ferite allo stato di diritto sono state
inflitte dalla Casa Bianca e dal Congresso, in Svizzera un processo analogo si
sta verificando dal “basso”, attraverso iniziative popolari che compromettono l’edificio
costituzionale difeso dalle autorità (Langer, 2010).
È tuttavia importante capire
che questo non è uno sviluppo imprevisto, essendo perfettamente in linea con le
xenofobiche “misure contro la snazionalizzazione” (Massnahmen gegen die Überfremdung),
promulgate nel periodo fra le due guerre, quando alcuni sostenevano che
altrimenti gli svizzeri sarebbero diventati minoranza nel loro paese entro il
1997, allo stesso modo in cui la destra xenofoba e populista dei nostri giorni
dichiara che se non si interviene la svizzera sarà islamizzata entro il 2035.
Fu in quelle circostanze che le iniziative popolari furono usate per la prima
volta per proteggere la purezza e l’autenticità dell’identità elvetica, nonché
la sua prosperità, anche sulla pelle di chi fuggiva dai totalitarismi (Kury,
2003).
L’analisi esemplare che Lorenz
Langer, ricercatore svizzero presso la facoltà di legge di Yale, fa delle
implicazioni, ripercussioni e insegnamenti che si possono trarre dalla vicenda
dei minareti (Langer, 2010), vale non solo per la Svizzera, ma anche per l’Alto
Adige. I paralleli sono numerosi ed estremamente istruttivi. La messa al bando
della costruzione di ulteriori minareti è inconciliabile con la Convenzione
Europea per i Diritti Umani ed il Patto internazionale sui diritti civili e
politici e questo ci deve far riflettere sulla eccessiva disinvoltura con la
quale si ritiene che la democrazia diretta sia un bene assoluto e non una
possibile fonte di rischi derivati dall’eterogenesi dei fini, ossia la tendenza
dimostrata dalle attività umane a non svolgersi quasi mai secondo le modalità
desiderate e nella direzione programmata. Langer domanda ai lettori: la vox
populi dovrebbe godere di un’autorità assoluta oppure i voti andrebbero non
solo contati ma anche soppesati, in relazione alle norme internazionali che
proteggono le minoranze? L’impiego dello strumento referendario per
strumentalizzare delle legittime preoccupazioni di fronte alla caparbietà con
cui certi musulmani si rifiutano di venire incontro agli usi locali, usandole
per imporre l’assimilazione o l’esclusione, in luogo dell’integrazione, non
dovrebbe indurre gli Svizzeri a moderare il loro entusiasmo nei confronti della
democrazia diretta? Magari spingendoli a rendere più selettive le operazioni di
formulazione, approvazione ed implementazione delle iniziative popolari, come
succede negli Stati Uniti, che pure hanno preso a modello proprio la Svizzera,
ma hanno stabilito che i principi fondamentali sono intangibili, per metterli
al riparo della faziosità e delle eccitazioni occasionali? Non è forse tempo di
disintossicarsi dalla dipendenza dalla democrazia diretta, che offre fasi di
grande esaltazione e piacere, seguite dai postumi della sbornia e da un’escalation
di smania referendaria?
Langer osserva che il dogma
dell’infallibilità popolare è così radicato in Svizzera che persino gli
oppositori al bando non se la sono sentita di condannare la decisione dei
cittadini, mentre i vincitori – la destra xenofoba ed etnonazionalista – hanno
denunciato come anti-democratica ogni critica e condannato l’imperialismo del
diritto internazionale negli affari interni alla Svizzera, che impone dei
vincoli irragionevoli alle iniziative popolari in un paese che è
connaturatamente democratico e quindi non potrebbe mai violare i diritti umani
di chi vi risiede. Questo dogma è il prodotto di un mito identitario necessario
al ricompattamento di quelle popolazioni eterogenee che istituirono la
confederazione elvetica. Il mito dell’autarchia, dell’autosufficienza, del
contadino libero ed ugualitario, naturalmente democratico. Un mito, quello del
Sonderfall Schweiz, che, come tutti i miti, contiene un fondo di verità, ma
rimane nel complesso fallace. Langer ci ricorda che fino all’invasione francese
del 1798 quasi tutti i cantoni erano delle vere e proprie oligarchie rette da
aristocratici, corporazioni o clan facoltosi ed una buona parte della
popolazione non era libera. Perciò lo stato federale nato nel 1848 non fu il
culmine di una tradizione secolare di governo a democrazia diretta di stampo
schilleriano (cf. Guglielmo Tell e la sua libera fratellanza) ma fu una
costruzione artificiale, “uno Stato in cerca di una nazione”. Tra i tratti
genuinamente tradizionali che conservò ci furono l’avversione nei confronti di
leggi e magistrati stranieri e l’interpretazione collettivista del concetto di
libertà ed uguaglianza, che privava i singoli di alcune prerogative sancite
dalle costituzioni di altri paesi. Così, in un discorso del 2007, un ministro
della giustizia elvetico si rivolse al pubblico stigmatizzando il diritto
internazionale e paragonandolo alle leggi asburgiche delle quali gli Svizzeri
erano riusciti a liberarsi, sostituendole con le “leggi del popolo”, perché il
popolo deve sempre avere l’ultima parola. Così facendo, reiterò l’idea che la
confederazione è nata grazie ad un’ispirazione esclusiva, e non inclusiva, con
l’atto di espulsione dei non-Svizzeri. Precisa Langer: “lo scetticismo verso l’altro
è una parte integrante del sistema”. Non che questo sia un tratto distintivo
tipicamente elvetico, ma va anche detto che la Francia, che ha una popolazione
islamica molto più grande, deve limitarsi a “tollerare” la presenza di una
decina di minareti e il bando alla costruzione di minareti è passato solo
grazie al voto delle aree rurali: nei maggiori centri e nei cantoni più
urbanizzati (Ginevra, Basilea, Neuchâtel e Vaud), quelli dove la popolazione è
a quotidiano contatto con i musulmani, ha vinto il no, ossia l’apertura alla
diversità, al pluralismo. Langer legge questa preoccupante deviazione della
democrazia diretta in Svizzera attraverso la lente della “fallacia patetica”;
un’espressione coniata dal poeta inglese John Ruskin (1819-1900) per indicare l’ingannevole
antropomorfizzazione delle cose e di tutto quel che non è umano (es. “oceano
crudele”) che tende ad farci perdere il contatto con la realtà, introducendo la
menzogna, l’irrazionalità e l’auto-inganno nella nostra percezione del mondo,
nelle impressioni che ci formiamo delle interrelazioni tra le cose e le
persone, specialmente quando siamo in preda alla nostra emotività: se siamo
spaventati o aggressivi tendiamo a proiettare i nostri stati d’animo su tutto
ciò che ci circonda, distorcendolo. In una fase storica in cui le persone temono di perdere il controllo delle loro vite, il proibire l’edificazione di una
struttura architettonica, fornisce l’illusione di poter tenere a distanza un
mondo ostile, di preservare il proprio beato isolamento. Langer chiede agli
Svizzeri di mettere da parte le loro ipocrisie; se preferiscono una società più
uniforme non sono obbligati a perorare la causa dell’uguaglianza e della libertà:
“numerose nazioni non approvano la tutela della libertà di culto ed altri
diritti civili e politici, ma un paese non può compiacersi della propria
tolleranza istituzionalizzata e contemporaneamente concedere la propria
tolleranza selettivamente” (Langer, ibidem).
È necessario affrontare la realtà dei fatti, non
continuando a cullarci nelle nostre illusioni. I demagoghi amano la democrazia
diretta perché è il loro habitat naturale. I demagoghi sono specialisti nel
divinizzare il proprio popolo e demonizzare gli oppositori (che non sono mai un
popolo): vox populi, vox Dei. Accusano gli altri di essere ciò che in realtà
caratterizza la loro personalità e stile di fare politica: intolleranti,
elitari, autoritari, moralmente opachi, incompetenti, anti-patriottici,
attentatori delle libertà civili, statalisti, culturalmente egemonici. Sono
leader carismatici di movimenti al tempo stesso reazionari e modernisti e
promotori di una concezione plebiscitaria della democrazia in cui l’investitura
per acclamazione del leader gioca un ruolo centrale e la “democrazia diretta” è
vista come un valido strumento per neutralizzare gli intollerabili formalismi e
le “vergognose garanzie” della democrazia liberale rappresentativa. Una
democrazia diretta può funzionare laddove una frazione sufficientemente vasta
della cittadinanza è in grado di esercitare un consenso o un dissenso informato
e consapevole. Ma, ammettiamolo una buona volta, siamo tutti, in generale,
molto ignoranti in molti ambiti e gli ignoranti sono inclini a fare scelte
stupide. Ad esempio eleggono politici egoisti e superbi e continuano a votarli
ad ogni tornata elettorale. Quei politici non sono sbucati dal nulla, una
maggioranza di votanti li ha voluti, come vorrebbe disfarsi di vari vincoli e
laccioli che lo stato di diritto impone all’intera cittadinanza e quest’ultima
subisce. Quale miglior opportunità di un referendum che quantifichi e faccia
pesare la volontà popolare? Un cittadino maturo, cioè pronto per la democrazia
diretta, deve chiedersi perché troppe volte essa non funziona, perché diventa
uno strumento di ingiustizia, autoritarismo e xenofobia. Un cittadino maturo
non crede alla democrazia diretta a prescindere, perché non la idolatra, non ne
fa un culto laico. Per far crescere e maturare i cittadini c'è già la
democrazia ed esistono già i referendum e sicuramente qualche passo in avanti
nel dopoguerra lo abbiamo fatto, ma pensare che dopo soli sessant’anni di vita
repubblicana la popolazione sia pronta a decidere su certe questioni
importanti, che sono anche le più complesse – come complessi erano i quesiti
sulla privatizzazione dell’acqua, a dispetto di quel che molti hanno creduto,
sbagliando – è ingenuo ed irresponsabile. Il solo fatto che l’elettorato non
sia capace di mandare a casa dei demagoghi incapaci di gestire la cosa pubblica
e sfacciatamente maldisposti verso la Costituzione è la prova migliore del
fatto che la maggior parte dei cittadini non è pronta per la democrazia diretta
e che sarebbe meglio che la Svizzera restasse un caso più unico che raro.
4 commenti:
x Stefano Fait : "Gli strumenti di democrazia diretta sono applicabili a tutta la materia legislativa già di competenza dei rappresentanti eletti dal popolo e non possono in alcun caso confliggere né con le disposizioni inderogabili del diritto internazionale, né con i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, né con il dettato della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, né con il catalogo dei diritti fondamentali contenuto nei Trattati dell'Unione Europea." Questo è un comma dell' articolo 73 quater che stiamo scrivendo nell'iniziativa di legge popolare sull'abolizione del quorum , introduzione della revoca , referendum confermativi ecc. e che fra breve presenteremo a livello nazionale . Vedi qui http://quorum.forumattivo.it/
eccellente decisione!
Grazie Stefano. Ma tu sei di Trento?, anch'io...conosci Paolo Michelotto, Thomas Benedicter, stiamo lavorando a questa iniziativa di legge popolare per abolizione quorum, revoca dei parlamentari e delle leggi, obbligatorietà referendaria su leggi speciali, ecc ecc. qui il sito sulla penultima bozza della legge ( l'ultima dovrebbe caricarla tra breve Paolo ) http://www.paolomichelotto.it/blog/wp-content/uploads/2011/10/011-legge-quorum-DD.doc Se vuoi pertecipare anche tu...
penso vi convenga sbrigarvi:
http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/la-stiamo-perdendo-la-stiamo-perdendo.html.
Posta un commento