mercoledì 30 novembre 2011

Étienne de La Boétie - un uomo pericolosamente sano di mente


Étienne de La Boétie: giurista, filologo, traduttore dal greco, consigliere al Parlamento di Bordeaux durante le guerre di religione tra cattolici e ugonotti, grande amico di Michel de Montaigne che dedica virtualmente un capitolo degli Essais alla loro amicizia: «Da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente; e perfino i piaceri che mi si offrono, invece di consolarmi, mi raddoppiano il dolore della sua perdita... Se confronto la mia vita, tutta quanta, ai quattro anni in cui mi è stato dato di godere della dolce compagnia e familiarità di quell'uomo, essa non è che fumo, non è che una notte oscura e noiosa» scrive nel primo libro degli "Essais"], nasce il 1° novembre 1530 a Sarlat, cittadina del Périgord. Rimane orfano molto presto e viene allevato dallo zio. Si dimostra abilissimo nella mediazione riconciliativa tra cattolici e protestanti, molto apprezzato dalla Corona francese. Muore a 33 anni.

Il breve scritto generalmente noto sotto il titolo di “Discorso sulla servitù volontaria” e diffuso in ogni ambiente anti-tirannico europeo e non solo, apprezzato dagli Illuministi, dai socialisti, dai comunisti, dagli anarchici e dai cattolici progressisti, da figure illustri come Félicité De Lamennais, Lev Tolstoj, Thoreau, Ralph Waldo Emerson, Gandhi. Per molti versi il pensiero di Étienne de La Boétie si contrappone al “Principe” di Machiavelli, ma ancor più significativa è la divergenza rispetto a Nietzsche e a Rousseau, entrambi partiti dalla medesima premessa, la necessità di restituire all’uomo la sua libertà, per giungere a soluzioni autoritarie (la casta tirannica ed imperialista in Nietzsche, lo stato etico-pedagogico in Rousseau). La Boétie, come Bartolomé de Las Casas, annuncia l’era del suffragio universale, della democrazia costituzionale e della divisione dei poteri. Montaigne ricorda che il suo amico era contro le rivoluzioni e gli spargimenti di sangue, avendo dedicato la sua vita alla riconciliazione.
Come Socrate, de La Boétie è un "rifiutista": per lui occorre astenersi dal diventare complici nell’oppressione degli innocenti.
Il rifiuto dello scandalo di una servitù volontaria, appunto, ossia non dovuta a forme di coercizione esterna ma ad un acconsentimento interiore di una vittima che diviene complice del tiranno. Il rifiuto della compiacenza di entrambe le parti, dove l’una domina, l’altra subisce. Il rifiuto dell'impostura della sottomissione necessaria, quando invece manca qualunque reale legittimità.
Ecco esposto il suo pensiero, per sommi capi:
La responsabilità del servaggio non ricade solo sul carnefice, ma anche su una disposizione volontaria delle vittime ad accettarlo. L’unico potere dei tiranni è quello che gli è concesso dalle loro vittime [“è davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio”];
• il tiranno in generale è un ometto debole, privo di forza interiore e senza talenti che lo rendano speciale rispetto alla media dei suoi sudditi [«Va aggiunto inoltre che non c'è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo, basta che il popolo non acconsenta più a servirlo. Non si tratta di sottrargli qualcosa, ma di non attribuirgli niente; non c'è bisogno che il paese si sforzi di fare qualcosa per il proprio bene, è sufficiente che non faccia nulla a proprio danno. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura. Se gli costasse qualcosa riacquistare la libertà non continuerei a sollecitarlo; anche se riprendersi i propri diritti di natura e per così dire da bestia ridiventare uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore. Tuttavia non voglio esigere da lui un tale coraggio; gli concedo pure di preferire una vita a suo modo sicura anche se miserabile ad una incerta speranza in una condizione migliore. Ma se per avere la libertà è sufficiente desiderarla con un semplice atto di volontà si troverà ancora al mondo un popolo che la ritenga troppo cara, potendola ottenere con un desiderio? Può esistere un popolo che non se la senta di riavere un bene che si dovrebbe riscattare a prezzo del proprio sangue, un bene la cui perdita rende insopportabile la vita e desiderabile la morte, almeno per chi ha un minimo di dignità? Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre più grande e più trova legna più ne brucia, ma si consuma da solo, anche senza gettarvi sopra dell'acqua, semplicemente non alimentandolo, così i tiranni più saccheggiano e più esigono, più distruggono e più ottengono mano libera, più li si serve e più diventano potenti, forti e disposti a distruggere tutto; ma se non si cede al loro volere, se non si presta loro obbedienza allora, senza alcuna lotta, senza colpo ferire, rimangono nudi e impotenti, ridotti a un niente proprio come un albero che non ricevendo più la linfa vitale dalle radici subito rinsecchisce e muore»];
le vittime si conquistano quotidianamente il loro diritto di restare soggiogati – accanto all’anelito libertario coesiste nell’umanità un desiderio di sottomissione, il tipo di servilismo che denunciò Erich Fromm in “Fuga dalla Libertà” [“Chiameremo questa vigliaccheria? Diremo che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? […] Dunque quale vizio mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?”];
senza la possibilità di ricorrere alla violenza il re è nudo, ma lo è anche se la violenza non ottiene risultati [«Colui che tanto vi domina non ha che due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di più dell’uomo meno importante dell’immenso ed infinito numero delle nostre città, se non la superiorità che gli attribuite per distruggervi. Da dove ha preso tanti occhi, con i quali vi spia, se non glieli offrite voi? Come può avere tante mani per colpirvi, se non le prende da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, da dove li ha presi, se non da voi? Come fa ad avere tanto potere su di voi, se non tramite voi stessi? Come oserebbe aggredirvi, se non avesse la vostra complicità? Cosa potrebbe farvi se non foste i ricettatori del ladrone che vi saccheggia, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi?»];
tiranno è qualunque corpo politico che imponga ai cittadini la propria volontà ed i propri interessi invece di perseguire il bene comune. Un iniziale suffragio popolare non lo rende meno tirannico: “Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo […] è strano di quanto superino gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino di crudeltà, non trovando altri mezzi per garantire la nuova tirannia che estendere la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà, che, per quanto vivo, gliene si possa far perdere il ricordo”;
chi si rifiuta di servire è libero, perché siamo nati per essere liberi e fratelli e quello è il nostro destino [«credo che sia fuori dubbio che, se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, seguaci della ragione e servi di nessuno. […] di sicuro, se mai c’è qualcosa di chiaro ed evidente nella natura, che è impossibile non vedere, è che la natura, ministro di Dio, la governatrice degli uomini, ci ha fatti tutti della stessa forma, e come sembra, allo stesso stampo, perché possiamo riconoscerci reciprocamente come compagni o meglio come fratelli. E se, dividendo i doni che ci faceva, ha avvantaggiato nel corpo o nella mente gli uni più degli altri, non ha inteso per questo metterci al mondo come in recinto da combattimento, e non ha mandato quaggiù né i più forti né i più furbi come briganti armati in una foresta, per tiranneggiare i più deboli. Ma, piuttosto, bisogna credere che la natura dando di più agli uni e di meno agli altri, abbia voluto lasciar spazio all’affetto, perché avesse dove esprimersi, avendo gli uni potere di dare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. […] non bisogna dubitare che siamo naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni, e a nessuno può venire in mente che la natura abbia messo qualcuno in servitù, dopo averci messo tutti insieme. […] Se ne deve concludere che la libertà è un dato naturale, e per ciò stesso, a mio avviso, che non solo siamo nati in possesso della nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla. […]. Il bue stesso sotto il giogo si lamenta e geme l'uccellin rinchiuso in gabbia».
le persone si fanno schiavizzare con la forza o con l’inganno [«certamente tutti gli uomini, finché conservano qualcosa di umano, se si lasciano assoggettare, o vi sono costretti o sono ingannati];
se succede con l’inganno è perché si sono raggirati da soli (non hanno riconosciuto la realtà per come era, hanno preferito scambiare i loro desideri per la realtà): “Per inganno gli uomini perdono sovente la loro libertà; in questo un poco sono sedotti da altri, spesso però accade che siano loro stessi ad ingannarsi»;
Mundus vult decipi, ergo decipiatur: le persone sembrano credere con più facilità a chi li inganna deliberatamente, come se necessitassero di farsi circuire [“Il popolino non è mai tanto asservito come quando ci si burla di lui”].
le persone nate schiave considerano la loro condizione come naturale [“È vero che, all’inizio, si serve costretti e vinti dalla forza, ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno volentieri quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così che gli uomini che nascono sotto il giogo, e poi allevati ed educati nella servitù, senza guardare più avanti, si accontentano di vivere come sono nati, e non pensano affatto ad avere altro bene né altro diritto, se non quello che hanno ricevuto, e prendono per naturale lo stato della loro nascita”];
le consuetudini, le usanze e gli abiti mentali mantengono le persone asservite [«La natura dell’uomo è proprio di essere libero e di volerlo essere, ma la sua indole è tale che naturalmente conserva l’inclinazione che gli dà l’educazione. […]. Ma è anche vero che la consuetudine, la quale ha un grande influsso su tutte le nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto nell'insegnarci a servire, e come Mitridate che si abituò a bere il veleno, ci rende alla fine assuefatti a trangugiare normalmente il veleno della servitù senza sentirne l'amaro. Certamente nel tendere verso il bene o verso il male gioca in gran parte la natura che ci spinge dove vuole; ma bisogna ammettere che essa ha meno potere su di noi di quanto non l'abbia la consuetudine, perché la nostra indole, per quanto possa essere buona, va persa se non si cerca di mantenerla.»].
chi perde la sua libertà perde anche la sua forza interiore, il coraggio morale, il valore [È incredibile come il popolo, appena è assoggettato, cade rapidamente in un oblio così profondo della libertà, che non gli è possibile risvegliarsi per riottenerla, ma serve così sinceramente e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che non abbia perduto la libertà, ma guadagnato la sua servitù];
i tiranni ipnotizzano le loro vittime con l’intrattenimento e piaceri effimeri [«i teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i quadri ed altre simili distrazioni poco serie, erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia. Questi erano i metodi, le pratiche, gli adescamenti che utilizzavano gli antichi tiranni per addormentare i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli, istupiditi, trovando belli quei passatempi, divertiti da un piacere vano, che passava loro davanti agli occhi si abituavano a servire più scioccamente dei bambini che vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati, imparano a leggere»];
la gente si accontenta di poco, senza rendersi conto di essere stata derubata di molto più di quelle briciole che riceve: «I tiranni elargivano un quarto di grano, un mezzo litro di vino ed un sesterzio; e allora faceva pietà sentir gridare: “Viva il re!” Gli zoticoni non si accorgevano che non facevano altro che recuperare una parte del loro, e che quello che recuperavano, il tiranno non avrebbe potuto dargliela, se prima non l’avesse presa a loro stessi»;
si spacciano per uomini superiori, dotati di poteri virtualmente magici, taumaturgici, ma sono tutte «belle favole». Il problema del potere va fatto risalire alla viltà ed inerzia di chi lo subisce, non in una supremazia di chi lo esercita. Quest’ultimo, poi, non è più libero dei suoi sottoposti. Infatti «Non ci può essere amicizia dove si trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra loro non vi è compagnia ma complotto, non sono amici ma complici». La tirannia distrugge la libertà di tutti, anche di chi si trova al vertice della piramide, condannato a distribuire prebende ai suoi ambiziosi e sleali servitori. Anche per il tiranno vale la verità che “quanti più padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova». Infatti, «In tutta coscienza va considerata una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai dire con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio, secondo il proprio arbitrio»;
• si circondano degli scarti della società, persone debole di carattere (“vigliacchi e rammolliti”), che offrono servilismo in cambio di ricchezze immeritate e si organizzano gerarchicamente, come in una piramide: “Non basta che eseguano gli ordini del tiranno: devono compiacerlo in tutto faticando e distruggendosi fino alla morte nel curare i suoi interessi; inoltre devono godere dei suoi piaceri, abbandonare i propri gusti per i suoi, andar contro il proprio temperamento fino a spogliarsene del tutto. Sono obbligati a misurare le parole, la voce, i gesti, gli sguardi; devono avere occhi, piedi, mani sempre all'erta a spiare ogni suo desiderio e scoprire ogni suo pensiero. E questo sarebbe un vivere felice? Si può chiamare vita codesta? C'è al mondo qualcosa che risulti essere più insopportabile di una simile situazione non dico per una persona di nobili origini ma semplicemente per chiunque abbia un po' di buon senso o quantomeno un'ombra di umanità? Quale condizione è più miserabile di questa, in cui non si ha niente di proprio ma tutto, benessere, libertà, perfino, la vita stessa, viene ricevuto da altri?" […]. Ma anche supponendo che questi adulatori riescano a sfuggire alle mani del loro padrone, in ogni caso non si salvano mai dal re che viene dopo: se è un buon sovrano devono rendergli conto di tutto e comportarsi secondo ragione; se invece è malvagio come il precedente avrà anch'egli i suoi favoriti che solitamente non si accontentano di prendere a loro volta il posto degli altri ma vogliono anche ottenerne i beni e in molti casi la vita stessa. Com'è dunque possibile che ci sia qualcuno che in mezzo a tanti rischi e con ben poche garanzie voglia prendere questo sciagurato posto e servire un padrone così pericoloso? Che tormento, che martirio è mai questo, buon Dio? Essere occupato giorno e notte a compiacere uno e tuttavia avere più timore di lui che non di qualsiasi altro uomo, stare sempre all'erta con l'occhio e l'orecchio tesi a spiare da dove verrà l'attacco, a scoprire gli agguati, leggere nel cuore dei compagni, denunciare chi sta per tradire, sorridere a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici sinceri, col sorriso sulle labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi scontento”.
• finché hanno buone ragioni per obbedire: «non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno, che si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui […]. Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e fanno con questi seicento quello che fanno col tiranno. Questi seicento ne tengono seimila sotto di loro, che hanno elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle province, o la gestione del denaro pubblico […]. Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà che, non seimila, ma centomila, milioni, si tengono legati al tiranno con quella corda […]. Insomma che ci si arrivi attraverso favori o sotto favori, guadagni e ritorni che si hanno sotto i tiranni, si trovano alla fina quasi tante persone per cui la tirannia sembra redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita».
• la codardia, la remissività, l'acquiescenza, il conformismo, la pigrizia: “Davanti ad esempi tanto evidenti e ad un pericolo così incombente è dunque davvero pietoso che nessuno voglia diventare saggio a spese altrui, che tanta gente si dia da fare per star vicina al tiranno e che non ce ne sia neppure uno che abbia l'avvedutezza e il coraggio di dir loro ciò che in un apologo famoso la volpe rinfaccia al leone che si finge ammalato: «Verrei volentieri a farti visita nella tua tana; purtroppo vedo molte tracce di animali che vanno verso di te, ma non ne scorgo neppure una nella direzione contraria».
ma rimangono sempre persone che sono indomabili, che sarebbero in grado di reinventare la libertà anche se fosse soppressa. Il loro problema è che non si conoscono tra loro. Se avessero modo di incontrarsi, formerebbero società di amici [sul modello delle comunità pitagoriche, NdA], fondate sui principi di libertà, uguaglianza e fratellanza. L’amicizia garantirebbe il massimo grado di uguaglianza possibile unitamente al massimo grado di libertà possibile;
NONVIOLENZA: Se il popolo ritira il suo sostegno al tiranno, questo cade sotto il peso della sua corruzione «Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo sosteniate più e allora lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento»;
VIOLENZA E TERRORE RIVOLUZIONARIO: i rivoluzionari di professione, i tirannicidi, i terroristi vanno contrastati, non sostenuti, perché le loro iniziative «non furono altro che congiure di gente ambiziosa, la quale non deve certo essere compianta per gli inconvenienti cui andò incontro, essendo a tutti evidente che desideravano semplicemente far cadere una corona, non togliere il re, cacciare sì il despota, ma tenere in vita la tirannide. Riguardo a costoro sarei dispiaciuto se fossero riusciti nel loro scopo, e sono ben contento che oggi possano essere portati a dimostrazione del fatto che non bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere imprese malvagie.


LINK UTILI
http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/il-gesu-poderosamente-nonviolento-di.html

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