giovedì 8 dicembre 2011

Ospitalità e Beni Comuni - Il Mondo Nuovo post-capitalista






Ovunque tu sarai, lì sarà la mia casa
Lo straniero che venne dal mare (1997)

Lo straniero è un po' imbarazzante, su questo non ci piove. Non appartiene alla comunità, eppure ha dei bisogni: a che titolo soddisfarli? D'altronde, come si può ignorarlo o lasciarlo sulla strada senza avvertire un senso di obbligazione? L'ospite è una persona clamorosamente "fuori luogo", che occorre in qualche modo collocare all’interno della comunità, seppure in maniera provvisoria. In tutte le antiche civiltà l’ospite-viaggiatore è sacro, in quanto informato sul mondo e dunque portatore di notizie interessanti, come un messaggero. […]. Tornare alla dimensione sacra dell’ospitalità? Bell’idea, ma purtroppo è anacronistica.
Duccio Canestrini, 2002

Circola un curioso aneddoto riguardo a due presunti maghi del passato, George Gurdjieff (1872 –1949) ed Aleister Crowley (1875-1947). Il secondo, un “mago nero” fa visita al primo, un “mago bianco”. Dopo cena, Gurdjieff domanda a Crowley: “Ve ne andate, Signore?”. Questi risponde di sì. “Finora siete stato mio ospite, non è così?”, incalza Gurdjieff. Crowley annuisce. “Ma se ve ne state andando, da questo momento non siete più mio ospite, non è vero?”, domanda retoricamente il primo. Il secondo conferma. “Bene, allora posso dirvi che siete un uomo sordido, siete corrotto dentro! Non osate mai più mettere piede in casa mia!”. Al di là della veridicità dell’accaduto, il significato di questo siparietto è piuttosto evidente: l’uomo saggio si sente tenuto ad ospitare anche chi non gradisce, perché l’ospitalità è la virtù precipua. Una volta terminato il rapporto che lega ospitante ed ospitato, la forma deve cadere, lasciando spazio alla sostanza. L’aspetto più curioso della questione è che questo evento si svolgeva almeno tremila anni dopo il periodo di ambientazione dell’Odissea, il poema che meglio definisce le norme di ospitalità, eleggendole a fondamento di un codice di comportamento esemplare.  
Xénos è il vocabolo greco che indicava lo straniero (il forestiero, ben distinto dal barbaros, lo straniero tout court, radicalmente altro, che poteva diventare schiavo, se catturato in battaglia) ma anche l’ospite. Xenía era l’ospitalità, che principiava con l’atto di accogliere senza domandare al forestiero di identificarsi. Lo sconosciuto era già un titolare di diritti in quanto ospite, indipendentemente da tutto il resto.
La xenía si stabiliva tra individui, gruppi di persone ed anche città e tra individui e comunità. Era un legame ereditario. Nell’Iliade, Glauco e Diomede interrompono il duello quando apprendono che i loro rispettivi padri erano legati da xenía e si scambiano dei doni. Era un’istituzione che serviva a garantire un minimo sostegno in tempi difficili. Anche i fuggitivi e gli esiliati potevano ricevere ospitalità. Il rapporto sottostava a regole ben precise: non si rifiuta l’offerta dell’ospitalità, non si insulta chi ti ospita, non si pretende e non ci si prende ciò che non viene offerto. Dall’altra parte si era tenuti a non insultare l’ospitante, si doveva proteggerlo e tutelarne l’onorabilità e si deve cercare di essere il più ospitali possibili, anche se l’ospite è inatteso o giunge in un momento inopportuno. Anche nei confronti di un forestiero sconosciuto era disonorevole rifiutarsi di assisterlo, se in precedenza si era stabilito un patto di xenia tra comunità. Oltre a Zeus, l’altro nume tutelare dell’ospitalità era Hestia (Vesta), una delle tante forme della Dea Madre che, unica tra gli dèi olimpici, non prendeva mai parte a dispute o guerre e, come Atena, resisteva alla profferte amorose di dèi e titani. La più caritatevole e integerrima tra gli dèi olimpici, è la dea del focolare domestico e protegge i fuggitivi. Rappresenta la sicurezza personale, la felicità ed il sacro dovere dell’ospitalità. Il simbolo della Grande Dea era un cumulo di braci ardenti coperto di cenere bianca, che poi divenne l’omphalos, il centro del mondo. I suoi colori: il bianco, il nero e il rosso.
Per essere un buon greco non si doveva insultare l’ospite, si era tenuti a proteggerlo, a tutelarne l’onorabilità e ci si doveva sforzare di essere il più ospitali possibili, anche se l’ospite era inatteso o giungeva in un momento inopportuno. Nell’Alcesti di Euripide (438 a.C.) Ercole arriva improvvisamente alla dimora di Admeto che sta preparando i riti funebri per la moglie; Admeto lo accoglie e, per non imbarazzarlo, finge che si tratti del funerale di una cameriera. Come in Giappone, l’ospite riceve vesti, cibo, bevande, lo si lava, gli si offre la possibilità di essere trasportato fino alla successiva destinazione e gli si offre un dono. Eumeo, servo di Odisseo, il più fedele tra i suoi servi, si merita l'appellativo di "divino porcaro" per aver accolto con tutti gli onori Ulisse, travestito da mendicante e reso irriconoscibile da Atena. Eumeo, pur povero, offre al mendicante cibo e pernottamento e si spoglia del suo mantello per coprirlo. Ben diverso il comportamento di Polifemo ("colui che parla molto”) è un mostro perché si mangia gli ospiti e, come dono di ospitalità, promette beffardamente a Ulisse che lo mangerà per ultimo. Odisseo lo ammonisce: arrecare offesa agli ospiti è peccato e Zeus, che protegge i forestieri, lo punirà. Allo stesso modo il titano Tantalo è punito da Zeus (che secondo alcune fonti era suo padre) perché il suo titanismo lo porta a violare le regole dell'ospitalità nei confronti degli dèi, come per l'appunto fecero Adamo ed Eva, tosto cacciati dal Paradiso Terrestre che li ospitava. Xenia è il principio cardine di entrambi i poemi omerici. La Guerra di Troia è scatenata dalla violazione delle norme di ospitalità quando Paride rapisce la moglie del suo anfitrione, Menelao. Telemaco, in cerca del padre, gode dell’ospitalità dei suoi compagni d’arme, Nestore e Menelao e, nel farlo, si crea un nome, una sua personalità, uno status, una rete di alleanze, si prepara a diventare re, com’era nelle intenzioni di Atena, che per questo non lo informa del fatto che suo padre è vivo e sta per tornare. Mentre Polifemo è il peggiore degli ospiti, i Feaci sono impeccabili e infatti sono descritti come il popolo più prossimo agli dèi. La vista di un mendicante non li turba, gli prestano un immediato, premuroso soccorso. Un elemento di un certo rilievo è il legame di parentela tra i Feaci ed i Ciclopi, figli di Poseidone nonché geograficamente confinanti. Il che indica che per la mentalità greca non sono il sangue o la prossimità a determinare l’evoluzione sociale. Aprendo una parentesi, in fondo la Shoah potrebbe essere vista come un estremo oltraggio alle leggi dell’ospitalità, come Polifemo che divora gli ospiti. La distruzione della Germania e la letterale decimazione della popolazione tedesca sarebbero la necessaria e giusta punizione.

Pietro Citati definisce l’Odissea un libro misterioso, con significati esoterici occultati da Omero (Citati, 2002). Quel che è certo è che contiene verità eterne, non meno essenziali di quelle che ravvisiamo in Dante o Shakespeare. Xenia è l’epitome dell’etica omerica. Non esiste alcun diritto internazionale, quindi i rapporti tra estranei devono essere regolati da obblighi consacrati. Il ritorno di Odisseo da Troia è una lezione su come si mantiene l’equilibrio all’intersezione tra il piano terrestre e quello celeste, o divino. Per la gioia di Simone Weil, non ci sono leggi e diritti umani, ma buone pratiche. Xenia allenta le tensioni tra le polarità e le rivalità tra casate. In Omero nessuno ha diritti in quanto umano ma solo in virtù delle sue relazioni, della sua rete di rapporti e di obblighi reciproci, che garantiscono assistenza e quindi la possibilità di sopravvivere. Al di fuori di questo circolo c’era un mondo indifferente o ostile. Dunque non si rende un servizio al prossimo senza un secondo fine, unicamente per promuovere gli interessi quest’ultimo (philein). Non vi è autentico altruismo, una virtù davvero rara nei rapporti umani, viziati dalle meccaniche egotistiche della nostra corporeità. Non ci si pone al servizio dell’altro disinteressatamente: nel farlo si accumulano comunque dei "crediti”: onore, gloria, buon nome utile nelle proprie attività professionali e il diritto ad essere ricambiati. E tuttavia appare come un passo in avanti rispetto all'odierna, ossessiva monetarizzazione delle attività umane.
L’hybris è l’opposto di xenia e può significare l’arrecare un danno o un disonore ad un altro per puro piacere personale. Come Crono che divora i figli, o Procuste, il locandiere che restringe o allunga i suoi ospiti per adattarli al letto. Analogamente, Polifemo ed i Proci non hanno la benché minima idea di cosa sia un obbligo di reciprocità, quel che li diletta e li attira se lo prendono, come se tutto fosse loro dovuto. Sono i creditori della vita descritti da Eugenio Scalfari (“Creditori e debitori”, L’Espresso, 27 febbraio 2009):

"Nascere creditore significa ritenere che tutto il buono che ci capita nella vita ci sia dovuto; se ci viene negato o impedito subiamo un torto per il quale la sorte e i nostri simili ci dovranno risarcire. Non è chiaro quale sia il motivo del nostro essere in credito, spesso ce lo inventiamo senza esser consapevoli dell'inesistenza di questo credito immaginario, ma non importa: siamo arciconvinti d’essere in credito verso la vita e quindi verso tutte le persone con le quali entriamo in contatto e tanto basta".

I Proci sono frivoli, avidi, bramosi, “incarnano il Male Assoluto, come poteva immaginarlo un greco del settimo secolo” (Citati, 2002) – traviati e degradati, empi, non rispettano ospiti e mendicanti, non pongono attenzione ai segni dei tempi, agli ammonimenti divini, credono solo in ciò che possono vedere e toccare. Sono affetti da hybris, appunto: arroganti, tracotanti, violenti, prepotenti, smodati, privi di contegno, insozzano la casa che li ospita, nessuno di loro può essere innocente. Offendono Temi, la legge di natura, la legge della convivenza, il principio del reciproco rispetto. Per loro è naturale infrangere il patto di xenia, come lo è per gli abitanti di Sodoma. Gli angeli assaliti sono forestieri, stranieri e Sodoma viene rasa al suolo per questo. Gesù, memore di questo precedente, informa gli apostoli che se una città sarà inospitale nei loro confronti subirà un trattamento peggiore di Sodoma. Al contrario, la lavanda dei piedi è un segno di ospitalità e di umiltà, di servizio. I Samaritani si dimostrano buoni ospiti. Alla fine dei tempi, chi seguirà il loro esempio sarà salvato e dimorerà nel Paradiso Riconquistato (Matteo 25: 34-46):

"Venite, voi, i benedetti del Padre mio; ereditate il regno che v’è stato preparato sin dalla fondazione del mondo. Perché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere; fui forestiere, e m’accoglieste; fui ignudo, e mi rivestiste; fui infermo, e mi visitaste; fui in prigione, e veniste a trovarmi". Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai t’abbiam veduto aver fame e t’abbiam dato da mangiare? o aver sete e t’abbiam dato da bere? Quando mai t’abbiam veduto forestiere e t’abbiamo accolto? o ignudo e t’abbiam rivestito?  Quando mai t’abbiam veduto infermo o in prigione e siam venuti a trovarti? E il Re, rispondendo, dirà loro: In verità vi dico che in quanto l’avete fatto ad uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me. Allora dirà anche a coloro della sinistra: Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato pel diavolo e per i suoi angeli! Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui forestiere e non m’accoglieste; ignudo, e non mi rivestiste; infermo ed in prigione, e non mi visitaste. Allora anche questi gli risponderanno, dicendo: Signore, quando t’abbiam veduto aver fame, o sete, o esser forestiero, o ignudo, o infermo, o in prigione, e non t’abbiamo assistito? Allora risponderà loro, dicendo: In verità vi dico che in quanto non l’avete fatto ad uno di questi minimi, non l’avete fatto neppure a me. E questi se ne andranno a punizione eterna; ma i giusti a vita eterna".

Questo ammonimento di Gesù il Cristo si pone in armoniosa consequenzialità con il concetto di theoxenia, l'idea greca che ogni forestiero ospitato potrebbe essere un dio in forma umana e va quindi trattato con il massimo rispetto e la massima sollecitudine. Non solo greca. Un proverbio russo recita: Gost doma, Bog doma, “ospite in casa, Dio in casa”. Nelle fiabe russe persino la terribile strega antropofaga Baba Jaga deve inchinarsi ai doveri dell’ospitalità: “dammi prima da bere e da mangiare e poi fai le tue richieste”. Cosa significa che il divino può assumere l’aspetto dello straniero o del mendicante? Forestieri, girovaghi, profughi, senzatetto e mendicanti sono alla mercé degli altri. Se sprovvisti di denaro la loro sopravvivenza non dipende più da loro stessi ma dall’atteggiamento altrui. Continuano ad esistere per un accidente del caso, o per la generosità della natura e di chi incontrano. L’ospitalità è un perfezionamento della natura voluto dallo spirito empatico umano e il riconoscimento della condivisione di una natura e condizione comune. Che l’ospite potrebbe essere un dio travestito ci ricorda del potenziale inespresso ed imprevedibile di ciascuna persona che incontriamo, non solo chi ci è caro. L’ospitalità rende esplicita l’importanza di sentirsi a casa, ma anche l’insufficienza del sentirsi a casa, perché ciascuno di noi è vulnerabile, precario, dipendente dal prossimo, anche quando non è un familiare. Nutrire se stessi è necessario, nutrire gli altri è facoltativo. Chi ospita si eleva al di sopra delle necessità, di “come va il mondo”, nobilitandosi nel farlo (Kass, 1999).
Polifemo è l’anti-ospitante perché gli ospiti se li divora. I ciclopi sono ostili verso gli stranieri, non fanno gruppo se non quando è necessario, si affezionano solo ai loro animali ed alle loro proprietà. Gli ospiti sono cibo, perché i ciclopi, come i titani, riconoscono solo un ordine fatto a loro misura, modulato secondo le proprie predilezioni. L’altro è sempre e solo uno strumento, privo di dignità, dotato solo di un valore strumentale, non intrinseco. Finché serve lo adopero, poi lo consumo, come gli Ebrei nei lager. Non sono capaci di esaminare il mondo dal punto di vista altrui e quindi la loro comprensione della realtà è estremamente deficitaria: non a caso possiedono solo un occhio. Sono dei tiranni: per loro tutto è appropriabile, tutto gli spetta, tutto deve piegarsi ai loro capricci ed esigenze, ai loro implacabili appetiti perché sono la misura di tutte le cose, nessuno è più forte di loro; o almeno è quel che credono. In realtà vivono in una perpetua contraddizione con la verità della loro condizione.
L’ospitalità non è figlia di un contratto, è un modo di stare al mondo, di rapportarsi agli altri, di porsi nei confronti della natura, del pianeta che ci ospita, l'atteggiamento di chi lascia socchiuse le porte perché sa di non potercela fare da solo, sa di avere bisogno degli altri. Questa è la corretta lettura del concetto di identità, che non è autoreferenziato (Cacciari, 2003, p. 109):

"Ogni identità è un prodotto, non un dato da cui partire. È la concezione ingenua, l’opinio cmmunis, che pensa di partire dall'identità – Io sono Io – per poi entrare in relazione con l’altro. Non occorre un pensiero abissale per capire che l’identità è il prodotto di un processo attraverso cui io giungo a riconoscere e produrre la mia identità. Ma questo significa che io posso produrre la mia identità soltanto in relazione, che originaria per la mia identità è la relazione con l’altro, che l’originario è la relazione".

Riguardo al modo di interpretare il proprio ruolo nel mondo i cristiani, in particolare, sono chiamati ad essere paroikoi, “stranieri residenti”, “stranieri nella terra ove risiedono”, spaesati nel loro paese, in quanto cittadini del cielo residenti in terra. Come i buddhisti, non possono avere radici.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Matteo 10, 40). Ma se sono tutti ospiti, allora nessuno è un ospitante: sono tutti pellegrini che affrontano la loro Odissea. Il nomadismo è però la vera condizione umana (Lettera agli Ebrei, 11: 13-16):

"Dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste".

Sempre secondo Paolo: “La nostra patria invece è nei cieli” (Fil 3,20). Nel logion 47 del Vangelo di Tommaso leggiamo che “Gesù disse: Siate viandanti”. Nella Lettera a Diogneto si legge:

"I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per costumi. Non abitano città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita… Ma, pur vivendo in città greche o barbare – come a ciascuno è toccato – e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l'esempio di una vita sociale mirabile, o meglio – come tutti dicono – paradossale. Abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri; ogni nazione è la loro patria, e ogni patria è una nazione straniera… Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo… Per dire tutto in breve: i cristiani sono nel mondo ciò che l'anima è nel corpo. L'anima è diffusa in tutte le membra; e i cristiani abitano in tutte le città della terra. L'anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; e i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo".

Il Vangelo secondo Giovanni chiarisce che i cristiani “sono nel mondo” (17,11), ma “non sono del mondo” (17,14).
Adriana Destro e Mauro Pesce, nello splendido “L'uomo Gesù: giorni, luoghi, incontri di una vita” individuano una caratteristica distintiva del messaggio di Gesù il Cristo, il quale sceglie di dipendere dall’ospitalità altrui. Si fa precedere da due apostoli nei luoghi in cui cerca ospitalità, non permette che nessuno dei villaggi visitati divenga una sede stabile, cammina incessantemente per entrare in contatto con la gente, con persone nuove, conduce un’esistenza incerta e precaria, all’insegna di un’identità molto labile, flessibile, come quella dei nomadi. La sua casa è interiore, la sua famiglia è chi lo accompagna, una famiglia itinerante (Destro/Pesce, 2008, p. 156):

"Gesù percepisce la realtà che ha di fronte come fortemente fratturata e divisa tra città e villaggi di campagna, tra ricchi e poveri, tra affamati e sazi, tra malati e sani, violenti e miti, donne e uomini, giudei e non giudei. Vuole rompere questo meccanismo di divisione. Preme sulle case per modificare e annullare la distanza. Vuole permettere una pacificazione tra le parti a un livello diverso e con forme aggregative diverse che ritiene in grado di sanare la contraddizione. L’ospitalità diventa così il simbolo del suo progetto. È uno stile di vita che deve essere praticato in modo che la casa non sia più il luogo di sanzione della disparità sociale, dell’alleanza tra potenti e ricchi e della dipendenza dei poveri, ma divenga al contrario il luogo dell’inclusione degli esclusi e della partecipazione comune al mondo rinnovato".

Umberto Curi, storico e filosofo all’Università di Padova e Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica all’Università di Pisa, ci aiutano ad introdurre la dimensione politica del principio di ospitalità (Curi, 2010; Pievatolo, 2011) che si esplicita nella contrapposizione tra Kant e Rousseau.
Kant corrobora la classica convezione greca secondo cui una nazione è giudicata dagli dèi in base al modo in cui tratta gli stranieri. Per Kant ospitalità e pace sono complementari. Uno stato di pace non è la condizione naturale dell'uomo, naturale è invece uno stato di costante minaccia. La pace è perciò un artificio, un atto contro natura, di cui l'uomo è peraltro capace. Kant è dunque hobbesiano. Non crede che gli esseri umani siano naturalmente buoni e pacifici e che sia la civiltà a corromperli. Li considera perennemente antagonistici e prevaricatori, se non ostili. Lo Stato è quello strumento che dovrebbe temperare questo antagonismo e cercare di fare in modo che l’intera comunità ne tragga beneficio, tramite un conflitto ben gestito, che può essere fecondo, a differenza di quella che chiama la “pax perpetua”, la pace dei sensi e la pace eterna dei cimiteri, che è poi la pace totalitaria. Kant è un realista: si consegue la pace facendo leva sulla valorizzazione dell’istinto di conservazione che accomuna tutti gli individui. Nei rapporti tra le nazioni Kant immagina una confederazione repubblicana di liberi stati che scongiuri le guerre ed una polizia planetaria sul modello delle polizie nazionali. Un’idea che piaceva a Norberto Bobbio (Kant, 1795/2005).
Poi immagina che un diritto cosmopolitico fondato su un principio cardine, quello, appunto, dell’ospitalità universale (non privato, ma pubblico): “il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come nemico a causa del suo arrivo nella terra di un altro”. Questo perché: “originariamente nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra”. Anche per Kant siamo solo di passaggio su questo pianeta, la cui superficie sferica e finita fa sì che non si possa evitare di incontrarsi. Le nostre nascite sono del tutto accidentali, per quanto ne sappiamo. Siamo nati in un certo luogo piuttosto che in un altro e ciò non ci dà alcun diritto di reclamare un’area come nostra. La nascita non dipende da una libera scelta del nascituro e quindi non è un atto giuridico. Per lo stesso principio nessuno può rivendicare alcun titolo preferenziale a risiedere in un dato luogo piuttosto che in un altro. Se è vero, come è vero, che nessuno ha più diritto di un altro di essere titolare di una porzione di questo pianeta, poiché siamo tutti viaggiatori, allora la condizione originale dell’uomo e delle sue interazioni è una relazione aperta, di condivisione, che respinge ogni pretesa di esclusività. Il risiedere in un luogo, la delimitazione del proprio rifugio, santuario, riparo, non assegna alcun diritto di possesso. La superficie della terra e le sue risorse appartengono a tutti e a nessuno e non è pertanto  inquadrabile nella logica del diritto d’uso esclusivo e me che meno della proprietà privata. Non esiste una terra promessa ed un popolo eletto destinato a dimorarvi. Lo straniero per Kant è ospite e lo si allontana solo se crea problemi, ma non se ciò comporta la sua rovina. L’Antico Testamento parla chiaro: “Se, mietendo il tuo campo, vi avrai dimenticato qualche covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova” (Deuteronomio 24:19); “il Signore protegge i forestieri, sostenta l’orfano e la vedova, ma sconvolge la via degli empi” (Salmi 146:9). Kant parla di diritto alla visita, alla mobilità, in nome della socievolezza e del destino comune (siamo su una stessa barca e non è grande): “diritto di possesso comune della superficie della terra”. Esclude il possesso esclusivo. “l’inospitalità è contraria al diritto naturale”. Per questo il diritto cosmopolitico non è una “rappresentazione di menti esaltate”. L’evidenza del fatto che la superficie terrestre è un possesso comunitario di tutti gli esseri umani – con tutti i diritti fondamentali che ne conseguono – è rimasta un’ovvietà per la quasi interezza della storia umana non lo era per gli europei, che massacrarono i nativi americani proprio in virtù di un diritto proprietario e di sfruttamento delle risorse antitetico a quello indigeno. Gustavo Zagrebelsky ribadisce che dovrebbe ritornare ad essere un’ovvietà (Mauro/Zagrebelsky, 2011, pp. 101-102):

"L’idea dell’essere umano come animale stanziale, un animale che, come altri, ha il suo territorio e lo difende dalle intromissioni, deve essere un’idea del profondo…La terra, questa “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par., XXII, 151) l’abbiamo divisa in tante parti e ce ne siamo impossessati, popolo per popolo, come cosa nostra, e ci pare normale, naturale, l’idea di straniero, di colui che passa o tenta di passare da un’aiuola all’altra turbando le sicurezze che riponiamo “in casa nostra”. Quante volte abbiamo sentito ripetere anche da noi, come se fosse ovvia e innocente, questa espressione!"

Kant simpatizza per una posizione analoga a quella dei nativi americani ed invoca il diritto di asilo di visita e di asilo, non certo il diritto di imporre con la forza la propria volontà alle altre nazioni, come facevano le potenze coloniali. L’ospitalità universale diventa uno dei pilastri imprescindibili per il conseguimento della pace perpetua, la “comunanza tra i popoli della Terra”, in un’epoca, la sua, in cui il pianeta si va già globalizzando, tanto che: “si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti”. Di qui la denuncia, attualissima, delle atrocità coloniali:

"Se si paragona con questo la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l'ingiustizia ch'essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che è per essi sinonimo di conquistarli). L'America, i paesi dei negri, le Isole delle spezie, il Capo di buona speranza ecc., all'atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi calcolo alcuno degli indigeni. Nell'India orientale, con il pretesto di stabilire stazioni commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne l'oppressione degli indigeni, l'incitamento dei diversi Stati del paese a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono affliggere l’umanità".

L’altro pilastro dovrà perciò essere la sovranità del popolo su questioni essenziali come le dichiarazioni di guerra –  “il popolo, che ne fa le spese, abbia il voto di decidere se la guerra deve o non deve farsi” – e sull’opportunità di aderire ad uno stato federale universale come quello descritto da Jacques Attali – “entrare in una costituzione cosmopolitica, o, siccome un tale stato di pace universale (come è avvenuto più volte tra gli Stati assai grandi) è per un altro aspetto ancora pericoloso per la libertà, potendo originare il più orribile dispotismo, questa necessità dovrà portarli non a una comunità cosmopolitica sotto un unico sovrano, ma a una condizione giuridica di federazione sulla base di un diritto internazionale stabilito in comune” (Kant, Gemeinspruch, cf. Marini, 2007). Solo in una tale cornice giuridica, a parere del filosofo di Königsberg, “le disposizioni naturali dell’umanità possono trovare sviluppo, così da rendere la nostra specie degna di amore» (ibidem). Chi si opporrà, o non farà parte del futuro, o lo farà suo malgrado perché, citando Seneca, “i decreti del destino guidano chi è consenziente, e trascinano chi non lo è”.

SINTESI
Linguisticamente, la radice di ospitare è “hostire”, che significa “parificare”, cioè compensare, rendere giustizia e proteggere.
L’ospitalità è un segno di umanità e civiltà. Ulisse si domanda se incontrerà dei bruti e dei selvaggi o degli uomini ospitali. L’ospitalità è una forma di ominizzazione. Ma c’è una certa dose di ambivalenza, in quanto sussiste la minaccia del parassitismo e dell’intrusione. L’ospitalità deve mantenere l’estraneità del forestiero che non deve mai sentirsi a casa sua. Si mantiene una certa distanza per tutelare l’identità, singolarità, originalità, specificità dell’ospite (ma può diventare un alibi per la segregazione, per una bolla-ghetto in cui l’altro non sarà mai amico, ma solo ospite). 
L’integrazione nel senso di appropriazione dell’altro e trasformazione in se stesso, è una forma di violenza (che può essere accettata dall’ospite, ma rimane tale). Serve il rispetto dell’alterità in quanto tale, senza esigere la sottomissione al mio volere. L’ospitalità è il giusto mezzo tra rifiuto ed assorbimento. L’ospite è sinonimo di temporaneo, transitorio, effimero. La vera ospitalità deve superare la violenza intrinseca all’ospitalità, che risiede nella dipendenza dall’altro, interiorizzata e che nasce con il concetto di proprietà. Senza proprietà non c’è bisogno di chiedere una condivisione, o di offrirla. Dunque il dono dell’ospitalità è il riconoscimento di una comunione originale dei beni. Ciò che appartiene all’uno appartiene anche all’altro. C’è un legame occulto, ma vibrante, tra il tuo e il mio, me e te. È il fatto di essere ospiti di questo pianeta. Ad indicare non solo la provvisorietà del nostro percorso nomadico, di esseri votati alla scomparsa, ma anche la generosità del pianeta, della Madre Terra che non concepisce l’idea del diritto del primo occupante. Non è pietà ma rispetto e devozione per l’ospite, nel quale riconosco l’estraneità che alberga in me stesso. Da lì si passa alla fratellanza, il terzo termine della triade rivoluzionaria francese. Si coniugano  esterno ed interno, sedentario e nomade, ego e l’altro, Vesta/Hestia e Mercurio/Hermes, in un’armoniosa coincidentia oppositorum.

Di conseguenza l’ospitalità precede, fonda ed orienta il diritto, non ne è un corollario
Vampiri, orchi e cannibali rimandano all’idea di un’ospitalità eccessiva e del parassitismo dell’ospitato, mentre il capro espiatorio è il membro deforme o malato della tribù che annualmente viene bandito o sacrificato per portare via con sé i malanni della comunità. Non è più un ospite gradito ma può ancora rendersi utile.

Fonte: Alain Montandon (a cura di), "Le Livre de l'hospitalite: accueil de l'etranger dans l'histoire et les cultures". Paris: Bayard. 2004.

Per approfondire: 

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ringrazio l'autore per i bellissimi articoli che si trovano in questo blog, che ritengo illuminante.