sabato 21 gennaio 2012

Maria Chiara Pievatolo, i Beni Comuni, il Mondo Nuovo






La moralità dell'uomo politico consiste nell'esercitare il potere che gli è stato affidato, al fine di perseguire il bene comune. Non c'è un solo cittadino italiano che non sia fiero di essere stato rappresentato nel nostro Paese e nel mondo da un Uomo che ha interpretato il diritto degli uomini come cosa sacra, sia nell'esercizio del suo incarico istituzionale che sotto il dominio fascista.
Norberto Bobbio su Sandro Pertini

Consentire al governo in carica di vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica è, sul piano costituzionale, tanto irresponsabile quando lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l’argenteria migliore per sopperire alla sua necessità di andare in vacanza. Purtroppo, l’assuefazione alla logica del potere della maggioranza, tipica della modernità, ci ha fatto perdere consapevolezza del fatto che il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano, e non viceversa. […]. Il modello di soggetto avido e bulimico descrive assai accuratamente i comportamenti delle due più importanti istituzioni che popolano il nostro mondo. Tanto la moderna società per azioni quanto il moderno Stato sovrano, infatti, tendono a comportarsi rispetto ai beni comuni esattamente come l’avido invitato al buffet: essi mirano sistematicamente alla massima acquisizione quantitativa di risorse a spese di altri. Questi soggetti, motivati rispettivamente dall’interesse degli azionisti (e dei manager) e da quello nazionale (e dei leader politici), pongono in essere comportamenti miopi ed egoistici, dalle conseguenze catastrofiche per tutti, che vanno denunciati e combattuti, nell’interesse della stessa conservazione di un pianeta vivo. Per farlo occorre innanzitutto sfidare la spessa coltre ideologica che li sostiene.
Ugo Mattei, “Beni comuni: un manifesto”, Roma; Bari: Laterza, 2011.

Un pubblico non può essere illuminato che lentamente. Una rivoluzione potrà produrre la fine di un despotismo personale e d'una oppressione cupida e dispotica; ma nuovi pregiudizi serviranno, come gli antichi, a dirigere ciecamente la grande moltitudine che non pensa. Per questa illuminazione non s'esige tuttavia altro che libertà e invero la più innocente di tutte le libertà: quella di fare pubblicamente uso del proprio intelletto in tutti i punti.
Immanuel Kant, “Che cos’è l'illuminismo?”

I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell´interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell´umanità". Un bene come l´acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. […]. I beni comuni ci parlano dell´irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica. […]. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell´estrema individualizzazione degli interessi, s´incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell´uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell´eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell´accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d´ogni persona.
Stefano Rodotà, “Se il mondo perde il senso del bene comune”, Repubblica, 10 agosto 2010.

Io sono uno di quelli che si fanno confutare con piacere, se non dice la verità, ma che con piacere confutano se qualcun altro non dice il vero, e anzi mi lascio confutare con un piacere non minore di quello che provo confutando. Infatti ritengo che essere confutato sia un bene maggiore, tanto maggiore quanto lo è essere liberati dal male piuttosto che liberarne altri. Perché io penso che per l’essere umano non ci sia un male paragonabile a un’opinione falsa su ciò di cui ora verte il discorso.
Socrate – Platone, “Gorgia”, 458a-b

Che cosa sono i beni comuni e perché saranno la spina dorsale del Mondo Nuovo (o almeno di quello non-totalitario)?
Ce lo spiega Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica dell’Università di Pisa.

“Secondo Vandana Shiva, il tentativo di estensione globale del sistema dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale vigente negli Stati Uniti può essere visto come l'estensione del colonialismo al mondo delle idee. Nel 1493 papa Alessandro VI, nella sua funzione di arbitro fra spagnoli e portoghesi, assegnò ai Re Cattolici, con la bolla Inter Caetera, tutte le terre al di là di una linea di demarcazione posta cento miglia ad ovest delle Azzorre. In questo modo l'usurpazione coloniale venne trasformata in volere divino, sulla base del presupposto che le popolazioni delle terre così arbitrariamente assegnate fossero riducibili alla stregua di natura priva di ogni forma di umanità e libertà. La pretesa di appropriarsi del codice genetico tramite brevetti e diritti di sfruttamento esclusivi si basa su una logica analoga: tutto ciò che non è stato sottoposto al regime eurocentrico della proprietà privata - per esempio perché è stato da sempre patrimonio collettivo di una cultura tradizionale - può essere liberamente privatizzato. Vandana Shiva chiama questa processo di recinzione dei territori comuni del mondo delle idee biopirateria e si propone di combatterla per salvaguardare la diversità culturale e biologica”.
Maria Chiara Pievatolo

“Secondo Lessig, ci sono buone ragioni per mantenere alcuni tipi di beni in un regime di commons. Il carattere collettivo si addice in modo paradigmatico alle entità del mondo delle idee. Lo scrisse molto chiaramente Jefferson, in armonia con la tradizione dell'Illuminismo, in una lettera a Isaac MacPherson del 13 agosto 1813: le idee sono di proprietà esclusiva di chi le ha pensate solo finché non le rivela in pubblico. Ma, una volta rese pubbliche, possono essere possedute da tutti, senza privare di nulla il loro primo autore. «Chi riceve un idea da me, riceve egli stesso istruzione senza diminuire la mia; come chi accende il suo lume al mio riceve luce senza oscurare me.» Per questo, le idee devono diffondersi liberamente nel mondo, per istruire e migliorare gli uomini, e le invenzioni non possono essere soggette a proprietà privata”.
Maria Chiara Pievatolo

“Gli economisti, sui commons, sono riusciti a comporre una tragedia. Nel 1968 Garret Hardin scrisse che una risorsa che può essere usata liberamente da tutti ha come effetto collaterale che i costi derivanti dall'uso di ciascuno si scaricheranno su tutti gli altri. Se posso portare le mie bestie al pascolo sul prato comune, rispetto alla mia utilità individuale è per me razionale cercare di sfruttarlo il più possibile, perché è gratis; ma in questo modo esaurisco il pascolo stesso, a danno di tutti gli altri. A chi viaggia piace trovare la strada libera; ma se tutti la usano contemporaneamente, perché è gratis, viaggiare diventa impossibile. Ecco la tragedia dei commons: i beni comuni, in quanto vengono usati in comune, tendono a venir sfruttati fino all'esaurimento. Tendono, cioè, se rimangono comuni, a cessare di essere beni. Solo gli autori di utopie possono rimpiangere i commons, immaginandoli come verdeggianti. Per gli economisti, le recinzioni sono una necessità inevitabile. […]. Una strada o un pascolo sono commons competitivi, perché un loro uso incontrollato li deteriora e li impoverisce. Non bisogna fare l'errore di confondere i pascoli di erba con i pascoli delle idee: le idee, a differenza dell'erba, crescono se vengono condivise, e il loro valore aumenta, perché la condivisione dà loro la possibilità di svilupparsi e di migliorarsi. Infine, niente ci autorizza a credere, in generale, che se un bene è pubblico sia impossibile vincolarlo a regole d'uso”.
Maria Chiara Pievatolo, Il pirata di Koenigsberg, "Linux Magazine", 13 novembre 2004

“Avevo commesso l'errore di dare per scontato, nello spirito del capitalismo, che l'unico motore che ci spinge a imparare e a creare sia il desiderio di guadagno. Platone non ragionava così: per gli antichi, le cose veramente importanti erano quelle che si fanno per scelta, liberamente e gratuitamente, al di là della necessità economica. Per loro, chi si dedicava solo ai suoi interessi economici, pur avendo già quanto bastava per vivere, era semplicemente un idiotes. Idiotes, in greco, significa "privato", ma vuol dire anche "deficiente": una persona, cioè, cui manca qualcosa di importante. Per gli antichi, in altre parole, chi continuava a lavorare per fare soldi, senza averne bisogno, era semplicemente uno scemo - uno sprovveduto che non sapeva che cosa fare della propria libertà. Gli antichi si sarebbero, piuttosto, stupiti del nostro stupore: gli hacker usano, da uomini liberi, il proprio tempo per discutere e creare cose che hanno valore di per se stesse. Perché vivere come schiavi, senza esserne obbligati? Perché credere che chi è costretto dalla necessità economica produca cose migliori di chi lo fa liberamente? Nel mondo antico, la libertà del sapere era un ideale aristocratico, riservato a pochissimi: ma molte rivoluzioni efficaci derivano, storicamente, dalla democratizzazione di ideali aristocratici. Gandhi riuscì a convincere milioni di indiani a praticare la non-violenza, per liberarsi dagli inglesi, anche perché la non-violenza era, in India, un ideale aristocratico originariamente riservato alla casta superiore, che lasciava ad altri l'onere di sporcarsi le mani col sangue”.

“Kant si chiedeva se era inevitabile privatizzare le idee per renderle pubbliche nei libri. Come Richard Stallman, egli distingueva fra il libro come oggetto fisico e i pensieri in esso contenuti. Il libro come oggetto fisico diventa proprietà di chi lo compra. Un proprietario, se vuole riprodurre quello che ha comprato, lo può fare legittimamente. Secondo Kant, quanto si dice per i libri vale anche per altri oggetti: immagini, spartiti musicali, opere d'arte. Una volta che me li sono comprati, posso riprodurli con i miei mezzi, regalarli agli amici o anche rivenderli. E' divertente osservare che Kant, filosofo prussiano noto per il suo moralismo, sarebbe oggi considerato un paladino della pirateria”.

“Nel caso del software libero,  possiamo essere in competizione nell'offrire i nostri servizi, e nello stesso tempo collaborare al suo sviluppo. I servizi che offriamo, essendo legati al software libero, non sarebbero possibili se non partecipassimo al suo sviluppo cooperativo. Anche in questo caso, è la cooperazione a rendere possibile la competizione. Ogni quattro anni, nella Grecia antica, si sospendevano le guerre, ma non per fare la pace, bensì per celebrare un'altra competizione: alcuni ambivano all'onore di vincere le gare di Olimpia e quasi tutti desideravano assistervi. Ma questa competizione, che interessava a tutti, poteva essere soltanto l'esito di una cooperazione veramente straordinaria”.
Maria Chiara Pievatolo, “Cooperare, a Olimpia”

“Perfino in Italia esiste una tradizione di commons, nota a chi ama la montagna o il diritto: la proprietà collettiva delle Regole Trentine, che governano l'uso della roba de tuti. In tutti questi casi i proprietari non sono uno o più individui determinati, indicati con nome e cognome, ma gruppi aperti a chiunque soddisfi i requisiti per farne parte”.

“Per il diritto romano, proprio come per Richard Stallman, la proprietà privata esclusiva si giustificava solo per gli oggetti materiali, perché – a differenza delle idee - non potevano essere goduti in comune. In più, i giuristi romani riconoscevano varie forme di proprietà non esclusiva, su oggetti di diversi tipi.
Le res nullius sono le cose che non appartengono a nessuno, ma solo perché nessuno se le è ancora prese. Le res communes sono invece cose comuni perché, per la loro natura, non possono essere privatizzate: i giuristi romani adducevano come esempi l'oceano e l'atmosfera. Le res publicae sono cose che appartengono al pubblico e vengono tenute aperte al pubblico con il diritto – per esempio strade, porti, fiumi, golene, ponti. Ancor oggi, il carattere pubblico delle strade viene giustificato con l'argomento che un sistema di vie di comunicazione interamente privatizzato obbligherebbe a pagare un pedaggio ad ogni passo, strozzando non solo il commercio, ma la vita stessa di una società. Il diritto romano riconosceva inoltre delle res universitatis, che appartenevano a comunità più limitate – come i collettivi di studenti e docenti che fondarono, in epoca medioevale, le università – e delle res divini iuris, le cose che non potevano venir possedute da nessun essere umano perché sacre2.

Fonti
Mattei, Ugo, Beni comuni: un manifesto, Roma; Bari: Laterza, 2011.

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