Ovunque tu sarai, lì sarà
la mia casa
Lo straniero che venne dal
mare (1997)
Lo straniero è un po'
imbarazzante, su questo non ci piove. Non appartiene alla comunità, eppure ha
dei bisogni: a che titolo soddisfarli? D'altronde, come si può ignorarlo o
lasciarlo sulla strada senza avvertire un senso di obbligazione? L'ospite è una
persona clamorosamente "fuori luogo", che occorre in qualche modo
collocare all’interno della comunità, seppure in maniera provvisoria. In tutte
le antiche civiltà l’ospite-viaggiatore è sacro, in quanto informato sul mondo
e dunque portatore di notizie interessanti, come un messaggero. […]. Tornare
alla dimensione sacra dell’ospitalità? Bell’idea, ma purtroppo è anacronistica.
Duccio Canestrini, 2002
Circola un curioso aneddoto
riguardo a due presunti maghi del passato, George Gurdjieff (1872 –1949) ed
Aleister Crowley (1875-1947). Il secondo, un “mago nero” fa visita al primo, un
“mago bianco”. Dopo cena, Gurdjieff domanda a Crowley: “Ve ne andate,
Signore?”. Questi risponde di sì. “Finora siete stato mio ospite, non è così?”,
incalza Gurdjieff. Crowley annuisce. “Ma se ve ne state andando, da questo
momento non siete più mio ospite, non è vero?”, domanda retoricamente il primo.
Il secondo conferma. “Bene, allora posso dirvi che siete un uomo sordido,
siete corrotto dentro! Non osate mai più mettere piede in casa mia!”.
Al di là della veridicità dell’accaduto, il significato di questo siparietto è
piuttosto evidente: l’uomo saggio si sente tenuto ad ospitare anche chi non
gradisce, perché l’ospitalità è la virtù precipua. Una volta terminato il
rapporto che lega ospitante ed ospitato, la forma deve cadere, lasciando spazio
alla sostanza. L’aspetto più curioso della questione è che questo evento si
svolgeva almeno tremila anni dopo il periodo di ambientazione dell’Odissea, il
poema che meglio definisce le norme di ospitalità, eleggendole a fondamento di
un codice di comportamento esemplare.
Xénos è il vocabolo greco
che indicava lo straniero (il forestiero, ben distinto dal barbaros, lo
straniero tout court, radicalmente altro, che poteva diventare schiavo, se
catturato in battaglia) ma anche l’ospite. Xenía era l’ospitalità, che
principiava con l’atto di accogliere senza domandare al forestiero di
identificarsi. Lo sconosciuto era già un titolare di diritti in quanto ospite,
indipendentemente da tutto il resto.
La xenía si stabiliva tra
individui, gruppi di persone ed anche città e tra individui e comunità. Era un
legame ereditario. Nell’Iliade, Glauco e Diomede interrompono il duello
quando apprendono che i loro rispettivi padri erano legati da xenía e si
scambiano dei doni. Era un’istituzione che serviva a garantire un minimo
sostegno in tempi difficili. Anche i fuggitivi e gli esiliati potevano ricevere
ospitalità. Il rapporto sottostava a regole ben precise: non si rifiuta
l’offerta dell’ospitalità, non si insulta chi ti ospita, non si pretende e non
ci si prende ciò che non viene offerto. Dall’altra parte si era tenuti a non
insultare l’ospitante, si doveva proteggerlo e tutelarne l’onorabilità e si
deve cercare di essere il più ospitali possibili, anche se l’ospite è inatteso
o giunge in un momento inopportuno. Anche nei confronti di un forestiero
sconosciuto era disonorevole rifiutarsi di assisterlo, se in precedenza si era
stabilito un patto di xenia tra comunità. Oltre a Zeus, l’altro nume tutelare
dell’ospitalità era Hestia (Vesta), una delle tante forme della Dea Madre che,
unica tra gli dèi olimpici, non prendeva mai parte a dispute o guerre e, come
Atena, resisteva alla profferte amorose di dèi e titani. La più caritatevole e
integerrima tra gli dèi olimpici, è la dea del focolare domestico e protegge i
fuggitivi. Rappresenta la sicurezza personale, la felicità ed il sacro dovere
dell’ospitalità. Il simbolo della Grande Dea era un cumulo di braci ardenti
coperto di cenere bianca, che poi divenne l’omphalos, il centro del mondo. I
suoi colori: il bianco, il nero e il rosso.
Per essere un buon greco
non si doveva insultare l’ospite, si era tenuti a proteggerlo, a tutelarne
l’onorabilità e ci si doveva sforzare di essere il più ospitali possibili,
anche se l’ospite era inatteso o giungeva in un momento inopportuno.
Nell’Alcesti di Euripide (438 a.C.) Ercole arriva improvvisamente alla dimora
di Admeto che sta preparando i riti funebri per la moglie; Admeto lo accoglie
e, per non imbarazzarlo, finge che si tratti del funerale di una cameriera.
Come in Giappone, l’ospite riceve vesti, cibo, bevande, lo si lava, gli si
offre la possibilità di essere trasportato fino alla successiva destinazione e
gli si offre un dono. Eumeo, servo di Odisseo, il più fedele tra i suoi servi,
si merita l'appellativo di "divino porcaro" per aver accolto con
tutti gli onori Ulisse, travestito da mendicante e reso irriconoscibile da
Atena. Eumeo, pur povero, offre al mendicante cibo e pernottamento e si
spoglia del suo mantello per coprirlo. Ben diverso il comportamento di Polifemo
("colui che parla molto”) è un mostro perché si mangia gli ospiti e, come
dono di ospitalità, promette beffardamente a Ulisse che lo mangerà per ultimo.
Odisseo lo ammonisce: arrecare offesa agli ospiti è peccato e Zeus, che
protegge i forestieri, lo punirà. Allo stesso modo il titano Tantalo è punito
da Zeus (che secondo alcune fonti era suo padre) perché il suo titanismo lo
porta a violare le regole dell'ospitalità nei confronti degli dèi, come per
l'appunto fecero Adamo ed Eva, tosto cacciati dal Paradiso Terrestre che li
ospitava. Xenia è il principio cardine di entrambi i poemi omerici. La Guerra
di Troia è scatenata dalla violazione delle norme di ospitalità quando Paride
rapisce la moglie del suo anfitrione, Menelao. Telemaco, in cerca del padre,
gode dell’ospitalità dei suoi compagni d’arme, Nestore e Menelao e, nel farlo,
si crea un nome, una sua personalità, uno status, una rete di alleanze, si
prepara a diventare re, com’era nelle intenzioni di Atena, che per questo non
lo informa del fatto che suo padre è vivo e sta per tornare. Mentre Polifemo è
il peggiore degli ospiti, i Feaci sono impeccabili e infatti sono descritti
come il popolo più prossimo agli dèi. La vista di un mendicante non li turba,
gli prestano un immediato, premuroso soccorso. Un elemento di un certo rilievo
è il legame di parentela tra i Feaci ed i Ciclopi, figli di Poseidone nonché
geograficamente confinanti. Il che indica che per la mentalità greca non sono
il sangue o la prossimità a determinare l’evoluzione sociale. Aprendo una
parentesi, in fondo la Shoah potrebbe essere vista come un estremo
oltraggio alle leggi dell’ospitalità, come Polifemo che divora gli ospiti. La
distruzione della Germania e la letterale decimazione della popolazione tedesca
sarebbero la necessaria e giusta punizione.
Pietro Citati definisce
l’Odissea un libro misterioso, con significati esoterici occultati da Omero
(Citati, 2002). Quel che è certo è che contiene verità eterne, non meno
essenziali di quelle che ravvisiamo in Dante o Shakespeare. Xenia è l’epitome
dell’etica omerica. Non esiste alcun diritto internazionale, quindi i rapporti
tra estranei devono essere regolati da obblighi consacrati. Il ritorno di
Odisseo da Troia è una lezione su come si mantiene l’equilibrio
all’intersezione tra il piano terrestre e quello celeste, o divino. Per la
gioia di Simone Weil, non ci sono leggi e diritti umani, ma buone pratiche.
Xenia allenta le tensioni tra le polarità e le rivalità tra casate. In Omero
nessuno ha diritti in quanto umano ma solo in virtù delle sue relazioni, della
sua rete di rapporti e di obblighi reciproci, che garantiscono assistenza e
quindi la possibilità di sopravvivere. Al di fuori di questo circolo c’era un
mondo indifferente o ostile. Dunque non si rende un servizio al prossimo senza
un secondo fine, unicamente per promuovere gli interessi quest’ultimo (philein).
Non vi è autentico altruismo, una virtù davvero rara nei rapporti umani,
viziati dalle meccaniche egotistiche della nostra corporeità. Non ci si pone al
servizio dell’altro disinteressatamente: nel farlo si accumulano comunque dei
"crediti”: onore, gloria, buon nome utile nelle proprie attività
professionali e il diritto ad essere ricambiati. E tuttavia appare come un
passo in avanti rispetto all'odierna, ossessiva monetarizzazione delle attività
umane.
L’hybris è l’opposto
di xenia e può significare l’arrecare un danno o un disonore ad un altro
per puro piacere personale. Come Crono che divora i figli, o Procuste, il
locandiere che restringe o allunga i suoi ospiti per adattarli al letto.
Analogamente, Polifemo ed i Proci non hanno la benché minima idea di cosa sia
un obbligo di reciprocità, quel che li diletta e li attira se lo prendono, come
se tutto fosse loro dovuto. Sono i creditori della vita descritti da Eugenio
Scalfari (“Creditori e debitori”, L’Espresso, 27 febbraio 2009):
"Nascere
creditore significa ritenere che tutto il buono che ci capita nella vita ci sia
dovuto; se ci viene negato o impedito subiamo un torto per il quale la sorte e
i nostri simili ci dovranno risarcire. Non è chiaro quale sia il motivo del
nostro essere in credito, spesso ce lo inventiamo senza esser consapevoli
dell'inesistenza di questo credito immaginario, ma non importa: siamo
arciconvinti d’essere in credito verso la vita e quindi verso tutte le persone
con le quali entriamo in contatto e tanto basta".
I Proci sono frivoli,
avidi, bramosi, “incarnano il Male Assoluto, come poteva immaginarlo un greco
del settimo secolo” (Citati, 2002) – traviati e degradati, empi, non rispettano
ospiti e mendicanti, non pongono attenzione ai segni dei tempi, agli
ammonimenti divini, credono solo in ciò che possono vedere e toccare. Sono
affetti da hybris, appunto: arroganti, tracotanti, violenti, prepotenti,
smodati, privi di contegno, insozzano la casa che li ospita, nessuno di loro
può essere innocente. Offendono Temi, la legge di natura, la legge della
convivenza, il principio del reciproco rispetto. Per loro è naturale infrangere
il patto di xenia, come lo è per gli abitanti di Sodoma. Gli angeli assaliti
sono forestieri, stranieri e Sodoma viene rasa al suolo per questo. Gesù,
memore di questo precedente, informa gli apostoli che se una città sarà
inospitale nei loro confronti subirà un trattamento peggiore di Sodoma. Al
contrario, la lavanda dei piedi è un segno di ospitalità e di umiltà, di servizio.
I Samaritani si dimostrano buoni ospiti. Alla fine dei tempi, chi seguirà
il loro esempio sarà salvato e dimorerà nel Paradiso Riconquistato (Matteo 25:
34-46):
"Venite, voi, i
benedetti del Padre mio; ereditate il regno che v’è stato preparato sin dalla
fondazione del mondo. Perché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi
deste da bere; fui forestiere, e m’accoglieste; fui ignudo, e mi rivestiste;
fui infermo, e mi visitaste; fui in prigione, e veniste a trovarmi".
Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai t’abbiam veduto aver
fame e t’abbiam dato da mangiare? o aver sete e t’abbiam dato da bere? Quando
mai t’abbiam veduto forestiere e t’abbiamo accolto? o ignudo e t’abbiam
rivestito? Quando mai t’abbiam veduto infermo o in prigione e siam venuti
a trovarti? E il Re, rispondendo, dirà loro: In verità vi dico che in quanto
l’avete fatto ad uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me. Allora
dirà anche a coloro della sinistra: Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno,
preparato pel diavolo e per i suoi angeli! Perché ebbi fame e non mi deste da
mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui forestiere e non m’accoglieste;
ignudo, e non mi rivestiste; infermo ed in prigione, e non mi visitaste. Allora
anche questi gli risponderanno, dicendo: Signore, quando t’abbiam veduto aver
fame, o sete, o esser forestiero, o ignudo, o infermo, o in prigione, e non
t’abbiamo assistito? Allora risponderà loro, dicendo: In verità vi dico che in
quanto non l’avete fatto ad uno di questi minimi, non l’avete fatto neppure a
me. E questi se ne andranno a punizione eterna; ma i giusti a vita eterna".
Questo ammonimento di Gesù
il Cristo si pone in armoniosa consequenzialità con il concetto di theoxenia,
l'idea greca che ogni forestiero ospitato potrebbe essere un dio in forma umana
e va quindi trattato con il massimo rispetto e la massima sollecitudine. Non
solo greca. Un proverbio russo recita: Gost doma, Bog doma, “ospite in
casa, Dio in casa”. Nelle fiabe russe persino la terribile strega antropofaga
Baba Jaga deve inchinarsi ai doveri dell’ospitalità: “dammi prima da bere e
da mangiare e poi fai le tue richieste”. Cosa significa che il divino può
assumere l’aspetto dello straniero o del mendicante? Forestieri, girovaghi,
profughi, senzatetto e mendicanti sono alla mercé degli altri. Se sprovvisti di
denaro la loro sopravvivenza non dipende più da loro stessi ma
dall’atteggiamento altrui. Continuano ad esistere per un accidente del caso, o
per la generosità della natura e di chi incontrano. L’ospitalità è un
perfezionamento della natura voluto dallo spirito empatico umano e il
riconoscimento della condivisione di una natura e condizione comune.
Che l’ospite potrebbe essere un dio travestito ci ricorda del potenziale
inespresso ed imprevedibile di ciascuna persona che incontriamo, non solo chi
ci è caro. L’ospitalità rende esplicita l’importanza di sentirsi a casa, ma
anche l’insufficienza del sentirsi a casa, perché ciascuno di noi è
vulnerabile, precario, dipendente dal prossimo, anche quando non è un
familiare. Nutrire se stessi è necessario, nutrire gli altri è facoltativo. Chi
ospita si eleva al di sopra delle necessità, di “come va il mondo”, nobilitandosi
nel farlo (Kass, 1999).
Polifemo è l’anti-ospitante
perché gli ospiti se li divora. I ciclopi sono ostili verso gli stranieri, non
fanno gruppo se non quando è necessario, si affezionano solo ai loro animali ed
alle loro proprietà. Gli ospiti sono cibo, perché i ciclopi, come i titani,
riconoscono solo un ordine fatto a loro misura, modulato secondo le proprie
predilezioni. L’altro è sempre e solo uno strumento, privo di dignità, dotato
solo di un valore strumentale, non intrinseco. Finché serve lo adopero, poi lo
consumo, come gli Ebrei nei lager. Non sono capaci di esaminare il mondo dal
punto di vista altrui e quindi la loro comprensione della realtà è estremamente
deficitaria: non a caso possiedono solo un occhio. Sono dei tiranni: per
loro tutto è appropriabile, tutto gli spetta, tutto deve piegarsi ai loro
capricci ed esigenze, ai loro implacabili appetiti perché sono la misura di
tutte le cose, nessuno è più forte di loro; o almeno è quel che credono. In
realtà vivono in una perpetua contraddizione con la verità della loro
condizione.
L’ospitalità non è figlia
di un contratto, è un modo di stare al mondo, di rapportarsi agli altri, di
porsi nei confronti della natura, del pianeta che ci ospita, l'atteggiamento di
chi lascia socchiuse le porte perché sa di non potercela fare da solo, sa di
avere bisogno degli altri. Questa è la corretta lettura del concetto di
identità, che non è autoreferenziato (Cacciari, 2003, p. 109):
"Ogni identità è un
prodotto, non un dato da cui partire. È la concezione ingenua, l’opinio
cmmunis, che pensa di partire dall'identità – Io sono Io – per poi entrare in
relazione con l’altro. Non occorre un pensiero abissale per capire che
l’identità è il prodotto di un processo attraverso cui io giungo a riconoscere
e produrre la mia identità. Ma questo significa che io posso produrre la mia
identità soltanto in relazione, che originaria per la mia identità è la
relazione con l’altro, che l’originario è la relazione".
Riguardo al modo di
interpretare il proprio ruolo nel mondo i cristiani, in particolare, sono
chiamati ad essere paroikoi, “stranieri residenti”, “stranieri nella terra ove
risiedono”, spaesati nel loro paese, in quanto cittadini del cielo residenti in
terra. Come i buddhisti, non possono avere radici.
“Chi accoglie voi
accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Matteo
10, 40). Ma se sono tutti ospiti, allora nessuno è un ospitante: sono tutti
pellegrini che affrontano la loro Odissea. Il nomadismo è però la vera
condizione umana (Lettera agli Ebrei, 11: 13-16):
"Dichiarando di
essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti, dimostra
di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano
usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a
una migliore, cioè a quella celeste".
Sempre secondo Paolo: “La
nostra patria invece è nei cieli” (Fil 3,20). Nel logion 47 del Vangelo di
Tommaso leggiamo che “Gesù disse: Siate viandanti”. Nella Lettera a
Diogneto si legge:
"I cristiani non si
distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per
costumi. Non abitano città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono
uno speciale genere di vita… Ma, pur vivendo in città greche o barbare – come a
ciascuno è toccato – e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel
vitto e in tutto il resto, danno l'esempio di una vita sociale mirabile, o
meglio – come tutti dicono – paradossale. Abitano nella propria patria, ma come
pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono
staccati come stranieri; ogni nazione è la loro patria, e ogni patria è una
nazione straniera… Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo… Per dire
tutto in breve: i cristiani sono nel mondo ciò che l'anima è nel corpo. L'anima
è diffusa in tutte le membra; e i cristiani abitano in tutte le città della
terra. L'anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; e i cristiani, pur
abitando nel mondo, non sono del mondo".
Il Vangelo secondo Giovanni
chiarisce che i cristiani “sono nel mondo” (17,11), ma “non sono del
mondo” (17,14).
Adriana Destro e Mauro
Pesce, nello splendido “L'uomo Gesù: giorni, luoghi, incontri di una vita”
individuano una caratteristica distintiva del messaggio di Gesù il Cristo, il
quale sceglie di dipendere dall’ospitalità altrui. Si fa precedere da due
apostoli nei luoghi in cui cerca ospitalità, non permette che nessuno dei
villaggi visitati divenga una sede stabile, cammina incessantemente per entrare
in contatto con la gente, con persone nuove, conduce un’esistenza incerta e
precaria, all’insegna di un’identità molto labile, flessibile, come quella dei
nomadi. La sua casa è interiore, la sua famiglia è chi lo accompagna, una
famiglia itinerante (Destro/Pesce, 2008, p. 156):
"Gesù percepisce la
realtà che ha di fronte come fortemente fratturata e divisa tra città e
villaggi di campagna, tra ricchi e poveri, tra affamati e sazi, tra malati e
sani, violenti e miti, donne e uomini, giudei e non giudei. Vuole rompere
questo meccanismo di divisione. Preme sulle case per modificare e annullare la
distanza. Vuole permettere una pacificazione tra le parti a un livello diverso
e con forme aggregative diverse che ritiene in grado di sanare la
contraddizione. L’ospitalità diventa così il simbolo del suo progetto. È uno
stile di vita che deve essere praticato in modo che la casa non sia più il
luogo di sanzione della disparità sociale, dell’alleanza tra potenti e ricchi e
della dipendenza dei poveri, ma divenga al contrario il luogo dell’inclusione
degli esclusi e della partecipazione comune al mondo rinnovato".
Umberto Curi, storico e
filosofo all’Università di Padova e Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica
all’Università di Pisa, ci aiutano ad introdurre la dimensione politica del principio
di ospitalità (Curi, 2010; Pievatolo, 2011) che si esplicita nella
contrapposizione tra Kant e Rousseau.
Kant corrobora la classica
convezione greca secondo cui una nazione è giudicata dagli dèi in base al modo
in cui tratta gli stranieri. Per Kant ospitalità e pace sono complementari. Uno
stato di pace non è la condizione naturale dell'uomo, naturale è invece uno
stato di costante minaccia. La pace è perciò un artificio, un atto contro
natura, di cui l'uomo è peraltro capace. Kant è dunque hobbesiano. Non crede
che gli esseri umani siano naturalmente buoni e pacifici e che sia la civiltà a
corromperli. Li considera perennemente antagonistici e prevaricatori, se non
ostili. Lo Stato è quello strumento che dovrebbe temperare questo antagonismo e
cercare di fare in modo che l’intera comunità ne tragga beneficio, tramite un
conflitto ben gestito, che può essere fecondo, a differenza di quella che
chiama la “pax perpetua”, la pace dei sensi e la pace eterna dei cimiteri, che
è poi la pace totalitaria. Kant è un realista: si consegue la pace facendo leva
sulla valorizzazione dell’istinto di conservazione che accomuna tutti gli
individui. Nei rapporti tra le nazioni Kant immagina una confederazione
repubblicana di liberi stati che scongiuri le guerre ed una polizia planetaria
sul modello delle polizie nazionali. Un’idea che piaceva a Norberto Bobbio
(Kant, 1795/2005).
Poi immagina che un diritto
cosmopolitico fondato su un principio cardine, quello, appunto, dell’ospitalità
universale (non privato, ma pubblico): “il diritto che uno straniero ha di non
essere trattato come nemico a causa del suo arrivo nella terra di un altro”.
Questo perché: “originariamente nessuno ha più diritto di un altro ad
abitare una località della terra”. Anche per Kant siamo solo di
passaggio su questo pianeta, la cui superficie sferica e finita fa sì che non
si possa evitare di incontrarsi. Le nostre nascite sono del tutto accidentali,
per quanto ne sappiamo. Siamo nati in un certo luogo piuttosto che in un altro
e ciò non ci dà alcun diritto di reclamare un’area come nostra. La nascita non
dipende da una libera scelta del nascituro e quindi non è un atto giuridico.
Per lo stesso principio nessuno può rivendicare alcun titolo preferenziale a
risiedere in un dato luogo piuttosto che in un altro. Se è vero, come è vero,
che nessuno ha più diritto di un altro di essere titolare di una porzione di
questo pianeta, poiché siamo tutti viaggiatori, allora la condizione originale
dell’uomo e delle sue interazioni è una relazione aperta, di condivisione, che
respinge ogni pretesa di esclusività. Il risiedere in un luogo, la
delimitazione del proprio rifugio, santuario, riparo, non assegna alcun diritto
di possesso. La superficie della terra e le sue risorse appartengono a tutti e
a nessuno e non è pertanto inquadrabile nella logica del diritto d’uso
esclusivo e me che meno della proprietà privata. Non esiste una terra promessa
ed un popolo eletto destinato a dimorarvi. Lo straniero per Kant è ospite e lo
si allontana solo se crea problemi, ma non se ciò comporta la sua rovina.
L’Antico Testamento parla chiaro: “Se, mietendo il tuo campo, vi avrai
dimenticato qualche covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo
straniero, per l’orfano e per la vedova” (Deuteronomio 24:19); “il Signore
protegge i forestieri, sostenta l’orfano e la vedova, ma sconvolge la via degli
empi” (Salmi 146:9). Kant parla di diritto alla visita, alla mobilità, in nome
della socievolezza e del destino comune (siamo su una stessa barca e non è
grande): “diritto di possesso comune della superficie della terra”.
Esclude il possesso esclusivo. “l’inospitalità è contraria al diritto
naturale”. Per questo il diritto cosmopolitico non è una “rappresentazione
di menti esaltate”. L’evidenza del fatto che la superficie terrestre è un
possesso comunitario di tutti gli esseri umani – con tutti i diritti
fondamentali che ne conseguono – è rimasta un’ovvietà per la quasi interezza
della storia umana non lo era per gli europei, che massacrarono i nativi americani
proprio in virtù di un diritto proprietario e di sfruttamento delle risorse
antitetico a quello indigeno. Gustavo Zagrebelsky ribadisce che dovrebbe
ritornare ad essere un’ovvietà (Mauro/Zagrebelsky, 2011, pp. 101-102):
"L’idea dell’essere
umano come animale stanziale, un animale che, come altri, ha il suo territorio
e lo difende dalle intromissioni, deve essere un’idea del profondo…La terra,
questa “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par., XXII, 151) l’abbiamo divisa in
tante parti e ce ne siamo impossessati, popolo per popolo, come cosa nostra, e
ci pare normale, naturale, l’idea di straniero, di colui che passa o tenta di
passare da un’aiuola all’altra turbando le sicurezze che riponiamo “in casa
nostra”. Quante volte abbiamo sentito ripetere anche da noi, come se fosse
ovvia e innocente, questa espressione!"
Kant simpatizza per una
posizione analoga a quella dei nativi americani ed invoca il diritto di asilo
di visita e di asilo, non certo il diritto di imporre con la forza la propria
volontà alle altre nazioni, come facevano le potenze coloniali. L’ospitalità
universale diventa uno dei pilastri imprescindibili per il conseguimento della
pace perpetua, la “comunanza tra i popoli della Terra”, in un’epoca, la sua, in
cui il pianeta si va già globalizzando, tanto che: “si è arrivati a tal punto
che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita
in tutte le altre parti”. Di qui la denuncia, attualissima, delle atrocità
coloniali:
"Se si paragona con
questo la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati
commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l'ingiustizia
ch'essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che è per essi
sinonimo di conquistarli). L'America, i paesi dei negri, le Isole delle spezie,
il Capo di buona speranza ecc., all'atto della loro scoperta erano per essi
terre di nessuno, non facendo essi calcolo alcuno degli indigeni. Nell'India
orientale, con il pretesto di stabilire stazioni commerciali, introdussero
truppe straniere e ne venne l'oppressione degli indigeni, l'incitamento dei
diversi Stati del paese a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni,
tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono affliggere
l’umanità".
L’altro pilastro dovrà perciò
essere la sovranità del popolo su questioni essenziali come le dichiarazioni di
guerra – “il popolo, che ne fa le spese, abbia il voto di decidere se la
guerra deve o non deve farsi” – e sull’opportunità di aderire ad uno stato
federale universale come quello descritto da Jacques Attali – “entrare in una
costituzione cosmopolitica, o, siccome un tale stato di pace universale (come è
avvenuto più volte tra gli Stati assai grandi) è per un altro aspetto ancora
pericoloso per la libertà, potendo originare il più orribile dispotismo, questa
necessità dovrà portarli non a una comunità cosmopolitica sotto un unico
sovrano, ma a una condizione giuridica di federazione sulla base di un diritto
internazionale stabilito in comune” (Kant, Gemeinspruch, cf. Marini, 2007).
Solo in una tale cornice giuridica, a parere del filosofo di Königsberg, “le
disposizioni naturali dell’umanità possono trovare sviluppo, così da rendere la
nostra specie degna di amore» (ibidem). Chi si opporrà, o non farà parte del
futuro, o lo farà suo malgrado perché, citando Seneca, “i decreti del destino
guidano chi è consenziente, e trascinano chi non lo è”.
SINTESI
Linguisticamente, la radice
di ospitare è “hostire”, che significa “parificare”, cioè compensare, rendere
giustizia e proteggere.
L’ospitalità è un segno di
umanità e civiltà. Ulisse si domanda se incontrerà dei bruti e dei selvaggi o
degli uomini ospitali. L’ospitalità è una forma di ominizzazione. Ma c’è una
certa dose di ambivalenza, in quanto sussiste la minaccia del parassitismo e
dell’intrusione. L’ospitalità deve mantenere l’estraneità del forestiero che
non deve mai sentirsi a casa sua. Si mantiene una certa distanza per tutelare
l’identità, singolarità, originalità, specificità dell’ospite (ma può diventare
un alibi per la segregazione, per una bolla-ghetto in cui l’altro non sarà mai
amico, ma solo ospite).
L’integrazione nel senso di appropriazione dell’altro
e trasformazione in se stesso, è una forma di violenza (che può essere accettata
dall’ospite, ma rimane tale). Serve il rispetto dell’alterità in quanto tale,
senza esigere la sottomissione al mio volere. L’ospitalità è il giusto mezzo
tra rifiuto ed assorbimento. L’ospite è sinonimo di temporaneo, transitorio,
effimero. La vera ospitalità deve superare la violenza intrinseca
all’ospitalità, che risiede nella dipendenza dall’altro, interiorizzata e che
nasce con il concetto di proprietà. Senza proprietà non c’è bisogno di chiedere
una condivisione, o di offrirla. Dunque il dono dell’ospitalità è il
riconoscimento di una comunione originale dei beni. Ciò che appartiene all’uno
appartiene anche all’altro. C’è un legame occulto, ma vibrante, tra il tuo e il
mio, me e te. È il fatto di essere ospiti di questo pianeta. Ad indicare non
solo la provvisorietà del nostro percorso nomadico, di esseri votati alla
scomparsa, ma anche la generosità del pianeta, della Madre Terra che non
concepisce l’idea del diritto del primo occupante. Non è pietà ma rispetto e
devozione per l’ospite, nel quale riconosco l’estraneità che alberga in me
stesso. Da lì si passa alla fratellanza, il terzo termine della triade
rivoluzionaria francese. Si coniugano esterno ed interno, sedentario e
nomade, ego e l’altro, Vesta/Hestia e Mercurio/Hermes, in un’armoniosa coincidentia
oppositorum.
Di conseguenza l’ospitalità
precede, fonda ed orienta il diritto, non ne è un corollario.
Vampiri, orchi e cannibali
rimandano all’idea di un’ospitalità eccessiva e del parassitismo dell’ospitato,
mentre il capro espiatorio è il membro deforme o malato della tribù che
annualmente viene bandito o sacrificato per portare via con sé i malanni della
comunità. Non è più un ospite gradito ma può ancora rendersi utile.
Fonte: Alain Montandon (a
cura di), "Le Livre de l'hospitalite: accueil de l'etranger dans
l'histoire et les cultures". Paris: Bayard. 2004.
Per approfondire:
1 commento:
Ringrazio l'autore per i bellissimi articoli che si trovano in questo blog, che ritengo illuminante.
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