Diretta conseguenza dell’emigrazione di
massa è stata la creazione di tipi completamente nuovi di esseri umani –
individui che si radicano in idee piuttosto che in luoghi, tanto nelle memorie
quanto nelle cose materiali; gente che è stata obbligata a definirsi – perché
così vengono definiti da altri – sulla base della loro alterità; gente nel cui
io più profondo avvengono strane fusioni, unioni senza precedenti fra ciò che
sono stati e il luogo nel quale si vengono a trovare. L’emigrazione comprende
la natura illusoria. Per vedere le cose così come sono, è necessario
attraversare una frontiera.
Salman Rushdie,
“Patrie Immaginarie”
Come quel filosofo che ama i tartari, per
essere dispensato dall’amare i suoi vicini.
Jean-Jacques
Rousseau, “Émile”
Uno dei più
brillanti critici del cosmopolitismo è David Miller, politologo oxfordiano. Per lui il cosmopolitismo è un progetto
imperialista che richiederebbe un governo mondiale di stampo tirannico (retto
da “virtuosi”, sul modello platonico) che cercherebbe di annullare le
specificità socio-culturali (Miller, 2002).
Il
cosmopolitismo è l’idea che siamo tutti cittadini del mondo, un’ideologia
sviluppata in particolare dallo stoicismo. Il suo principio fondante è che ciascun essere umano ha il medesimo
valore morale ed è ugualmente degno della nostra sollecitudine. Miller obietta,
molto giustamente, che se mio figlio o
il figlio dei miei vicini si è perso dedicherò molto più tempo a cercarlo.
È eticamente corretto: abbiamo maggiori
doveri verso chi risiede nella nostra comunità rispetto a chi vive dall’altra
parte del mondo. È naturale ed inevitabile: siamo esseri viventi finiti, spazio-temporalmente delimitati dai nostri
corpi ed il nostro naturale egocentrismo ci spinge ad occuparci prima di tutto
del qui e del presente. Non ci possiamo fare nulla e quindi non c’è nulla di
intrinsecamente sbagliato in questo.
Ma la questione
è che se il figlio dei vicini è musulmano o nero, non dovrebbe cambiar nulla. Per il cosmopolita l’identità del mio
prossimo è irrilevante, ciò che conta è che sia il mio prossimo: altoatesino,
sudtirolese, leghista, fascista o nomade, non dovrebbe condizionare la mia
assunzione di responsabilità.
I critici del
cosmopolitismo detestano la visione del mondo dei cosmopoliti: un grande
supermercato dove ci si può comprare quel che si vuole o un buffet dove ognuno
si prende quel che si vuole. La nazionalità come un accidente della storia di
cui ci si può liberare. Per loro questi sono sentimentalismi egoistici,
evasioni adolescenziali dalle proprie responsabilità in nome di astrazioni
prive di radici. Un atteggiamento tipico di élite viziate e disconnesse dalla
realtà, intellettuali che non hanno idea di come vada il mondo, non persone
mature con esperienze di vita autentica sulle spalle.
Va detto, però,
che questa non è un’ideologia recente,
legata alla globalizzazione. Già uno dei massimi filosofi del passato,
Democrito (460 a.C. – 360 a.C.), diceva che “al saggio tutta la Terra é aperta,
perché patria di un'anima bella é il mondo intero”. Ciò era di un’evidenza
lampante per chi viveva in società caratterizzate da estesi scambi commerciali
e culturali, com’era la Grecia del quinto secolo a.C. Chi si chiudeva
all’interazione con l’altro era considerato un selvaggio. Pensiamo al Libro IX
dell’Odissea, a come Omero descrive i
Ciclopi che hanno scelto un’esistenza isolata dal resto del mondo ed
imprigionano e mangiano i forestieri. Le
simpatie di Omero per i cosmopoliti Feaci sono inequivocabili. L’Antigone
di Sofocle sfida le leggi della sua città appellandosi a norme universali di
decenza: ci sono leggi non scritte che annullano quelle di Creonte. Già allora
vigeva il principio dell’unità nella
molteplicità, che sta alla base della costituzione americana,
dell’Unione Europea, della Repubblica Indonesiana e dello ius gentium (diritto
dei popoli) romano che, in teoria, consentiva a molteplici popoli di coesistere
e ai singoli cittadini di pretendere giustizia in ogni angolo dell’impero.
Identità è
relazione. Lo “stesso” non può essere riconosciuto come tale senza l’”altro” e
l’”uno” senza i “molti”. Cicerone, un cosmopolita, ricordava agli interlocutori
che Ercole si era battuto per tutti e si era posto al servizio di tutti, senza
distinzioni di sorta. Gesù era cosmopolita, pur avendo scelto di insegnare lontano
dalle città ed all’interno di un’area relativamente ristretta: chiunque poteva
ascoltarlo, chiunque poteva essere salvato. I Giusti dell’Olocausto non erano
bamboccioni viziati, erano persone di varia estrazione sociale e formazione
culturale che misero da parte le lealtà particolari per venire incontro al
Diverso in difficoltà, offrendo rifugio e salvezza a chi era stato condannato a
morte dalla sua comunità, indecisa tra la denuncia alle autorità,
l’indifferenza e la volonterosa collaborazione con gli occupanti nazisti.
Misero in pratica il principio kantiano del diritto all’ospitalità (per gli
ebrei l’intero Terzo Reich era diventato terra straniera). Nemiche del cosmopolitismo sono state invece tutte le dittature del
novecento, europee e non, e le teocrazie cristiano-islamiche. I diritti
umani non si oppongono alla scelta campanilistica, mentre la morale ed il
diritto localista in generale impediscono di compiere scelte differenti, in
nome della coesione, dell’unità, dell’ordine, dell’omogeneità, dell’autenticità
ed integrità del gruppo contrapposto al mondo esterno.
Per il
cosmopolita tutte le persone contano, nessuna è spendibile. Ogni decisione deve
tener conto del valore intrinseco, non-strumentale, degli altri. L’enfasi
sull’individualità garantisce l’uguaglianza: se ognuno è legittimato e per
quanto possibile assistito nella ricerca della sua realizzazione personale,
allora gli obiettivi degli uni non possono valere più di quelli degli altri.
Montesquieu, Kant ed Emerson hanno compreso e fatto propria la semplice verità
che la vera soddisfazione,
l’autentica felicità, si ottiene con gli altri, non dagli altri e che, per
godere della loro presenza, si deve rispettare il loro modo di essere
autentici, oppure cercare altrove una compagnia più consona. Rousseau
si era invece infilato in un vicolo cieco: o si isolava dal resto del mondo,
come fece in tarda età, oppure cercava di cambiare il mondo per adattarlo alle
sue esigenze. Un cosmopolita non teme la transitorietà dell’esperienza umana e
l’incostanza del fato e delle relazioni interpersonali. Anzi, ne trae diletto,
perché la diversità ed il cambiamento sono per lui fonte di eccitazione e
soprattutto di apprendimento. Il suo patrimonio è costituito dalla sua
personalità e dalla sua sapienza, non certo dall’etnia, lingua, nazione o fede.
Per questo, nei suoi momenti migliori,
non sente il bisogno di possedere il prossimo, di appropriarsene in termini
esclusivi per assicurarsi un mezzo di prosecuzione del suo piacere e della sua
felicità.
Per il cosmopolita
le preferenze sono perfettamente accettabili, ma non possono essere un
pretesto, un alibi per non essere solleciti verso i forestieri e gli
sconosciuti. Il problema del comunitarismo, specialmente di quello
etnocentrico, è che sembra fare dell’egoismo il criterio centrale della “buona
vita”. Si passa da “la mia gente viene prima” a “gli altri non vengono neppure
al secondo posto, anzi, se si tolgono di mezzo dopo che non sono più utili è
meglio”. Il nodo centrale della questione è che le relazioni speciali che
forgiamo con certe persone aumentano quel che è loro dovuto, nel momento in cui
ci associamo, ma non diminuiscono quel che dobbiamo a tutti gli altri.
In sintesi,
l’etica cosmopolita è estremamente semplice: in nome del senso di responsabilità
nei confronti del prossimo, l’individuo si sente obbligato ad essere sollecito
nei confronti di tutte le persone che incontra nella sua vita e che richiedono
la sua assistenza, indipendentemente dalla loro provenienza e meta, finché
queste non gli si dimostrano ostili o eccedono nelle loro richieste. Un impegno
a favore non solo degli intimi, ma anche di chi non conosciamo ma incontriamo
perché le nostre vite si intersecano, tanto che il nostro comportamento può
influenzarne il destino. Nessun
cosmopolita crede che abbiamo gli stessi doveri verso un parente o verso un
mozambicano. Quella è solo un personaggio immaginario caricaturale creato per
primo da Rousseau per poterlo irridere con più facilità. È una specie di Ebreo
Errante, una macchietta carica di stereotipi.
Il cosmopolitismo è semplicemente una
modalità del vivere guidata dalla curiosità, interesse, attenzione, apertura,
rispetto per l’altro (non necessariamente per le sue idee), fascinazione per
ciò che è diverso, nuovo, esotico, istruttivo, ingegnoso, utile, ecc.
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