Orfano di madre dalla nascita e di padre dall’età di 15 anni, senza fissa dimora, Rousseau conduce l’esistenza di un nomade, legandosi a chi lo ospita, specialmente a figure materne. È straniero in ogni luogo e patisce questa condizione di precarietà ed estrema vulnerabilità. È ossessionato dall’altrui generosità, eternamente sospettoso di ogni dono, delle motivazioni degli altri, fino al punto da rifiutarli, per paura del fardello dell’obbligo di reciprocità. L’ospitalità lo fa sentire alienato, un eterno straniero nel mondo. In lui si segnala una forte ambivalenza: ne ha bisogno ma odia il senso di dipendenza. È ingrato verso le sue patrone, senza l’assistenza e l’ospitalità delle quali sarebbe restato nell’anonimato e magari persino deceduto prematuramente. Finisce i suoi giorni come un eremita, prediligendo la compagnia del suo cane a quella degli altri esseri umani e quella dei libri alla compagnia di un amico. Preferisce visitare che essere visitato, si sente ostaggio, non ospite; rifiuta i doni per non doverli ricambiare. Immanuel Kant è l’opposto di Rousseau: per lui mangiare da solo è malsano, nocivo (ungesund), equivale alla morte del filosofo, che perde vivacità ed acutezza, non potendo avvalersi del contributo stimolante di un punto di vista alternativo, quello dell’ospite al suo desco. Il filosofo che consuma il suo pasto da solo diventa autarchico, auto-referenziato, si auto-consuma (il proprio cibo, come le proprie idee, a ciclo continuo), disperdendosi (sich selbst zehrt) in ragionamenti circolari, idee fisse, vicoli ciechi. Perde il suo vigore, la vivacità dell’intelletto (Munterkeit). L’ospitalità invece è apertura al resto del mondo, all’altro, è una messa in discussione di se stessi, una breccia nel proprio egoismo. Per questo Kant sente il bisogno di avere sempre degli invitati al pasto, a costo di raccomandare alla servitù di invitare un passante a sedersi al tavolo con lui. La compagnia conviviale deve essere disparata ed includere dei giovani, per variare la conversazione e renderla più giocosa. Il piacere deriva dalla presenza di commensali con interessi diversi dai nostri: “non mi attrae chi ha già ciò che possiedo, ma chi mi può dare ciò che mi manca”, spiega. Al contrario, Rousseau non sa gestire la diversità, ne è allergico, vuole che sia controllata. Non ama mangiare con gli altri: mangia un boccone alternandolo con una pagina di libro. L’ospitante, nei suoi racconti, è incline al dispotismo, all’assimilazione cannibalistica dell’ospitato. Per questo muore da eremita, in preda alle allucinazioni, vittima del peso del matricidio, l’uccisione della madre, l’ospitante per eccellenza.
Per Rousseau “la cosa essenziale è essere gentili verso le persone con cui si vive”. Certo, ma di qualunque genere siano, non le piccole patrie omogenee che sognava. Denunciava l’omologazione del mondo causata dalle interazioni tra i popoli ma lui stesso sognava comunità omogenee, autarchiche e paternaliste, in cui la volontà comune non fosse insidiata dalle minoranze e i cui confini fossero per quanto possibile impenetrabili, come Clarens – un’utopia alpestre immaginaria inserita nel romanzo “Giulia o la nuova Eloisa” (Julie ou la Nouvelle Héloïse), pubblicato nel 1761 – che non teme agitatori provenienti dall’esterno ma solo chi viaggia e poi decide di tornare, portando idee nuove e per ciò stesso inaccettabili. A Clarens, spiega Giulia, “tutta l’arte del padrone consiste nel dissimulare questa costrizione dietro il velo del piacere o dell’interesse, in modo che essi pensino di volere ciò che in effetti li si obbliga a fare”. Le persone possono essere trattate come marionette, a patto che siano soddisfatti delle loro stringhe. Nell’Emilio, Rousseau illustra il momento centrale della sua pedagogia: “Emilio deve credere di essere sempre lui il padrone ma in realtà il padrone dovete essere voi. Non vi è sottomissione più completa di quella che conserva l’apparenza della libertà; così la volontà stessa risulta imprigionata…Indubbiamente egli non deve fare se non ciò che vuole, ma non deve volere se non ciò che voi volete che faccia; non deve fare un passo che voi non abbiate previsto; non deve aprir bocca senza che voi sappiate cosa dirà”.
Questo tipo di pedagogia rende chiaramente superfluo ogni mezzo di deterrenza e punizione: ogni scelta reale è stata soppressa, ogni possibile sospetto che le autorità possano essere malevole si volatizza. Una tale eventualità non può essere neppure presa in considerazione. Un sistema coercitivo molto più potente ed efficace, perché preventivo. L’utile (dei pochi al potere) schiaccia la libertà dei molti ma nessuno se ne avvede, per via di una pletora di mascheramenti, veli, travestimenti, illusioni, manipolazioni semantiche e simboliche (Berman, 1971). Solo chi proviene dall’esterno e che di conseguenza non è stato indottrinato, può ribellarsi, nel senso camusiano dell’homme révolté, del “mi ribello, dunque siamo”: divento me stesso sforzandomi di liberare me stesso e gli altri da un sistema sociale che ci aliena tutti.
Si possono obbligare le piante a crescere orizzontalmente, diceva Rousseau. Ciò non toglie che, se non vi siano costrette, esse crescono verso l’alto. Le comunità per Rousseau, sono piccole, semplici e statiche e bisogna impegnarsi a fondo per realizzare una sostanziale uniformità di vedute e di interessi, cosicché gli individui costituiscano una macro-persona (la Heimat), o siano comunque intercambiabili. Quando noi decidiamo, sono io a decidere, quando io decido, tutti decidiamo. Così il protagonista di “Giulia, o la nuova Eloisa” scopre che gli abitanti dell’utopia sono stati letteralmente mortificati, ossia la loro vitalità è stata progressivamente prosciugata, sono stati alienati allo scopo di assicurare la stabilità e l’armonia della comunità. Non se ne rendono tuttavia conto. Giulia è convinta di essere diventata autentica solo dopo essersi consacrata alla missione di diventare esattamente come la comunità vuole che lei sia, automutilandosi, rinunciando a se stessa. Pensa che solo uccidendosi dentro potrà rinascere autenticamente viva, restituita al suo vero sé, reincarnato ad immagine e somiglianza delle altrui aspettative. Non è più un “io”, ma una “lei” (un ruolo sociale), sottomessa alla volontà del “noi” (la Società). Clarens è una tirannia senza precedenti nella storia: ecologista, umanitaria, benevola, formalmente democratica, familiare, mortifera per l’anima/la coscienza. Sono i padroni, la casta dominante, a stabilire quando intendono graziosamente degnarsi di sentirsi uguali ai servitori. Un privilegio negato a questi ultimi, che devono assoggettarsi alle regole imposte dai padroni, interiorizzandole fino a percepirle come naturali ed ineluttabili e a credere che si possa essere amici di chi con un cenno può distruggere le nostre vite.
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