sabato 5 novembre 2011

È tutta una questione di coscienza





Vi erano e vi sono persone che vedono nella cultura la semplice conservazione di determinate tradizioni e che quindi ritengono di dover porre dei limiti al rinnovamento attraverso avvedute manovre di indirizzo. In tutti questi casi si pone la persona in funzione della cultura (invece che il contrario), oppure si abusa della cultura utilizzandola come arma contro la persona. A me pare che in realtà la cultura sia, al pari della maturità, un necessario completamento (compimento?) della personalità, senza il quale responsabilità individuale e democrazia non sarebbero nemmeno pensabili. Cultura è in ultima analisi capacità autonoma di valutare, comprensione di sé e del presente, senso delle cose e della storia, creatività umana, coraggio delle proprie idee e accettazione dei propri limiti. Se la cultura è un valore essenziale per l'umanità, allora a ciascuno dovrà essere data la possibilità di 'fare' cultura, e non di 'essere riempito' di cultura.

Alexander Langer, “Segni dei tempi”, 1967

Di dove sei? Nonostante la domanda mi sia stata rivolta un migliaio di volte non riesco mai a rispondere con prontezza… le mie risposte non sono mai uguali o meglio identiche. Dipende dall'ora, dalla stagione, dalle circostanze e comunque dalla persona che mi  rivolge la domanda... A ciascuno concedo una tessera di un mosaico che forse mi rappresenta, ma del quale so di ignorare la forma definitiva…. Tutto mi sembra irritante delle tre parole che compongono questa domanda “Di dove sei?” irritante, perché la trovo una misura coercitiva di definire quello che non voglio più, mai più definire: una mia identità. Anche linguisticamente la cosa mi disturba. Il genitivo, il “di” significa appartenenza, dipendenza, soggezione. “Di dove mi pare” vorrei rispondere. […]. Forse questo capita solo a me. Per altri il “Di dove sei?” è rassicurante, toglie dall'angoscia di essere di nessun posto, il desiderio di proclamare che in verità si è, cioè si è terminato di migrare, di vagare, si è diventati sedentari. […]. Mia è la speranza di un futuro nel quale si potrebbe rispondere: io sono una forma mutabile nello spazio e nei tempi. E il dove è in me, non io sono di un dove.
Brunamaria Dal Lago Veneri, “Di dove sei? Un problema di identità”

Dall'ondeggiante oceano, la folla, venne teneramente a me una goccia, mormorando Io ti amo, tra non molto morirò ho fatto un lungo viaggio solo per guardati, toccarti, perché non potevo morire sinché non ti avessi parlato, perché temevo di poterti poi perdere. Ora ci siamo incontrati, ci siamo guardati, siamo salvi, ritorna in pace all'oceano mio amore, anch'io sono parte di quell'oceano amore, non siamo così separati, considera il grande globo, la coesione del tutto, quanto è perfetta! Ma per me, per te, il mare irresistibile deve separarci, e se per un'ora ci tiene lontani, non potrà tenerci lontani per sempre; non essere impaziente - un istante - sappi che io saluto l'aria, l'oceano e la terra, ogni giorno al tramonto per amor tuo, amore.
Walt Whitman, “Foglie d’Erba”

Oggi la civiltà occidentale è riuscita nella mostruosa impresa di ostracizzare la spiritualità dal dibattito pubblico. Quella spiritualità che ha guidato i passi di Dag Hammarskjöld, mistico e segretario generale delle Nazioni Unite per due mandati consecutivi, tra il 1953 ed il 1961, di Florence Nightingale, fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna, mistica e così dotata per la matematica e la statistica da diventare la prima donna ad essere accolta nella Royal Statistical Society e nell’American Statistical Association, di Aung San Suu Kyi, George Washington, James Madison, Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, Martin Luther King, Nelson Mandela, i “nostri” Aldo Moro e Alexander Langer. Siamo arrivati a despiritualizzare Immanuel Kant e Montesquieu, due pensatori mirabili e vivacemente spirituali. Anche l’esoterismo spiritualista di Goethe infastidisce, ma agli artisti si concede molto di più che a tutti gli altri. Si può essere religiosi, ma l'idea di spiritualità è associata irrimediabilmente alla New Age. Questo, purtroppo, è il sintomo del precario stato di salute della civiltà umana - non solo della sua porzione cosiddetta "occidentale" - in una fase declinante del suo percorso.    
I grandi statisti del passato, quelli che ci hanno dato le nostre costituzioni, non erano degli ingenui idealisti. Avevano ben presente l'onnipervasività dell'avidità, dell'ignoranza, della stoltezza, dell'odio, dei pregiudizi, della violenza umana. Per questo crearono dei sistemi che potevano tenere a bada il peggio della natura umana e nel contempo dare l'opportunità ai più ispirati di partire alla ricerca del proprio “Graal”, della crescita spirituale, del “Cristo interiore”, come lo chiamava William Penn, mentre Lincoln preferiva definirli “i migliori angeli della nostra natura”.
Ciò che li accomunava era un’enorme forza di carattere e pochissime pretese di pubblica gratitudine. Queste persone, così intimamente ma profondamente spirituali, hanno cambiato la storia delle loro rispettive società. Erano enormemente interessati alle grandi questioni dell’umanità, non solo all’analisi politica ma anche alle riflessioni filosofiche, esistenziali, spirituali. Erano esseri umani pieni di difetti, ma con uno spessore e si sforzavano di essere obiettivi, di rifuggire la faziosità. Coltivavano l’idea di una nazione esemplare (Stati Uniti), o redenta (Italia), o pacificata (Alto Adige), assieme agli ideali morali, allo sforzo di auto-miglioramento, alla virtuosità, alla ricerca del consenso e del compromesso, alla disponibilità ad ascoltare gli altri. La convinzione che fosse necessario emanciparsi dalla tirannia dei dogmi religiosi non li rendeva meno spirituali e religiosi.
La coscienza non è un'invenzione, non è un prodotto del condizionamento sociale. Esiste dentro di noi, nella nostra psiche, un potere, una forza che ci consente di discernere i valori reali del bene e del male, del giusto e dello sbagliato e che si manifesta attraverso l’empatia. L'egocentrismo neutralizza in parte questa capacità che possediamo fin dalla nascita. Non siamo semplici animali complessi con cervelli complessi, non siamo scimmie nude e chi lo pensa non è in grado di capire la differenza tra un chicco d’uva spremuto e un Barolo. A prescindere dalla difficoltà con la quale possiamo entrare in contatto con la nostra coscienza, è essenziale provare a farlo, come invitavano a fare, tra gli altri, Socrate, Gesù, il Buddha e l’Emerson di “Oversoul”, che si apre con queste parole: “La nostra fede va e viene a momenti; il vizio è un’abitudine. Eppure c’è una profondità in questi momenti che ci obbliga ad attribuire loro maggiore realtà rispetto ad altre esperienze… Sono costretto in ogni momento a riconoscere un’origine più alta della mia volontà”.
Non si può essere spiritualmente liberi se non si è raggiunto un sufficiente livello di comprensione dell’etica, dell’integrità e della giustizia. Chi non compie questo sforzo resterà schiavo dei suoi appetiti (che gli parranno irresistibili e giustificati) e della dominazione altrui (che gli parrà parimenti irresistibile e giustificata). Per questo il principale obiettivo dei dominatori è sempre stato quello di indurre le persone a concentrarsi sulle questioni materiali e superficiali, a detrimento di quelle spirituali, dell’educazione come Bildung, come autorealizzazione integrale, nel corpo e nell’anima (coscienza).
È mia opinione che i nostri problemi, tutti i nostri problemi si risolvono a partire dal basso, dalle coscienze di delle persone ordinarie. Gli interventi dall’alto funzionano solo se esiste già un certo tipo di presa di coscienza di una massa critica di persone. La coscienza è il mezzo con cui comprendiamo il mondo. “Leggiamo” la natura, la società e le motivazioni umane non come sono ma come la coscienza ci permette di interpretarle. Per questo è importante far circolare idee nuove che mettano in discussione ciò che si è dato troppo spesso per scontato e non lo è.
Penso che quasi nessun antropologo contesterebbe l’idea che le culture sono espressione della coscienza umana e che la coscienza umana evolve assieme alle culture. Io mi spingo oltre. Nell’etimologia del termine – dal latino “conscire”, cum+scire, conoscere accuratamente, essere consapevole – va enfatizzata la particella intensiva “cum”, con il significato di “assieme”. Nel senso che gli esseri umani sono diventati coscienti assieme, non per un accidente del caso o un intervento divino, ma perché hanno cominciato a condividere in modo sistematico le loro conoscenze. Gli albori della scienza potrebbero dunque coincidere con la nascita (l’insorgere) della coscienza umana. Grazie all’attenzione, all’introspezione, alla conoscenza ed alla comunicazione ci possiamo interrogare e spesso trovare risposte e trasmetterle agli altri. Solo la specie umana ha raggiunto questo livello di coscienza.
Ma cos’è la coscienza? Come la cultura, è difficile definirla. Grosso modo, equivale alla “presenza di spirito”, ma ciò serve solo a spostare il problema della definizione, non a risolverlo. Agostino di Ippona diceva del tempo: “Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so”. Dobbiamo dunque rassegnarci?
Il dizionario Devoto-Oli offre questa definizione: “La facoltà immediata di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale o si prospettano in un futuro più o meno vicino; consapevolezza valutativa”. Mi pare un po’ riduttivo, troppo facile da confondere con “consapevolezza”. Allora, forse, consapevolezza e coscienza sono sinonimi? La coscienza è una “consapevolezza valutativa”?
Io penso che la consapevolezza sia un attributo della coscienza e che la mente sia un suo sinonimo. Per coscienza, quindi, dovremmo intendere il complesso dell’attività mentale (ragionamento, sensazioni, emozioni ed impressioni, memoria, intenzionalità, immaginazione, giudizio, introspezione, autocontrollo, autocoscienza) di un essere vivente, cioè a dire il nesso tra genotipo, ambiente naturale e contesto socio-culturale. Essa include l’insieme di parametri che definiscono l’esperienza soggettiva, fisica e mentale, della realtà. Se questi parametri fossero modificati, la realtà ci apparirebbe sensibilmente diversa (come quando un miope indossa gli occhiali, o li toglie). Ne consegue che al variare della coscienza varia anche l’auto-percezione e la comprensione di noi stessi e che perciò non esiste alcun sé permanente, a dispetto di quel che scegliamo di credere: è dunque possibile che i buddisti (e neoplatonici) abbiano avuto ragione fin dall’inizio. Ne consegue che è la coscienza a determinare l’identità di una persona e che questa è in costante ricalibrazione (in divenire). È sempre alla coscienza che vanno imputati libero arbitrio (intenzionalità), attenzione e consapevolezza (conoscenza) e condotta morale (etica). Non è certo un caso che in numerose lingue i termini che indicano coscienza, conoscenza e coscienza morale siano morfologicamente interconnessi.
Una coscienza immersa nella realtà non può che essere soggettiva. Solo la misura più ampia possibile di trascendenza – grazie all’empatia, un parziale distacco da me stesso – conferisce obiettività alle mie osservazioni. Allora una coscienza in espansione è più obiettiva di una coscienza costretta. Infatti, come abbiamo visto, la parola “coscienza” deriva dal verbo latino conscire (et. “sapere assieme”, “essere reciprocamente consapevoli”). È perciò la proprietà di una relazione, anzi, è il risultato di una relazione tra l’interno e l’esterno, l’io e l’altro.
Più ampia sarà la conoscenza, più intensa sarà la coscienza, più robusto il libero arbitrio, più consapevoli le nostre decisioni, più morale la nostra condotta. L’ignoranza, al contrario, è come un’amputazione, uno svuotamento di vitalità consapevole (non-meccanica). Essere ignoranti è come avere le batterie quasi scariche. Ci può essere di consolazione il fatto che siamo tutti molto ignoranti, chi più chi meno. Per questo nessun essere umano è pienamente umano. Siamo indeterminati, ossia non c’è alcun modo di valutare in anticipo cosa saremmo in grado di fare, date certe condizioni favorevoli. Paolo scriveva: “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Corinzi 13, 11-12). È un’ottima descrizione dei un processo di presa di coscienza, ossia di intensificazione della presenza di spirito.
Forse l’unica tipologia umana predeterminata è quella degli psicopatici, che sono esseri umani oberati da un ristretto sviluppo dei centri emotivi dell’empatia, dunque privi di coscienza morale ed integralmente soggettivi, cioè a dire completamente indifferenti al punto di vista altrui, che è meramente strumentale alla realizzazione dei propri fini: la loro “presenza di spirito” è virtualmente nulla, sono esseri umani quasi integralmente meccanici, robotica e neppure se ne rendono conto, poiché presuppongono che tutti gli altri siano come loro. Possono anche essere molto passionali e vivaci, senza essere violenti e non sono così facili da riconoscere. Ma non sono realmente vitali, se non solo esteriormente. Quel che è certo è che sono l’antitesi dell’altruismo, nel senso più proprio, quello di attenzione e sensibilità alle esigenze e prerogative altrui. 
Qui maggiori dettagli:
Fatta questa premessa, vorrei passare ad esplorare le implicazioni dei mutamenti di coscienza. Come una lingua cambia, così cambia anche una coscienza. Nessuno studioso del cervello vi direbbe che si sono solo due modalità di essere al mondo: quella conscia e quella inconscia. Esistono invece livelli di coscienza variabili nella stessa persona in vari momenti della giornata e dell’anno e in diverse fasi della vita. Un bambino non ha lo stesso livello di coscienza di un ragazzo ed un adolescente non lo condivide con gli adulti. L’ontogenesi (bimbo > adolescente > adulto), ricapitola la filogenesi (homo habilis > homo erectus > homo heidelbergensis > homo sapiens) ed il processo di civilizzazione (tribale > rurale > urbano > globale/digitale). Idealmente, l’evoluzione della coscienza si è manifestata come un’amplificazione della mente umana (o della consapevolezza degli altri animali) nel senso di una maggiore estensione, maggiore profondità, maggiore auto-riflessività. La quantità di conoscenza di cui disponiamo è grandemente superiore a quella delle generazioni precedenti, grazie all’alfabetizzazione, alla scolarizzazione, alla circolazione dell’informazione. È evidente a qualunque osservatore obiettivo che chi ha compilato buona parte dell’Antico Testamento non aveva una coscienza interamente moderna. Il suo cervello era anatomicamente moderno ma non la sua coscienza. Il Nuovo Testamento ci sembra molto più moderno (in largo anticipo sui suoi tempi e anche sui nostri, apparentemente).
È impossibile misurare i livelli di coscienza, ma è facile capire la differenza tra un insegnante e la maggior parte dei suoi studenti, o tra nipoti e nonni. Gli indigeni della Papuasia non definirebbero primitivi i loro antenati, perché la loro cultura ed il loro stile di vita, manifestazione di un certo livello di coscienza, non sono troppo dissimili. Naturalmente ciò non significa che, essendo più moderno, un nipote sia qualitativamente superiore rispetto al nonno, in termini di coscienza. La sua è semplicemente una coscienza diversa. Allo stesso modo, sarebbe sbagliato affermare che la coscienza dei cacciatori-raccoglitori sia superiore alla nostra, solo perché erano più rispettosi della natura. L’ignoranza dei dati etnografici e delle reali condizioni di vita delle popolazioni “esotiche” ci spinge ad idealizzare le società tribali, dove infanticidio, sacrifici umani, schiavitù, omicidi, suicidi non mancano.
Siamo diversi: questo è tutto. Un indigeno della Nuova Guinea non sa guidare un’auto, prendere un treno, leggere Dante o Shakespeare, comunicare con persone dall’altra parte del mondo, non ha ascoltato Mozart, non sa nulla della Shoah, non ha sviluppato una particolare visione dei diritti umani, non capirebbe il messaggio contenuto nell’arte di Kendell Geers o nei film di Truffaut. I primi antropologi scoprirono con sorpresa che presso diversi popoli non era chiara la connessione tra copulazione e concepimento. Noi, in cambio, non sopravvivremmo a lungo, al loro posto, e non saremmo in grado di esperire il loro ambiente nella maniera totalizzante che li caratterizza. Allo stesso tempo, mentre uno sciamano ed un accademico hanno un livello di coscienza superiore alla media, ciò riguarda soprattutto un ambito limitato di specializzazione. In altri campi può essere vero l’inverso.
Non si possono stabilire gerarchie proprio perché l'essere umano è l'unico animale indeterminato, in quanto parzialmente non-naturale, cioè frutto dell'interazione di genoma, ambiente naturale ed ambiente socio-culturale. Proprio in questa sua indeterminazione, ossia nell'assenza di confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è il fondamento dei diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi il senso morale e di responsabilità). Non solo, la sua fondamentale indefinitezza consente ad ogni singolo essere umano di essere migliorabile (ha un potenziale indeterminabile, insospettabile, appunto) e, poiché è imprevedibile, è anche creativo ed innovativo. L'affinamento morale, civile, scientifico ed artistico derivano dalla porosità di questi confini dell'umano, che si manifestano in una incredibile varietà di sfere di coscienza. In altre parole, come aveva intuito Sartre, gli esseri umani, inclusi i cacciatori della Papuasia, sono sempre più di quel che credono di essere in ogni singolo istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o falsa coscienza.
Ogni persona ha il diritto di scegliere per la sua coscienza dei confini determinati. Questo diritto è irrevocabile e va rispettato fino a quando non comporta la negligenza dei suoi doveri nei confronti del prossimo. Ma nessuno, in nessuna circostanza, può decidere che così debba essere per l’intera specie.
Anche se qualcuno volesse confinare la nostra coscienza, per esempio tramite la somministrazione coatta di psicofarmaci, ad esempio – come nel film “Equilibrium” –, la natura, alla lunga, vi si opporrebbe. Infatti la coscienza prosegue il suo cammino evolutivo, sia filogeneticamente, sia ontologicamente e quella umana evolve molto più rapidamente delle altre (Tattersall, 1998; Keenan, 2003). Animali diversi hanno tipi di coscienza diversa, ma animali dello stesso tipo hanno lo stesso tipo di coscienza. Alcuni animali dello stesso tipo hanno diversi livelli di coscienza. Il che spiega come mai molti cani e gatti si dimostrino più simili all’uomo degli scimpanzé non in cattività, che pure sono biologicamente molto più simili a noi.
È presumibile che, raggiunto un certo livello di coscienza, sia difficile regredire in modo permanente (salvo catastrofi planetarie). È certo che nessun essere umano ha raggiunto la massima estensione di coscienza possibile per la nostra specie, anche se è possibile che alcuni abbiano raggiunto il loro massimo personale, se acconsentono che la loro mente si chiuda irrimediabilmente.
Abbiamo detto che tutti gli esseri umani sono uguali (i processi neurali sono in potenza i medesimi), ma non lo sono per livello o sfera di coscienza. Un bambino ed un anziano parlano la stessa lingua ma i vocaboli sono diversi e la coscienza è diversa. Così in certe lingue mancano delle parole per indicare certi stati d’animo relativi ad una certa sfera di coscienza. Dei bimbi italiani e yanomami non avranno probabilmente livelli di coscienza sensibilmente diversi ma, crescendo, si differenzieranno progressivamente. I ragazzini yanomami, nel lungo periodo, sarebbero perfettamente in grado di incorporare Salgari, Topolino, Gardaland e la playstation nella loro mente e nel loro modello di comprensione dell’universo e della vita, perché il loro cervello ha lo stesso potenziale dei ragazzini italiani. Allo stesso modo i ragazzini italiani potrebbero adattarsi alla realtà amazzonica, se fossero costretti a farlo ed assistiti nel farlo. La differenza è che tanti ragazzini italiani sanno qualcosa dell’Amazzonia e potrebbero forse arrivarci anche da soli. È invece difficile immaginare che un ragazzino yanomami sarebbe capace di fare il suo ingresso a Gardaland: non sarebbe neppure al corrente della sua esistenza, non avrebbe familiarità con il viaggio aereo e in treno e con l’incontro di sconosciuti, non potrebbero pagare. Non avrebbe neppure la curiosità di esplorare il resto del mondo, se non vi ci s’imbattesse accidentalmente. Questo dipende dal suo livello di coscienza (e di conoscenza: i due livelli sono concomitanti ma non direttamente equivalenti). Ma se avesse la possibilità di fare questo viaggio tornerebbe con un livello di coscienza forse persino superiore a quello dei suoi genitori. Lo stesso vale per i ragazzini italiani.
Charles Darwin ci offre un esempio molto interessante di questo tipo di fenomeno. Durante il viaggio del Beagle educò un certo un numero di nativi della Terra del Fuoco a comportarsi come gentiluomini britannici. Quando tornò li ritrovò che vivevano come prima del loro incontro e della loro “istruzione” ma, una volta saliti a bordo, erano ancora capaci di rientrare nella sfera di coscienza degli ospiti.
Livelli diversi di coscienza non comportano livelli differenti di umanità. Più cultura e più conoscenza significano più coscienza ed intelligenza ma non significano maggiore umanità. Per la stessa logica, il fatto che stiamo consumando le risorse naturali pregiudicandone la disponibilità per le generazioni future non implica una nostra involuzione biologica, di specie: l’egoismo è il prodotto di una sfera di coscienza ristretta (non esiste realmente una falsa coscienza, ma solo false nozioni), resa possibile da un certo genere di propaganda consumistica ed edonistica strumentale al successo del modello economico capitalista, dunque provvisoria. Il modello capitalista è, a sua volta, la radicalizzazione della capacità umana di adattare l’ambiente alle sue esigenze e non vice versa, com’è il caso degli altri animali. Si è passati dall’evoluzione biologica all’evoluzione culturale (manifestazione dell’evoluzione della coscienza umana) ma l’educazione (l’immagazzinamento di informazioni), di per sé, non basta a promuovere espansioni di coscienza. Solo l’autentica conoscenza li consente. Per questo possono esistere scienziati colmi di pregiudizi, medici disposti a partecipare a sperimentazioni criminose o sedute di tortura e teorie filosofiche completamente distaccate dalla realtà quotidiana.
La ragione di ciò va ricercata nella tendenza, comune a tutti gli esseri umani, sebbene con diversi gradi di severità, ad operare meccanicamente, spesso reagendo a situazioni nuove in modo ben poco creativo, quasi fossimo prigionieri di schemi consuetudinari fatti di valori, credenze e scopi ormai così rigidi da impedire al cervello di sviluppare tutto il suo potenziale (Peat, 1987). Ancora una volta, vorrei suggerire che questo sia un evento più comune in società dove le identificazioni collettive sono più salde e soffocanti, come l’Alto Adige, appunto o, in misura enormemente più drammatica, nella Germania della transizione verso il nazismo. “Quasi nessuno a Thalburg afferrò in quei giorni quel che stava accadendo; mancò la comprensione vera di quello a cui la città sarebbe andata incontro quando Hitler avesse conquistato il potere; mancò la capacità di capire realmente quel che fosse il nazismo” (Allen, 1994, p. 279). Vi è un ammonimento di Luciano Gallino nell’introduzione all’edizione italiana che deve valere per tutti noi: “non esiste nulla capace di vietare che ciò che è accaduto a Thalburg […] possa prima o poi accadere di nuovo” (ibidem, p. VIII).
Si può insomma vivere nella contemporaneità senza possedere una coscienza “moderna”. Le persone coinvolte nella perpetrazione di genocidi, pulizie etniche, terrorismo, terrore di stato, torture, ecc., non possiedono una coscienza moderna. Un tempo tutte queste pratiche erano considerate naturali,  spiacevoli ma necessarie ed inevitabili. Oggi, invece, suscitano orrore e riprovazione nell’opinione pubblica: la ragione di ciò risiede nell’emergere di una coscienza moderna. Dunque nella Germania nazista c’erano vaste bolle di anti-modernità, a livello di maturità delle coscienze. Lo sviluppo tecnologico o la passione per l'arte non indicano di per sè una qualche sensibilità moderna. E, di contro, non era forse moderna la pulizia etnica romana ai danni dei Cartaginesi o la democrazia imperialista di Pericle?
La tecnologia è espressione della coscienza, ma non coincide con essa. Il secolo scorso è stato segnato dalla crescita rigogliosa del pacifismo, della nonviolenza, dell’ecologismo, della tutela dei diritti umani e dei diritti civili, della lotta per l’abolizione della pena di morte, della tortura, della sperimentazione sugli animali, ecc., ma è anche stato il secolo più orribile della storia umana, per quanto ne sappiamo.
Oggi credo che noi tutti concorderemmo sul fatto che l’Olocausto sarebbe inconcepibile in quasi tutto l’Occidente ed anche altrove. Ci saranno altri genocidi, ma ci risulta difficile credere che possa avvenire secondo quelle modalità, almeno in Europa. Se era già stato difficile tenerlo nascosto allora, ed era servita una guerra per perpetrarlo, figuriamoci adesso. Questa nostra fiducia – non è importante che sia ben riposta, è importante che esista e sia diffusa – è un’indicazione della prevalenza di una sensibilità moderna che deriva da una coscienza moderna. Ciò non significa che tra noi non esistano individui per cui un secondo Olocausto sarebbe concepibile e che sarebbero ben lieti di partecipare a pogrom contro gli Ebrei, i Rom o i musulmani. Per fortuna questa categoria di persone, gravemente ipodotata a livello di coscienza, rappresenta una minoranza. La Shoah è quell’esperienza catastrofica che ha almeno consentito di compiere un salto di qualità collettivo alla coscienza di intere popolazioni. Analogamente la guerra in Vietnam ha creato le premesse per le oceaniche marce pacifiste di quegli e dei nostri anni.
Dopo la guerra, le società dell’Europa occidentali sono diventate gradualmente meno violente ed oggi godono di un livello di aggressività interpersonale relativamente basso. Perché? Perché il livello di coscienza dell’opinione pubblica si è accresciuto fino al punto in cui una maggioranza di persone ha capito che aggressività e violenza sono controproducenti e servono solo ad esacerbare la situazione. Esiste anche un diffuso sospetto nei confronti di chi abusa del proprio potere. Questo rimane vero anche se ci sono poco dubbi sul fatto che, come ogni altro predatore, possediamo un istinto omicida. Tuttavia, a differenza degli altri animali, molti di noi sono perfettamente in grado di controllarlo, come di controllare, più meno efficacemente, tanti altri istinti (sadismo, lussuria, ingordigia, pigrizia, egoismo, ecc.). Per gli altri animali ciò non è possibile. Anche molti umani non sono ancora capaci di farlo e molti non arriveranno a farlo nel tempo loro destinato. Ma ciò è dovuto precisamente alla disparità di livelli di coscienza, non ad una comune natura belluina precariamente contenuta da fragili laccioli socio-culturali.
Ciò che è affascinante è che la specie umana è una specie indefinita in una misura qualitativamente differente rispetto alle altre specie. Ciascun individuo è indefinito, possiede “infinitezza”, per dirla con Emerson. Nessuno può essere definito e delimitato conclusivamente. In questo scarto rispetto agli altri ominidi, come ad esempio i Neanderthal, che rimasero presumibilmente identici a se stessi per tutta la loro storia, risiede la nostra dignità. Siamo dunque giunti a concludere che la dignità umana, che è il fondamento dei diritti umani e quindi della democrazia, ossia tutto ciò che Adolf Hitler odiava visceralmente, è strettamente interconnessa alla nostra coscienza. Più elevata sarà la sfera di coscienza, minore sarà il nostro egoismo e maggiore sarà l’attenzione ed il rispetto tributato alla dignità degli altri. Più lontano sarà il giorno dell’avvento di un nuovo Hitler, sotto mentite spoglie.
In una prospettiva in cui l’antropologo cede il passo al filosofo esistenzialista, bisognerebbe concludere che la condizione (livello, sfera) di consapevolezza è l’elemento chiave dell’esistenza in questo nostro universo. Bisognerebbe altresì concludere che il senso della vita pare essere quello di un’educazione permanente, come se il mondo fosse una grande scuola. Lo pensava anche il grande regista russo Andrei Tarkovsky: “Siamo così pochi. Qualche miliardo in tutto. Una manciata! Forse siamo qui per fare esperienza delle persone come una ragione per amare”.
Bisognerebbe, infine, io credo, concludere che lo strumento principe della nostra maturazione è la relazione: “in principio è la relazione”, dice Martin Buber, la relazione interpersonale è il fondamento della responsabilità e della giustizia, chiosa Lévinas. O, più precisamente, il dialogo socratico, che ci aiuta a diventare meno soggettivi, meno prigionieri dei nostri pregiudizi e preconcetti e meno ingiusti nei confronti del prossimo. Purtroppo il riduzionismo metodologico di tanta parte della scienza più recente nega l’esistenza della coscienza e considera la mente come una mera funzione di processi chimici ed impulsi elettrici che hanno luogo nel vuoto, piuttosto che come l’interfaccia con il resto dell’esistente, com’è invece probabilmente il caso. Fortunatamente il dibattito vede ancora una forte contrapposizione tra riduzionisti (internalisti: la mente emerge dall’interno, dalle attività neuronali) ed esternalisti, ossia coloro i quali contestano l’idea che la coscienza ed il cervello siano la stessa cosa, essendo più propensi a ritenere che il cervello sia solo il mezzo che rende possibile l’espressione della coscienza nella condizione fisica umana (e non solo umana), un canale di trasmissione e ricezione.
È comunque un fatto assodato che la mente umana non è un computer e lo stesso funzionamento di ogni cervello (l’estensione e complessità delle connessioni sinaptiche) dipende dalla sua storia biologica e dalle esperienze della persona che ne fa uso. Questo perché, a differenza di quello degli altri animali, il cervello umano rimane estremamente plastico e continua a crescere ed organizzarsi per un lungo periodo di tempo dopo la nascita. Questo aspetto dello sviluppo umano fa sì che ogni persona abbia modo di differenziarsi dalle altre ed eserciti su ogni società un’influenza che si articola nel senso di una crescente flessibilità e sofisticatezza per poter accogliere la variabilità umana senza soffocarla. Una società chiusa o comunque una società che coltiva le separazioni, le distinzioni, gli incasellamenti  è, per così dire, “innaturale”, perché si pone come ostacolo a quei processi spontanei che meglio ci caratterizzano, quelli cioè che portano all’emersione del sé, alla consapevolezza di essere agenti in un contesto naturale e sociale/simbolico, alla nostra autonoma ri-programmazione. Come chiarisce il celebre paleoantropologo Ian Tattersall, “mentre ogni altro organismo di cui siamo a conoscenza vive in un mondo che gli è stato offerto dalla Natura, gli esseri umani vivono in un mondo che loro stessi trasformano in simboli e ricreano nelle loro menti. È questo che ci rende delle creature affascinanti - e pericolose” (2002, p. 78).
Il livello di coscienza raggiunto dall’essere umano lo rende libero di coltivare la sua incompletezza, l’indeterminatezza (neotenia) necessaria all’apprendimento permanente, di percorrere vie alternative in una società ed in un ambiente aperti, di riprogrammarsi, sperimentando con e su se stesso. Un vantaggio aggiuntivo è che a maggiore eterogeneità e flessibilità corrispondono minori tassi di autoritarismo e di violenza/aggressività (Haslam/Reicher 2007; 2008).
Una ragione in più per mettersi alle spalle ogni genere di segmentazione e concezione gerarchica ed esclusiva della società umana.

LINK UTILI
L’albero che volle farsi artigiano e l’artigiano che sciolse le sue catene

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