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mercoledì 30 novembre 2011

Il Gesù poderosamente nonviolento di John Milton



Io che ho cantato il giardino gioioso perduto per la disobbedienza di un solo uomo, canto ora il paradiso riconquistato per tutta l’umanità dalla tenace obbedienza di un solo uomo, messo alla prova fino in fondo da ogni tentazione; e il tentatore fallì in tutte le sue astuzie, sconfitto e respinto, e l’Eden sbocciò nello squallido deserto.
John Milton, Paradiso Riconquistato.

Per Paolo di Tarso, e quindi per la Chiesa, Gesù il Cristo è il nuovo Adamo, il figlio di Dio che ci ricorda com’era Adamo prima della caduta. È l’uomo perfetto, immerso nel tempo e nel divenire, ma modello dell’uomo a venire, ponte tra l’uomo caduto ed il Creatore. Gesù insegna che la morale non proviene dalla nostra esperienza empirica, dall’accumulazione di conoscenza e valori, è un a priori che proviene dal nostro intimo, dalla profondità di ciò che siamo, dal nostro legame con il Regno di Dio e si realizza nella spontaneità dell’atto d’amore che, come spiega molto bene Paolo ai Corinzi: “è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità. Ci riempiamo la bocca con la parola amore, però amiamo rozzamente, narcisisticamente, in preda all’ansia, alla gelosia, alla dipendenza, all’aggressività, alla devozione, al desiderio, all’autocommiserazione ed all’invidia: ci piace sapere che la persona che amiamo dice in giro che ci appartiene, come se amore e possesso coincidessero; preferiamo amare qualcuno finché la pensa come noi; uccidiamo per amor patrio. Eppure, se non fosse per i mille modi, più o meno sgraziati o fulgidi, con cui tentiamo di amarci l’un l’altro, non sarebbe possibile attribuire alcun significato all’idea della dignità della persona, dell’inalienabilità dei suoi diritti: sarebbero involucri vuoti.
Non si può comunque ridurre il messaggio di Gesù al Discorso della Montagna ed alla predicazione dell’Amore per il prossimo. La resistenza alle tentazioni (simile a quella di Gauthama) e l’apocalisse sono elementi fondamentali, forse anche più importanti della dottrina dell’amore, perché essa non si può realizzare pienamente se non dopo la fine dei tempi mondani. Questo perché Satana – come Mara, il tentatore di Gautama Siddharta – si proclama signore di questo mondo e Gesù non lo contraddice, non lo smentisce. Anzi, resiste fattivamente alle tentazioni del Signore del Mondo: non le considera illusorie o ludiche. Non è nel Mondo Caduto che intende stabilire il Regno di Dio: “il mio regno non è di qui” (Giovanni 18, 36). Non è della corruzione della carne che si preoccupa: “E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccider l’anima; temete piuttosto colui che può far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Matteo 10, 28).
Invece di scegliere la via della dominazione o della rivoluzione (come gli zeloti), sceglie la via del servizio: “E Gesù, chiamatili a sé, disse: “Voi sapete che i sovrani delle nazioni le signoreggiano e che i grandi esercitano il potere su di esse, ma tra di voi non sarà così; anzi chiunque tra di voi vorrà diventare grande sia vostro servo;  e chiunque tra di voi vorrà essere primo sia vostro schiavo. Poiché anche il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” (Matteo 20: 25-28).
Resiste a tutte le tentazioni: quelle diaboliche, quelle del popolo che lo acclama re, quella della fuga di fronte alla prospettiva di una morte certa. Come il Buddha, in luogo dei piaceri edonistici preferisce la vita dello spirito: “Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Matteo 4, 4). Infatti, “chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per me, esso la salverà. Infatti, che giova all’uomo l’aver guadagnato tutto il mondo, se poi ha perduto o rovinato se stesso?” (Luca 9:24-25).
Gesù sconsacra il mondo e consacra la coscienza (Lenoir, 2007). Insegna che sopravvivere non basta, bisogna esserne degni. Vivere senza una coscienza integra è peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. Gesù ci rammenta che c’è un confine che i giusti non osano oltrepassare, ci sono azioni che non commetterebbero mai, indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente, che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci sarebbe più un’ulteriore occasione per marcare il confine del nec plus ultra (non oltre). L’integrità morale è più preziosa della vita. Infatti: «Gesù disse, "Se esprimerete quanto avete dentro di voi, quello che avete vi salverà. Se non lo avete dentro di voi, quello che non avete vi perderà"» [Tommaso, 70]. Gesù è pienamente autorizzato ad usare toni perentori e definitivi. È riuscito a resistere alle tentazioni di Satana, mostrando di essere pronto ad assolvere i compiti per cui si è incarnato in quel tempo ed in quel luogo.
Trovo che la rilettura di questa disputa effettuata da John Milton ne “Il Paradiso Riconquistato” sia particolarmente illuminante. Per Milton, come per tanti altri pensatori, l’incarnazione è una degradazione ontologica, una spiacevole caduta in una gerarchia monistica materiale che va invertita. Quest’opera parte dalla premessa che Gesù sia il secondo Adamo e che il ritiro spirituale nel deserto, dove sarà “aggredito” da Satana, sia un viaggio alla scoperta di sé – come l’Odissea, come la cerca del Graal. Il dialogo miltoniano tra Gesù e Satana mostra un Satana molto retorico e sofisticato ed un Gesù semplice, preciso, conciso ed incisivo. Satana si affida al potere dello scrutinio razionale, come ogni formalista (la storia della Chiesa insegna). Tenta Gesù informandolo di un difetto fondamentale della sua opera: le sue virtù non sono sufficientemente pubblicizzate. Se solo il mondo si potesse accorgere della sua grandezza, la gloria e la fama sarebbero garantite. Gesù però sa che non trarrebbe alcun beneficio dall’adorazione delle folle, che non sono certamente sagge e non potrebbero mai veramente capire la specificità della sua missione. Le folle hanno dimostrato a più riprese di non essere in grado di discernere a chi spetti la loro ammirazione, intessendo le lodi di despoti e condottieri sanguinari. La vera gloria si consegue “per vie molto diverse”, cioè “senza ambizione, guerra o violenza; con opere di pace, saggezza eminente, pazienza e temperanza” (PR III). 
Satana insiste: libera Israele, come puoi restare indifferente di fronte all’oppressione dei popoli? Gesù mette in dubbio l’interpretazione della realtà formulata dal Tentatore: a chi verrebbe mai in mente di liberare chi è interiormente schiavo, prigioniero per sua stessa mano? Le persone che sono spiritualmente schiave non possono essere liberate: finché non scelgono di cambiare dall’interno non saranno in grado di capire cosa sia la libertà e la scambieranno per qualcos’altro
A questo punto Satana batte la strada che ha già portato alla rovina Eva ed Adamo. Se vuoi farcela, insinua il Tentatore, ti conviene equipaggiarti con la sapienza classica. Gesù ribatte che la comunione con Dio gli offre tutta la conoscenza di cui abbisogna: “Chi riceve la Luce dall’alto, dalla Fonte di luce, non necessita di altre dottrine, per quanto siano date per veridiche; ma esse sono false, o poco più che sogni, congetture, fantasticherie, costruite su fragili fondamenta” (PR IV, 286-292).
Satana non è un rivoluzionario, ma un controrivoluzionario: gli piacciono le gerarchie feudali, ma vuole essere lui il capo. Gesù invece predica l’uguaglianza, ossia l’abolizione di tutte le gerarchie. Satana parla di libertà, ma le sue azioni sono all’insegna della dominazione, della gloria, della fama personale. Non riconosce gli altri come suoi pari. Non è neppure più un mentitore patologico, è una menzogna ambulante, così innamorato di sé stesso da aver rinunciato ad interessarsi a Dio, da desiderare di esistere per conto suo, da credere di non essere mai stato creato. Crede che lui ed i suoi angeli siano autogenerati "self-begot, self-raised" in virtù della loro potenza, in una sorta di percorso evolutivo spontaneo (fatal course). L’orgoglio, l’invidia, il risentimento, l’odio, la furia, la gelosia sono le sbarre della sua prigione infernale. Si sente vittima pur essendo la causa dei suoi mali e questo vittimismo perpetuo lo imprigiona e lo corrompe progressivamente.
Che cosa dovrebbe impedire alle legioni dell’Inferno di deporre Satana stesso, ora che quest’ultimo ha tracciato la strada della ribellione? Satana, come Robespierre, è un aspirante tirannicida con il cuore di un tiranno. Stabilisce una gerarchia infernale di carattere monarchico e nel farlo si appella proprio alla logica del sistema di potere che vuole abbattere. È un ipocrita. Usa le stesse parole per condannare gli uni e giustificare se stesso. Non è davvero possibile avere un dialogo con lui, perché il suo intelletto è gravemente compromesso, è virtualmente reso autistico dalla sua assoluta preferenza per se stesso. Di conseguenza, nelle tentazioni della Partia, di Roma e di Atene non possiamo fare a meno di notare la futilità dell’interloquire, che rende onore a Milton, disposto a sacrificare l’intrattenimento pur di preservare l’integrità dell’opera. Satana non è strutturalmente in grado di capire le argomentazioni di Gesù e quest’ultimo non è minimamente interessato alle profferte di Satana, che considera ben poca cosa rispetto a ciò che già possiede.
Satana gli dice: tu pensi di sapere molto, ma io ti posso garantire che la fonte di conoscenza che ti offro è infinitamente più vasta. Potrebbe farcela, com’è già successo con Eva, perché Gesù si è ritirato nel deserto proprio alla ricerca della conoscenza che gli permetterà di realizzare la sua missione (Yim, 2003). Ma Gesù, come già Socrate, sa che la vera conoscenza è già dentro di lui e si tratta solo di recuperarla scandagliando la sua interiorità: “conosci te stesso” è il motto dell’oracolo delfico. Il rifiuto di questa profferta indica il grado di consapevolezza acquisito da Gesù: “sono già in comunione con il divino”, non ho bisogno di altro. 
Allora Satana si gioca l’ultima carta, deponendolo sul pinnacolo del tempio: dimostra che sei chi pretendi di essere. Il primo Adamo è caduto, il secondo Adamo resiste. Narcisismo, ipocrisia e orgoglio non lo condizionano. La Caduta è l’incapacità di separare l’idea dalla realtà, la sovrapposizione delle proprie idee alla realtà, che impedisce di vederla come effettivamente è (“potrebbe essere”, “dovrebbe essere”, in luogo di “è”), fino al distacco completo dalla realtà stessa, che è il nostro fato: un estetismo cronicizzato che cancella il realismo, la visione obiettiva dei fatti.
La critica letteraria Carol Barton (Barton, 2000) ha osservato che i lettori del Paradiso Riconquistato si lamentano della staticità della trama, della passività del protagonista (Gesù), della mancanza di tensione nello scontro tra Bene e Male, del ripudio della cultura umanistica da parte di Gesù. Ma Gesù non deve fare altro che smascherare l’illusione, per annientare il potere del “mago”, come ne “Il meraviglioso Mago di Oz”. Non c’è alcun bisogno di un duello fisico o di un elaborato confronto filosofico. Una volta che l’eroe si rende conto del meccanismo che sorregge l’illusione, questa cessa di esercitare il suo potere su di lui e si dissolve. Gesù non agisce solo perché ha capito fin dall’inizio che le varie opzioni che gli vengono presentate sono fuorvianti e corrompenti, dietro un’apparenza di stuzzicante appetibilità. Compiere qualunque azione sollecitata da Satana (incluso sfamare gli affamati e liberare un popolo) equivale a rendersi suo complice e servo.
Gesù non deve dimostrare la sua divinità o superiorità, perché sono un dato di fatto, non un motivo di vanagloria. Non deve prevalere sul Male, ma su di sé. Se Adamo ed Eva avessero avuto la stessa intuizione, non ci sarebbe stata alcuna Caduta. 
La grande impresa di Gesù il Cristo è  precisamente questa: saper dire di no alle tentazioni, con determinazione, senza tentennare. Da quel momento in poi potrà portare a buon fine la sua impresa. È maturo per far sì che ogni sua azione sia equilibrata, attenta e tempestiva. È Adamo redivivo, prima della Caduta. Ogni azione va compiuta al momento opportuno, né prima, né dopo. Non spetta a Gesù o a chiunque altro alterare o accelerare il corso e la manifestazione della volontà divina. Ciò lo rende inattaccabile. Non deve scegliere tra le alternative proposte da Satana: sono inevitabili solo perché Satana vuol far credere e vuol credere lui stesso che lo siano. Non è certo Satana a dover stabilire quali siano le opzioni disponibili.
Satana semplicemente non sa abbastanza delle cose dell’universo, mentre Gesù sa che affidarsi alla conoscenza umana sarebbe come guardare il mondo con delle lenti distorcenti ed opacizzate. Perché rinunciare ai suoi 11 decimi di visione? Perché dovrebbe accontentarsi delle ombre sulle pareti della caverna quando può vedere il cielo stellato, cioè la Verità? Adamo ed Eva non dimostrarono la stessa lucidità.
A Gesù non è richiesto di annullare se stesso in Dio. Dio non è un divoratore di anime, non chiede nulla di più di quanto chiederebbero una moglie o un marito: non anteporre te stesso alla nostra unione. L’obbedienza non è una virtù in quanto tale se ci si piega alla tradizione o alla tirannia. L’obbedienza ha valore e significato solo se si fonda sull’amore e sulla sapienza. 
Ne “Il Paradiso Perduto”, l’arcangelo Raffaele spiega: “serviamo liberamente, perché amiamo liberamente” (5.538-9). Gesù ama e si fida, Adamo ed Eva no: si comportano impulsivamente ed egoisticamente e si prendono di nascosto quel che decidono sia loro per diritto acquisito, senza neppure domandarsi se sia saggio fidarsi di uno sconosciuto, tradire la fiducia di chi ti ama e dare per scontato che quel frutto ti sarà per sempre negato – e, se anche così fosse, che ciò avviene per futili motivi e non per il tuo bene.
Gesù preserva il suo libero arbitrio, scegliendo di non agire, che è di per sé un’azione. Infatti non è immobile, passivo, inerte. Sembra inattivo, ma è attivo, perché mentre il suo corpo appare inoperoso, la sua coscienza è attiva, circospetta, lungimirante: le tentazioni lo rendono consapevole di quale sia la sua natura ed il suo ruolo cosmico, lo aiutano a capire la differenza tra quel che lui vuole e la volontà della Provvidenza. Satana sembra in moto perpetuo, ma si affanna a correre senza riuscire a spostarsi dal luogo in cui si trova. Alla fine perde il controllo e precipita, ancora più dannato di prima, ancora più statico. È altrettanto significativo che Dante lo descriva come immobilizzato in una glaciale perpetuità.
Come Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore, Milton non assegna al suo Gesù alcuna missione se non quella di resistere alla manipolazione della sua coscienza. Si salverà solo chi imiterà il suo rifiuto. L’immobilità di Gesù sul pinnacolo è quella di un uomo in cui la volontà personale è sorretta da quella divina, senza che le due possano essere distinte, perché la natura umana si è fatta umilmente e prontamente veicolo, strumento di quella divina, ricevendone in cambio l’onnipotente agape. Satana impone un “o…o”, Gesù risponde con un “e…e” (Barton, op. cit.). Solo in quell’istante si manifesta il Cristo, ossia una figura investita di poteri e funzioni speciali. Infatti, nei vangeli sinottici, sebbene gli angeli e i magi lo riconoscano come tale, il dubbio serpeggia. Giovanni Battista sospetta che sia proprio lui, ma non ne è certo. Gesù non si proclama tale ed anzi invita gli apostoli a mantenere un basso profilo: “Allora egli intimò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno” (Marco 8, 30). Nel Paradiso Riconquistato, Milton non lo chiama mai Cristo, ma “il Figlio”, a riecheggiare le parole di Giovanni: “ma a tutti coloro che lo hanno ricevuto, egli ha dato l'autorità di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome” (Giovanni 1, 12) e di Paolo: “Poiché tutti quelli che sono condotti dallo Spirito di Dio sono figli di Dio” (Romani 8, 14). Ancora più chiaramente, nella prima lettera di Giovanni: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (1 Giovanni 3, 1-3).
Fino alla fine dei tempi non potremo essere come Gesù, ma tutti possono sforzarsi di essere più simili al secondo Adamo, rispetto al primo. 


LINK UTILI
http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/etienne-de-la-boetie-un-uomo.html

martedì 15 novembre 2011

La paura della morte non dovrebbe esistere





In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito…Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito.

Giovanni 3, 1-8

La crisi, il default, i Maya, le catastrofi naturali, le schermaglie medio-orientali, la guerriglia urbana, il cambiamento climatico, gli ordini della troika finanziaria: tutto ci fa pensare alla morte, più o meno consciamente.

“E quando tornate a casa, date una sberla a vostro figlio e ditegli è la sberla del Ministro della Paura... guardatevi con sospetto, odiatevi, sparatevi...è straordinario...”. Questa è una battuta tratta da uno sketch del magnifico Antonio Albanese, ma rappresenta accuratamente la realtà. L’insicurezza induce alla regressione, la frustrazione all’aggressività, l’ansia all’autoritarismo, sino all’insorgere delle dittature che sanciscono quella che Fromm ha chiamato la fuga dalla libertà, che è anche una fuga dalla pace. Un antropologo statunitense, Ernest Becker, ha studiato la paura dell’estinzione fisica e storica, ed è giunto alla conclusione che molte delle nostre azioni sono dettate dalla necessità di produrre un’interconnessione di significati e simbologie in grado di generare l’illusione della trascendenza della morte (Becker, 1982). Quindi non si tratta della semplice reazione di chi si sente fisicamente vulnerabile, tutti noi vogliamo che la nostra esistenza abbia un senso, che conti qualcosa, che dia un contributo significativo ad un’entità durevole – la Chiesa, la Scienza, l’Etnia, la Società, la Razza, la Nazione o la Patria, la Comunità, la Cultura, l’Arte, la Rivoluzione, la Storia, l’Umanità, la Professione, ecc. – e la prospettiva della nostra morte rende quest’esigenza ancora più pressante. Perfino avere un blog può far sentire più vivi, più significativi. Il blog, come tante altre attività umane, è un progetto di immortalità, un qualcosa che nega alla morte – alla prospettiva di morire – il potere che esercita su di noi. Il culto delle celebrità rappresenta forse, inconsciamente, un mezzo per continuare a vivere fondendosi nel mito dell’eroe, sperando di acquisirne le proprietà magiche della permanenza ed invulnerabilità. Il problema è che questi progetti di immortalità sono indissociabili dall’affermazione di una verità assoluta che ci gonfia di un orgoglio narcisistico ed acritico e ci scherma da prospettive alternative, giudicate invariabilmente false, spingendoci ad attaccare i promotori di sistemi di immortalità diversi dai nostri. Chi ha paura di morire, di norma, è egoista ed aggressivo: mors tua, vita mea. La paura ci impedisce di praticare, per quanto è possibile la nonviolenza e la solidarietà. Ci rende sociopatici, anche se in condizioni normali non lo saremmo. Ci rende pecore in un gregge, desiderose di essere guidate dal pastore (e costrette a crederlo buono).

Occorre tenere a bada questa paura di morire, se vogliamo conservare la dignità, il contegno, l’onore, l’autostima, una coscienza/anima che non sia deturpata dal Male.

Occorre capire di che vita stiamo parlando.

Il credente può restare interdetto nel leggere certi passi evangelici che riguardano la vera vita. Gesù si dichiara un irriducibile amante della vita, ma non di quella vita organica che la Chiesa sembra voler difendere oltre ogni ragionevole aspettativa. Gesù insegna che esiste un’altra vita, una vita sensibilmente più importante di questa, tanto che “chiunque è vivo per colui che vive non vedrà la morte” (Tommaso, 111). È beato chi “si è impegnato ed ha trovato la vita" (Tommaso, 58), ma il compito non è per niente facile: “stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano” (Matteo 7:14). È come inoltrarsi in un labirinto, ma è necessario farlo, perché “chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” (Matteo 16: 25). Sarà una vita vera ed eterna, non come quella del presente, che equivale ad una morte vivente: “Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24). Il corpo di carne, infatti, è il fardello della caduta e Gesù non sa che farsene: “È lo spirito quel che vivifica; la carne non giova nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Giovanni 6, 63). Il suo piano è incentrato proprio sul dono della vera vita: “io son venuto perché abbian la vita e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10, 10). Questo l’ha ben compreso Paolo di Tarso, che rincara: “Perché ciò a cui la carne ha l’animo è morte, ma ciò a cui lo spirito ha l’animo, è vita e pace” (Romani 8:6).

“Nirvana” era originariamente il termine che indicava la condizione spirituale di chi si è liberato dall’identificazione con ego e con l’universo materiale. La traduzione come “vuoto” o “nulla” ha stravolto orribilmente il suo significato. Il fine del Buddha non era certo il raggiungimento di uno stato di “non-esistenza” ma semmai il contrario, ossia uno stato di piena, consapevole, obiettiva percezione della realtà.

Passiamo ora alla fisica quantistica, con una serie di citazioni:

“Nulla esiste finché non è misurato” (Niels Bohr, Nobel 1922).

“Un elettrone è una potenzialità immateriale finché non viene osservato” (Max Born, Nobel 1954).

“Se non sono disturbati dall’osservatore, gli elettroni non sono cose, non esistono nello spazio e nel tempo, la loro esistenza è meramente potenziale. Emergono in una condizione di esistenza reale ma provvisoria nell’atto di misurazione che è quindi un atto creativo” (Erwin Schrödinger, Nobel 1933).

“Per ciò che riguarda le particelle che costituiscono la materia, non sembra esserci alcuno scopo nel considerarle come composte di qualche materiale. Sono, in un certo senso, pura forma, nient’altro che forma; ciò che si manifesta di volta in volta in osservazioni successive è questa forma, non uno specifico frammento di materia” (ancora Erwin Schrödinger).

“Le più piccole unità di materia non sono, di fatto, oggetti fisici nel senso ordinario della parola; sono forme, strutture o, nell’accezione platonica, Idee, di cui si può parlare in modo non ambiguo solo nel linguaggio della matematica” (Werner Heisenberg, Nobel 1932).

“La gente pensa sempre che, quando si dice “realtà”, si sta parlando di qualcosa di chiaramente noto a tutti, mentre invece per me il più importante e più arduo compito del nostro tempo è lavorare alla costruzione di una nuova idea di realtà” (Wolfgang Pauli, Nobel 1945, lettera a Markus Fierz, 1948).

“Gli elementi costitutivi del mondo fisico sono quelli che chiamiamo eventi. Un evento non persiste e non si sposta come un pezzo di materia tradizionale: esiste semplicemente per un suo breve attimo e poi cessa” (Bertrand Russell, “L’ABC della relatività”).

“Se si era inizialmente creduto che nel corso del progresso delle scienze tutto ciò che è ‘trascendentale’ sarebbe stato progressivamente soppresso, perché in ultima analisi si poteva ricondurre tutto ad una spiegazione razionale, si dovette poi ammettere che il mondo materiale che per noi è così tangibile, si dimostra invece sempre più simile ad apparenza e si dissolve in una realtà che non è fatta di cose e di materia, ma di forme che predominano. [...] La fisica quantistica ci ha confermato ancora una volta che la nostra esperienza scientifica, la nostra conoscenza del mondo, non rappresenta la realtà ultima ed intrinseca, qualunque significato si voglia attribuire a queste espressioni” (Hans-Peter Dürr, fisico nucleare e quantistico tedesco, 1986).

“Se l’universo è vivo, le emozioni possono avere un significato cosmologico” (Shimon Malin, fisico teorico, Colgate University, 2011).

Infine, una riflessione di un biochimico belga, Christian De Duve, Nobel per la medicina nel 1974:

“Ora sappiamo che l'immagine del mondo offerta dai nostri organi di senso, che pure funziona perfettamente nella vita di ogni giorno, ha poco a che fare con la realtà. Ciò che ci sembra solido e impenetrabile è perlopiù vuoto [...]. Di conseguenza, la nostra definizione intuitiva della materia è completamente distorta dai filtri che i nostri organi di senso interpongono fra un oggetto e noi. Si tratta di una definizione essenzialmente pragmatica, basata sul genere di informazioni che si sono rivelate più utili nella ricerca del cibo, nella lotta contro i predatori e per il successo riproduttivo. Come strumenti di conoscenza, queste informazioni sono quasi prive di valore” (De Duve, 2002, pp. 292-293).

Cosa significa tutto questo? Significa che l’elettrone esiste solo come campo di potenzialità, potenzialità di diventare una cosa (o per meglio dire un evento), con certe proprietà che possono essere misurate. Solo l’atto di misurazione trasforma il potenziale in effettivo. Protoni e neutroni, che formano l’atomo, assieme agli elettroni, si comportano allo stesso modo. Questi sono gli elementi costitutivi della materia che forma tavoli, sedie, libri ed esseri viventi. Continuiamo a chiamarli particelle anche se non lo sono, per mancanza di un termine migliore. Sono eventi: ergo, solo la coscienza dell’osservatore rende reale ciò che non lo è (Malin, 2011).

Ciò vale per gli atomi come per ogni elemento della realtà che vediamo. Questa conclusione alla quale sono giunti molti dei fondatori della fisica quantistica è in linea non solo col buddismo e con il neo-platonismo, ma anche con il pensiero di David Hume e George Berkeley – “esse est percipi”: essere significa essere percepiti. Solo ciò che è percepito è reale. Non sorprende quindi che Werner Heisenberg, Albert Einstein, Wolfgang Pauli, Arthur Eddington, Alfred North Whitehead, David Bohm ed Erwin Schrödinger fossero affascinati dal neoplatonismo, dal pitagorismo, o dal buddismo; per loro i determinismi potevano essere trascesi. Pauli, nelle sue conversazioni con Jung, ipotizzava addirittura che gli archetipi potessero strutturare la materia. Se la psiche e la materia sono un’espressione di un ordine retrostante, comune ed obiettivo, allora l’archetipo è come uno specchio che si manifesta come riflesso nella psiche e nella materia. Ciascuno si deve perciò assumere la responsabilità di ciò che crea ad ogni livello (Gieser, 2005). 

Ma anche se ignorassimo questa branca della fisica e continuassimo a credere all’interpretazione materialista-riduzionista della realtà, resta il fatto che la materia è fatta di atomi e gli atomi sono virtualmente vuoti (al 99,9 periodico percento), tanto che se si togliesse lo spazio tra elettroni e nucleo la Terra si ridurrebbe ad una palla da baseball. Un altro esempio: se un atomo fosse grande come il Meazza, il nucleo sarebbe più piccolo di un pisello a centro campo. Dunque la tastiera con cui scrivo queste parole è sostanzialmente vuota, come chi scrive, come ciascuno dei lettori. Il mio fondoschiena non è a contatto con una sedia ma è sostenuto, nel vuoto, dalla resistenza elettromagnetica alla compressione degli elettroni (le particelle con la stessa carica si respingono).

Anche il granito delle nostre montagne è vuoto. Se lo percepiamo come “granitico” è solo perché i nostri sensi non ci consentono di cogliere la natura quasi illusoria della materia. I nostri sensi sono materiali e quindi accettano l’illusione di solidità di ciò che li circonda, che è prodotta dal moto rapidissimo delle particelle atomiche, allo stesso modo in cui i raggi di una ruota di bicicletta che gira sembrano formare un solido ed uniforme disco di metallo, sebbene la ruota sia in gran parte vuota. 

Dunque, se persino ciò che il nostro cervello percepisce come indiscutibilmente solido, pieno, stabile, permanente, tangibile, ecc. non lo è, risulta ancor meno sensato badare a quegli spettri impalpabili ed evanescenti che sono i nostri spauracchi e i nostri idoli e miti, tutto ciò che abbiamo inventato per riuscire a soddisfare il nostro duplice bisogno sado-masochista di venerare noi stessi e contemporaneamente prostrarci. Queste finzioni sono ombre o riflessi delle interazioni umane. Il mondo reale non è una collezione di oggetti e la questione dell’identità, dell’essere identici a se stessi, dell’essere vivi, corporalmente, non ha alcun senso. Ogni evento è reale e unico, separato e distinto da ogni altro. Non esiste alcuna entità che rimanga identica da un momento all’altro, il mondo è sempre nuovo, non si muore mai veramente. Panta rei, tutto scorre, come dicevano i Greci ben prima di Eraclito, al quale l’aforisma è stato erroneamente attribuito.

Noi ci formiamo un’illusoria impressione di identità nel corso del tempo solo perché entità sempre nuove continuano a creare schemi che ci appaiono come analoghi, incessantemente. In questo senso la fisica quantistica è in piena sintonia con i dati delle altre scienze che abbiamo citato nell’introduzione a “Contro i miti etnici” (Fait/Fattor, 2010, p. 12): “la biologia insegna che ogni organismo è un prodotto squisitamente unico dell’interazione dei geni con l’ambiente in ogni istante della vita di ciascuna persona. Per i genetisti di popolazione, se c’è da fare una suddivisione della specie umana, l’unica distinzione significativa è quella tra individui. Gli studi neurologici dimostrano che non esistono due cervelli che siano identici, neppure tra gemelli identici, perché le variazioni microscopiche di ogni cervello sono enormi. Analogamente, le impronte digitali dei gemelli omozigoti sono distinte ed individuali. Infine i linguisti hanno concluso che le parole e le frasi, nella loro struttura e significato, hanno una storia che varia a seconda dell’esperienza e del contesto di ciascuna persona. Insomma, l’evidenza empirica demolisce ogni tentativo di essenzializzare e negare la straordinaria diversità dell’umano nelle sue innumerevoli espressioni, cioè il suo fascino e bellezza”.

Il fatto concreto non è l’esistenza del mondo fenomenico, ma l’esperienza che ne facciamo. La vera vita risiede nell’esperienza della nostra coscienza, che non è materiale. La stessa materia di cui è costituito l’universo è l’insieme delle esperienze e potenzialità di esperienza che si influenzano reciprocamente. Perciò anche le identità personali sono illusorie, sono eventi quantistici. Un essere umano, considerato nella sua vicenda totale, è un flusso di esperienze, di occasioni d’esperienza, o di “occasioni viventi”, come le definisce Alfred North Whitehead, il grande filosofo e matematico britannico.

Se ogni evento è inestricabilmente legato all’esperienza di una data coscienza, allora per alcuni una sinfonia di Mozart sarà un’esperienza più reale e più profonda di una canzone di Lady Gaga, così come il Barolo avrà un livello di esistenza più intenso rispetto al succo d’uva. Søren Kierkegaard, nel “Don Giovanni, la musica di Mozart e l’eros”, scrive: “Mozart immortale! A te devo tutto, è per te che ho perso il senno, che il mio spirito è stato colpito da meraviglia ed è stato scosso nelle sue profondità; devo a te se non ho trascorso la vita senza che nulla fosse capace di scuotermi”.

Ciò che conta è allora il potenziale di indurre in un essere senziente esperienze più profonde. Per alcuni l’arte più sublime è più alta, più reale dell’atto di leggere un quotidiano e un sacrificio solidale come quello del poliziotto che muore nel tentativo di salvare un aspirante suicida è più vero di un linciaggio tra tifosi. Mi auguro che ciò valga per una maggioranza di persone, ma sicuramente non lo sarà per tutti. Perché? Perché, come abbiamo già visto, esistono livelli di coscienza diversi tra gli esseri umani. Il livello di coscienza di un Eichmann o di un fondamentalista non è paragonabile a quello di un Martin Luther King o di una Aung San Suu Kyi. Il processo dialettico attraverso cui un individuo si vede simultaneamente come oggetto e come soggetto consente un ampliamento ed un approfondimento della coscienza umana; uno sforzo, questo, grandemente facilitato dalla possibilità e disponibilità a costruire ponti invece di erigere muri. Il “segreto”, dunque, è la curiosità. Essere curiosi significa cercare di informarsi, stare attenti a ciò che si fa e ciò che fanno gli altri, cercare di capire le motivazioni dietro le proprie e le altrui azioni e parole. Più limpida è la conoscenza, più limpida è l’esistenza, più vera è la conoscenza, più vera sarà la vita. È il senso dell’aforisma di Bruce Lee, che sarebbe piaciuto molto a Socrate: “Conoscere sé stessi è studiarsi mentre si agisce con l'altro”.

Se si riuscisse a metterlo in pratica gran parte dei problemi del mondo troverebbe una soluzione.

In che modo? La via è già stata tracciata dai trascendentalisti statunitensi, R.W. Emerson (1803-1882), Walt Whitman (1819-1892) e H.D. Thoreau (1817-1862) e riproposta, più recentemente, dalla politologa Nadia Urbinati e dal filosofo politico statunitense George Kateb (Kateb, 1992, 2002; Urbinati, 1997). È una via che giudico ineludibile perché attualmente non viviamo in società autenticamente democratiche, ma piuttosto in democrazie formali che sono a tutti gli effetti oligarchie sostanziali. La chiave per una riforma del nostro vivere associato che non passi per la rivoluzione – uno strumento di crudeltà ed oppressione come pochi altri – è l’individualità democratica.

Ecco cosa intendevano i trascendentalisti americani per individualità democratica: vivere deliberatamente, pronti a cogliersi in errore, a ridurre le distanze rispetto al prossimo, se questi lo desidera; “al tempo stesso dentro e fuori dal gioco, osservandolo e meravigliandosene” (Whitman). La capacità di identificarsi nel prossimo, trascurando ego, grazie al coraggio morale, alla compassione ed alla generosità, ad una diversa concezione del nostro stare al mondo, all’insegna dell’unità della vita nella diversità delle sue espressioni, la comprensione del nostro essere partecipi di un ciclo cosmico, una danza rigeneratrice in cui un albero ha valore in quanto tale, non perché fornisce ossigeno e legname, ed in cui quel che si consuma va restituito in qualche forma, cioè possibilmente non accumulando rifiuti ed appestando l’aria. Un sentimento di co-appartenenza che suscitava l’entusiasmo di J. L. Borges nella sua prolusione all’edizione in spagnolo di “Foglie d’Erba”: “In Whitman possiamo anche vedere tutta la vicenda del vivere; in Whitman soffia anche la gratitudine miracolosa per i modi concreti, tattili e multicolori in cui esistono le cose…Whitman, con impetuosa umiltà, vuole assomigliare a tutti gli uomini”.

Ne fece esperienza diretta anche l’ateo Bertrand Russell, durante una trance catalettica causata dall’esperire empaticamente la sofferenza della moglie di Alfred North Whitehead (Russell, 1967):

“Sembrava tagliata fuori da tutto e da tutti da muri di agonia ed improvvisamente fui sopraffatto dal senso di solitudine di ogni anima umana. Da quanto mi ero sposato la mia vita emotiva era stata calma e superficiale. Mi ero scordato di tutte queste questioni più profonde, accontentandomi di frivole arguzie. All’improvviso mi sentii mancare il terreno sotto i piedi e mi trovai altrove…Al termine di quei cinque minuti ero diventato una persona completamente differente. Per un momento, una sorta di illuminazione mistica s’impadronì di me. Sentivo di conoscere i pensieri più intimi di tutte le persone che incontrato per strada ed anche se questo era indubbiamente un’illusione, mi trovai effettivamente a più stretto contatto con tutti i miei amici e molte delle mie conoscenze. Da imperialista, in quei cinque minuti, divenni un sostenitore dei Boeri ed un pacifista. Dopo aver passato lunghi anni interessandomi solo alla precisione ed all’analisi, mi ritrovai inondato di sensazioni semi-mistiche riguardanti la bellezza, con un intenso interesse per i bambini, e con un desiderio quasi altrettanto profondo di quello del Buddha di trovare una quale filosofia che rendesse tollerabile la vita umana. Fui preda di una strana eccitazione che conteneva in sé un dolore intenso ma anche degli elementi di trionfo per via del fatto che riuscivo a dominare la sofferenza, trasformandola, così credevo, in un cammino di sapienza. Da allora l’intuizione mistica che immaginavo di possedere si è annebbiata e l’abitudine all’analisi si è riaffermata. Ma qualcosa di quel che ho pensato di vedere in quel momento mi è restato dentro, motivando il mio atteggiamento nei confronti della prima guerra mondiale, il mio interesse per i bambini, la mia indifferenza per i piccoli inconvenienti ed un certo tono emotivo in tutte le mie relazioni umane”.

È un sentimento che nasce da uno sguardo dall’esterno o dall’alto, da una prospettiva sovrastante, remota, estraniante, esotica, come quella degli astronauti di varie nazionalità che, nell’ammirare la Terra, si sono resi conto della ristrettezza di vedute di chi attribuisce importanza a frontiere e barriere. Riporto alcune delle loro riflessioni perché varrebbe la pena rileggersele, quando ripiombiamo nei nostri particolarismi e piccinerie egocentriche:

“Volare nello spazio significa vedere la realtà della Terra, solitaria. È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita e il mio modo di vedere la vita stessa” (Roberta Bondar).

“Man mano che ci allontanavamo, la Terra si restringeva. Alla fine si ridusse alle dimensioni di una biglia, la più bella che uno potesse immaginare. Quell’oggetto così bello, caldo e vivo sembrava così fragile, così delicato, che se lo si fosse toccato con un dito si sarebbe infranto. Vedere una cosa così ti cambia per forza la vita” (James B. Irwin).

“ La Terra era piccola, azzurra, e così pateticamente sola…la nostra casa va protetta come una sacra reliquia” (Aleksei Leonov).

Nello spazio sviluppi istantaneamente una coscienza globale, un comportamento prosociale, un’intensa insoddisfazione per come vanno le cose nel mondo ed un desiderio irrefrenabile di fare qualcosa per cambiarle. Vista da lassù, dalla luna, la politica internazionale sembrava così insignificante” (Edgar Mitchell).

Per chi ha visto la Terra dallo spazio, e per le centinaia e forse migliaia di persone che seguiranno, è un’esperienza che cambia la tua prospettiva sulle cose. Ciò che ci accomuna è molto di più di quel che ci divide” (Donald Williams).

Per i trascendentalisti l’individualità democratica comporta il legarsi al particolare, provvisorio e precario, nella piena consapevolezza di dover comunque raggiungere una realtà che fonda, permea o travalica il particolare, provvisorio e precario. Per loro non c’è vera democrazia senza questa individualità impersonale. Emerson spiega che osservare usi e costumi obsoleti disperde le nostre energie, ci fa sprecare tempo ed offusca l’impressione del nostro carattere. Una vita in funzione dei giudizi e delle comprensioni altrui è mal spesa e, in un certo senso, quasi cessiamo di esistere. Come si può pretendere che le persone foggino la loro identità, condotta, mentalità e strutturino il loro pensiero su un passato ed un futuro determinati, un ambiente ed un orizzonte limitati? Premiando il conformismo si umiliano la creatività, l’imprevedibilità e la specialità dei singoli, trasformandoli da soggetti in oggetti, da cause in effetti, in luogo delle irripetibili rivelazioni dell’eternità e dell’infinitezza, irriducibili e per questo preziose alterità che in realtà sono. Eventi quantistici: è quello che siamo, non fasci di appartenenze. Non è dissolvendosi e dissipandosi verso l’esterno che si consolida la propria personalità. Una forte personalità autocentrata (self-reliance, la chiama Emerson) permette invece di mettere da parte ego e di coltivare una genuina sollecitudine nei confronti del prossimo.

Così ci si lasciano alle spalle il narcisismo letargico (egotismo) e l’altruismo compulsivo (assenza di personalità, alienazione del sé) che, dopo la crudeltà, sono i peggiori vizi dell’umanità. Per raggiungere questo obiettivo serve un intelletto critico e indipendente che sappia infrangere le convenzioni quando la coscienza – il severo scrutinio delle proprie intenzioni e premesse – lo imponga, ossia quando sono ingiuste o malvagie; che non s’inchini di fronte a nomi e costumanze. “Gli uomini sono diventati strumenti dei loro strumenti”, si lamenta Thoreau in “Walden” (1854). Il valore materiale supera quello umano e la vita spirituale si ritrae. È il risultato della devozione ai falsi idoli, ai golem.

Perciò l’individualità democratica è la premessa dell’assunzione di responsabilità, non della deresponsabilizzazione, come erroneamente alcuni hanno creduto, confondendo il trascendentalismo americano con l’egoismo aristocratico del romanticismo europeo. Emerson e Whitman si spesero in prima persona nella battaglia per i diritti civili ed il secondo, ultraquarantenne, si offrì volontario come infermiere in vari ospedali da campo per gli ultimi tre anni di guerra civile.

Demandare e delegare alle autorità comunitarie ed alle convenzioni è irresponsabile nonché pericoloso. Le convenzioni congelano la metamorfosi del sé, l’affinamento del proprio stare al mondo. Solo chi pensa e decide con la sua testa è un cittadino democratico responsabile. La democrazia e la coscienza morale fioriscono nell’autoconsapevolezza, non nell’infantilismo e nella tutela genitoriale dei golem, degli idola tribus, ossia delle astrazioni che creiamo perché ci soggioghino, spaventati come siamo dalla libertà, dalla responsabilità, dalla vita e dalla morte. La democrazia è la manifestazione dello sforzo secolare di alimentare la vita sociale in buona fede e non superstiziosamente. Dunque l’individualità democratica, cioè a dire l’autonomia personale, è un acido che corrode la mistica dell’autorità non solo nella sfera politica ma anche in quella sociale, consentendo ai cittadini di giudicarsi di dignità e valore pari agli altri, non intrinsecamente inferiori o superiori, non giustificati nella loro ossessione per i propri bisogni, i propri desideri, le proprie smanie, o nella predilezione per le categorizzazioni spersonalizzanti dell’umano. È un fattore di progressiva democratizzazione di tutti i rapporti interpersonali, di dispiegamento dell’empatia, la disposizione a vedere nell’altro un altro sé, invece che un altro da sé

Nel suo “Democratic Vistas” Whitman sostiene che l’unica ampia e soddisfacente giustificazione della democrazia risiede nella prospettiva di riuscire a generare un copioso numero di caratteri esemplari tra la gente, in un contesto di sana e piena religiosità, intesa come spiritualità, non come la cieca fede delle religioni monoteiste. Per Thoreau la democrazia, invece di elevare un gruppetto di nobili sopra le masse, rende possibile l’esistenza di “nobili villaggi d’uomini”. Secondo Emerson l’individualità, a differenza dell’individualismo, lungi dal rappresentare una minaccia per la libertà e la società, ne è invece la base morale più salda ed irrinunciabile.

Unità ed uguaglianza nella diversità, non appiattimento nell’uniformità omologante del gruppo un meccanismo infernale che produce invariabilmente oligarchie, dai paesi rurali ai grandi stati nazionali. In questo modo ci si vaccina contro il livellante zelo comunitarista, la perniciosa xenofobia, la mortificante idolatria del proprio gruppo di appartenenza, la disumana, bestiale dissoluzione nella massa.

La riforma da realizzare è in ciascuno di noi, prim’ancora che nelle istituzioni. Queste ultime cambiano solo dopo che i cittadini sono cambiati.

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lunedì 24 ottobre 2011

La coscienza, dal Buddha a David Foster Wallace




Non è una misura di buona salute l’essere ben adattato ad una società profondamente malata
Jiddu Krishnamurti

Nell’ottica dello studio della coscienza, l’unico, vero discrimine tra esseri umani concerne l’obiettività. Ci sarà sempre chi si situa più vicino (o per meglio dire, meno distante) al polo dell’obiettività (vedere la realtà com’è e non come desideriamo che sia) e chi invece tende a scivolare verso il polo della soggettività, quello di chi vede esclusivamente ciò che vuole vedere, indipendentemente dalla propria lingua, ma non dalla propria tradizione: alcune società agevolano l’impegno verso l’oggettività, altre lo avversano.
Una coscienza più obiettiva richiede consapevolezza, attenzione, circospezione, conoscenza, saggezza. Ci si deve distanziare da noi stessi – fare un passo indietro ed uno fuori da noi stessi – per impedire alle nostre paure, fantasie ed affetti di interferire con la nostra obiettività.
Le identificazioni collettive forti rendono molto più arduo questo compito. Infatti ostacolano l’introspezione, quella che ci rivela che siamo prima di tutto esseri umani e solo in un secondo momento un maschio, un montanaro, uno scrittore, un marito, un trentino, ecc. È nella nostra natura la capacità di fare un passo indietro ed un passo in là, per perseguire l’ideale di un’esistenza più piena, abbondante, vitale di quanto sarebbe possibile altrimenti. Le tenaci affiliazioni di gruppo interferiscono anche con l’empatia, che promuove obiettività. Nella sua espressione più completa, l’empatia ci impedisce di porci troppo al di sopra degli altri, ci rammenta che non siamo più importanti degli altri, che il loro dolore non è meno significativo del nostro (Fait/Fattor 2010). L’empatia, se la si lascia libera di agire, scoraggia l’auto-inganno, le illusioni, ci spinge ad interessarci agli altri, a preoccuparci per loro, a concentrarci su tutte le cose che ci consentono di aiutare gli altri, nei loro termini, non nei nostri. Per farlo, però, occorre una visione e comprensione obiettiva della realtà che, bloccati come siamo nel nostro egotismo, senza empatia non potremmo mai sperare di sviluppare.
L’empatia è la precondizione essenziale per l’individualità impersonale tanto cara a figure disparate quali Socrate, Simone Weil, R.W. Emerson, Tolstoj, Albert Camus (cf. “La chute”) e Aung San Suu Kyi, la sconfitta del senso egoistico di essere migliore o più prezioso del prossimo, la capacità di nutrire le emozioni non-egoistiche, che sono quiete, non-violente, impersonali ma al tempo stesso profondamente personali. Le emozioni egoistiche divorano la nostra attenzione verso l’esterno, sostituendola con automatismi istintivi, reazioni emotive incontrollate ed imponderate, ci espongono alla conquista delle nostre paure e brame, cosicché non viviamo più la nostra vita, ma siamo vissuti, rischiando di morire senza aver realmente vissuto. Idealmente, in una condizione di individualità impersonale, il sé si dissipa, svanisce, ma la coscienza rimane, come se fosse un elemento costitutivo della realtà, il fondamento di ciò che è, obiettivamente.

“Se non ti rendi conto che ciò che fai è sbagliato, non potrai neppure vergognartene. Vivi nella pura fantasia – una specie di follia e una totale mancanza di obiettività. Il che si riduce poi all’incapacità di affrontare la verità. Se vivi in un mondo dove tutto ciò che fai è giustificato da concetti come “patriottismo” o “il bene del paese”, non potrai compiere il passo successivo di vergognarti e desiderare di correggerti”
(Aung San Suu Kyi, 2008).

Qualunque astrazione creata dall’uomo si trova dunque a due gradi di separazione dalla verità.
Ma non dobbiamo arrenderci al fatalismo, al determinismo, al potere coercitivo della tradizione sulla voce della coscienza. Ci sono necessità soggettive o arbitrarie e necessità oggettive o inevitabili. Quelle oggettive sono realmente incontrollabili: per esempio, non possiamo volare (senza supporti tecnologici), non possiamo vivere nel passato, non possiamo dimagrire in un giorno. Quelle soggettive che, in "Contro i Miti Etnici" (CME), ho chiamato “golem” sono necessità che descriviamo come incontrollabili ma determinano il nostro fato solo se siamo così pigri, indolenti e stolti da lasciare che così avvenga. Pensiamo agli alibi più classici, come “mio marito è violento ma non posso lasciarlo, altrimenti lo distruggerei”, o “non possiamo permetterci di spendere 18 euro per un cavolo di libro”, oppure “le guerre sono inevitabili”. È vero che, come ha osservato un lettore di CME, “la realtà del contesto in cui viviamo ci impone regole che, a volte, non condividiamo”, ma questa forza che ci sembra esterna ed insormontabile in realtà non lo è. La costrizione all’allineamento etnico o politico viene unicamente da dentro di noi ed opera solo se lo vogliamo. Scriveva Dietrich Bonhoeffer (2009):
“Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde anche se provvisoriamente molto mortificanti”.
Nessuno mette in dubbio che convivere tra mille diversità sia impresa non facile. Siamo già angariati da mille debolezze, come l’egocentrismo, l’auto-inganno, le fallacie logiche, la soggettività emotiva, il bisogno di appartenenza, la dipendenza da figure autoritarie, il pensiero dicotomico (bianco/nero, bene/male), la vulnerabilità alla pressione gregaria, l’ignoranza e l’accidia (inerzia), la percezione selettiva della realtà e così via. A tutto questo, che sarebbe già di per sé più che sufficiente, si aggiunge la babele linguistica, un ulteriore, enorme ostacolo alla comprensione tra i singoli individui ed i popoli. Ma Socrate, Gesù, Buddha e Mo Tzu, tra gli altri, si sono sforzati di insegnarci che questo non può essere un alibi e che superare gli ostacoli (i nostri preconcetti e pregiudizi sopra tutti gli altri) è un segno di maturità. Pare, però, che molti dei loro seguaci agiscano come se, al contrario, si trattasse di un comodo alibi, un’ulteriore dimostrazione del fatto che ciascuno di noi contiene molteplici identità, anche contraddittorie, e che è poco saggio sceglierne una e stabilire che è quella che ci rappresenta meglio.

Vorrei completare queste considerazioni con un lungo, magnifico estratto da “Questa è l’acqua”, di David Foster Wallace (Wallace, 2009), una gemma che mi è stata suggerita da Gabriele Di Luca, insegnante, intellettuale, editorialista, recensore ed amico livornese-altoatesino-sudtirolese e che sintetizza mirabilmente quanto ho cercato di spiegare "antropologicamente":

“Ci sono questi due giovani pesci che nuotano insieme e, ad un certo punto, incontrano un pesce più vecchio che nuota in direzione opposta, il quale fa un cenno di saluto e dice, “‘Giorno, ragazzi, com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e infine uno dei due si rivolge all’altro e fa, “Che diavolo è l’acqua?”. […]. Il punto fondamentale della storiella dei pesci è che le realtà più ovvie, invalse ed importanti spesso sono quelle più difficili da vedere e di cui è più difficile parlare. […]. Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo capiti. Ma vi prego, non temete che mi metta a predicarvi la compassione o l’empatia o le cosiddette “virtù”. Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. […]. Se siete automaticamente sicuri di conoscere qual è la realtà, e chi e cosa è davvero importante - se volete operare secondo la vostra configurazione standard - allora voi, come me, non prenderete in considerazione possibilità che non siano insignificanti e fastidiose. Ma se imparate davvero come pensare, a cosa prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose. […]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza. Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” -la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito. […]. Riguarda la semplice consapevolezza - consapevolezza di quello che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente: “Questa è l’acqua, questa è l’acqua”.

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