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venerdì 13 gennaio 2012

Se incontrate questo tipo di rivoluzionari, isolateli: sono mortiferi





So che la maggior parte degli uomini, compresi coloro che hanno dimestichezza con problemi della più grande complessità, raramente riesce ad accettare la verità più semplice e ovvia, se questa li costringe ad ammettere la falsità delle conclusioni che essi hanno orgogliosamente insegnato ad altri e che hanno intessuto, un filo dopo l'altro, nell’ordito della propria vita.
Tolstoj, “Che cos'è l'arte?”, 1897

Che la pace sia un valore è cosa che nessuno discute (anche i folli e i fanatici, a modo loro, vogliono la pace), ma non bisogna confonderla con la resa. Chi vuole la pace con Hitler, meriterebbe appunto di averla, e di godersela sino in fondo. Col male politico non si viene a patti, e pur di estirparlo è sensato pagare anche un alto prezzo di sofferenza. Il punto essenziale è che non si creda di lottare per il bene, se no si dà immediatamente ragione all'avversario: è appunto perché è buono che ci uccide. Non esiste la guerra del bene contro il male. Esiste la guerra del bene assoluto e del male minore. Cioè, ormai dovrebbe essere chiaro, del male assoluto e del male minore. Non bisogna lottare per la verità, ma per l'incertezza. Per il tentativo. Per l'esperimento. Per l'avventura. Per la fallibilità. Dunque per la libertà, purché sia una libertà che non si realizza mai, e dunque che non è duratura in nessuna della sue singole forme. Non bisogna lottare per nulla che sia infinito ed eterno: queste armi lasciamole all'avversario. Non bisogna lottare per essere perfettamente buoni, ma per essere moderatamente, tollerabilmente, umanamente cattivi. Non c'è diritto più grande ed irrinunciabile di quello all'imperfezione: perché è il diritto alla perfettibilità.
Luigi Alfieri, “Riflessioni sul male politico (a partire dall'11 settembre)”, in Dialoghi, anno II, n. 1, 2002, pp. 46-55.

Già da un po' di tempo ho espresso il mio parere che il 2012 sarà l'anno in cui le rivolte cominceranno a prendere una piega rivoluzionaria, specialmente in seguito all'attacco preventivo israeliano all'Iran. Perciò mi aspetto che il 2013 ed il 2014 siano anni Rivoluzionari con la maiuscola.
Ciò detto, per chi non conosce il mio pensiero, è bene specificare che sono recisamente contrario alla violenza aggressiva (chi dovrebbe desiderare di fare del male a qualcun altro?), ma anche alla nonviolenza e pacifismo, che ostacolano l’indispensabile autodifesa ed il ristabilimento della libertà e della giustizia (quando ce vo' ce vo'):
Sospetto però che le rivoluzioni facciano il gioco dei potentati e che quindi andrebbero evitate, se possibile. Gli scioperi di massa (una forma di violenza molto limitata e dignitosa) dovrebbero essere sufficienti a cambiare le cose (es. nell’epica sumera gli umani si ribellano al loro asservimento agli dèi gettando a terra gli attrezzi da lavoro – gli dèi sono ricondotti a più miti consigli).
Temo però che sia utopistico sperare nell’autocontrollo delle folle e, soprattutto, nel buon senso dei potenti dei nostri tempi; quindi è bene prepararsi ad un nuovo 1848:
Per questo è meglio fare una ripassatina di alcuni fatti storici.
Movimenti rivoluzionari sfociati in regimi tirannici: 1642 in Inghilterra (Cromwell), 1789 in Francia (Robespierre e Napoleone), 1848 in Francia (Napoleone III), 1917 in Russia (Lenin e Stalin), 1919 in Italia (biennio rosso - Mussolini), 1930 in Germania (Hitler), 2011 in Egitto, 2012 negli Stati Uniti?
La Rivoluzione del 2012 sfocerà anch’essa nel Terrore (perché conviene a chi intende instaurare un Nuovo Ordine patentemente anti-democratico),
ma si può cercare di interferire o magari addirittura interrompere questo genere di degenerazione. La storia ci insegna quali sono i leader che faranno il gioco del Potere.

Finché essi vivono non è possibile che vi liberiate dal timore umano…Non lasciatevi atterrire, dio è con voi.
Thomas Müntzer (1794 – 1525)

Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù. È molto meno un principio contingente, che non una conseguenza del principio generale della democrazia applicata ai bisogni più pressanti della patria. […]. Punire gli oppressori dell’umanità: questa è clemenza. Perdonare loro sarebbe barbarie. Il rigore dei tiranni ha come fondamento soltanto il rigore: quello del governo repubblicano ha invece come sua base la beneficenza.
Maximilien Robespierre, “Sui principi di morale politica”, 5 febbraio 1794.

I popoli non giudicano come le corti giudiziarie, non emettono sentenze: lanciano la loro folgore; non condannano i re: li piombano nel nulla… quale altra legge può seguire il popolo se non quella della giustizia e della ragione sostenute dalla sua onnipotenza?
Maximilien Robespierre, “Discorso per la condanna a morte di Luigi Capeto”, 3 dicembre 1792.

Io ho sostenuto, tra persecuzioni incredibili e senza appoggi, che il popolo non ha mai torto, io ho osato proclamare questa verità in un tempo in cui non era ancora riconosciuta; il corso della rivoluzione l’ha dimostrato.
Maximilien Robespierre, 25 febbraio 1793

Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile…Sparta brilla come un punto luminoso in tenebre sterminate.
Robespierre, “Sui rapporti tra le idee religiose e morali e i principi repubblicani”, 7 maggio 1794

Il fine della rivoluzione è il trionfo dell’Innocenza.
Robespierre

Questa nostra Rivoluzione è una religione e Robespierre è il capo della setta. È un prete che governa i devoti…Robespierre predica, Robespierre censura, è furioso, solenne, melanconico, esaltato – ma tutto freddamente; i suoi pensiero fluiscono con regolarità, le sue abitudini sono regolari; tuona contro i ricchi e i grandi; vive con molto poco; non ha bisogni. Ha una sola missione – parlare, e parla incessantemente; crea discepoli…parla di Dio e della Provvidenza; si definisce amico degli umili e dei deboli…riceve la loro venerazione…è un prete e non sarà mai altro che un prete.
Condorcet (1743 –1794) su Robespierre, articolo apparso su Chronique de Paris

Voi dovete punire non solo i traditori, ma anche gli indifferenti; dovete punire chiunque sia apatico nella Repubblica e non faccia nulla per essa; giacché, dopo che il popolo ha manifestato la sua volontà, tutto ciò che si oppone ad essa si pone fuori del popolo sovrano, e tutto ciò che è fuori del popolo sovrano è nemico.
Saint-Just, “Sulla necessità di dichiarare il governo rivoluzionario fino alla pace”, 10 ottobre 1793

ART. 1 “gli stranieri, sudditi dei governi con i quali la Repubblica è in guerra, saranno detenuti fino alla pace” – ART. 2 “Le donne, unite in matrimonio con dei francesi prima del 18 del corrente mese, non sono comprese nella presente legge, a meno che non siano sospette o mogli di sospetti” – ART. 10 “Il comitato di Salute Pubblica è egualmente autorizzato a trattenere in requisizione permanente tutti gli ex nobili e gli stranieri che crederà utile adibire ai lavori pubblici” – ART. 23 “Tutti gli oziosi, che saranno riconosciuti colpevoli di essersi lagnati della Rivoluzione, che non abbiano compiuto i sessant’anni e che non siano infermi, saranno deportati alla Guyana”.
Saint-Just, articoli proposti alla Convenzione.

[Il decreto del 6 settembre 1793 sospende l’ospitalità pubblica ed espelle gli stranieri nati nei paesi con cui la Francia è in guerra, perché considerati serpi in seno. Lo stesso farà Petain nei confronti degli Ebrei al tempo di Vichy. Gli stranieri “degni” di restare devono ottenere un certificato di ospitalità attraverso un garante e si suggerisce di costringerli ad indossare un bracciale tricolore con la scritta “ospitalità”, proposta terribilmente anticipatrice delle perversioni naziste, ma che fortunatamente non viene accettata].

La rivoluzione deve fermarsi quando abbia raggiunto la perfezione della felicità e della libertà pubblica per mezzo delle leggi. I suoi slanci non hanno altro scopo, e devono spazzar via tutto ciò che vi si oppone.
Saint-Just, “Frammenti sulle istituzioni repubblicane”, 1794

Perché allora non ricorriamo ai detenuti nobili ordinando loro di compiere ogni giorno questi lavori di riassetto delle grandi strade?
Saint-Just, 1794

Occorre obbligare ogni cittadino a collaborare all’attività nazionale…non abbiamo forse navi da costruire, officine da migliorare, terre da bonificare?
Saint-Just, 1794

Quello che costituisce una Repubblica è la distruzione di tutto ciò che la contraria.
Saint-Just

Noi faremo un cimitero della Francia, piuttosto che non rigenerarla a nostro modo.  
Jean-Baptiste Carrier (1756 – 1794)

Molti dei Francesi che ci avevano appoggiato ci guardavano come dei pazzi, come degli energumeni, spesso persino come degli scellerati.
René Levasseur de la Sarthe, giacobino, 1795.

Bisogna affermare apertamente, intendo in senso politico, e non in termini strettamente giuridici, il principio che motiva l’essenza e la giustezza del terrore, la sua necessità, i suoi limiti. Il tribunale non deve sopprimere il terrore, dirlo equivarrebbe a mentirsi o a mentire, ma dargli un fondamento, legalizzarlo in base a dei principi, con chiarezza, senza barare o nascondere la verità. La formulazione deve essere il più aperta possibile, perché solo la coscienza legale rivoluzionaria e la coscienza rivoluzionaria creano le condizioni per applicarlo nei fatti.
V.I. Lenin al commissario del popolo per la giustizia D.I. Kurskij, 17 maggio 1922.

L'odio come fattore di lotta - l'odio intransigente contro il nemico - che spinge oltre i limiti naturali dell'essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così, Un popolo senza odio non può vincere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra nei luoghi del nemico: a casa sua, dove si diverte. Renderla totale. Bisogna impedirgli di avere un solo istante di respiro, un minuto di sosta, fuori e persino dentro le sue caserme: attaccarlo dovunque sia. Farlo sentire una bestia braccata dovunque vada. […]. E dovunque ci sorprenda la morte, sia benvenuta, purché il nostro grido di guerra raggiunga chi è pronto a raccoglierlo e un'altra mano si tenda ad impugnare le nostre armi e altri uomini si preparino a intonare canti di lutto con il tambureggiare delle mitragliatrici e nuovi gridi di guerra e di vittoria.  
Messaggio di Ernesto Che Guevara per la rivista Tricontinental (16 aprile del 1967), considerato il suo testamento politico.

La rivoluzione francese mi ha influenzato molto e in special modo Robespierre…Robespierre è il mio eroe. Robespierre e Pol Pot: entrambi hanno la medesima qualità di determinazione ed integrità.
Suong Sikoeun, uno dei leader dei Khmer Rossi (1975-1979)

Il problema non è il terrore in quanto tale, il nostro compito è precisamente quello di reinventare il terrore emancipatore.
Slavoj Zizek, “In difesa delle cause perse: materiali per la rivoluzione globale”, 2009.

Etichette come “terrorista” sono quelle che una cultura corrotta e decadente usa per designare quelle che persone che cercano di combattere il vero male nel mondo. Ben desiderava colpire tutto ciò che sta lentamente soffocando questo mondo e ha fatto qualcosa di prematuro, non autorizzato. Ma far saltare quel treno era sbagliato? No. stava combattendo il male con tutto il cuore.
Sorella Clarice Willow, “Caprica” (2010)

Altrettanto mortiferi sono i leader rivoluzionari che non sanno difendere la rivoluzione e la democrazia dalle mostruosità immorali appena elencate e dai rivoluzionari più prosaici, quelli falsi, privi di principi morali, irresponsabili, intringanti, parassiti della politica, delinquenti e terroristi, cinici ed arrivisti, quelli che detestano gli uomini di valore perché mettono in risalto la loro pochezza, l’insignificanza della loro persona e la miseria della loro personalità.
Tra i leader rivoluzionari inadeguati per eccesso di idealismo e mitezza, un esempio per tutti  è Alexander Kerenksij: “un uomo onesto, sincero e pronto a dare la vita per il suo Paese. Ma che non sa assolutamente niente dell’arte del governo e immagina di fare grandi cose quando elabora sulla carta piani per l’abolizione della pena di morte in tempi di guerra e di rivoluzione. Aborrisce forza, violenza e crudeltà e pensa davvero che sia possibile esercitare il potere con parole gentili e sentimenti elevati. Più di ogni altra cosa sembra compiacersi della sua purezza, umanità e idealismo. Un uomo buono, ma un cattivo leader, di fatto il tipo perfetto dell’intelletto russo” (Pitirim A. Sorokin, già collaboratore di Kerenskij nel governo provvisorio del 1917).
Ci sono analogie tra giacobinismo e bolscevismo: fede rivoluzionaria, esigenza di sovversione totale, epurazioni, “dispotismo della libertà”, magistero di ortodossia, implacabilità, radicalismo, assolutismo, egualitarismo radicale, messianismo, antiliberalismo, antiparlamentarismo, meccanismi di produzione dell’unanimità, centralismo politico ed amministrativo, cinismo, sospensione della realtà e trionfo del principio sul fatto, virtù indivisibile del popolo che perciò deve restare unito, fanatismo, violenza, terrorismo.
Saint-Just è grandiosamente scellerato, glacialmente narcisista e forse psicopatico. I leader rivoluzionari più radicali sono più spesso ventenni-trentenni, con poca esperienza di vita, che impongono la loro rozza, inesperta visione del mondo a tutti gli altri. Coltivano orgoglio, a volte crudeltà, quasi sempre un appetito di dominazione. Sono tigri erudite che non hanno ancora avuto tempo di diventare adulte.
Un fanatico austero, dal cuore freddo come la sua morale, Saint-Just si paragona a Tarquinio e Muzio Scevola. Lui e Robespierre usano spessissimo i termini “cuore”, “sensibilità” e “virtù”, come se dovessero supplire verbalmente alla loro mancanza di cuore, sensibilità e virtuosità. Saint-Just si attribuisce una ragguardevole dose di virtù, ma è un pessimo giudice di se stesso - come tutti gli esseri umani. Sfortunatamente le rivoluzioni nutrono mostri e sono alimentate da mostri. La violenza generalizzata è l’habitat perfetto per i mostri, per gli psicopatici integrati, quelli che s’irrigidiscono nei moralismi e si fissano intransigentemente sulle virtù etiche perché non hanno empatia e quindi non possono sapere cosa sia un comportamento spontaneamente morale. Una loro tragedia personale, da compatire, ma con esiti assolutamente devastanti per tutti gli altri:
Questi pifferai di Hamelin sono responsabili della conversione della rivoluzione in una crociata teocratica, in un moloch che divora gli esseri umani. In nome della loro certezza che siccome c’è una sola verità e loro sono riusciti a comprenderla, ad impadronirsene definitivamente, chiunque sia in disaccordo è motivato da propositi maligni. Robespierre si considera e dichiara vittima di persecuzione tutte le volte che qualcuno lo contraddice, si sente investito di una sacra missione, e patisce un’immensa frustrazione quando il mondo si rifiuta di sottomettersi al suo volere: conclude che solo la violenza purificatrice può ristabilire l’ordine naturale delle cose. Lo stesso discorso vale per Saint-Just. Sono entrambi sicuri che la cosa giusta da fare sia ridurre la diversità del mondo al proprio denominatore individuale. Il loro ego ipertrofico proietta sul gruppo la loro esigenza di uniformità, di una singola volontà, di un carattere unitario: la premessa di ogni politica genocidaria.
Sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine. Notiamo la stessa logica in Mao, Pol Pot, Stalin e Hitler, nella vicenda biblica dello sterminio dei Cananei, ma anche in Karl Rove. Nel 2002, un consigliere di George W. Bush, presumibilmente Karl Rove, spiegò a Ron Suskind: “Ora noi siamo un impero e quando agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che potrete studiare. È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo”.
O tutto o niente, o con noi o contro di noi, ora o mai più. La rivoluzione, come la guerra degrada le coscienze: “Quello che in tempo di pace viene considerato immorale, ingiusto, dannoso per la collettività, in tempo di guerra cambia di segno, si trasforma in valore positivo e viene perciò stimolato e incoraggiato. Non uccidere, non mentire, non tradire, ecc. sono tutte massime che devono essere ribaltate durante un conflitto lungo e radicale per il bene della collettività; inoltre deve essere sviluppata in tutti i modi una mentalità aggressiva, bellicosa, spietata se occorre. In altre parole la guerra crea un “nuovo universo morale” con regole e valori specifici che sono in contrasto profondo con quelli dell’universo morale dell’epoca in cui la società è in pace. Inoltre la guerra produce una mentalità manichea che porta a scomporre il mondo in amici e nemici e a guardare con sospetto gli stessi membri del gruppo di appartenenza, se questi manifestano in qualche modo un ardore sufficiente o addirittura riserve morali sulla lotta in atto” (Luciano Pellicani, “I rivoluzionari di professione”, 2008, p. 215).
Se pure è un male necessario, la rivoluzione resta comunque un male ed è uno strumento che non può mai divenire un fine. Una volta rimosso l’establishment, la rivoluzione deve finire e la democrazia deve prevalere – una democrazia autentica, non la democrazia dei fanatici che si considerano santi, unici depositari della virtù – altrimenti tutto sarà stato vano.
Seguendo Albert Camus, una genuina rivolta dev’essere umanista, deve prendere in considerazione l’umanità nella sua interezza. Non è il ribellismo egotista adolescenziale à la Nietzsche. Non è la rivolta del no. Il ribelle dice no ma dice anche sì, nel momento in cui compie il primo gesto di ribellione. La libertà che esige, la esige per tutti: “Mi ribello, quindi esistiamo”. La rivoluzione è sempre integralista (o tutto o niente), perciò tradisce invariabilmente lo spirito umanitario della rivolta. La misura è la cifra della rivolta. Non c’è rivolta senza una filosofia del limite. Sono gli psicopatici che rifiutano i limiti e non sanno distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Diceva Benjamin Constant (1767 –1830), ne “Gli effetti del terrore”: “Il terrore esiste solo quando il crimine diventa sistema di governo e non quando ne è il nemico; quando il governo lo prescrive e non quando lo combatte; quando organizza la furia degli scellerati e non quando invoca il soccorso degli uomini dabbene”.

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mercoledì 28 dicembre 2011

L'imperialismo umanitario e la resistenza hoferiana (ieri e oggi)





Anche l’anti-hoferismo ha i suoi scheletri nell’armadio e può servire, a suo modo, ad impedire l’affermazione in Alto Adige di una cultura sinceramente democratica.

Albert Camus osservava molto acutamente che “il male che c’è nel mondo deriva sempre dall’ignoranza, e le buone intenzioni possono fare altrettanto danno della malevolenza, se mancano di discernimento”. Nei piani napoleonici c’erano ben poche buone intenzioni e molto cinismo amorale (machiavellismo) e, anche laddove, tra gli amministratori dei suoi domini, c’era sincero idealismo, non era certo immune da una feroce intransigenza robespierriana, che trovava il suo equivalente nel fanatismo reazionario dell’integralismo cattolico.
Non c’è nulla di più sanguinario di queste due patologie della coscienza – l’amoralità e l’intransigenza –, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo. Dopo il declino del cristianesimo e la fine del comunismo, l’umanitarismo è la nuova crociata redentrice (Brauman, 2009). Mentre sarebbe sbagliato non intervenire, è altrettanto sbagliato intervenire con tutto il proprio peso: sarebbe meglio intervenire un po’, con moderazione e rispetto, perché, come sottolinea Tzvetan Todorov nell’introduzione al libro: “il diritto o la morale non sostenuti dalla forza rischiano di essere impotenti, ma la forza senza diritto e senza morale conduce al crimine”. 
Il parallelo tra un Terzo Mondo immaginato come una landa desolata, popolata da eterne vittime bisognose di incessante soccorso ed un’analoga percezione degli ambienti alpini è del tutto legittimo (Arnoldi, 2009). 
Come oggi si esporta la democrazia ed il benessere, così, ai tempi di Andreas Hofer, le baionette franco-bavaresi imponevano il diritto napoleonico e la medicina moderna sollecitati dal medesimo impulso che anima l’umanitarismo contemporaneo, quello della legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se non ci sono forze che la limitano. Andreas Hofer fu il catalizzatore di quelle forze. Possiamo discutere della bontà dei suoi valori e dei più vasti disegni politici che lo coinvolsero, forse a sua insaputa, ma dobbiamo prendere atto del fatto che tutti noi, come i franco-bavaresi di un tempo, siamo abituati a pensare che la violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici, civili ed umanitari e gli altri o non lo sono, o lo sono sensibilmente di meno
Crediamo che la nostra violenza redentrice sia un male minore, che in fondo è un bene, e quindi si giustifica da sé, ma il diritto non coincide sempre con la giustizia e l’umanitarismo può degradare l’umanitario, allo stesso modo in cui il moralismo è una perversione della morale
I detrattori dell’hoferismo e del napoleonismo a volte incappano nella trappola cognitiva di pensare che ogni critica ad una causa giusta (la loro) sia ingiustificata e dietrologica. L’umanitarismo (come la lotta per l’autodeterminazione e contro gli invasori) elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo gerarchicamente tra vittime e carnefici, vittime e soccorritori, trasformandosi in un modo di leggere (erroneamente) il mondo (Brauman, 2009). Quello attuale, e quello di chi combatteva Hofer, è un messianismo laico, l’ennesimo mito che ci permette di condensare una pluralità di significati complessi in un codice binario.
Le armate napoleoniche, come quelle della NATO, non praticavano forse il “cannibalismo umanitario” tipico dell’orco filantropico, come l’ha chiamato Octavio Paz, Premio Nobel per la Letteratura nel 1990? 
Vi liberiamo, vi soccorriamo, vi emancipiamo dai vostri vizi: abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a sentirci dei salvatori. L’ingerenza “umanitaria” diventa allora un dovere (dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non farlo). Si scambiano le intenzioni per i risultati, ci si munisce di una falsa coscienza compiaciuta, si pontifica, prigionieri del proprio gioco di specchi. In questo modo, a causa di questa ideologia redentrice, la meravigliosa conquista dei diritti umani, nel diciannovesimo secolo come nel ventunesimo secolo, può fungere da vettore di guerra, oppressione ed iniquità, per strappare i barbari alla loro barbarie.
La sofferenza patita e la giustezza della causa conferisce l’immunità morale alla propria fazione. Gli uni e gli altri, francobavaresi ed hoferiani, volevano salvare il Tirolo, per cambiarlo oppure per conservarlo eternamente. Non era un Tirolo realmente esistente, ma una costruzione della loro mente, un ideale da difendere ad ogni costo, che fungeva per gli uni e per gli altri come valvola di sfogo di angosce esistenziali, reazione all’anomia, all’insoddisfazione ed al bisogno di autostima, ma anche come pretesto per imporre il proprio ego e le proprie proferenze ed esigenze.
L’umanitarismo produce perversioni anche tra chi ne beneficia, come il vittimismo. Il vittimismo partorisce la vittimologia e la vittimocrazia: in Alto Adige gli imprenditori etnici amano presentarsi come rappresentanti di un popolo vittimizzato, in un mondo in cui l’ideologia umanitarista esige che si intervenga in favore delle vittime e moltiplica le vittime per potersi sostenere. L’esito è profondamente anti-umano, oltre che anti-umanitario, perché perpetua l’immagine dicotomica delle vittime e dei carnefici, dominati e dominatori e tiene bene in vista la prospettiva del capro espiatorio e della violenza indiscriminata: “qualcuno deve pagare per tutto quel che abbiamo dovuto subire!”. Altro che grandi ideali: è contabilità spicciola. Dall’una e dall’altra parte.
La convivenza si costruisce sulla capacità di ascoltare l’altro e di imparare da lui, non certo sulla presunzione di auto-sufficienza e sulle brame messianiche. Altrimenti la valutazione obiettiva della realtà lascia il posto alle monocolture della mente, che elidono la diversità e fanno presentire una drammatica mancanza di alternative che in realtà non esiste e non esisterà mai, laddove la necessità è l’alibi del tiranno.
Ogni identità è una relazione, ossia un’interdipendenza. Non si protegge un’identità separandosi dagli altri o stabilendo dall’alto come questa vada tutelata: così facendo la si condanna a morte. Alla mancanza di riconoscimento dell’altro corrisponde una percezione deficitaria di noi stessi ed una concezione strumentale della politica: le persone sono mezzi in vista di un fine, la realtà è argilla da modellare a nostro piacimento, finché non assume i contorni da noi desiderati. Come se fosse possibile cambiare l’altro senza cambiare anche noi stessi
Il vero cambiamento parte da noi stessi, da un auto-esame, dal mettersi in discussione, da una revisione delle nostre relazioni con gli altri. È patologicamente narcisistico pretendere che gli altri debbano cambiare per venire incontro alle nostre esigenze ed arrivare così a vivere la vita che desideriamo per noi, o separarsi dagli altri pur di averle sempre vinte. Purtroppo questo genere di desiderio trova un terreno fertile in una società del consumo e dell’edonismo, che ci instilla deliri di onnipotenza, insegnandoci ad espandere ininterrottamente le nostre brame, a credere che possiamo e dobbiamo mirare ad una sorta di onnipotenza ed autarchia, che è giusto e doveroso superare la nostra naturale condizione di incompiutezza, di carenza strutturale: “l’uomo che non deve chiedere mai”, “il lusso è un diritto”, “perché io valgo”, “tutto intorno a te” ed altre fesserie sensazionalistiche, emotive e manipolatorie all’origine della pandemia depressiva del mondo occidentale. 
Si chiama hybris ed è l’indisponibilità a riconoscere che abbiamo dei limiti e che questi limiti non sono ostacoli che dobbiamo cercare freneticamene ed ossessivamente di superare ma rappresentano i diritti di cui sono titolari gli altri esseri viventi che popolano questo pianeta, che non sono nostre appendici, continuazioni di noi stessi, non sono terre di conquista su cui allungare le mani, non sono alterità da cancellare perché scomode, sconvenienti, irritanti
Per questo il patriottismo, l’orgoglio etnico, l’umanitarismo (quando è "civilizzatore"), quasi senza eccezioni, sono il volgare sentimentalismo di chi crede di prendersi cura di qualcosa che è al di fuori di se stesso, ma in realtà sta proiettando all’esterno il suo amor proprio: i successi ed i patimenti della patria, della comunità, della civiltà sono prima di tutti i suoi ed è questo che lo gratifica o lo affligge. Ogni ingiuria alla patria è un’occasione per sentirsi protagonista di un melodramma cosmico che soddisfa le sue fantasie di grandezza. Se la patria non è sufficiente ci sarà la classe, la fede religiosa, la civiltà, ecc. L’amor patrio, come l’amore per l’umanità, è la menzogna di chi non vuole confessare il proprio narcisismo e lo trasla su una collettività, per mimetizzarlo. Lo aveva capito perfettamente don Lorenzo Milani che, nel 1966 (Gesualdi, 1975), scrive ad una studentessa napoletana:

Non si possono amare tutti gli uomini...Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più... Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio.

Sulla scia di Paolo di Tarso, che scriveva (1 corinzi 13, 3-7: 3):

Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.

mercoledì 21 dicembre 2011

La Sindrome dell'Anticristo




La parola greca hybris esprime meglio di qualunque altra la natura di questo atteggiamento. Per i greci indicava l’arroganza dell’eccesso, l’orgogliosa tracotanza, la sconfinata presunzione dell’uomo che cerca di acquistare gli attributi di Dio. Certamente gli Stati Uniti vivono sempre più in un regime di hybris e in pochi si rendono conto che con questo atteggiamento si stanno guadagnando un’ostilità crescente da parte del resto del mondo e in particolare da parte delle vittime della loro arroganza. […] raggiungeremo un senso del limite quando riusciremo a percepire questa ricerca dell’eccesso, della crescita illimitata, del dominio sulle alterità come un tentativo di rimozione della propria mortalità.
Marco Deriu, “Dizionario critico delle nuove guerre”, 2005

Io credo che ci sia anche una crudeltà che non è affatto follia, che è una lucida e razionale scelta del male, che è un peccato, pensato e pianificato, che è un mezzo voluto per mantenere e accrescere il potere proprio e quello del sistema
Marianella Garcia Villas



Possiamo immaginare come speri, raccogliendo abbastanza anima (o anime), di poter fare una vampa di luci capace di annullare alfine la sua oscurità e porre rimedio alla sua solitudine…un essere formidabile nel suo aspetto irredento….anche se possiamo provarne pietà, le nostre prime azioni devono essere di riconoscerla, di proteggerci dalle sue devastazioni, e infine di privarla della sua energia sanguinaria.
Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi”

Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare.
Benito Mussolini, secondo Elsa Morante

Per queste persone l’atto creativo è la testimonianza di una capacità di vivere che manca loro. La volontà di esercitare il controllo sull’altro nasce dall’invidia e da un profondo sentimento di vuoto e di sterilità […] la mortificazione delle potenzialità creative genera la paura di vivere, la paura dell’altro, la paura di lottare per la vita. Questa paura, che è la negazione stessa della vita, è il disagio che si cela dietro la maschera di ogni potente.
Roberto Castaldi, “Il fascino del potere”.
                                                                                                          
Nel folklore innumerevoli sono gli apprendisti stregoni che scioccamente osano avventurarsi oltre le loro reali capacità, cercando di contravvenire alla Natura. Vengono puniti con mali e cataclismi. Esaminando questi leitmotiv vediamo che i predatori desiderano superiorità e potere sugli altri. Sono portatori di una sorta di ampollosità psicologica per cui l’entità desidera essere più in alto dell’Ineffabile, altrettanto grande e a questo pari, a quell’Ineffabile che tradizionalmente distribuisce e controlla le forze misteriose della Natura, compresi i sistemi della Vita e della Morte, le regole della natura umana e così via. […]. Possiamo immaginare come speri, raccogliendo abbastanza anima (o anime), di poter fare una vampa di luci capace di annullare alfine la sua oscurità e porre rimedio alla sua solitudine…un essere formidabile nel suo aspetto irredento….anche se possiamo provarne pietà, le nostre prime azioni devono essere di riconoscerla, di proteggerci dalle sue devastazioni, e infine di privarla della sua energia sanguinaria.
Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi”

Una piccola Rana vide, dalla riva del suo stagno limaccioso, un grosso Bue e, tanto si stupì della sua prestanza fisica che desiderò intensamente diventare come lui. Cominciò così a gonfiarsi a più non posso; infine, soddisfatta, si mostrò al Bue: Guardami un po', - lo apostrofò con aria di sfida - sono ben grossa? - Non è sufficiente, vecchia mia, ci vuol altro! La Rana, invidiosa, si gonfiò di più e poi, si gonfiò ancora, ma la sua pelle fragile, ahimè, si lacerò per lo sforzo e la minuscola Rana vanitosa si trovò ridotta come un sacco vuoto, senza vita, simile a quei tali intriganti, tutta apparenza e niente sostanza, che non contenti di quello che hanno, fanno il passo più lungo della gamba per eguagliare modelli inimitabili.
Jean de La Fontaine, "Le Fiabe degli Animali"

In questa fase della nostra storia sono tremendamente incuriosito dalla forma mentis e dalle azioni delle persone che dimorano in cima alla Piramide sociale e che stanno gestendo la Grande Crisi che, in un modo o nell’altro, porterà alla Grande Trasformazione. Cos’hanno in testa? Cosa sentono nel cuore? Cosa provano quando mettono in gioco le esistenze di milioni di persone? 
Io credo che non siano diversi dai potenti del passato e dai potenti delle epopee e delle fiabe. Non credo, insomma, che la psiche umana sia cambiata in misura significativa.
I potenti della contemporaneità, come gli dèi e i potenti del passato, sono malvagi nella misura in cui pretendono non solo che noi li veneriamo, ma che li consideriamo buoni e giusti, anche se molti indizi sembrano dimostrare il contrario – ad esempio l’impunità dei responsabili della crisi e la spietatezza con cui si colpiscono le persone vulnerabili, disabili inclusi. Sono egocentrici, intossicati dalla volontà di potenza, convinti della propria autosufficienza, sprezzanti verso valori come la solidarietà, l’altruismo, la compassione. Il desiderio di dominare il prossimo, di appropriarsi delle cose altrui, di rifiutarsi di condividere ciò che si ha con gli altri non è un indizio di maturità, anzi, è tipico dei bambini. Sono dei bamboccioni invasati e questo li rende altamente pericolosi, come lo sono certi aspiranti ribelli, i futuri insorti della Rivoluzione Globale del 2012, che li scimmiotteranno, senza esserne consapevoli, come Satana scimmiotta Geova, come Robespierre scimmiottava l’assolutismo monarchico abbattuto dalla Rivoluzione, in un perverso dualismo sado-masochistico.
Lo psicologo junghiano Erich Neumann (“Psicologia del profondo e nuova etica”) ha esaminato le basi psicologiche della vecchia etica dipendente dal Dio-Padre che, proclamando aggressivamente il suo infinito potere e perfetta bontà, si comporta come un ego immaturo che ha bisogno di compensare le sue insicurezze. L’etica del tiranno e l’etica del ribelle radicale, del rivoluzionario di professione si nutre della manipolazione altrui per mezzo della pietà, del disprezzo, dell’invidia, del vittimismo, del senso di colpa, del richiamo alla giustizia. Sono etiche sado-masochistiche e necrofile incentrate sul dualismo padrone-servo, comando-sottomissione e su un’incrollabile devozione alla causa.
Una Rivoluzione matura è immune dalla sindrome dell’Anticristo e sceglie la strada della comprensione invece che dell’obbedienza, della persuasione invece che del comando, della libertà responsabile (matura) invece che del libero arbitrio (“me ne frego”/”l’uomo che non deve chiedere mai”), della visione integrale invece che della miope devozione, della trasformazione invece che della repressione e ribellione (per questo una rivoluzione ben fatta è una rivoluzione rapida, usa e getta, che deve lasciare immediatamente il posto alla democrazia).
Il tiranno e il rivoluzionario di professione sono simboleggiati dall’uroboro, il serpente che si morde la coda, epitome del perfezionismo, della superbia e dell’ossessività. Medusa è il suo volto mitico più minaccioso, il volto dell’alienazione psicotica. Medusa interrompe il flusso dell’energia vitale, trasforma tutto in pietra, rendendo impossibili le relazioni, l’interdipendenza e la crescita. È malvagia perché tronca il fluire della creazione, contrasta la coincidentia oppositorum che si fa garante della vita fisica e della vita della coscienza/anima, gonfia l’ego, sottrae l’amore che dovrebbe destinare ad altri, indirizzandolo verso se stessi. Il male è dunque un elemento della Creazione che tracima, deborda dalla sua logica originaria e si rende fine a se stesso, alfa e omega di se stesso, a discapito di tutto il resto.
Ecco cosa caratterizza i Potenti di inizio millennio e tutti quelli che li hanno preceduti: la superbia che si autoalimenta, un ego che ricerca disperatamente quello stato ideale nei ricordi dell’utero e dell’infanzia, quando non c’erano ostacoli e qualcuno era sempre pronto a soddisfare i suoi bisogni. Il loro male possiede un’energia terribile ed incrollabile che si alimenta di un’invidia alienante, di una superba malevolenza, dell’inestinguibile avidità di un buco nero, “un buco che assorbe tutta la luce che lo circonda…e si alimenta delle scomparse che provoca” (Jordi Bonells, “La seconda scomparsa di Majorana”). È un male persistente e che per questo ci sorprende, come ci sorprendono gli psicopatici:
I malvagi si rifiutano di riconoscere il peccato in loro stessi, celano i loro crimini con proiezioni e capri espiatori, motivati dalla loro paura dell’autocritica. Devono mantenere un’immagine di perfezione, il che non è per niente facile: formano reti di individui affini a loro in cui si rispecchiano e che li rinfrancano con la loro mera esistenza. Detentori di considerevole potere ed affetti da una molteplicità di patologie, la ricchezza ed il potere li fanno sentire come se fossero il centro dell’universo, semidivini se non divini; sfortunatamente per loro, ciò non li rende meno moralmente, culturalmente, spiritualmente e mentalmente periferici, marginali.
Non hanno alcun desiderio di essere buoni, per questo si danno da fare per apparire buoni. Professano di essere alla ricerca della bontà perfetta, quando invece bramano solo il potere fine a se stesso. Un desiderio di potere che nasconde il terrore dell’incertezza, l’incapacità di accettare la propria imperfezione dietro un velo fatto di orgoglio, disprezzo, intolleranza per l’imperfezione, auto-glorificazione: “il mondo umano di carattere demonico è una società tenuta insieme da una specie di tensione molecolare di numerosi ego, cioè da una forma di lealtà al gruppo o al capo che sminuisce l’individuo o, nei casi migliori, oppone al piacere dell’individuo il dovere e l’onore. […]. In un mondo umano sinistro un polo individuale è rappresentato dal capo-tiranno, imperscrutabile, malinconico e spietato, dotato di volontà insaziabile, il quale ispira sentimenti di lealtà solo se è abbastanza egocentrico da rappresentare l’ego collettivo dei suoi seguaci. L’altro polo è rappresentato dal pharmakos, o vittima sacrificale, che deve essere uccisa per accrescere la forza degli altri…La relazione erotica di tipo demonico diventa una passione selvaggia e distruttiva che opera contro la lealtà e frustra colui che la possiede. È di solito simboleggiata da una prostituta, strega, sirena, o altra femmina tentatrice, cioè un oggetto fisico del desiderio umano che è ricercato come possesso e perciò non può mai essere posseduto (Northrop Frye, “Anatomia della critica”, 1969, pp. 194-195).
Negano la realtà e la verità, s’ingannano da soli, s’infatuano di desideri irrealistici, coltivano una cronica percezione selettiva della realtà per proteggere il loro ego. Si assuefanno alla condizione di enormi parassiti che schiacciano quelli sotto di loro e sopportano di avere uno stivale premuto sul volto. Una condizione di eterna lotta per la sopravvivenza in cui gli squaletti lottano per prendere il posto degli squali più grandi ed imbolsiti, nell’eterno tentativo di rendere ciascun altro un’estensione della proprio volontà. Vivono in un inferno senza fine, convincendosi che sia l’eden. Credono veramente di amare, ma è parassitismo. Hanno bisogno dell’altro per sopravvivere. Non c’è scelta, non c’è libertà, non c’è amore, solo necessità. Il loro è desiderio di essere viziati, accuditi, è infantilismo. Sono così impegnati a farsi amare, ad assorbire energie, che non resta nulla da concedere nell’amore, all’amore: “la sete di potere è la forma deviata della ricerca d’amore. E infatti, in modo più o meno occulto, essa viene sempre sostenuta da moti distruttivi, da una rabbia che cova profonda e da antica data. L’agognata identificazione con il potere si offre come via di scarica, come mezzo di liberazione e di risoluzione dell’aggressività. Ma può il male compiuto su altri liberarci del male che è stato compiuto su di noi? Se non siamo stati amati, non sappiamo amare noi stessi. Se non conosciamo le nostre debolezze, se non abbiamo appreso la tolleranza, non sapremo mai trovare nella diversità degli altri una ricchezza per noi stessi” (Aldo Carotenuto, “Attraversare la vita”, 1999, p. 179).
I potenti tirannici che hanno generato e governano la Crisi per depredare le masse sono perennemente famelici, con un vuoto interiore senza fondo, non si sentiranno mai completi, le loro relazioni sono molto superficiali perché si concentrano su cosa gli altri possono fare per loro e non cosa loro possono fare per gli altri. Non si interessano alla loro crescita personale e ancor meno alla crescita altrui, ma solo all’affinamento della loro capacità di imporsi sugli altri, di obbligarli ad obbedire alla loro volontà.
Abbiamo visto che il simbolo dell’Anticristo è l’uroboro, il cerchio dell’eterna immutabilità, l’archetipo della stagnazione, dell’assenza di crescita ed individuazione, la ricerca ossessiva della sicurezza e del controllo sul prossimo, il dominio sul proprio universo. È la loro rovina. Euripide spiega che Zeus priva della saggezza quelli che vuole che si perdano, ma non serve nessun Zeus, il loro cuore indurito, la loro mente auto-centrata, le loro manie di onnipotenza li perdono, per sempre. I potenti sono perfettamente in grado di seminare distruzione, ma sono per definizione egotisti e quindi incapaci di definire una strategia che, nel lungo termine, non sia autodistruttiva. Possono trionfare nel breve, ma solo se le loro vittime mancano della necessaria determinazione per limitare i danni da loro causati.