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lunedì 9 gennaio 2012

Copertina di un album hip hop - GIUGNO 2001


"La copertina fu terminata nel giugno 2001, e l'uscita dell'album fu preparata per metà settembre. A causa dell'inquietante somiglianza della copertina con gli attacchi dell'11 settembre 2001, la pubblicazione dell'album fu rimandata fino a quando non fu trovata un'altra copertina".
Coup = colpo di stato - sono una band marxista-maoista (!!!).
http://it.wikipedia.org/wiki/The_Coup

giovedì 5 gennaio 2012

NDAA - torneranno i campi di concentramento in America?





La mia amministrazione non autorizzerà la detenzione militare a tempo indeterminato senza processo di cittadini americani. Una cosa del genere violerebbe le tradizioni e i valori più importanti della nostra nazione
B.H. Obama

Nel terzo millennio nessuno dovrebbe più subire il trattamento riservato a decine di migliaia di Giapponesi, Italiani e Tedeschi negli Stati Uniti e in Canada:
Ma d’altra parte il fatto che gli Stati Uniti si fregino del primato di possedere un quarto della popolazione carceraria del mondo non è un buon segno (con il 5% della popolazione totale mondiale):
E certi disegni di legge attualmente al vaglio delle commissioni competenti sono a dir poco minacciosi:

Alla fine del 2011 Obama ha controfirmato una legge (National Defense Authorization Act) che trasferisce all’esercito buona parte delle competenze in materia di operazioni anti-terroristiche e prevede la possibilità di imprigionare i sospetti terroristi a tempo indeterminato e senza processo.
versione della Camera dei Rappresentanti passata con 322 voti a 96:
versione definitiva
[283-136 alla Camera e 86-13 al Senato]
Inizialmente avevo preso per buono l’allarme lanciato dalla ABC con questo articolo:
che dichiarava senza mezzi termini che l’esercito avrebbe potuto arrestare cittadini americani sulla scorta di sospetti, tenendoli reclusi fino a data da destinarsi.
Poi qualcuno mi ha fatto notare che la sezione 1021 [“AFFIRMATION OF AUTHORITY OF THE ARMED FORCES OF THE UNITED STATES TO DETAIN COVERED PERSONS”], sottosezione e) recita “Nothing in this section shall be construed to affect existing law or authorities relating to the detention of United States citizens, lawful resident aliens of the United States, or any other persons who are captured or arrested in the United States.”
Dunque sembrerebbe che lo stato di diritto antecedente alla legge non possa essere in alcun modo compromesso.
Ma allora perché la ABC aveva stravolto il significato di questa legge, demonizzando Obama, senza sentirsi in dovere di togliere un articolo menzognero? Mi ero persino convinto che la ABC stesse deliberatamente sabotando la campagna di ri-elezione di Obama – un’idea abbastanza sciocca, visto che gli sfidanti repubblicani sono quasi tutti più autoritari e radicali di Obama, che resta un moderato, al loro confronto.
Mi sono preso il tempo di esaminare meglio la questione e devo ammettere che non so cosa pensare. C’è troppa confusione e su una materia così delicata non dovrebbe essercene. Troppi giuristi sembrano minimizzare la portata della legge asserendo che ufficializza pratiche già adottate in precedenza e che l’amministrazione Obama si è espressa in toni rassicuranti.
Ma quando Obama avrà lasciato il posto a qualcun altro? E se ci dovesse essere un altro 11 settembre, magari con una bomba sporca? E nel caso di un conflitto esteso scatenato da un attacco all’Iran? E perché il fatto che queste procedure siano adottate con estrema gradualità dovrebbe rassicurarmi? Non è proprio la gradualità del riscaldamento dell’acqua che impedisce alla rana di sapere che sta per essere bollita?

Tanto per cominciare ho constatato che non è stata unicamente la redazione della ABC a denunciare questa legge, ma anche il New York Times, normalmente molto pro-Obama, con un devastante editoriale che lo definisce maldestro e descrive il testo approvato come “così pieno di elementi discutibili che non c’è lo spazio per esaminarli tutti”, con il potenziale di “conferire ai futuri presidenti l’autorità di imprigionare a vita dei cittadini americani senza una formale accusa e senza un processo” e “nuove, terribili misure che renderanno la detenzione a tempo indefinito e i tribunali militari un aspetto permanente della legge americana”. In sintesi, “una deviazione dall’immagine che che questa nazione si è fatta di se stessa, ossia di un luogo in cui le persone che hanno a che fare con lo stato o sono sottoposti ad un’accusa formale oppure restano a piede libero”.
David Cole, docente di giurisprudenza al Georgetown University Law Center, sempre sul NYT, ha avvalorato la posizione del quotidiano:

Perché mai un quotidiano così importante dovrebbe assumere una posizione così estrema, se non avesse delle solide ragioni per farlo?
Il direttore dell’FBI Robert Mueller, il Segretario alla Difesa Leon Panetta ed il Direttore della National Intelligence, James Clapper, erano anche loro contrari a questa legge perché gli arrestati, sapendo di rischiare una detenzione militare, non avrebbero mai collaborato con le indagini e perché la misura comportava un significativo esautoramento delle funzioni dell'FBI e delle altre agenzie investigative:
Sembra siano stati parzialmente accontentai con un emendamento che consente alle suddette agenzie di interrogare i sospettati detenuti dalle autorità militari: “Nothing in this section shall be construed to affect the existing criminal enforcement and national security authorities of the Federal Bureau of Investigation or any other domestic law enforcement agency with regard to a covered person, regardless whether such covered person is held in military custody”.
Un gruppo di ventisei generali ed ammiragli in pensione che si era già impegnato per proibire la tortura ha scritto ai rispettivi senatori spiegando che questa è una legge che arreca più danni che benefici
Trentadue parlamentari democratici hanno inviato le loro lettere di protesta alle due camere, temendo che la legge minerà alle fondamenta il quarto, quinto, sesto, settimo ed ottavo emendamento della Costituzione.
Altre critiche severe sono arrivate dall’American Civil Liberties Union (ACLU), da Human Rights Watch e da un articolo di Forbes, che la descrive come “la più grave minaccia alle libertà civili degli Americani”.
Quel che è certo è che le disposizioni contenute in questa legge si fanno beffe delle convenzioni di Ginevra e violano gli articoli 8, 9, 10 e 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, sulla scia del vergognoso Patriot Act, un cavallo di Troia che sta abbattendo dall’interno le difese costituzionali dei cittadini americani:
Non solo il campo di concentramento di Guantánamo non è stato chiuso, come promesso da Obama, ma questa legge in pratica rende impossibile chiuderlo (sezioni 1026 e 1027) nonostante Obama abbia dichiarato che “il carcere di Guantánamo Bay compromette la sicurezza nazionale e la nostra nazione sarà più sicura il gorno in cui questa prigione sarà finalmente e responsabilmente chiusa” [“the prison at Guantánamo Bay undermines our national security, and our nation will be more secure the day when that prison is finally and responsibly closed]
Anzi, ne richiederà l’espansione, così come quella dell’altro campo di concentramento di Bagram, in Afghanistan
Gli Stati Uniti non sono più nella posizione di insegnare a nessuno il significato della democrazia ed il rispetto dei diritti, costituiscono ormai un esempio nefasto per tutte le altre nazioni ed espongono i loro stessi cittadini ad un medesimo trattamento in paesi con i quali sono ai ferri corti (es. accuse di sabotaggio alle infrastrutture iraniane)

I problemi interpretativi cominciano con la sezione 1021 (precedentemente 1031), che contempla la detenzione a tempo indefinito, senza un giusto processo, di persone ACCUSATE di essere stati o essere membri o di aver appoggiato in misura sostanziale al-Qaeda, i Talebani o forze ad essi associate in stato di belligeranza con gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Dunque anche la resistenza palestinese, siriana e libanese all’occupazione israeliana? Saddam Hussein era stato falsamente collegato ad Al-Qaeda, pur essendone un nemico dichiarato: cosa succederà ai cittadini iraniani, siriani, palestinesi, libanesi, somali, yemeniti, pachistani, indonesiani, venezuelani, brasiliani, cubani?
E perché proprio ora che si afferma che Al Qaeda è stata virtualmente smantellata?
e gli Stati Uniti stanno negoziando con i Talebani?
L’interpretazione delle disposizioni di legge è tutto. L’amministrazione Bush è sempre stata molto elastica nella sua lettura di quel che era autorizzata o meno a fare
e varie corti, in diversi gradi di giudizio, hanno simpatizzato con questo approccio che erodeva i diritti degli accusati/imputati. (cf. Matteo TONDINI, "Hamdan v. Rumsfeld. Se il diritto si svuota dei suoi contenuti": "In conclusione, la sentenza prospetta evidenti elementi di censurabilità sul piano del diritto sostanziale e, più in generale, mette in evidenza un ulteriore problema irrisolto, ovvero l'effettivo accesso alle garanzie previste dal diritto dei conflitti armati e, generalmente, dai diritti umani da parte di coloro che si ritrovano imprigionati in vuoti giuridici, creati appositamente per scavalcare quelle garanzie processuali che trovano fondamento nell'acclaramento della verità (processuale), e non nella messa in libertà dei colpevoli").
ACLU e HRW sostengono che l’ultima volta che poteri di detenzione così ampi sono stati conferiti allo stato è stato al tempo di McCarthy, con l’Internal Security Act. Secondo Jonathan Hafetz, avvocato ed uno dei massimi esperti di questo ambito giuridico, questa è la prima volta nella storia americana che si autorizza per legge l’incarcerazione militare illimitata e senza processo:
La sezione 1021 precisa che, nel suo ambito, non è estendibile ai cittadini americani – “Nothing in this section shall be construed to affect existing law or authorities relating to the detention of United States citizens, lawful resident aliens of the United States, or any other persons who are captured or arrested in the United States” (e i cittadini americani all’estero?).
Il giudizio dell’amministrazione Obama sulla sezione 1022 è stato il seguente: “mal concepita, non servità a migliorare la sicurezza degli Stati Uniti…superflua, rischia di creare incertezza”
La lettera b della sezione 1022 specifica che la detenzione militare non è obbligatoria per i cittadini degli Stati Uniti: “The requirement to detain a person in military custody under this section does not extend to citizens of the United States”. Di conseguenza, par di capire, gli stranieri sospettati devono per forza essere arrestati, mentre i cittadini americani potrebbero essere arrestati, pur non sussistendo un obbligo di farlo. In ogni caso non è chiaro se la legge stabilisca che questa possibilità è esclusa categoricamente, specialmente alla luce del Patriot Act e dei precedenti Padilla:
e al-Marri:
Robert M. Chesney (University of Texas) ha criticato la scelta di non fare chiarezza, lasciando il testo in termini così vaghi da consentire interpretazioni restrittive e radicali:
Anche prendendo per buona l’interpretazione più rigida, quella che esclude i cittadini americani e che è stata esplicitamente fatta propria dall’amministrazione Obama – “per quanto concerne i cittadini statunitensi coinvolti in attività connesse al terrorismo, che siano arrestati all’estero o in patria, saranno processati dal nostro sistema penale” [“when it comes to U.S. citizens involved in terrorist-related activity, whether they are captured overseas or at home, we will prosecute them in our criminal justice system”] –, resta il fatto che questa disposizione viola l'articolo 7 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”. Ora esiste un obbligo di detenzione militare per cittadini non-americani, inclusi quelli arrestati sul suolo americano. Dunque esiste un obbligo di approntamento di una rete di centri di detenzione militari sul suolo americano. Perciò sì, la mia risposta è che esistono le premesse perché negli Stati Uniti si ripeta quel che accadde tra il 1941 ed il 1945.

Che ci sia qualcosa che non torna è un’impressione rafforzata dal rifiuto dell’emendamento proposto dal senatore Feinstein, che esentava in modo esplicito i cittadini statunitensi, senza lasciare adito ad alcun dubbio:
Poiché, quasi senza eccezione, chi arriva al potere tende a fare il massimo uso possibile delle sue prerogative, il rifiuto del suddetto emendamento è estremamente significativo. Obama, o chi gli succederà, avrà una discrezionalità interpretativa senza precedenti nella storia americana
Qualche blogger ha suggerito che si possa trattare di una trappola preparata per forzare la mano ad Obama, che non poteva porre il veto su una sezione senza respingere l’intera legge, la quale però è essenziale per poter rifinanziare le forze armate, inclusi i salari delle reclute e l’indotto delle basi militari negli Stati Uniti, dai quali dipende l’esistenza di milioni di persone e l’economia statunitense (e globale).
Obama è stato certamente molto critico e ha minacciato di usare il suo potere di veto. Ha anche assicurato che “l’esercito non pattuglia le nostre strade e non fa rispettare le nostre leggi – né lo dovrebbe fare” [“our military does not patrol our streets or enforce our laws—nor should it”].
Sembra però che stia cercando di salvare il salvabile, essendo da tempo su posizioni difensive. Non so quanto potere realmente eserciti, non conosco le sue reali intenzioni. 

giovedì 22 dicembre 2011

Mandela - Nobel per la pace, rivoluzionario, amico di Gheddafi




È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta
Nelson Mandela


Nessun paese può rivendicare di essere il poliziotto del mondo e nessuno stato può dettare a un altro cosa deve fare. Quelli che ieri erano amici dei nostri nemici oggi hanno l’impudenza di dirmi di non fare visita al mio fratello Gheddafi. Mi suggeriscono di essere ingrato e di dimenticarmi del passato
Nelson Mandela

Nelson Mandela, premio Nobel per la pace, uscito dal carcere nel 1990 dopo 27 anni di prigionia e primo presidente nero del Sudafrica nel 1994, era considerato un terrorista dal governo sudafricano ed il suo nome, come quello di altri membri dell’African National Congress, è restato fino al 26 giugno 2008 sulla lista delle persone sospettate di legami con il terrorismo del governo americano, tanto che per poter entrare negli Stati Uniti aveva bisogno ogni volta di uno speciale nullaosta. Hanno alterato la lista espungendo il suo nome solo in previsione del suo 90° compleanno, il 18 luglio 2008.
Il movimento di liberazione African National Congress (ANC), da lui capeggiato, si era dato alla resistenza armata creando una rete di guerriglieri (Umkhonto we Sizwe, la Lancia della Nazione) dopo che anni di protesta nonviolenta contro l’apartheid non avevano portato ad alcun progresso. Inizialmente si era speso assieme al suo amico, l’avvocato Oliver Tambo, per fornire rappresentanza legale pro bono o comunque ad un costo accessibile ai neri. Ma la misura fu colma, a giudizio di Mandela, che era già stato incarcerato dal 1956 al 1961 per la durata di un processo per “alto tradimento” che si concluse con la sua assoluzione, con il Massacro di Sharpeville, il 21 marzo 1960, quando la polizia aprì il fuoco contro una folla di dimostranti neri uccidendo 69 persone in conseguenza del fatto che, come dichiarò il colonnello Pienaar, “la mentalità indigena non permette di radunarsi pacificamente. Per loro un raduno significa violenza”. I sabotaggi e gli attentati causarono decine di morti e centinaia di feriti tra i militari, ma anche tra civili bianchi e neri. La Commissione per la verità e la riconciliazione ha stabilito che Umkhonto we Sizwe si macchiò di continue violazioni dei diritti umani, inclusi la tortura e l’esecuzione sommaria di agenti del regime sudafricano, sebbene queste pratiche non fossero mai state ufficializzate dall’ANC. Nel 1985 rifiutò la libertà condizionata in cambio di una rinuncia alla lotta armata motivando la sua scelta con queste parole: “solo gli uomini liberi possono negoziare. Un detenuto non può instaurare alcuna relazione contrattuale”.
Per circa 40 anni dovette fronteggiare non solo l’oppressione bianca sudafricana, ma anche l’opposizione di Stati Uniti, Regno Unito (le scuse ufficiali sono arrivate solo nel 2010), Francia (fino al 1981) e persino Israele:

Nel corso di un’intervista al Larry King Live (16 maggio 2000), Mandela ha espresso il suo punto di vista sul suo passato.
KING: Lei è stato un terrorista?
MANDELA: Beh, il terrorismo dipende da…
KING: …da chi vince.
MANDELA: precisamente. Mi chiamavano terrorista, ma quando fui rilasciato molte persone mi abbracciarono, anche i miei nemici di un tempo. E questo è quel che dico alle persone che dicono che chi combatte per la liberazione del proprio paese è un terrorista. Dico loro che anch’io lo sono stato, ma oggi sono ammirato da quelle persone che dicevano che ero un terrorista.
KING: è mai riuscito a spiegarsi l’apartheid?
MANDELA: è difficile capire un fenomeno del genere, ma penso che in una nazione come il Sudafrica, dove la stragrande maggioranza della popolazione era nera e chi comandava rappresentava solo il 14 per cento della popolazione, l’apartheid era il modo migliore per difendere la supremazia bianca, tagliandoci fuori completamente dai diritti di cittadinanza.
KING: Come l’hanno trattata in carcere?
MANDELA: all’inizio molto male e ci è toccato lottare per un trattamento più dignitoso. Questa lotta ha portato buoni frutti.  
KING: come ci siete riusciti? Come si combatte il sistema?
MANDELA: all’inizio abbiamo fatto degli scioperi della fame, una delle migliori armi a disposizione per dei detenuti. Ci siamo rifiutati di eseguire dei compiti umilianti, sopportando le punizioni conseguenti. Ma abbiamo insistito.
KING: erano concesse delle visite?
MANDELA: potevo vedere i membri della mia famiglia solo ogni sei mesi. Nessuno al di fuori della cerchia famigliare.
KING: come ha fatto a tirare avanti?
MANDELA: ero circondato da persone brillanti, alcuni di loro con un’eccellente educazione ottenuta in università straniere, persone che avevano viaggiato ed era un vero piacere sedersi con loro e fare conversazione. Mi hanno arricchito. E poi ci hanno concesso ottime letture. Così abbiamo scoperto che anche il solo fatto di sedersi e di pensare era il miglior modo di mantenersi freschi e in forma, capaci di affrontare i problemi di ogni giorno e di esaminare il nostro passato. Era possibile prendere le distanze da se stessi e riflettere sul proprio comportamento, se ero stato all’altezza di qualcuno che aveva cercato di porsi al servizio della società, e ci furono molti casi in cui mi sono vergognato di me stesso.
KING: ad esempio?
MANDELA: quando arrivai a Johannesburg dalla provincia non conoscevo nessuno ma molti sconosciuti furono gentili con me. Poi finii in politica e divenni un avvocato, così impegnato da non pensare che avrei dovuto tirarmi fuori il tempo per le persone che avevano fatto così tanto per me. È stato solo in prigione che mi sono reso conto di aver fatto qualcosa di imperdonabile, di non aver apprezzato l’ospitalità che mi veniva data da persone che non conoscevo, la loro generosità. Il fatto di essere diventato un avvocato, dimenticandomi di loro, mi faceva male.
KING: lei ha fatto amicizia con le guardie, vero?
MANDELA: abbiamo appoggiato le guardie che ci rispettavano e abbiamo visto che non esisteva un sostegno monolitico per l’apartheid. Ci sono sempre persone che ragionano umanamente.
KING: alcuni di loro erano analfabeti. Li ha aiutati a scrivere lettere ed alcuni di loro aveva delle cause in corso e li aiutò anche in quello?
MANDELA: proprio così. Lo facevamo perché quelli in alto se ne fregavano di quelli in basso, li trattavano come stracci. Abbiamo fatto cambiare le cose perché trattavamo tutti come degli esseri umani, con delle speranze e delle aspirazioni.
KING: dopo 26 anni di prigionia, ha chiesto di ritardare il rilascio di tre settimane.
MANDELA: certamente non vedevo l’ora di andarmene, ma volevo che la mia liberazione fosse organizzata come si deve e potessero essere presenti le persone che mi avevano ospitato da giovane e la generosità dei quali non avevo ricambiato. Volevo avere l’opportunità di ringraziarli personalmente per tutto quel che avevano fatto per me.
KING: non ha mai odiato i suoi carcerieri?
MANDELA: No, perché bisogna tener conto del fatto che nella situazione in cui eravamo una promozione dipendeva dal proprio sostegno all’apartheid e perciò le persone buone si capiva che avevano l’atteggiamento di chi ti vorrebbe dire che quel che fa lo fa solo per la promozione, non per cattiveria. Alcuni di loro sono diventati amichevoli e non hanno mai mortificato la nostra dignità.

Perché rimase amico di Gheddafi fino all’ultimo?

Le Olimpiadi del 2012



Conosco tutti gli argomenti utilizzati per giustificare le legislazioni dettate dall’emergenza. Cioè quando la difesa dei diritti, e quindi della libertà, per alcuni diventa un lusso superfluo. Io ero in Parlamento negli anni di piombo. E chi difendeva le garanzie era indicato come un fiancheggiatore dei terroristi. In quel momento, e per lungo periodo, in Italia cambiò la percezione della libertà. Di fatto si disse: il fermo di polizia, la perquisizione di abitazioni per blocchi di edifici si possono fare. E nella media la gente fu d’accordo. […]. In simili casi può cominciare un processo di mitridatizzazione: a piccole e progressive dosi, si abbassa la soglia di percezione della tua libertà
Stefano Rodotà, “Intervista su privacy e libertà”, 2005, p. 94.

Nei concili di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l'acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l'ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l'enorme macchina industriale e militare di difesa ed i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme.
Dwight D. Eisenhower, discorso di addio alla nazione, 17 gennaio 1961

Il 2012 sarà un anno gravido di conseguenze.
Ci sono le elezioni presidenziali in USA, Francia (6 maggio), Russia (4 marzo), India, Messico (1 luglio), Taiwan, Venezuela (7 ottobre). C’è il cambio della dirigenza cinese. In Iran ci sono le elezioni parlamentari (2 marzo). Si elegge anche il sindaco di Londra (3 maggio), a poche settimane dall’inaugurazione dei giochi olimpici, che si terranno proprio a Londra, tra il 27 luglio ed il 12 agosto 2012.
Si dice che il posto più sicuro del mondo sia una cella di isolamento. Per rendere Londra “il posto più sicuro del mondo” (parole del sindaco), saranno mobilitati 12mila poliziotti, 8mila mercenari e guardie giurate e 13.500 militari, molti di loro parte delle forze speciali della Royal Navy, dell'esercito e della Raf (Royal Air Force). “Aerei da combattimento Typhoon ed elicotteri garantiranno la sicurezza nei cieli. Due navi militari forniranno aiuto logistico e sorveglianza marittima: la Hms Ocean stazionarà sul Tamigi, a Greenwich, sud-est di Londra, mentre la Hms Bulwark, nella baia di Weymouth, a circa 210 chilometri a sud-ovest di Londra”:
È probabile che si impiegheranno missili terra-aria per proteggere i cieli di Londra:
E i famigerati droni, nonostante il fatto che in 3 casi su 4 le forze di polizia che li hanno testati li abbiano poi scartati:
I voli sospetti saranno dirottati sull’aeroporto scozzese di Glasgow Prestwick:
L’esercito si prepara ad un possibile attacco terroristico con uso di “bomba sporca” ed un enorme numero di vittime, al di fuori di Londra:
Il complesso militare-industriale, contro cui ci aveva messo in guardia Eisenhower, sta usando le Olimpiadi di Londra per fare le prove generali, in virtù di un quadro legislativo che ha già compromesso la tenuta della democrazia in nome della lotta al terrorismo (cf. Rodotà) e di un progresso tecnologico impressionante. La Terribile Minaccia là fuori – misteriosa, invisibile, imprevedibile, onnipotente, onnipresente, incessante – farà camminare i cittadini al passo dell’oca, se sarà loro richiesto di farlo, per il bene comune e la sicurezza collettiva:
La gente non crede che Regno Unito e Stati Uniti potrebbero mai subire una svolta autoritaria. Eppure i loro rispettivi governi hanno appoggiato dittatori e istigato golpe militari in tutto il mondo per tutto il dopoguerra, senza che i loro cittadini trovassero la cosa troppo imbarazzante e spiacevole:
E hanno già realizzato almeno un colpo di stato mascherato negli Stati Uniti:
Cosa succederà quando saranno loro a stare dall’altra parte e subire il trattamento che i loro governanti hanno finora riservato solo agli altri, agli “umani straccioni”, considerati di minor valore, minor dignità, minori diritti?
Negli Stati Uniti è già tutto pronto:
In Inghilterra la polizia è autorizzata a sparare ad altezza uomo se si dovessero verificare altri vandalismi:

domenica 11 dicembre 2011

Terrorismo islamico, omofobia e Terrore Rivoluzionario




Un essere umano è dotato di libero arbitrio. Può usarlo per scegliere tra il bene ed il male. Se può solo fare il bene oppure il male, allora è un’arancia meccanica, nel senso che ha l'apparenza di un organismo di bell’aspetto, colorato e succoso, ma in effetti è solo un giocattolo a molla che può essere caricato da Dio o dal Diavolo o, visto che ormai sta progressivamente rimpiazzando entrambi, dallo stato onnipotente.
Introduzione di Burgess all’edizione americana di “Arancia Meccanica” del 1986

L’idea che il mondo attuale sia corrotto così radicalmente da rendere impossibile qualunque miglioramento e che proprio per questo motivo il mondo che ad esso succederà debba portare con sé la perfezione assoluta e la liberazione definitiva, questa idea è una delle più mostruose aberrazioni dello spirito umano. La ragione sana suggerisce piuttosto: quanto più il mondo attuale è corrotto, tanto più lungo, difficile e incerto è il camino che lo separa dall’agognato regno della perfezione.
Leszek Kolakowski, “Lo spirito rivoluzionario”, 1982, p. 21

Quello che in tempo di pace viene considerato immorale, ingiusto, dannoso per la collettività, in tempo di guerra cambia di segno, si trasforma in valore positivo e viene perciò stimolato e incoraggiato. Non uccidere, non mentire, non tradire, ecc. sono tutte massime che devono essere ribaltate durante un conflitto lungo e radicale per il bene della collettività; inoltre deve essere sviluppata in tutti i modi una mentalità aggressiva, bellicosa, spietata se occorre. In altre parole la guerra crea un “nuovo universo morale” con regole e valori specifici che sono in contrasto profondo con quelli dell’universo morale dell’epoca in cui la società è in pace. Inoltre la guerra produce una mentalità manichea che porta a scomporre il mondo in amici e nemici e a guardare con sospetto gli stessi membri del gruppo di appartenenza, se questi manifestano in qualche modo un ardore sufficiente o addirittura riserve morali sulla lotta in atto.
Luciano Pellicani, “I rivoluzionari di professione”, 2008, p. 215

Nel 1921 Ernst Jünger osservò molto acutamente che la morte è la realizzazione ideale di una credenza, il suo complemento e completamento. Lo stesso vale per la fede di un terrorista: il contenuto conta poco, la convinzione è tutto. Essere degni del sacrificio della propria vita è la dimostrazione della propria superiore qualità e dell’immacolatezza del proprio spirito, cioè della propria sacralità. Il terrorista è un homo sacer, “nuda vita”, per riprendere un tema già sviluppato dal filosofo Giorgio Agamben. La sua condizione eccede quelle contemplate dal diritto umano e da quello divino: può uccidere senza essere accusato di omicidio e la sua morte volontaria è rituale per antonomasia.
Ma se di ritorno del sacro si deve parlare, allora è bene chiarire che sarebbe meglio concentrarsi su alcune sue componenti come “il magico”, “il sublime” e “l’epico”. La mitologizzazione della quotidianità si accompagna al titanismo di militanti che realmente credono di cavalcare la Storia, e di poter dare l’avvio alla rigenerazione palingenetica della civiltà (islamica, cristiana, giapponese, europea, ecc.). I fondamentalisti di ogni sorta semplificano la realtà fino a trasformarla in una caricatura di sé stessa, una funzione ad uso e consumo delle loro credenze ed intendimenti.
Il tempo e lo spazio ordinari evaporano nella loro coscienza rituale che si fonda sulla credenza millenarista che sia possibile accelerare l’avvento di un grande rivolgimento epocale che restituirà ai “puri” il ruolo di guide spirituali delle masse, assimilate all’immagine di un gregge di pecore disperso ed in attesa di un benevolo ma energico pastore. Tempo, spazio ed Ego si fondono nella comunità di destino che preannuncia la venuta di una nuova era e di una nuova umanità. Più che di religione sarebbe opportuno parlare di religiosità, o comunque di religione politica (e religione dell’Ego), per molti versi affine a quello che rappresentarono il nazi-fascismo ed il comunismo del secolo scorso per milioni di persone.
Questo sconsiderato riformismo ultraradicale non analizza le questioni sul tappeto prendendo in considerazione l’umanità per come è ora, con i suoi pregi e difetti, i suoi limiti e le sue potenzialità, ma per come dovrebbe essere, e per forza di cose sarà, quando l’onda fondamentalista avrà spazzato via la società materialista ed individualista dominante. Questa stessa ideale configurazione dell’umanità è il pretesto che giustifica il sacrificio di un certo numero di persone (terrorismo), o l’uso di determinati gruppi umani come capri espiatori (es. i Rom).
Accanto alla storia ordinaria, i militanti fondamentalisti costruiscono e mettono in moto una Storia “Nobile”, provvidenziale, ed una visione della vita totalizzante, cultista, dove tutto va esperito in maniera ed in misura assoluta e dove l’inversione o la sospensione o l’accelerazione – a seconda delle esigenze – dello scorrere del tempo restituirà all’ordine delle cose la sua integrità originale. È un’immagine confortante e sedativa, nonché gratificante per l’ego di chi, perdente radicale, si trova improvvisamente proiettato sul palcoscenico mondiale dove, per parafrasare Calvino, non un gesto e non una parola vanno sprecati, perché si è dalla parte del riscatto, della rettitudine, della purezza, in un mondo degradato, depravato ed impuro. L’istinto, l’emozione, l’intuito, la fede sopprimono la ragione: chi deve operare per migliorare la propria esistenza deve usare il cervello, chi si aspetta di essere salvato, deve solo attendere con fiducia, oppure andare incontro ad una morte “eroica”.
Questo dovrebbe risultare chiaro a chiunque si sia reso conto del fatto che lungi dall’essere espressioni specifiche di una rivitalizzazione dell’Islam “tradizionale”, i movimenti fondamentalisti musulmani sono in realtà una reazione estremamente moderna all’evento epocale che è stata la fine della Guerra Fredda e della contrapposizione ideologica tra comunismo e capitalismo. Molti di questi estremisti pensano e parlano come i militanti anti-imperialisti del secolo scorso e gli anarchici di fine Ottocento che condannavano la modernità occidentale; oppure come gli indignati più zelanti.
L’obiettivo non è quello di recuperare un presunto idillio confessionale e sociale dell’umma dei tempi dei loro nonni e bisnonni, né quello di costruire uno stato islamico di tipo fascista, ma piuttosto quello di islamizzare la modernità e di porre rimedio alla perdita delle identità collettive, spazzate via dall’irrompere del cosmopolitismo individualizzante. In questo senso le analogie con altri movimenti fondamentalisti ebraici e cristiani, ma anche, come detto, con ideologie politiche radical-populiste del passato e del presente, sono davvero numerose ed impressionanti. Basti pensare che Osama Bin Laden iniziò la sua carriera di sovversivo combattendo per la liberazione dell’Afghanistan dall’imperialismo sovietico negli anni Ottanta.
Nel gennaio del 2008 è stata pubblicata sul prestigioso settimanale britannico “The Observer” una brillante inchiesta di Jason Burke, uno dei giornalisti di lingua inglese più competenti in materia di fondamentalismo islamico, avendo trascorso molto tempo sul campo, intervistando militanti islamici e combattenti afgani. Quest’inchiesta riesaminava le sue esperienze ed i dati riguardanti il profilo psicologico e sociale degli appartenenti alle cellule del terrorismo islamico inglese raccolti in questi anni dalle unità anti-terrorismo europee. I risultati sono stati spiazzanti per molti. Chi si aspettava che i terroristi fossero in genere poco più che adolescenti, e quindi più esposti al rischio di plagio, ha appreso che l’età media dei militanti britannici era di 29 anni. Chi riteneva che l’indottrinamento nelle moschee fosse un fattore decisivo si è dovuto ricredere: il ruolo degli istigatori non sembra essere quello di inculcare nei giovani il fanatismo religioso, tanto che la gran parte dei militanti è accomunata da un’abissale ignoranza dei fondamenti coranici e della politica internazionale. In genere non si tratta di maestri religiosi ma di conoscenti leggermente più vecchi, a volte amici, altre volte parenti. Le fonti governative rivelano che meno del 10 per cento delle attività degli estremisti sono ricollegabili ai luoghi di culto. La povertà non è un fattore scatenante. Meno del 20 per cento dei militanti proviene da ambienti disagiati, anche se in genere tutti si percepiscono come sottoimpiegati. Né si tratta necessariamente di figure asociali: un terzo di loro è sposato e circa un quarto di loro ha almeno un figlio. Almeno uno su tre ha conseguito la laurea o una specializzazione equivalente mentre molti altri, nel momento in cui si sono lasciati coinvolgere dal radicalismo islamico, erano studenti, spesso di discipline tecniche e scientifiche, in special modo ingegneria ed informatica.
Quasi sempre la spinta finale è fornita dall’esperienza di un fallimento professionale e dalla percezione di un rigetto xenofobo. Spesso il passo successivo è il rifiuto della religiosità apolitica dei genitori e l’adesione alle correnti più politicizzate dell’Islam, che sembrano più rilevanti e più adatte a rispondere agli interrogativi dei nostri tempi.
C’è il caso di Shiraz Maher, un normale studente dell’Università di Leeds, con gli stessi interessi dei suoi pari età.  Tutto questo fino all’11 Settembre, un evento che lo costringe a prendere posizione: “Le regole del gioco erano cambiate…Improvvisamente mi ritrovai a pormi delle domande a proposito dell’Islam, della mia identità e del mondo, come non mi era mai capitato prima”. Alcuni giorni dopo l’attacco Maher fu avvicinato da un attivista di nome Hizb ut-Tahrir, un laureato in scienze politiche alla sua stessa università, solo pochi anni più vecchio di lui, che vestiva elegantemente, all’occidentale, e che sosteneva di conoscere il Corano a memoria. Hizb ut-Tahrir “sembrava avere tutte le risposte”, ci spiega Maher, sorpreso dalla sua comprensione del desiderio di spassarsela, di ballare e fumare spinelli, anatema per i frequentatori della moschea. Ma per Hizb ut-Tahrir non c’è problema: “Se non fosse divertente la gente non lo farebbe”. Così Maher pensa tra sé e sé: “Ecco qui qualcuno di successo che sa parlare la mia lingua”, cioè il linguaggio del riscatto musulmano, assalito dal capitalismo, dalle armi e dalla cultura occidentale. Come dichiarano due giovani intervistati musulmani, Ahmed e Mohammed, “c’è un piano anti-islamico. Non vogliono che diventiamo forti. Ci vogliono spingere in basso, nella povertà, umiliandoci. Ci chiamano terroristi ma anche loro sono terroristi”. Molti infatti, guardando le immagini dell’invasione dell’Iraq, hanno cominciato a sensibilizzarsi alla causa dei musulmani nel mondo, decidendo di volerli aiutare quantomeno economicamente. Altri facevano parte di bande che cacciavano via gli spacciatori dai loro quartieri e quindi erano già pronti a menare le mani. Altri ancora vedono la jihad come una scelta di vita romantica, gloriosa, avventurosa, clandestina, ribelle che ha il valore aggiunto di ricreare attorno a loro un ambiente familiare, fatto di persone che la pensano come loro e che comprendono le loro ansie e desideri.
Questo li isola progressivamente dal mondo. È un distanziamento decisivo perché rafforza la determinazione dei militanti ed impedisce che i loro pensieri siano “disturbati” da punti di vista alternativi o informazioni dissonanti. In seguito, una volta “entrati nel giro”, molti vengono spediti in Afghanistan come carne da cannone, ufficialmente per “farsi le ossa” (Burke, 2004). Ne ricaviamo ancora una volta l’impressione che la fede in una salvezza ultraterrena in quanto tale abbia ben poco a che fare con questi fenomeni. Ben più rilevante sembra essere il divario tra le legittime aspettative di migliaia di giovani e le reali prospettive di avanzamento sociale, che ormai ha superato la soglia di relativa tolleranza. Altrimenti non si spiega la forte concentrazione di insegnanti, funzionari pubblici, medici, ingegneri, ecc.
Sono gli scarti di un settore pubblico umiliato da governi nazionali laici di paesi arabi che non hanno saputo rilanciare l’economia e sono stati costretti ad operare tagli sostanziosi (Antoun, 2001). Sono gli scarti della modernità e sono affatto moderni, sganciati da una specifica comunità tradizionale di riferimento, dalla famiglia, dal passato, dal territorio, si sentono credenti rinati come parte della più grande ummah globale, Al-ummah al-islamiyyah, la comunità islamica transnazionale. Gesù invitava ad abbandonare famiglia, amici e casa per unirsi a lui, i terroristi giapponesi e quelli islamici sono pronti a farlo, ma la loro idea di redenzione personale e collettiva è diametralmente opposta. Sono pronti a compiere un qualche atto sensazionale che risuonerà sui media internazionali, rendendoli immortali. Non sono interessati a mobilizzare le masse, non pensano a riforme politiche, non intendono dedicare la loro vita all’assistenza ai disagiati o all’insegnamento della fede, non gradirebbero morire in qualche valle sperduta dell’Afghanistan, in un mercato iracheno, o ad un posto di blocco israeliano. Una morte troppo anonima per degli uomini con le loro competenze e talenti. Come tutti i perdenti radicali, i terroristi jihadisti contemporanei sono dei megalomani narcisisti che bramano la “bella morte” e gli “onori” della cronaca e, se possibile, desiderano che ciò avvenga nei luoghi simboli del glamour occidentale, anche perché la loro rinascita nella fede avviene quasi sempre in Occidente, dove le loro certezze dottrinarie, ossia i pilastri della loro tradizione culturale, sono messi a dura prova. Quando dichiarano di identificarsi con le vittime dell’imperialismo occidentale stanno mentendo a se stessi. Non v’è alcun processo di immedesimazione in corso, non v’è empatia nelle loro parole e nei loro atti. Se fosse così andrebbero ad aiutare la gente verso la quale dichiarano di nutrire una così profonda compassione. Ma non è così. Provano compassione solo per se stessi, esattamente come gli euroterroristi degli anni Settanta. Sono loro le vittime della modernità, del sistema, dell’umiliazione dell’Islam. Sono loro che non sono riusciti ad essere all’altezza delle proprie aspettative ed ora, per mascherare il proprio egoismo e le ferite interiori, ma anche per cancellare il senso di personale disfatta, si creano una falsa coscienza. In questo modo precipitano nell’idolatria, che è prima di tutto idolatria di se stessi, che nasce dal bisogno di mitizzare il proprio percorso esistenziale, proiettandolo sullo scenario globale di un immaginario scontro cosmico.
Come tutti i militanti radicali del passato e del presente, chiedono a Dio ed alla Storia quel che non hanno saputo ottenere da se stessi. Ma la loro è una battaglia privata, non collettiva. Le istituzioni religiose e quelle nazionali li hanno delusi, hanno fallito il loro compito di addomesticare la modernità risacralizzandola, ri-incantandola, per usare la terminologia weberiana. Per questo il loro rapporto con Dio è immediato, diretto, la loro religiosità fanatica proprio perché fondata su basi deboli e strumentali. Sono indifferenti alle grandi questioni teologiche che potrebbero solo soffocare il loro grande fervore ideologico. Non cercano una guida spirituale ma un coordinatore, un esperto di logistica, un’occasione per morire “alla grande”. Anch’essi, o forse loro più di tutti, esperiscono la vasta crisi delle religioni, quella che Ratzinger, nel 2004, definiva “lo sgretolarsi del cristianesimo”, che è anche lo sgretolarsi delle altre due religioni monoteistiche e del buddismo, dell’induismo e dello scintoismo, ecc. Mentre milioni di fedeli si radunano nei grandi meeting, sempre meno sono quelli che si ritrovano per pregare nei giorni designati e quelli che dedicano la loro vita all’apostolato. Questo perché si è giunti alla dissociazione finale tra cultura di appartenenza ed affiliazione religiosa, alla dispersione delle comunità tradizionali - fittizie ma in precedenza universalmente percepite come reali – ed alla ritribalizzazione della società attorno ai trend della moda ed a nuovi simboli di identificazione etnica. Nuove comunità immaginate che, condannate fin dalla nascita ad un’esistenza effimera sotto i colpi dell’apertura delle culture, delle società e delle menti che rappresenta la globalizzazione, reagiscono con l’irrigidimento dottrinale, o la violenza, alla loro manifesta gracilità. Lo jihadismo è una delle espressioni più note di questa ritribalizzazione e scomparirà nel giro di una generazione, per ricomparire dopo qualche decennio, quante le condizioni saranno favorevoli alla risurrezione della mistica dell’”eroismo fondamentalista”. In altre parole i fondamentalismi non sono reazioni difensive di culture tradizionali sotto assalto, non sono il risultato di uno scontro di civiltà, perché non esistono civiltà che si possano scontrare.
La destra pone l’accento sullo scontro di civiltà. La sinistra, come di consueto (e in certi casi non senza valide ragioni), punta l’indice contro le sperequazioni sociali. In realtà i rivoltosi non erano giovani poveri e senza speranza di riscatto ma figli sottoimpiegati di genitori piccolo-borghesi, non sempre musulmani, che impiegano le tecniche pedagogiche della generazioni precedenti, contadine, in una società che non sa cosa farsene. Questi figli ritenevano di poter ambire a qualcosa di più della carità pulciosa e mortificante di un paese che ufficialmente nega il razzismo ma nei fatti non può cancellarlo con un tratto di penna. Amano appassionatamente il proprio paese europeo, al punto da detestarlo quando questa li rifiuta, come succede negli amori non corrisposti. In realtà, quindi, i militanti e “potenziali terroristi” sono giovani di buona cultura che si sentono sradicati, discriminati, esclusi da una società che non è disposta ad accettarli per quello che sono (non semplice manodopera a basso costo) e cerca di imporre loro un certo modello di buon cittadino senza nel contempo usare lo stesso trattamento pedagogico-discriminatorio nei confronti dei non-musulmani. Di conseguenza questi giovani musulmani frustrati, come i loro omologhi giapponesi di Aum-Shinrikyo, s’imbarcano nella ricerca di una causa per la quale lottare, per dare un significato più profondo e saldo alla propria esistenza. Meglio sarebbe aiutarli a sentirsi integrati e non necessariamente omologati, costruendo luoghi di apprendimento e di culto, ma anche d’incontro con la gioventù non musulmana, piuttosto che spingerli tra le braccia di chi ha interesse a fomentare la violenza interculturale ed interreligiosa.
Se espandiamo gradualmente questo tipo di prospettiva arriviamo a capire che la loro reazione è per molti versi analoga a quella di Alex DeLarge, il protagonista di Arancia Meccanica di Anthony Burgess, che aveva ben compreso come lo Stato era del tutto indifferente alla sua esistenza, se non nella misura in cui questa non doveva in alcun modo minare l’armonia sociale. Le autorità rimangono interdette di fronte al comportamento antisociale di un amante della musica classica, un tratto generalmente associato ai “cittadini al di sopra di ogni sospetto”: “Hai una bella casa qui, dei genitori buoni e amorevoli, non hai un cervello da buttare. C’è un qualche demone che si impadronisce di te?”. Le risposte di Burgess sono ambigue, equivoche. Ma di Alex DeLarge è pieno anche il mondo non-islamico. Pensiamo ad esempio ai massacri nei college americani: Jonesboro, Arkansas; Pearl, Mississippi; Springfield, Oregon; Paducah, Kentucky; la Columbine High School di Littleton, Colorado; Conyers, Georgia, e poi Fort Gibson ed il massacro del Virginia Tech, perpetrato dal ventitreenne Cho Seung-Hui. Più recentemente un giovane finlandese, Pekka-Eric Auvinen, ha massacrato nove persone nella sua stessa scuola dopo aver diffuso online un manifesto radical-ecologista nel quale esaltava il pensiero del controverso e misantropico intellettuale finlandese Pentti Linkola e dichiarava che il suo credo Social-Darwinista lo spingeva a passare all’azione a tutela dell’ambiente, sperando di servire da modello per altri ed augurandosi che “la morte dell’umanità arrivi al più presto”. E poi c’è Breivik. Il numero di vittime di questi “terroristi fatti in casa” non si avvicina chiaramente a quello prodotto dai loro “colleghi” islamisti, ma stiamo comunque parlando di decine e decine di vite innocenti falciate in nome di un disagio esistenziale personale.
Chi ha analizzato gli scritti ed i video di questi giovani assassini ha potuto constatare che l’uccisione di massa dei propri compagni di scuola ed insegnanti ed il tentativo di distruggere gli istituti da loro frequentati erano motivati dalla convinzione che quelli, e non altri, fossero i responsabili del proprio malessere e senso di oppressione. Un ragazzo spiega che ci sono due modi per diventare famosi a scuola. La via del successo e la via dell’irrisione: “in pratica avevi paura di essere deriso per tutto quel che facevi perché se facevi una cosa fuori dell’ordinario, e ci si aspettava che nessuno facesse qualcosa del genere, avrebbero riso di te, ti avrebbero preso per i fondelli, e non avresti potuto far parte del gruppo. Così, poi, diventavi un escluso” (Klein, 2006).
In questo modo si viene a creare un sistema di sorveglianza benthamiano: un panopticon degno del Grande Fratello (quello letterario) che vede tutto e controlla tutto, sanzionando ogni devianza, nel vestire, nel comportamento, nei gusti, nella forma fisica, nel pensare, e così via. Stabilito un ideale ipermascolino ed iperfemminino al quale aspirare, tutti gli studenti sono costretti a misurarsi con esso, rendendosi conto della propria inadeguatezza e della propria fallibilità (Cook, 2000). Ecco la testimonianza di uno dei sopravvissuti alla strage di Columbine (15 morti, 23 feriti), riferendosi ai due omicidi, Dylan Klebold e Eric Harris: “Certo che li prendevamo per il culo. Ma che cosa altro ti aspetti quando vieni a scuola con certe pettinature e con delle corna sul cappellino?  Non erano solo gli atleti; facevano schifo all’intera scuola. Sono un branco di froci…Se ti vuoi liberare di qualcuno, in genere li prendi in giro, così tutta la scuola li chiama froci” (Gibbs & Roche, 1999, p. 48). In un video registrato la notte prima della sparatoria, Harris si sfoga dicendo “la gente mi prende costantemente per il culo per la mia faccia, i miei capelli, le mie camicie”, mentre Klebold aggiunge “vi ucciderò tutti. Ne ho abbastanza della vostra merda”, dove per “merda” s’intende il bullismo, l’essere spintonati, chiusi negli armadietti, il diventare bersaglio dei lazzi e delle ingiurie, dei sassi e delle lattine, l’essere chiamati froci tutto il tempo. Il risultato è l’aggressività maschile verso gli altri (eterodiretta) e l’aggressività femminile verso se stesse (autodiretta, come l’anoressia e la bulimia, l’automutilazione ed i ferimenti volontari, i tentativi di suicidio, ecc.).
Luke Woodham, di Pearl, Mississippi, dopo aver ucciso la madre che lo insultava e due studenti della sua scuola, ferendone altri sette, disse allo psichiatra che lo esaminava che non era pazzo: “Sono arrabbiato…non sono viziato o pigro; perché l’omicidio non è debole od ottuso; l’omicidio è cazzuto ed audace. Ho ucciso perché la gente come me viene maltrattata ogni giorno” (Chua-Eoan, 1997, p. 54).
Così, paradossalmente, anche un atto di protesta estrema come la violenza indiscriminata – così “virile” e totalitaria – serve solo a rinforzare il sistema di oppressione, ribadendo la naturalezza e correttezza degli standard di normalità imposti dalla società. Nessuna ragazza è finora entrata nella sua classe con delle pistole sparando all’impazzata e l’automutilazione maschile è piuttosto rara. Così non è un caso che molti studenti coinvolti nelle sparatorie abbiano scelto di farsi giustizia da soli dopo essere stati rifiutati da una ragazza: la loro mascolinità era stata messa in dubbio ed i ragazzi erano a rischio di essere accusati di inadeguatezza sessuale o di omosessualità latente.