mercoledì 28 dicembre 2011

L'imperialismo umanitario e la resistenza hoferiana (ieri e oggi)





Anche l’anti-hoferismo ha i suoi scheletri nell’armadio e può servire, a suo modo, ad impedire l’affermazione in Alto Adige di una cultura sinceramente democratica.

Albert Camus osservava molto acutamente che “il male che c’è nel mondo deriva sempre dall’ignoranza, e le buone intenzioni possono fare altrettanto danno della malevolenza, se mancano di discernimento”. Nei piani napoleonici c’erano ben poche buone intenzioni e molto cinismo amorale (machiavellismo) e, anche laddove, tra gli amministratori dei suoi domini, c’era sincero idealismo, non era certo immune da una feroce intransigenza robespierriana, che trovava il suo equivalente nel fanatismo reazionario dell’integralismo cattolico.
Non c’è nulla di più sanguinario di queste due patologie della coscienza – l’amoralità e l’intransigenza –, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo. Dopo il declino del cristianesimo e la fine del comunismo, l’umanitarismo è la nuova crociata redentrice (Brauman, 2009). Mentre sarebbe sbagliato non intervenire, è altrettanto sbagliato intervenire con tutto il proprio peso: sarebbe meglio intervenire un po’, con moderazione e rispetto, perché, come sottolinea Tzvetan Todorov nell’introduzione al libro: “il diritto o la morale non sostenuti dalla forza rischiano di essere impotenti, ma la forza senza diritto e senza morale conduce al crimine”. 
Il parallelo tra un Terzo Mondo immaginato come una landa desolata, popolata da eterne vittime bisognose di incessante soccorso ed un’analoga percezione degli ambienti alpini è del tutto legittimo (Arnoldi, 2009). 
Come oggi si esporta la democrazia ed il benessere, così, ai tempi di Andreas Hofer, le baionette franco-bavaresi imponevano il diritto napoleonico e la medicina moderna sollecitati dal medesimo impulso che anima l’umanitarismo contemporaneo, quello della legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se non ci sono forze che la limitano. Andreas Hofer fu il catalizzatore di quelle forze. Possiamo discutere della bontà dei suoi valori e dei più vasti disegni politici che lo coinvolsero, forse a sua insaputa, ma dobbiamo prendere atto del fatto che tutti noi, come i franco-bavaresi di un tempo, siamo abituati a pensare che la violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici, civili ed umanitari e gli altri o non lo sono, o lo sono sensibilmente di meno
Crediamo che la nostra violenza redentrice sia un male minore, che in fondo è un bene, e quindi si giustifica da sé, ma il diritto non coincide sempre con la giustizia e l’umanitarismo può degradare l’umanitario, allo stesso modo in cui il moralismo è una perversione della morale
I detrattori dell’hoferismo e del napoleonismo a volte incappano nella trappola cognitiva di pensare che ogni critica ad una causa giusta (la loro) sia ingiustificata e dietrologica. L’umanitarismo (come la lotta per l’autodeterminazione e contro gli invasori) elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo gerarchicamente tra vittime e carnefici, vittime e soccorritori, trasformandosi in un modo di leggere (erroneamente) il mondo (Brauman, 2009). Quello attuale, e quello di chi combatteva Hofer, è un messianismo laico, l’ennesimo mito che ci permette di condensare una pluralità di significati complessi in un codice binario.
Le armate napoleoniche, come quelle della NATO, non praticavano forse il “cannibalismo umanitario” tipico dell’orco filantropico, come l’ha chiamato Octavio Paz, Premio Nobel per la Letteratura nel 1990? 
Vi liberiamo, vi soccorriamo, vi emancipiamo dai vostri vizi: abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a sentirci dei salvatori. L’ingerenza “umanitaria” diventa allora un dovere (dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non farlo). Si scambiano le intenzioni per i risultati, ci si munisce di una falsa coscienza compiaciuta, si pontifica, prigionieri del proprio gioco di specchi. In questo modo, a causa di questa ideologia redentrice, la meravigliosa conquista dei diritti umani, nel diciannovesimo secolo come nel ventunesimo secolo, può fungere da vettore di guerra, oppressione ed iniquità, per strappare i barbari alla loro barbarie.
La sofferenza patita e la giustezza della causa conferisce l’immunità morale alla propria fazione. Gli uni e gli altri, francobavaresi ed hoferiani, volevano salvare il Tirolo, per cambiarlo oppure per conservarlo eternamente. Non era un Tirolo realmente esistente, ma una costruzione della loro mente, un ideale da difendere ad ogni costo, che fungeva per gli uni e per gli altri come valvola di sfogo di angosce esistenziali, reazione all’anomia, all’insoddisfazione ed al bisogno di autostima, ma anche come pretesto per imporre il proprio ego e le proprie proferenze ed esigenze.
L’umanitarismo produce perversioni anche tra chi ne beneficia, come il vittimismo. Il vittimismo partorisce la vittimologia e la vittimocrazia: in Alto Adige gli imprenditori etnici amano presentarsi come rappresentanti di un popolo vittimizzato, in un mondo in cui l’ideologia umanitarista esige che si intervenga in favore delle vittime e moltiplica le vittime per potersi sostenere. L’esito è profondamente anti-umano, oltre che anti-umanitario, perché perpetua l’immagine dicotomica delle vittime e dei carnefici, dominati e dominatori e tiene bene in vista la prospettiva del capro espiatorio e della violenza indiscriminata: “qualcuno deve pagare per tutto quel che abbiamo dovuto subire!”. Altro che grandi ideali: è contabilità spicciola. Dall’una e dall’altra parte.
La convivenza si costruisce sulla capacità di ascoltare l’altro e di imparare da lui, non certo sulla presunzione di auto-sufficienza e sulle brame messianiche. Altrimenti la valutazione obiettiva della realtà lascia il posto alle monocolture della mente, che elidono la diversità e fanno presentire una drammatica mancanza di alternative che in realtà non esiste e non esisterà mai, laddove la necessità è l’alibi del tiranno.
Ogni identità è una relazione, ossia un’interdipendenza. Non si protegge un’identità separandosi dagli altri o stabilendo dall’alto come questa vada tutelata: così facendo la si condanna a morte. Alla mancanza di riconoscimento dell’altro corrisponde una percezione deficitaria di noi stessi ed una concezione strumentale della politica: le persone sono mezzi in vista di un fine, la realtà è argilla da modellare a nostro piacimento, finché non assume i contorni da noi desiderati. Come se fosse possibile cambiare l’altro senza cambiare anche noi stessi
Il vero cambiamento parte da noi stessi, da un auto-esame, dal mettersi in discussione, da una revisione delle nostre relazioni con gli altri. È patologicamente narcisistico pretendere che gli altri debbano cambiare per venire incontro alle nostre esigenze ed arrivare così a vivere la vita che desideriamo per noi, o separarsi dagli altri pur di averle sempre vinte. Purtroppo questo genere di desiderio trova un terreno fertile in una società del consumo e dell’edonismo, che ci instilla deliri di onnipotenza, insegnandoci ad espandere ininterrottamente le nostre brame, a credere che possiamo e dobbiamo mirare ad una sorta di onnipotenza ed autarchia, che è giusto e doveroso superare la nostra naturale condizione di incompiutezza, di carenza strutturale: “l’uomo che non deve chiedere mai”, “il lusso è un diritto”, “perché io valgo”, “tutto intorno a te” ed altre fesserie sensazionalistiche, emotive e manipolatorie all’origine della pandemia depressiva del mondo occidentale. 
Si chiama hybris ed è l’indisponibilità a riconoscere che abbiamo dei limiti e che questi limiti non sono ostacoli che dobbiamo cercare freneticamene ed ossessivamente di superare ma rappresentano i diritti di cui sono titolari gli altri esseri viventi che popolano questo pianeta, che non sono nostre appendici, continuazioni di noi stessi, non sono terre di conquista su cui allungare le mani, non sono alterità da cancellare perché scomode, sconvenienti, irritanti
Per questo il patriottismo, l’orgoglio etnico, l’umanitarismo (quando è "civilizzatore"), quasi senza eccezioni, sono il volgare sentimentalismo di chi crede di prendersi cura di qualcosa che è al di fuori di se stesso, ma in realtà sta proiettando all’esterno il suo amor proprio: i successi ed i patimenti della patria, della comunità, della civiltà sono prima di tutti i suoi ed è questo che lo gratifica o lo affligge. Ogni ingiuria alla patria è un’occasione per sentirsi protagonista di un melodramma cosmico che soddisfa le sue fantasie di grandezza. Se la patria non è sufficiente ci sarà la classe, la fede religiosa, la civiltà, ecc. L’amor patrio, come l’amore per l’umanità, è la menzogna di chi non vuole confessare il proprio narcisismo e lo trasla su una collettività, per mimetizzarlo. Lo aveva capito perfettamente don Lorenzo Milani che, nel 1966 (Gesualdi, 1975), scrive ad una studentessa napoletana:

Non si possono amare tutti gli uomini...Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più... Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio.

Sulla scia di Paolo di Tarso, che scriveva (1 corinzi 13, 3-7: 3):

Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.

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