Anche l’anti-hoferismo ha i suoi scheletri nell’armadio e può servire,
a suo modo, ad impedire l’affermazione in Alto Adige di una cultura
sinceramente democratica.
Albert Camus osservava
molto acutamente che “il male che c’è nel mondo deriva sempre dall’ignoranza, e
le buone intenzioni possono fare altrettanto danno della malevolenza, se
mancano di discernimento”. Nei piani napoleonici c’erano ben poche buone
intenzioni e molto cinismo amorale (machiavellismo) e, anche laddove, tra gli
amministratori dei suoi domini, c’era sincero idealismo, non era certo immune
da una feroce intransigenza robespierriana, che trovava il suo equivalente nel
fanatismo reazionario dell’integralismo cattolico.
Non c’è nulla di più
sanguinario di queste due patologie della coscienza – l’amoralità e
l’intransigenza –, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione
del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo. Dopo il declino del
cristianesimo e la fine del comunismo, l’umanitarismo è la nuova crociata
redentrice (Brauman, 2009). Mentre sarebbe sbagliato non intervenire, è
altrettanto sbagliato intervenire con tutto il proprio peso: sarebbe meglio
intervenire un po’, con moderazione e rispetto, perché, come sottolinea Tzvetan
Todorov nell’introduzione al libro: “il diritto o la morale non sostenuti dalla
forza rischiano di essere impotenti, ma la forza senza diritto e senza morale
conduce al crimine”.
Il parallelo tra un Terzo Mondo immaginato come una landa
desolata, popolata da eterne vittime bisognose di incessante soccorso ed
un’analoga percezione degli ambienti alpini è del tutto legittimo (Arnoldi,
2009).
Come oggi si esporta la democrazia ed il benessere, così, ai tempi di
Andreas Hofer, le baionette franco-bavaresi imponevano il diritto napoleonico e
la medicina moderna sollecitati dal medesimo impulso che anima l’umanitarismo
contemporaneo, quello della legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se
non ci sono forze che la limitano. Andreas Hofer fu il catalizzatore di quelle
forze. Possiamo discutere della bontà dei suoi valori e dei più vasti disegni
politici che lo coinvolsero, forse a sua insaputa, ma dobbiamo prendere atto
del fatto che tutti noi, come i franco-bavaresi di un tempo, siamo abituati a
pensare che la violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici,
civili ed umanitari e gli altri o non lo sono, o lo sono sensibilmente di meno.
Crediamo che la nostra violenza redentrice sia un male minore, che in fondo è
un bene, e quindi si giustifica da sé, ma il diritto non coincide sempre con la
giustizia e l’umanitarismo può degradare l’umanitario, allo stesso modo in cui
il moralismo è una perversione della morale.
I detrattori dell’hoferismo e del
napoleonismo a volte incappano nella trappola cognitiva di pensare che ogni
critica ad una causa giusta (la loro) sia ingiustificata e dietrologica.
L’umanitarismo (come la lotta per l’autodeterminazione e contro gli invasori)
elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo
gerarchicamente tra vittime e carnefici, vittime e soccorritori, trasformandosi
in un modo di leggere (erroneamente) il mondo (Brauman, 2009). Quello attuale,
e quello di chi combatteva Hofer, è un messianismo laico, l’ennesimo mito che
ci permette di condensare una pluralità di significati complessi in un codice
binario.
Le armate napoleoniche,
come quelle della NATO, non praticavano forse il “cannibalismo umanitario”
tipico dell’orco filantropico, come l’ha chiamato Octavio Paz, Premio Nobel per
la Letteratura nel 1990?
Vi liberiamo, vi soccorriamo, vi emancipiamo dai
vostri vizi: abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a
sentirci dei salvatori. L’ingerenza “umanitaria” diventa allora un dovere
(dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non
farlo). Si scambiano le intenzioni per i risultati, ci si munisce di una falsa
coscienza compiaciuta, si pontifica, prigionieri del proprio gioco di specchi.
In questo modo, a causa di questa ideologia redentrice, la meravigliosa conquista
dei diritti umani, nel diciannovesimo secolo come nel ventunesimo secolo, può
fungere da vettore di guerra, oppressione ed iniquità, per strappare i barbari
alla loro barbarie.
La sofferenza patita e la
giustezza della causa conferisce l’immunità morale alla propria fazione. Gli
uni e gli altri, francobavaresi ed hoferiani, volevano salvare il Tirolo, per
cambiarlo oppure per conservarlo eternamente. Non era un Tirolo realmente
esistente, ma una costruzione della loro mente, un ideale da difendere ad ogni
costo, che fungeva per gli uni e per gli altri come valvola di sfogo di angosce
esistenziali, reazione all’anomia, all’insoddisfazione ed al bisogno di
autostima, ma anche come pretesto per imporre il proprio ego e le proprie
proferenze ed esigenze.
L’umanitarismo produce
perversioni anche tra chi ne beneficia, come il vittimismo. Il vittimismo
partorisce la vittimologia e la vittimocrazia: in Alto Adige gli imprenditori
etnici amano presentarsi come rappresentanti di un popolo vittimizzato, in un
mondo in cui l’ideologia umanitarista esige che si intervenga in favore delle
vittime e moltiplica le vittime per potersi sostenere. L’esito è profondamente
anti-umano, oltre che anti-umanitario, perché perpetua l’immagine dicotomica
delle vittime e dei carnefici, dominati e dominatori e tiene bene in vista la
prospettiva del capro espiatorio e della violenza indiscriminata: “qualcuno
deve pagare per tutto quel che abbiamo dovuto subire!”. Altro che grandi
ideali: è contabilità spicciola. Dall’una e dall’altra parte.
La convivenza si costruisce
sulla capacità di ascoltare l’altro e di imparare da lui, non certo sulla
presunzione di auto-sufficienza e sulle brame messianiche. Altrimenti la
valutazione obiettiva della realtà lascia il posto alle monocolture della mente,
che elidono la diversità e fanno presentire una drammatica mancanza di
alternative che in realtà non esiste e non esisterà mai, laddove la necessità è
l’alibi del tiranno.
Ogni identità è una
relazione, ossia un’interdipendenza. Non si protegge un’identità separandosi
dagli altri o stabilendo dall’alto come questa vada tutelata: così facendo la
si condanna a morte. Alla mancanza di riconoscimento dell’altro corrisponde una
percezione deficitaria di noi stessi ed una concezione strumentale della politica:
le persone sono mezzi in vista di un fine, la realtà è argilla da modellare a
nostro piacimento, finché non assume i contorni da noi desiderati. Come se
fosse possibile cambiare l’altro senza cambiare anche noi stessi.
Il vero
cambiamento parte da noi stessi, da un auto-esame, dal mettersi in discussione,
da una revisione delle nostre relazioni con gli altri. È patologicamente
narcisistico pretendere che gli altri debbano cambiare per venire incontro alle
nostre esigenze ed arrivare così a vivere la vita che desideriamo per noi, o
separarsi dagli altri pur di averle sempre vinte. Purtroppo questo genere di
desiderio trova un terreno fertile in una società del consumo e dell’edonismo,
che ci instilla deliri di onnipotenza, insegnandoci ad espandere ininterrottamente
le nostre brame, a credere che possiamo e dobbiamo mirare ad una sorta di
onnipotenza ed autarchia, che è giusto e doveroso superare la nostra naturale
condizione di incompiutezza, di carenza strutturale: “l’uomo che non deve
chiedere mai”, “il lusso è un diritto”, “perché io valgo”, “tutto intorno a te”
ed altre fesserie sensazionalistiche, emotive e manipolatorie all’origine della
pandemia depressiva del mondo occidentale.
Si chiama hybris ed è
l’indisponibilità a riconoscere che abbiamo dei limiti e che questi limiti non
sono ostacoli che dobbiamo cercare freneticamene ed ossessivamente di superare
ma rappresentano i diritti di cui sono titolari gli altri esseri viventi che
popolano questo pianeta, che non sono nostre appendici, continuazioni di noi
stessi, non sono terre di conquista su cui allungare le mani, non sono alterità
da cancellare perché scomode, sconvenienti, irritanti.
Per questo il
patriottismo, l’orgoglio etnico, l’umanitarismo (quando è "civilizzatore"), quasi
senza eccezioni, sono il volgare sentimentalismo di chi crede di prendersi cura
di qualcosa che è al di fuori di se stesso, ma in realtà sta proiettando
all’esterno il suo amor proprio: i successi ed i patimenti della patria, della
comunità, della civiltà sono prima di tutti i suoi ed è questo che lo gratifica
o lo affligge. Ogni ingiuria alla patria è un’occasione per sentirsi
protagonista di un melodramma cosmico che soddisfa le sue fantasie di
grandezza. Se la patria non è sufficiente ci sarà la classe, la fede religiosa,
la civiltà, ecc. L’amor patrio, come l’amore per l’umanità, è la menzogna di
chi non vuole confessare il proprio narcisismo e lo trasla su una collettività,
per mimetizzarlo. Lo aveva capito perfettamente don Lorenzo Milani che, nel
1966 (Gesualdi, 1975), scrive ad una studentessa napoletana:
Non si possono amare tutti
gli uomini...Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse
qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome l'esperienza ci dice che
all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di
più... Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di
creature, troverai Dio come un premio.
Sulla scia di Paolo di
Tarso, che scriveva (1 corinzi 13, 3-7: 3):
Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri,
se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a
niente. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si
vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio
interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia,
ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa,
sopporta ogni cosa.
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