domenica 23 ottobre 2011

Dagli al cosmopolita! Al rogo, al rogo!




Diretta conseguenza dell’emigrazione di massa è stata la creazione di tipi completamente nuovi di esseri umani – individui che si radicano in idee piuttosto che in luoghi, tanto nelle memorie quanto nelle cose materiali; gente che è stata obbligata a definirsi – perché così vengono definiti da altri – sulla base della loro alterità; gente nel cui io più profondo avvengono strane fusioni, unioni senza precedenti fra ciò che sono stati e il luogo nel quale si vengono a trovare. L’emigrazione comprende la natura illusoria. Per vedere le cose così come sono, è necessario attraversare una frontiera.
Salman Rushdie, “Patrie Immaginarie”

Come quel filosofo che ama i tartari, per essere dispensato dall’amare i suoi vicini.
Jean-Jacques Rousseau, “Émile”

Uno dei più brillanti critici del cosmopolitismo è David Miller, politologo oxfordiano. Per lui il cosmopolitismo è un progetto imperialista che richiederebbe un governo mondiale di stampo tirannico (retto da “virtuosi”, sul modello platonico) che cercherebbe di annullare le specificità socio-culturali (Miller, 2002).
Il cosmopolitismo è l’idea che siamo tutti cittadini del mondo, un’ideologia sviluppata in particolare dallo stoicismo. Il suo principio fondante è che ciascun essere umano ha il medesimo valore morale ed è ugualmente degno della nostra sollecitudine. Miller obietta, molto giustamente, che se mio figlio o il figlio dei miei vicini si è perso dedicherò molto più tempo a cercarlo. È eticamente corretto: abbiamo maggiori doveri verso chi risiede nella nostra comunità rispetto a chi vive dall’altra parte del mondo. È naturale ed inevitabile: siamo esseri viventi finiti, spazio-temporalmente delimitati dai nostri corpi ed il nostro naturale egocentrismo ci spinge ad occuparci prima di tutto del qui e del presente. Non ci possiamo fare nulla e quindi non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato in questo.
Ma la questione è che se il figlio dei vicini è musulmano o nero, non dovrebbe cambiar nulla. Per il cosmopolita l’identità del mio prossimo è irrilevante, ciò che conta è che sia il mio prossimo: altoatesino, sudtirolese, leghista, fascista o nomade, non dovrebbe condizionare la mia assunzione di responsabilità.
I critici del cosmopolitismo detestano la visione del mondo dei cosmopoliti: un grande supermercato dove ci si può comprare quel che si vuole o un buffet dove ognuno si prende quel che si vuole. La nazionalità come un accidente della storia di cui ci si può liberare. Per loro questi sono sentimentalismi egoistici, evasioni adolescenziali dalle proprie responsabilità in nome di astrazioni prive di radici. Un atteggiamento tipico di élite viziate e disconnesse dalla realtà, intellettuali che non hanno idea di come vada il mondo, non persone mature con esperienze di vita autentica sulle spalle.
Va detto, però, che questa non è un’ideologia recente, legata alla globalizzazione. Già uno dei massimi filosofi del passato, Democrito (460 a.C. – 360 a.C.), diceva che “al saggio tutta la Terra é aperta, perché patria di un'anima bella é il mondo intero”. Ciò era di un’evidenza lampante per chi viveva in società caratterizzate da estesi scambi commerciali e culturali, com’era la Grecia del quinto secolo a.C. Chi si chiudeva all’interazione con l’altro era considerato un selvaggio. Pensiamo al Libro IX dell’Odissea, a come Omero descrive i Ciclopi che hanno scelto un’esistenza isolata dal resto del mondo ed imprigionano e mangiano i forestieri. Le simpatie di Omero per i cosmopoliti Feaci sono inequivocabili. L’Antigone di Sofocle sfida le leggi della sua città appellandosi a norme universali di decenza: ci sono leggi non scritte che annullano quelle di Creonte. Già allora vigeva il principio dell’unità nella molteplicità, che sta alla base della costituzione americana, dell’Unione Europea, della Repubblica Indonesiana e dello ius gentium (diritto dei popoli) romano che, in teoria, consentiva a molteplici popoli di coesistere e ai singoli cittadini di pretendere giustizia in ogni angolo dell’impero.
Identità è relazione. Lo “stesso” non può essere riconosciuto come tale senza l’”altro” e l’”uno” senza i “molti”. Cicerone, un cosmopolita, ricordava agli interlocutori che Ercole si era battuto per tutti e si era posto al servizio di tutti, senza distinzioni di sorta. Gesù era cosmopolita, pur avendo scelto di insegnare lontano dalle città ed all’interno di un’area relativamente ristretta: chiunque poteva ascoltarlo, chiunque poteva essere salvato. I Giusti dell’Olocausto non erano bamboccioni viziati, erano persone di varia estrazione sociale e formazione culturale che misero da parte le lealtà particolari per venire incontro al Diverso in difficoltà, offrendo rifugio e salvezza a chi era stato condannato a morte dalla sua comunità, indecisa tra la denuncia alle autorità, l’indifferenza e la volonterosa collaborazione con gli occupanti nazisti. Misero in pratica il principio kantiano del diritto all’ospitalità (per gli ebrei l’intero Terzo Reich era diventato terra straniera). Nemiche del cosmopolitismo sono state invece tutte le dittature del novecento, europee e non, e le teocrazie cristiano-islamiche. I diritti umani non si oppongono alla scelta campanilistica, mentre la morale ed il diritto localista in generale impediscono di compiere scelte differenti, in nome della coesione, dell’unità, dell’ordine, dell’omogeneità, dell’autenticità ed integrità del gruppo contrapposto al mondo esterno.
Per il cosmopolita tutte le persone contano, nessuna è spendibile. Ogni decisione deve tener conto del valore intrinseco, non-strumentale, degli altri. L’enfasi sull’individualità garantisce l’uguaglianza: se ognuno è legittimato e per quanto possibile assistito nella ricerca della sua realizzazione personale, allora gli obiettivi degli uni non possono valere più di quelli degli altri. Montesquieu, Kant ed Emerson hanno compreso e fatto propria la semplice verità che la vera soddisfazione, l’autentica felicità, si ottiene con gli altri, non dagli altri e che, per godere della loro presenza, si deve rispettare il loro modo di essere autentici, oppure cercare altrove una compagnia più consona. Rousseau si era invece infilato in un vicolo cieco: o si isolava dal resto del mondo, come fece in tarda età, oppure cercava di cambiare il mondo per adattarlo alle sue esigenze. Un cosmopolita non teme la transitorietà dell’esperienza umana e l’incostanza del fato e delle relazioni interpersonali. Anzi, ne trae diletto, perché la diversità ed il cambiamento sono per lui fonte di eccitazione e soprattutto di apprendimento. Il suo patrimonio è costituito dalla sua personalità e dalla sua sapienza, non certo dall’etnia, lingua, nazione o fede. Per questo, nei suoi momenti migliori, non sente il bisogno di possedere il prossimo, di appropriarsene in termini esclusivi per assicurarsi un mezzo di prosecuzione del suo piacere e della sua felicità.
Per il cosmopolita le preferenze sono perfettamente accettabili, ma non possono essere un pretesto, un alibi per non essere solleciti verso i forestieri e gli sconosciuti. Il problema del comunitarismo, specialmente di quello etnocentrico, è che sembra fare dell’egoismo il criterio centrale della “buona vita”. Si passa da “la mia gente viene prima” a “gli altri non vengono neppure al secondo posto, anzi, se si tolgono di mezzo dopo che non sono più utili è meglio”. Il nodo centrale della questione è che le relazioni speciali che forgiamo con certe persone aumentano quel che è loro dovuto, nel momento in cui ci associamo, ma non diminuiscono quel che dobbiamo a tutti gli altri.
In sintesi, l’etica cosmopolita è estremamente semplice: in nome del senso di responsabilità nei confronti del prossimo, l’individuo si sente obbligato ad essere sollecito nei confronti di tutte le persone che incontra nella sua vita e che richiedono la sua assistenza, indipendentemente dalla loro provenienza e meta, finché queste non gli si dimostrano ostili o eccedono nelle loro richieste. Un impegno a favore non solo degli intimi, ma anche di chi non conosciamo ma incontriamo perché le nostre vite si intersecano, tanto che il nostro comportamento può influenzarne il destino. Nessun cosmopolita crede che abbiamo gli stessi doveri verso un parente o verso un mozambicano. Quella è solo un personaggio immaginario caricaturale creato per primo da Rousseau per poterlo irridere con più facilità. È una specie di Ebreo Errante, una macchietta carica di stereotipi.
Il cosmopolitismo è semplicemente una modalità del vivere guidata dalla curiosità, interesse, attenzione, apertura, rispetto per l’altro (non necessariamente per le sue idee), fascinazione per ciò che è diverso, nuovo, esotico, istruttivo, ingegnoso, utile, ecc.

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