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sabato 28 gennaio 2012

Il Grande Pacificatore, l'androginia e l'equilibrio tra bene e male





For a New World Order to live well


La società di oggi non accetta facilmente la mia esistenza…Se mi guardo attorno, non c’è un luogo dove mi senta accettato. Non c’è qualcuno con cui poter parlare della domanda filosofica più importante: ‘Perché viviamo?’ Le menti dei miei compagni di scuola sono troppo impegnate a preparare i test d’ingresso alle scuole superiori e non si possono permettere di parlare delle apprensioni del cuore. Nell’educazione contemporanea si pone l’accento sul come realizzare l’obiettivo di passare il test d’ingresso piuttosto che discutere di questioni relative alla dignità umana. Non si capisce quanto importante sia pensare e parlare dei problemi della vita.

Studente giapponese, intervistato dalla filosofa ed educatrice giapponese Naoko Saito

L'idea della congiunzione degli opposti - la coincidentia oppositorum - che accomuna tanto il pensiero di Jung quanto quello di Eliade alla tradizione orientale e al pensiero mistico - non solo anima una più vasta concezione dell'essere umano in quanto unità psico-soma e unità microcosmo-macrocosmo ma diventa anche uno dei motivi che ritornano con forza all'interno della cultura del Novecento, sia come forza di un archetipo che si impone autonomamente, sia come fascinazione di un'idea che permette di riscoprire e attivare l'archetipo operante in ogni individuo.
Aldo Carotenuto, Jung e la cultura del XX secolo, Milano: Bompiani, 1995, pp. 77-78

I fattori che si uniscono nella Coniunctio sono intesi come opposti, i quali si fronteggiano ostilmente o si attraggono amorevolmente l’un l’altro.
C. G. Jung, “Mysterium Coniunctionis”

Lorsqu'on est appelé à régénérer un État, ce sont des principes constamment opposés qu'il faut suivre.
[Quando si è chiamati a rigenerare lo Stato, occorre seguire dei principi che siano in costante opposizione]
Napoleone Bonaparte

Gesù disse loro: “Quando farete dei due uno, e quando farete l'interno come l'esterno e l'esterno come l'interno, e il sopra come il sotto, e quando farete di uomo e donna una cosa sola, così che l'uomo non sia uomo e la donna non sia donna, quando avrete occhi al posto degli occhi, mani al posto delle mani, piedi al posto dei piedi, e figure al posto delle figure allora entrerete nel Regno”.
Tommaso, 22.

Simon Pietro gli disse, "Lasciate che Maria se ne vada, poiché le donne non meritano la vita" Gesù disse, "Io stesso la guiderò in modo da farla maschio, così anche lei potrà diventare uno spirito vivente somigliante a voi maschi. Poiché ogni donna che farà se stessa maschio, entrerà il Regno dei Cieli”.
Tommaso, 114.

Un’epopea irochese narra di un Grande Pacificatore (Hiawatha) che arreca gaiwoh (equanimità, virtuosità), skenon (salute) e gashasdenshaa (potere). Gaiwoh è la giustizia realizzata tra uomini e nazioni ma è anche l’aspirazione a vedere che la giustizia prevalga. È un desiderio più forte del piacere e del bisogno di avere ragione: è un tipo di amore. Skenon è chiarezza di intendimento e integrità fisica, due precondizioni per l’ottenimento della vera pace. Gashasdenshaa è l’autorità sostenuta dalla forza necessaria, una forza che dev’essere in armonia con le leggi universali. La società ideale è quella della casa comune in cui ciascuno ha il suo focolare, ma si convive sotto lo stesso tetto. Là il pensare rimpiazza l’uccidere.
Il Grande Pacificatore deve affrontare Atotarho, un capo malvagio ed antropofago, per convertirlo. Atotarho è come un ciclope – mangia gli ospiti che non sono stati invitati – ed assomiglia anche a Medusa: i suoi capelli sono un groviglio di serpenti e nessun uomo è in grado di guardarlo in faccia. Il suono della sua voce terrorizza l’intera regione. Ma senza di lui non si potrà assicurare la pace. Il Grande Pacificatore ce la fa con un trucco. Fa in modo che il suo volto si rifletta nell’acqua di un pentolone in cui il cattivo sta per preparare il suo pasto umano, cosicché Atotarho scambi il suo volto – saggio, forte e virtuoso – per il proprio e si renda conto della dissonanza tra un tale aspetto e la pratica del cannibalismo. Scioccato, Atotarho cade in depressione, ma il Grande Pacificatore lo aiuta: lo invita a seguirlo in ogni luogo in cui abbia commesso del male per predicare il nuovo verbo della pace come potere (Kayanerenhkowa). La chiave della conversione è la volonà di non imporre la verità o la spiritualità su chi non è pronto a riceverla. Atotarho diventa a sua volta un grande operatore di pace proprio in virtù della grandezza della sua forza interiore, che prima lo rendeva così malvagio e terrificante. Viene “sconfitto” e si converte quando in lui si risveglia la consapevolezza del potere dell’amore e della sapienza che è in lui. All’intensità della sua resistenza – non ascolta ragione, non sono gli argomenti a persuaderlo – corrisponde l’intensità della sua bontà. In questa tradizione irochese il male degli uomini è bontà malindirizzata e malconcepita, malintesa, è amore che opera spinto da una paura sbagliata, uno sforzo equivocato nei mezzi e nelle finalità, uno spirito aggiogato ad un padrone disperato, energia umana sprecata, guastata e deviata dal suo corso migliore.
In generale penso che sia così, ma c’è almeno un’importante eccezione:

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Gli antropologi hanno spesso notato che le comunità dei popoli “tradizionali” erano spesse bipartite in una metà bassa ed una alta, Terra e Cielo, estate e inverno, pace e guerra, femminile e maschile, legate da rapporti al tempo stesso di rivalità e di cooperazione ed accompagnate da una gestione duale dei poteri da parte di un capo civile e di uno religioso. Nell’ambito mitologico la bipartizione trova riscontro nel mito delle origini, che assegna a due eroi culturali, talora gemelli o comunque fratelli, il merito di aver fondato la comunità, mentre, nella concezione dell’universo, alla bipartizione del gruppo sociale corrisponde quella del resto dell’universo degli esseri e delle cose dell’universo, distinti ed aggregati per accoppiamento di opposti: Rosso e Bianco, Chiaro e Scuro, Giorno e Notte, Nord e Sud, Est ed Ovest, Cielo e Terra. Questo stesso aspetto è evidente anche in Cina, dove la polarizzazione yin-yang, che si manifesta già nelle realizzazioni artistiche di epoca shang, mostra la tensione verso una coincidentia oppositorum, una congiunzione che risulta evidente nell’iconografia che mostra gufi con occhi solari ed emblemi della luce adornati con simboli della notte e dell’oscurità, in modo da rappresentare la ciclicità del processo di alternanza tra le due manifestazioni cosmiche complementari.
In Grecia abbiamo Dioniso e Apollo, che varie raffigurazioni ritraggono come androgini. Lo spirito apollineo è razionale, formale, luminoso ed armonico, all’insegna misura e proporzione. Lo spirito dionisiaco è estatico, creativo, oscuro, all’insegna della passione sensuale. Eros e Thanatos, l’impulso creativo e limpulso entropico/distruttivo (anche autodistruttivo).
Empedocle insegnava che l’universo è in costante metamorfosi, si genera e decade, grazie a Amore e Discordia/Odio, che operano in tutto ciò che è animato e in tutto ciò che è inanimato. Eros unisce tutte le forme di vita e Thanatos le separa e le disperde. Composizione e decomposizione sono forze di eguale intensità, eterne e mescolate in ugual misura in tutte le cose, in un’interazione necessaria.
Gesù il Cristo è un maestro delle contraddizioni, delle antinomie. Esaminiamo alcune delle sue parabole:
Buon Samaritano: il “degenerato” è un giusto, il “giusto” è un degenerato. Vignaioli: i primi saranno gli ultimi, gli ultimi saranno i primi. Figliol Prodigo: il ribelle è festeggiato, l’obbediente si ribella. L’esattore delle tasse e i farisei: il peccatore è salvato, il salvato è peccatore. Il seminatore: l’abbondanza di semi non garantisce una buona mietitura, pochi semi possono dare buoni frutti. Giudizio Finale: chi sembra celebrare il Cristo è invece servo dell’Anti-Cristo e chi è perseguitato è invece il vero credente. La pecora perduta: quella persa vale più delle 99 salvate.
Analogamente, il vangelo greco degli Egiziani, che è databile tra la fine del I secolo e la metà del secondo secolo a.C., descrive il modo in cui sarà possibile avere accesso al Regno di Dio:quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”. La Seconda lettera di Clemente, analogamente, riporta: “interrogato da qualcuno su quando verrà il Regno, il Signore stesso rispose: “quando i due saranno uno, il fuori come il dentro e il maschio con la femmina né maschio né femmina”.
Anche nei vangeli canonici il superamento (limitatamente alla sfera psicologica e spirituale) del dimorfismo sessuale è implicito nella risposta di Gesù agli apostoli che gli chiedono cosa si debba fare per assicurarsi un posto nel Regno dei Cieli: “Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli”. (Matteo 18, 2-4). Come pure negli effetti della gloria: “E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro, e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità” (Giovanni, 17:22-23). Paolo di Tarso esprime una posizione assolutamente conforme: “Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28). Che riafferma in una diversa epistola (Colossesi, 3, 8-11): “Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”.

Le tradizioni che oggi consideriamo primitive ci educherebbero, se badassimo ai loro precetti. Ci siamo pericolosamente imbarbariti. Pericolosamente per noi e per tutto ciò che ci circonda.
Come abbiamo visto, vi è una diffusione planetaria e trans-temporale di riti e miti riguardanti la ricomposizione unitaria della coppia binaria, indice del riconoscimento universale dell’importanza del principio della coincidenza degli opposti.
Apprendiamo che le parti sono in equilibrio, si incontrano e fondono agli estremi, due metà di un cerchio. Nel punto di congiunzione dei semicerchi si crea un perfetto equilibrio. Senza una metà non c’è l’altra, senza oscurità non c’è luce, in un grande ciclo naturale pedagogico (caduta e redenzione).
Apprendiamo che l’equilibrio è naturale. Una parte della creazione procede verso lo squilibrio (che considera equilibrio) e l’altra verso l’equilibrio: assieme generano un equilibrio dinamico. Le forze opposte nella natura si incontrano ed il risultato può essere una polarizzazione in un senso o nell’altro, oppure si può raggiungere un equilibrio simmetrico, o un equilibrio parziale su un versante o sull’altro. Ogni potenziale si realizza nei punti di intersezione. Tutto è parte dell’equilibrio che compone ciò che chiamiamo Universo, o Creazione. 
È possibile ipotizzare – è lecito augurarsi – che la condizione di evidente decadenza del presente sia il modo in cui il sistema può ritrovare un equilibrio simmetrico:

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I popoli che gli Europei hanno considerato incivili intendevano la pace in modo molto diverso dal nostro, che corrisponde da vicino alla quiete che segue la vittoria di una fazione sull’altra (cf. Napolitano che ingiunge agli Italiani di perseguitare gli antisemiti ovunque essi siano, in manifesta violazione dei principi costituzionali). La loro pace era dinamica ed includeva tutte le forze della vita, nella natura e nell’uomo, compreso quello che chiamiamo “male”. Era una concezione inclusiva, non esclusiva: lotta, sofferenza, dolore, errori e stoltezze, passione, tenerezza, rabbia e sconfitta. Persino la guerra era inclusa nell’idea di pace, una guerra condotta in un certo modo e con certe motivazioni. L’assolutismo pacifista era completamente estraneo alla loro mentalità ed è un’invenzione della modernità europea.
Vivere in pace significava accogliere la vita in tutti i suoi aspetti, le quattro direzioni cardinali, tutte le creature.
Il contrario di questo significato della pace e della giustizia è quello che divide e separa le parti della realtà e le mantiene distinte, un moralismo che sminuisce l’interconnessione della vita. Ci sono cose che vanno distrutte e persone che vanno uccise (es. Hitler/Stalin), ma non certo per plasmare il cosmo a nostro piacimento, bensì unicamente perché il cosmo si ricostituisca, per conto suo.
Non è che il bene e il male non esistono, anzi, - male è: dolore e timore insensati, brutali, crudeli, futili perché irredimibili, lo spreco di vita, l’ingiustizia titanica, la rabbia sorda e violenta. Il punto è che sono interdipendenti. Ciò che è oggettivamente buono è la realtà nella sua interezza e ciò che è oggettivamente cattivo è la sua frammentazione. Ciò che alla mente ordinaria appare come opposizione, contrasto e contraddizione è un’unità trascendente, la riconciliazione dei contrari interconnessi, chiamata coincidentia oppositorum. Pace e giustizia discendono da tale comprensione. La vita è una relazione misteriosa ed intima tra forze opposte e la legge dovrebbe essere ciò che preserva questa relazione e, nel farlo, il dinamismo della vita. La Caduta è l’illusione che i contrari si escludono a vicenda.
I monoteismi sono male perché diffondono l’idea che ci sia una parte della natura umana che deve essere distrutta, senza che sia possibile ricostituire l’unità fondamentale dell’essere. Questo male nasce proprio dalla scelta umana di escludere le forze del “male” dalla nostra vita e dalla nostra mente consapevole. Quando questo male viene isolato, cresce fino a distruggere un bene che, innaturalmente separato, è indifeso. Da qui scaturiscono il razzismo, il segregazionismo, la guerra sterminatrice, la pulizia etnica, il genocidio e tutto l’orrore di cui siamo capaci.  
La pace non è un qualcosa di passivo, non è assenza di conflitto, ma una forza che armonizza le azioni e gli impulsi della vita umana in tutte le loro molteplicità e contrasti. La forza che chiamiamo pace è, nell’universo e nell’individuo, una qualità della mente, un’energia cosciente.
La pace fa da ponte tra due forze contrapposte. Il male è la forza che ostacola fatalmente l’azione della forza riconciliativa, la discesa della colomba, lo Spirito Santo, nella vita umana. Opporsi a ciò che è buono (es. attraverso l’intolleranza delle diversità che non violano la legge, l’ingiustizia, la violenza contro l’ambiente, la tortura, la guerra, ecc.) non è un peccato imperdonabile. Imperdonabile è ostruire il corso della riconciliazione tra il bene e ciò che lo antagonizza. Satana deriva dall’ebraico satan che significa l’avversario. Il diavolo viene dal greco diabolos, “colui che divide” e significa l’accusatore, il diffamatore, il mentitore. Nella sua prima forma il demonio è uno strumento divino e serve delle sacre finalità. Per questo Gesù chiama Pietro “Satana” ma gli ordine di mettersi dietro di lui come discepolo – “va dietro a me, Satana”, in luogo di quella che è stata per lungo tempo l’errata traduzione “Lungi da me, satana!” (Matteo 16:23) –, quando Pietro dimostra di non aver capito il senso del suo messaggio. Che la Chiesa abbia scelto proprio “Satana” come suo fondatore è estremamente significativo.
È invece irreparabile il male di chi nega lo Spirito Santo e la sua funzione di agente riconciliativo tra i contrari (es. altoatesini e sudtirolesi, bianchi e neri, ebrei e musulmani, cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord, uomini e donne, destra e sinistra, ecc.) e ponte tra l’umano e il divino, ossia chi induce l’uomo a credere di essere solo un animale o una macchina.  
Il cuore della democrazia è apprezzare l’altro anche quando è un mio avversario: fare un passo indietro ed un passo al di fuori di se stessi, dalle proprie emotività e permettere all’altro di pensare, parlare e vivere. La democrazia non è solo un’istituzione esterna, non è solo una forma politica, è anche una forza interna al nostro sé, un ideale interiore, l’espressione più alta di una spiritualità laica in questo mondo, capace di coniugare pragmatismo e misticismo, materia e spirito, esteriore ed interiore, bene e male:
Rispettare tutte le persone, garantire a ciascuno i propri diritti e la propria voce, significa capire cosa abbiamo tutti in comune, richiede di vedere che cosa sia un essere umano, indipendentemente da tutte le distinzioni sessuali, razziali, etniche, religiose, fisiche, sociali, culturali ed intellettuali; quali che siano i suoi pregi e difetti.

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Pierre-Joseph Proudhon contro la cosiddetta dialettica hegeliana
Nel suo “Philosophie de la misère”, il filosofo politico Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) spiega che fu inizialmente attratto dalla schematizzazione hegeliana del reale in tesi-antitesi-sintesi. Ma poi si accorse che si trattava di un tragico errore. Le antinomie irrisolte, aveva capito, sono feconde per la vita. Senza contrapposizioni tra polarità opposte non c’è vita, non c’è movimento, non c’è progresso; c’è solo inerzia, sterilità. Chi le volesse risolvere sarebbe come chi tagliasse il ramo dell’albero su cui siede. E poi nessuno, neanche un dio, potrebbe comunque riuscirvi. I poli di una batteria elettrica sono indistruttibili ed il problema consiste nel trovare non tanto la loro fusione, che equivarrebbe alla loro morte, ma un loro equilibrio, incessantemente instabile e variabile, in relazione allo sviluppo della società.
Florence Nightingale e Ramsete II
Durante un viaggio in Egitto, nel 1850, Florence Nightingale vede una raffigurazione del faraone Ramsete II, incoronato da Oro e Set, il principio del bene e quello del male. Il male non è rappresentato come un oppositore ma come collaboratore, la sua mano sinistra. Dal bene si origina il male, dal male si origina il bene, dal disordine l’ordine e vice versa. Ciò che appare come male, nella limitata prospettiva umana, è un elemento necessario della completezza dell’universo di Dio. Per la Nightingale, il fine dell’umanità è l’unione con Dio. L’umanità deve realizzare la sua natura divina, questo è il piano divino. Lo può fare solo attraverso la conoscenza delle leggi universali. Ce la farà solo commettendo innumerevoli errori. Il male e la sofferenza sono dovuti all’ignoranza delle leggi divine e del piano divino. Il male fa parte del piano divino perché serve ad istruire la specie umana. Senza il male non ci sarebbe alcun processo evolutivo. L’evoluzione è corale, collettiva, serve uno sforzo congiunto, non un pastore che guidi il gregge.
Albert Camus, il Mediterraneo e il giusto mezzo
Per Camus la luce mediterranea è simbolo di lucidità, equilibrio e misura, in opposizione all’oscurità ed alla dismisura nordica. Il suo modello di vita morale è improntato a una sorta di eroismo altruistico. È a partire dalla misura che è possibile organizzare un mondo tutto umano, tutto plasmato dalla ragionevole, ma limitata, capacità dell’uomo. Già Pitagora, in uno dei suoi detti aurei, aveva sentenziato: “La misura in ogni caso è la cosa migliore”. L’euthymia Democrito la chiama anche euestò, cioè benessere, lo star bene nel mondo, l’aver raggiunto una sorta di equilibrio che non coincide con l’appagamento totale delle proprie pulsioni e dei propri desideri. Lo stato in cui l’animo è calmo ed equilibrato, non turbato da paura alcuna e dal superstizioso timore degli dèi o da qualsiasi altra passione. In ogni aspetto della vita umana, il desiderio innesca un processo di attivazione, capace di rendere operoso e produttivo l’uomo, ma il desiderio deve essere tenuto nei giusti limiti. Se oltrepassa i limiti della metriotes, innescherà un processo di bisogni concatenati che, non potendo mai essere del tutto soddisfatti, causeranno insoddisfazione, tormento e dolore.
Il pensiero meridiano di Camus si qualifica certamente come critica della ragion cinica, come elogio dell’imperfezione moderata, di quella visione della realtà che sa che la vita umana è un misto di bene e di male e che l’uomo non è l’essere capace appagare sempre e comunque tutti i suoi desideri. Nemesi, dea della misura, è fatale ai “dismisurati”. La libertà assoluta coincide col diritto, per il più forte, di dominare: essa mantiene dunque i conflitti che avvantaggiano l’ingiustizia. La giustizia assoluta passa attraverso la soppressione di ogni contraddizione: essa distrugge la libertà.
La coincidentia oppositorum nella musica e nel pensiero greco
Symphonein, in greco, indicava il coro, il concerto. Congiungersi si diceva harmozein. Harmonia proviene dal linguaggio dei carpentieri ed indica la congiunzione delle parti in una struttura complessa, ordinata, equilibrata. Harmonia dev’essere symphonia: non una sola voce o strumento, ma una molteplicità, in una risoluzione delle contraddizioni. Un assemblaggio di elementi separati ma che stanno bene assieme, una miscela (krasis) composita nella tensione tra elementi opposti ma che ben si combinano. Harmonia è figlia di Ares e Afrodite che si attraggono irresistibilmente. Symphonoi sono i toni che stanno bene assieme, diaphonoi quelli non vanno d’accordo. Maggiore è la diversità, più saldo sarà il legame nella loro combinazione, l’armonia degli opposti. Una società civile sana è quella in cui le voci sono diverse e solo in virtù di questa diversità possono formare un coro. 
Un’incredibile simmetria, la palintonos harmonie, l’armonia degli opposti eraclitea, è quella in cui tutto quel che dissolve unisce, tutto quel che distanzia e separa ricongiunge. Un perfetto equilibrio delle forze, quieto nella sua costante tensione. Un dinamismo bilanciato che mantiene l’immobilità in virtù di tensioni assolutamente proporzionali. Un altro principio estetico greco era quello della palintropos harmonie, l’oscillazione armoniosa, il ritmo dell’universo, in costante mutamento. Anche qui un’armonia contrastante o armonia retrograda: “Interpretando il termine come “tensione”, la lotta tra gli opposti sarà sempre giustamente equilibrata, essendo i vantaggi ottenuti in una regione di forza sempre simultaneamente controbilanciati da uguali vantaggi altrove conquistanti la forza opposta. Interpretando il termine come “oscillazione”, la lotta può in ogni luogo andare a favore di uno dei due opposti, ma alternativamente, essendo l’avvicendamento soggetto a una legge che determina i periodi in cui ognuno prevale”.

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Bibliografia
Carl Gustav Jung, “Aion: ricerche sul simbolismo del sé”, Torino: Boringhieri, 1997.
Mircea Eliade, “Immagini e simboli: saggi sul simbolismo magico-religioso”, Milano: Jaca book, 2007.
Joseph Campbell, “Mitologia primitiva: le maschere di Dio”, Milano: Mondadori, 2000.
Toshihiko Izutsu, “Sufism and Taoism: a comparative study of key philosophical concepts”, Berkeley: University of California Press, 1984.
Karl von Meyenn (Hrsg.), “Wolfgang Pauli. Wissenschaftlicher Briefwechsel mit Bohr, Einstein, Heisenberg u.a.”, Bd. I-IV, Berlin 1979-2001.
Ursula K. Le Guin, “The Left Hand of Darkness”, Ace Books, 1969.
James P. Driscoll, “The unfolding God of Jung and Milton”, The University Press of Kentucky, 1993.
Bonnie MacLachlan, “The harmony of the spheres: dulcis sonus”. In: Wallace, Robert W. et Bonnie MacLachlan, eds., Harmonia Mundi: Musica e filosofia nell’ antichità, Biblioteca di Quaderni Urbinati di Cultura Classica (Roma: Edizioni dell’ Ateneo, 1991), pp. 7-19.


venerdì 20 gennaio 2012

Socrate e l'illusorietà della morte



Nella tradizione orfico-pitagorica la morte non è una cosa brutta ma un momento di purificazione, il trionfo dello spirito sulla materia che lo imprigiona, dell’eterno sul transeunte. Il sapiente deve capovolgere il suo giudizio sul vivere e sul morire. Ecco cosa ne pensa Socrate.

– Credi tu che la morte sia qualche cosa?
– Certo – rispose Simmia.
– E non crediamo noi che essa altro non sia che la separazione dell’anima dal corpo? E l’esser morto non consiste proprio in questo: nello stare l’anima e il corpo separati tra loro e ciascuno per conto proprio? Che altro è la morte se non questo?
– Nient’altro che questo, infatti – rispose Simmia.
– E allora osserva attentamente, o amico, se tu hai la stessa opinione che ho io, poiché solo così potremo meglio comprendere ciò di cui discutiamo. Pare a te che sia da vero filosofo darsi cura dei piaceri, come, per esempio, del mangiare e del bere?
– Niente affatto, Socrate – confermò Simmia.
– E dei piaceri d’amore?
– Neppure.
– E così tutte le altre cure del corpo, come l’acquisto di lussuoso vestiario, di magnifiche calzature e di ogni altro ricercato ornamento, pare a te che il filosofo abbia in pregio più di quel tanto che la necessità lo costringa a farne uso?
– A me pare che il vero filosofo disprezzerà tutto questo.
– Non ti sembra allora che l’attività di un tale uomo non sia per nulla rivolta al corpo, da cui anzi si allontana più che sia possibile, ma invece sia tutta dedita all’anima?
– Certamente.
– E quindi è chiaro che in tutte queste cose il filosofo, a preferenza di ogni altro uomo, cerca più che può di liberare l’anima da ogni comunanza col corpo. Non è forse vero?
– Pare di sì.
– Ed è per questo o Simmia, che il volgo crede che colui il quale non prova alcuno di questi piaceri, e non vi partecipa, non meriti neanche di vivere; poiché tende ad essere come un morto chi non si cura dei piaceri che derivano dal corpo.
– Dici proprio la verità.
– E che diremo dell’acquisto della sapienza? Credi tu che nella ricerca della verità ci sarà o no di impedimento il corpo? Intendo dire questo: il senso della vista e dell’udito, ad esempio, danno a noi certezza assoluta, oppure hanno ragione i poeti quando continuamente ci dicono che noi non udiamo, né vediamo nulla di preciso? E se questi sensi non sono né sicuri, né precisi, che cosa dovremmo dire degli altri ancora più manchevoli di questi? Non ti pare?
– Certamente – disse.
– Quando, dunque – continuò Socrate – l’anima riesce ad attingere il vero? Perché se essa si accinge a ricercare la verità con l’aiuto del corpo, è evidente che sarà da questo tratta in inganno.
– Proprio così.
– Non è forse nella pura attività di ragione che si rende a lei manifesta la verità?
– Certamente.
– E questa attività non si esplica ancor meglio quando l’anima non è conturbata da nessuna di tali sensazioni, né dalla vista, né dall’udito, né dal dolore, né dal piacere, ma tutta in sé raccolta, abbandonando completamente il corpo, senza più alcuna comunanza né contatto con esso, tende solamente alla verità?
– Dici proprio bene.
– Non è questa, allora, la ragione per la quale l’anima del filosofo disprezza profondamente il corpo e rifugge da esso e aspira a rimanere sola, tutta in sé raccolta?
– Certamente.
– Ma v’è ancora un altro argomento, o Simmia. Affermiamo noi l’esistenza di un “giusto in sé”, o no?
– Certo che lo affermiamo, per Zeus.
– E di un “bello in sé”, di un “buono in sé”?
– Pure.
– Or bene, vedesti tu mai con gli occhi del corpo il “Giusto”, il “Bello”, il “Buono”?
– No, mai – rispose quegli.
– E li hai mai conosciuti con qualche altro senso del corpo? E non parlo solamente di questi, ma ancora della “Grandezza”, della “Salute”, della “Forza”, in una parola di tutto ciò che realmente è. E credi tu che si conosce la realtà in sé delle cose per mezzo dei sensi del corpo, oppure reputi che colui il quale si propone di conoscere il vero per mezzo dell’attività pura di ragione si avvicinerà più di ogni altro alla perfetta conoscenza di esso?
– È proprio così.
– E a questa perfetta conoscenza può pervenire soltanto colui che alla verità si volge con la sola mente, e non sorregge la sua ragione con alcun senso del corpo, ma solo in sé e puro, con la mente pura, cerca di attingere il vero, astraendosi, più che sia possibile, dagli occhi, dagli orecchi, dal corpo tutto, poiché questo sconvolge l’anima e non le permette di acquistare verità e sapienza. Non è forse quest’uomo, o Simmia, colui che potrà, più di ogni altro, cogliere la realtà?
– Tu dici il vero, o Socrate – rispose Simmia.
– Dunque – seguitò Socrate – tutte queste considerazioni devono formare nei veri sinceri filosofi un’opinione tale da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. E le guerre, le rivoluzioni, le battaglie, chi le produce se non il corpo e le sue passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama di ricchezze, e queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo, incatenati come siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di dedicarci alla filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e contemplare la verità con la sola anima. Allora soltanto, quando saremo morti, e non da vivi, come il ragionamento ci costringe ad ammettere, noi potremo possedere ciò di cui ci professiamo amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna riconoscere, dunque, o Simmia, che tutti coloro i quali rettamente filosofano è come se si esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura che agli altri.

Platone, "Fedone", Armando Editore, Roma 2007.

giovedì 20 ottobre 2011

I Giusti tra le Nazioni - salvare qualcuno è salvare se stessi



ESTRATTO DA:
Stefano Fait e Mauro Fattor, "Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso", Raetia, 2010, 224 pagine.

I Giusti, preservando l’idea fondamentale della speranza nell’uomo, hanno difeso la civiltà umana.
Antonia Grasselli e Sante Maletta

L’anello più debole è anche il più forte. Spezza la catena.
Stanislaw Lec

Nella tradizione mistica ebraica i Tzadikim Nistarim sono 36 Giusti che vivono su questo pianeta senza essere consapevoli della loro natura “speciale”. Nessuno li conosce – sono in un certo senso “nascosti” (nistarim), ma in ogni momento della storia ce ne saranno sempre 36 e la loro presenza assicura l’esistenza del mondo stesso. Nella narrativa europea orientale il viandante forestiero che giunge in una comunità giusto in tempo per salvarla dalla catastrofe è molto probabilmente uno dei 36, ma è troppo umile per rendersene conto. Terminata la sua missione, come ogni supereroe che si rispetti, fa il suo ritorno nell’anonimato. Nessuno sa chi siano i 36, ma ogni ebreo dovrebbe cercare di conformare il più possibile il suo comportamento e stile di vita a quello dei 36, dovrebbe cioè agire come se fosse uno di loro e tenere a mente il detto talmudico che “chi salva una vita salva il mondo intero”.
Personalmente trovo che questa pratica sia estremamente salutare e lodevole e garantisce una vita pienamente, genuinamente umana che funge anche da antidoto al virus identitario. Come? È quello che proverò a dimostrare in questo capitolo. Quel che si apprende dai vari studi che approfondiscono il tema della mentalità e spiritualità dei soccorritori degli Ebrei durante l’Olocausto (Todorov 1992; Oliner et al. 1993; Paldiel 1993; Geras 1995; Fogelman 1996; Monroe 1996, 2004; Perlasca 1997; Reykowski 2001; Zamperini 2001; Picciotto 2006; Grasselli & Maletta 2006), è che molti di loro coltivavano una forte autonomia di giudizio. Il loro non era un anticonformismo fine a se stesso, ma la volontà di ascoltare la voce della propria coscienza prima di prendere in considerazione quella del gruppo di riferimento.
Mentre la maggior parte delle persone si preoccupava per l’incolumità propria e delle proprie famiglie, essi si prodigarono per degli sconosciuti, gli outsider per antonomasia, etichettati come anti-umani dalla propaganda nazista. Erano spinti a farlo da valori che non dipendevano dall’approvazione altrui – i vicini erano spesso inclini a condannarli per il modo in cui mettevano a repentaglio la vita degli altri e non solo la loro – ma dalla personale convinzione di essere nel giusto o, per meglio dire, di non poter agire diversamente. Cosa li distingueva dagli altri? La fede? Gli orientamenti politici? Il tasso di  scolarità? Il ceto? Nessuna di queste variabili accomuna i Giusti. Sappiamo che uno dei fattori determinanti era l’educazione. I loro genitori insegnarono ai figli la tolleranza, il sincero apprezzamento per ogni vita umana, la compassione per le persone in difficoltà. In breve, i soccorritori appresero dai propri genitori il valore dell’estensività, ossia della capacità di ciascun essere umano di decentrarsi, spersonalizzarsi, accogliendo nel proprio Io ogni altro pronome personale. Un altro termine per "individualità democratica".
Leggiamo cosa hanno pensato di se stessi e delle loro motivazioni. Ecco alcune delle risposte date a chi voleva sapere dove avevano trovato la forza e le motivazioni per fare quello che avevano fatto. “Non è una questione di come mai l’abbiamo fatto... non si poteva fare diversamente. Punto e basta”. “Si vedevano gli Ebrei non come Ebrei, ma come esseri umani perseguitati, che lottavano disperatamente per la propria vita ed avevano bisogno di aiuto”. “Una voce dentro di me mi disse che dovevo farlo, altrimenti non sarei più stato me stesso”. “Non so esattamente perché ho aiutato. È semplicemente che sono fatto così. Quando vedo qualcuno che ha bisogno di aiuto lo aiuto”. “Ci hanno insegnato ad amare l’umanità”. “Tutti gli esseri umani sono una grande famiglia”. “L’unica cosa che non potevo sopportare da piccola era l’ingiustizia”. “Se non si poteva vivere per gli altri... non aveva senso vivere. Essere umani significa avere bisogno degli altri”. “Un giorno ho visto un bambino ebreo in strada, di circa nove anni, ed un altro bambino gli è corso incontro e gli ha detto: ‘Sei un Ebreo!’ e poi l’ha colpito. Un uomo, un manovale come tanti, aveva visto quanto era successo e gli aveva detto: ‘Perché l’hai fatto? È un bambino proprio come te. Guarda le sue mani e la sua faccia. Non c’è alcuna differenza...’. Così il bambino che aveva colpito il bambino ebreo, triste, gli ha poi detto: ‘Ah, sì, scusami’. L’ho ascoltato, sono andata a casa, ho guardato le mie mani e ho pensato: ‘No, non c’è differenza’. Così, vede, ho ascoltato ed ho imparato”. Un Olandese, spiegando cosa lo avesse spinto ad aiutare un tedesco, odiato nemico, evoca inconsapevolmente il San Paolo della lettera ai Galati, “Ebrei o Tedeschi – non faceva nessuna differenza per me, finché li riuscivo a vedere come esseri umani”. Un ingegnere tedesco in Polonia ricorda invece che sua madre gli aveva insegnato “a non approfittarsi della vulnerabilità delle persone” e “a prendere la gente per quel che è, non per la loro professione o religione, ma per quell che sono come persone” (Geras 1995). Nessun soccorritore ha dovuto riflettere molto a lungo prima di prendere una decisione così cruciale. La gran parte di loro ha agito d’impulso, senza soffermarsi a valutare i rischi, senza premeditazione (Fogelman 1996; Powell, 2000). Come ha spiegato il figlio di uno dei superstiti salvati dagli abitanti di Le Chambon, “la gente che si preoccupa troppo non agisce e chi agisce non si preoccupa troppo”. Il che conferma l’intuizione della scrittrice e filosofa anglo-irlandese Iris Murdoch che “nei momenti decisivi la gran parte della scelta è già stata fatta” (Murdoch 2001, 36); oltre alla riflessione di William Blake su Gesù, da lui definito un uomo che “era tutto virtù e agì per impulso, non secondo le norme”.
Un altro soccorritore olandese (Tony) ribadisce la predisposizione all’universalismo dei soccorritori. “Non credo alle cause giuste o sbagliate... Credo alle persone buone. Le persone sono le stesse da una parte e dall’altra. Potrebbero stare assieme se lo volessero, ma l’educazione è un serio ostacolo [...]. Le persone sono terrorizzate dall’idea di lasciar andare la loro coperta di Linus, qualunque essa sia: la religione, il corpo dei marines, la fede ebraica o cristiana. Senza di esse si troverebbero a dover affrontare la propria umanità”.
Ecco invece il suo punto di vista sulla natura umana: “Penso che stiamo tutti assieme come le cellule del corpo. Sono entità individuali, ognuna in lotta per la propria sopravvivenza. Eppure, a volte, si sacrificano per la sopravvivenza dell’insieme... Ma, ai nostri giorni, Statunitensi, Europei e Cinesi non possono sopravvivere in questo mondo se non come parti di un tutto, in un certo senso. La difficoltà maggiore è farlo senza cadere nella trappola del governo totalitario”.
 E come ci si riesce?
“Proprio nel modo in cui lo fa il corpo. È quasi un modo istintivo, involontario di sentire. È una combinazione di educazione, nuova moralità fondata sull’amore e la sollecitudine, e sulla scelta di non incentrare la propria vita sull’accumulazione di quanto più è possibile. È sapere che la tua felicità dipende da vibrazioni che sono in armonia con il tuo ambiente, con la natura e con le persone che ti circondano e da una certa dose di coraggio che deriva dalla consapevolezza che la vita non dura per sempre”.
Tony riesce ad aggirare la dicotomia comunità costrittiva (Gemeinschaft) – società atomizzante (Gesellschaft) optando per una sintesi che sovrasta entrambe, la convinzione di fare tutti parte della medesima forza vitale e quindi di avere lo stesso valore e pari dignità, oltre che la medesima capacità di compiere il bene ed il male (Monroe 1996). Bert, un altro olandese poi trasferitosi negli Stati Uniti, confida all’intervistatrice di non aver mai aderito ad alcun sistema etico preciso: “Non vivo secondo qualche regola speciale... Ma immagino, anche se non ci ho mai pensato prima, che forse esiste una qualche legge superiore a quella umana”. E tuttavia non è in grado di definirla. Sembra piuttosto che, kantianamente, si sia comportato in modo tale che la legge che informava le sue azioni potesse essere una legge universale della natura; oppure che, come Emerson, abbia creduto che quel che era intimamente vero per lui, lo fosse anche per tutti gli esseri umani. Bert non ha mai pensato molto a quel che faceva, non aveva altra scelta se non farlo. Non si sente eroico e neppure coraggioso. “Chi arrampica è coraggioso”, chi salva delle vite umane non lo è, “perché quella è una cosa che si deve fare, mentre arrampicare una parete è una scelta”. Insomma, la decisione di Bert era inevitabile, involontaria e del tutto normale, dal suo punto di vista (Monroe 1996). Che è poi il punto di vista di Giorgio Perlasca, militante fascista e volontario in Abissinia e Spagna, e poi salvatore di oltre cinquemila ebrei ungheresi. “Non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Alla fin dei conti, io ho avuto un’occasione e l’ho usata” (Deaglio 2003, 16).
Come ho già avuto modo di rimarcare in precedenza, una delle virtù dei Giusti è quella di sapersi disfare di una morale rigida, incardinata in regole astratte ed inflessibili che non tollerano la variabilità dell’esperienza umana. Prevalgono l’impulso compassionevole e l’elisione temporanea dell’Io. Non possiamo far passare sotto silenzio, anche se spiace rilevarlo, il fallimento morale delle religioni rivelate, istituzionalizzate ed identitarie. Ci sono casi di esponenti del clero cattolico che nascosero degli Ebrei cercando di convertirli (Picciotto 2006). Nel dopoguerra ci sono stati Ebrei che hanno continuato a dubitare di essere stati salvati da un gentile. È il caso di un rabbino che, quando la guerra finì, chiese ancora una volta alla donna che l’aveva salvato se lei fosse ebrea e, alla sua replica che non lo era affatto, esclamò: “Sei decisamente pazza!”. Possiamo immaginare che il tono fosse benevolmente canzonatorio, ma il fatto stesso che per lungo tempo il salvato non abbia voluto credere alla donna indica uno dei limiti oggettivi delle religioni tradizionali. Il comportamento di un soccorritore è comprensibile se esiste un legame religioso, etnico o nazionale, altrimenti è quantomeno curioso ed inatteso, se non stupefacente. Come se il sacrificio personale per un compatriota o correligionario fosse un fatto naturale, ma non quello per uno sconosciuto al quale ci lega solo la comune umanità. Ha perfettamente ragione la filosofa politica Valentina Pazé (Pazé 2007) quando insiste che “ciò che va sfatato è il mito romantico in base al quale l’amore per i compatrioti e i connazionali sarebbe originario, naturale, spontaneo mentre la solidarietà nei confronti degli ‘altri’ sarebbe in un certo senso ‘contro natura’, richiedendo di mettere a tacere i sentimenti profondi per mettersi all’ascolto della voce della ragione. [...] Il concetto di solidarietà non può essere definito a partire dall’idea di comunità, se non al prezzo di un suo impoverimento e travisamento”.
Sfortunatamente, per troppe persone, ancora adesso, l’umanità non costituisce una comunità morale. Si continua a credere che le nazioni e le piccole patrie siano entità naturali, quando non lo sono, e poi si appicca il fuoco ad un senzatetto in carne ed ossa, giusto per vedere cosa succede, stupendosi di essere condannati dalla gente. Mentre il comportamento del rabbino può essere giustificato dalle circostanze, questo non può valere per dei filosofi morali di fede ebraica come Lawrence A. Blum e Victor J. Seidler che, pur giudicando encomiabile l’ecumenismo dei soccorritori, si dicono risentiti del fatto che la preservazione di un’etnia che definiscono come “distinta” (escludendo quindi i discendenti di matrimoni misti) come quella ebraica non fosse in cima alla lista delle priorità dei Giusti (Oliner et al 1993). Sembrano non rendersi conto del fatto che proprio il basso livello di identificazione con un particolare gruppo etnico o nazionale ha permesso il salvataggio di decine di migliaia di Ebrei e che, al contrario, un alto livello di identificazione collettiva ha indotto così tanti Tedeschi a scatenare una guerra mondiale e concepire e perpetrare l’Olocausto, mentre odiernamente rende improponibile una soluzione pacifica della questione palestinese. Molti dei Tedeschi che aderirono entusiasticamente al nazismo lo fecero perché erano persuasi del fatto che la loro cultura, la loro patria e la loro razza fossero seriamente minacciate. Per questo il patriottismo, l’etnicismo ed il culturalismo sono moralmente insostenibili. La riflessione conclusiva di Tzvetan Todorov (Todorov 1992) ha un carattere definitivo:
Eroi e soccorritori sono molto diversi anche perché questi ultimi non combattono in nome di concetti astratti, ma per degli individui. Quando agiscono, si preoccupano poco di ideali e doveri, che tra l’altro sarebbero quasi sempre incapaci di esprimere a parole, ma di persone concrete che vanno aiutate con i gesti più quotidiani”.
A mio avviso è assolutamente rincuorante scoprire che le scelte amicali dei giusti fossero molto meno influenzate rispetto alla media dalle differenze religiose (il 63% a fronte del 38% ha dichiarato di avere avuto amici intimi di un’altra religione prima della guerra), dalle differenze di classe (61% a 43%) e da quelle etniche (46% a fronte di un 37% che aveva amici ebrei) (Oliner & Oliner 1993). È la dimostrazione che queste persone furono in grado di espandere i confini del proprio Ego fino ad includere dei totali sconosciuti. Una capacità, questa, che sarebbe bene estendere gradualmente agli altri animali ed alle piante, perché il nostro destino, è molto probabilmente quello di una totale compartecipazione nell’esperienza della vita sul pianeta e oltre. È importante rilevare come l’ottica dell’individualità impersonale caratterizzasse anche alcune delle vittime più illustri dell’Olocausto e della guerra, come Anna Frank, Etty Hillesum, Edith Stein e Simone Weil. In tutte loro non si può fare a meno di notare un sentimento di profonda, intima condivisione alle vicende umane nella loro totalità ed integralità. Ne scaturisce una comprensione e condivisione universale che va oltre i confini del tempo, dello spazio e del giudizio morale sulle motivazioni dei loro stessi carnefici. Umanissime protagoniste della propria e dell’altrui vita, della propria e dell’altrui storia, queste filosofe della vita e dell’amore hanno sconfitto il progetto nazista di deumanizzare la civiltà umana irradiando un potente narcisismo collettivo ed il sogno hitleriano di imporre una morale pre-moderna, improntata alla durezza egoista e virilista ed all’esclusivismo etnico-razziale. Il loro maggior merito, a mio parere, è stato quello di cogliere il senso più ampio della sofferenza umana, trasformandolo, esorcizzandolo e cercando di arginare nel contempo la disistima dei posteri nei confronti della storia e dell’umanità in generale.
Possiamo esaminare altri casi e la conclusione sarà sempre la medesima. Else Krug, ex prostituta specializzata in pratiche sado-maso, si rifiuta di bastonare un’altra detenuta, sebbene ciò la condanni a morte. Un soldato tedesco si rifiuta di fucilare dei civili serbi destinati all’esecuzione per rappresaglia e viene ucciso dai suoi commilitoni. Avrebbe potuto far finta di sparare, o mirare alto, invece ha scelto la morte. Con questo suo gesto ha salvato il suo onore e contribuito a salvare quello dell’umanità. Nell’Orrore, l’unico modo per rimanere umani è prendersi cura degli altri, uscendo da noi stessi e sentendoci responsabili di tutti, in nome dell’agape, il senso interiore di bene e di giustizia che alberga in noi. I soccorritori tendono dunque ad essere non conformisti, per temperamento sono restii ad ubbidire senza aver compreso cosa comporti la loro ubbidienza, ma non rifiutano ogni legge. Sono perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, anche se non sono innamorati dei principi e delle astrazioni fini a se stessi. Sono portati all’universalizzazione e simultaneamente inclini all’individualizzazione.
Todorov (Todorov 1992) constata che spesso i soccorritori sono costretti ad emigrare perché, agli occhi di vicini e conoscenti, rappresentano la prova vivente che anche loro avrebbero potuto o dovuto fare qualcosa. Come Giobbe, fungono da capri espiatori di colpe non loro, delle responsabilità di chi non è stato all’altezza e non può tollerare l’esistenza di qualcuno moralmente impeccabile, di qualcuno che se ne è infischiato dell’obbligatorietà dei precetti morali e delle regole tradizionali, ha ragionato con la sua testa, ascoltato il suo cuore e si è rifiutato di obbedire a ciò che veniva propagandato come un destino imposto dalla storia. Ma chi fu più normale? Le migliaia di Giusti d’Europa o le masse che assistettero a questi tragici eventi più o meno passivamente, più o meno immiserite e mortificate? Questi studi dimostrano che i soccorritori non hanno facoltà di ragionamento morale superiori agli altri e che la religione e l’educazione, che convenzionalmente si ritengono essere importanti sorgenti di valori morali, non hanno l’effetto che si è sempre ipotizzato. Non creano eroi della morale, perché la teoria morale ha poco a che vedere con la pratica morale. L’immedesimarsi nella vittima provoca da parte del soccorritore una risposta spontanea di aiuto, scaturita più per istinto che come conseguenza di un ragionamento. I dati empirici mostrano quindi che gli esseri umani, o almeno una parte di loro, possiedono un istinto naturale che li spinge a battersi contro gli orrori e le ingiustizie e che gli idoli socio-culturali (la morale della norma e del dovere) che ho attaccato in questo mio scritto non hanno altro effetto che di stornare o ammutolire gli impulsi più nobili della nostra specie. Ma mostrano anche che non si può insegnare l’etica (la morale dei principi) a scuola. Si apprende a vivere moralmente solo vivendo in una società che comprende, apprezza e valorizza i migliori impulsi umani, che sono quelli che uniscono, non quelli che dividono.
In sintesi, le tanto decantate virtù locali – diligenza, parsimonia, sobrietà, modestia, pacatezza – potrebbero non essere poi così distintive o, peggio ancora, la loro esaltazione potrebbe aver rallento la crescita di altre virtù anche più cruciali per la maturazione dei cittadini e della società civile. Dopo tutto ogni virtù, se in eccesso, sfocia in un vizio e lo storico Jonathan Steinberg ha dimostrato magistralmente che, durante il nazismo, le virtù civiche come l’igiene, l’efficienza, la dedizione, l’onestà, il senso del dovere e la responsabilità furono di ostacolo al dispiegamento di virtù primarie come l’amore, l’autonomia, la compassione, la giustizia e la solidarietà umana. Ciò rese possibile la guerra totale e la Shoah (Steinberg 1997).