lunedì 14 novembre 2011

Il narcisista umanitario - parte prima (Camus, "La Caduta")



L’unico imperativo morale che abbiamo non è quello di salvare il mondo per renderlo uguale a noi, ma quello di costruire relazioni rispettose e generose con le nostre alterità.
Marco Deriu

C’è un giudizio fatale che Arthur Schnitzler mette in bocca al medico socialista ed ebreo Berthold Stauber in “Verso la libertà”: “E non nego di avere, su questo tema, diverse idee che tendono in quella direzione e che sulle prime potrebbero sembrare crudeli. Ma il futuro, io credo, appartiene a queste idee”. Le idee in questione, espresse da un uomo che reputava di essere animato dalle più nobili motivazioni umanitarie, riguardavano l’eliminazione delle persone inadatte alla vita in società.
La sua è una sensibilità gnostica, legata al feticismo delle idee, a detrimento della dignità delle persone, ed alla vocazione assolutista di chi vive di idee, che sfocia molto spesso nel disprezzo per le persone comuni. Si legga quel che affermava il biologo e genetista comunista J.B.S. Haldane in un saggio dal titolo: “The inequality of man and other essays” (1932: 213): “Non so cosa farmene di quelle persone che non sono a contatto con il mondo invisibile [quello delle idee, teorie, teoremi, leggi scientifiche, postulati, ecc. NdR]. Nella migliore delle ipotesi sono dei buoni animali, ma quasi sempre neppure quello”.
A detta di Emerson (1857), ben pochi geni avevano saputo evitare di manifestare pubblicamente questa boria spregevole, e questo perché le realizzazioni terrene non corrispondevano mai alle idee pure, ai progetti ideali che avevano formulato nelle loro menti.
La discrepanza tra realtà e immaginazione è tale che il narcisista trova arduo non provare disgusto per ciò che stona, fossero pure degli esseri umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli esseri umani come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, si chiude autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale universo di determinismi riduzionistici che lo deresponsabilizzano e spostano la colpa sui difetti congeniti degli altri. Necessita di ordine e chiarezza e li può trovare anche nella superstizione del gene onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità totalizzante e neo-tribale, cioè nell’idea per sé, immacolata ed omogenea, nel marchio prestigioso. La mitologia della virilità e l’esaltazione dell’appartenenza al gruppo procedono dal narcisismo: amare se stessi non va bene ma se ci si riconosce in un gruppo o ci si identifica nei propri eroi, questo è un modo efficace di depenalizzare il narcisismo.
Un’idolatria che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia tutto ciò che contamina la purezza dell’idea e dell’immagine. Se questa minaccia non viene opportunamente neutralizzata la condanna è all’alienazione. Per questo ci sono esseri umani che sono rivoluzionari di professione, ossia non possono far altro che continuare a combattere per un’idea fissa. Un inconscio processo di alienazione è già in atto, perché il narcisista è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi altro non sono che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno, vere e proprie epidemie di narcisismo e psicopatia. Sogni narcisistici trasformati in fantasie di onnipotenza ed incubi globali.
Ciò potrà sembrare strano per chi è abituato, erroneamente, a pensare al narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo amor proprio. In realtà non è così semplice. Il narcisista, se privato della sua sorgente di conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo, amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o idea dominante che fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione, perché queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché entrambi sono narcisi ed hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo pensiero non è mai profondo, né lo è la sua stima nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai suoi simili. È banalmente maligno, direbbe la Arendt, ma il suo male non è mai banale.
Il consumismo, l’esibizionismo, il feticismo, il presenzialismo, il culto dell’immagine televisiva, dell’essere sul piccolo schermo ad ogni costo (il velinismo che affligge anche l’intellettuale da palcoscenico), l’illusionismo nella sua accezione più ampia: questi sono gli ingredienti tipici dell’habitat del narcisista. Il suo panorama interiore è dozzinale, la vita della sua mente blanda. Non potendo contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo spettro della morte concentrandosi sull’immagine e sull’idea, credendole immortali e si autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il suo amor proprio è dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è molto precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico ad un movimento e ad un leader che incarnino le idee fisse che danno senso alla sua esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è autonomo ed indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua esistenza. Al contrario è eterodiretto, assimilato in fazioni, sette, tribù, razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi distorti della realtà, drogato di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, apprezzamenti di un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha bisogno di ripetute conferme. È una comparsa nella sua vita, non il protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e risorse per rinsaldare ancora di più questo stato di cose.
Sebbene questo tipo di personalità abbia un carattere patologico, un’inclinazione più o meno forte al narcisismo è presente in ciascuno di noi (anche se nelle donne è forse più diffuso l’istrionismo) e, quando si fonde con il cinismo, le conseguenze possono essere tremende. Il cinismo, nemico mortale di un salutare scetticismo, è l’atteggiamento profondamente infantile, sterile e deleterio, nonché autodistruttivo, di chi ha già deciso che il mondo e la società sono corrotti, gli esseri umani non sono degni di fiducia perché animati solo dall’interesse personale, da istinti egoistici, dall’inclinazione a fregare il prossimo. Il cinismo è la condanna a morte del riformismo, dell’idealismo, dell’umanitarismo sincero, della cooperazione, del senso del dovere, della speranza e quindi, più in generale, della democrazia e del progresso morale e spirituale.
Narcisismo e cinismo possono formare una salda alleanza quando il cinico narcisista ritiene di essere l’Ultimo dei Puri. Quest’intesa può infiammare l’immaginazione di chi ha potere decisionale e può determinare le sorti di milioni di persone, viste come materiale umano da rimodellare a proprio piacimento, per renderlo compatibile con una certa concezione di società ideale, a propria immagine e somiglianza. Fu il caso di Mussolini e di tanti altri demagoghi di più recente conio. In una società in cui Dio è morto non esistono limiti, se non quelli costituzionali, a ciò che il cinico narciso al potere può arrivare a compiere nella sua ricerca di purezza, autenticità e senso. D’altra parte narcisismo ed empatia sono incompatibili e senza empatia non c'è condotta morale.

Il narcisista umanitario (anche quando non è uno psicopatico integrato) è una minaccia permanente.

Albert Camus ha, a mio parere, scritto il suo capolavoro quando ha affrontato proprio questa problematica. La breve opera in questione è “La chute” / “La caduta” (1953).
Ecco la mia sintesi di quelli che personalmente considero i passaggi centrali (ma consiglio vivamente di leggerlo).

La mano caritatevole che si tende verso il cieco per aiutarlo ad attraversare la strada – il mendicante che si avvicinava alla mia porta: esultavo. Dopo tutto vivere in alto resta ancora l’unica maniera d’essere notato e salutato da un gran numero di persone. Ero fatto per avere un corpo, per risiedere nella materia. Non credevo in alcuna religione ma mi sentivo autorizzato ad essere felice da un qualche decreto superiore. Ogni gioia mi faceva desiderare la prossima. Forse non amiamo veramente la vita, è solo la morte che risveglia in noi i sentimenti: quanto ci mancano gli amici deceduti, quanto veneriamo i maestri che non parlano più, la loro bocca piena di terra. È la morte fresca che noi amiamo, la morte dolorosa, cioè le nostre emozioni, ossia noi stessi. L’uomo non può amare senza amarsi. Non si può vivere senza dominare o essere serviti. Ogni uomo ha bisogno di schiavi come ha bisogno di aria pura. Anche l’ultimo degli ultimi avrà un figlio o un animale da comandare. Ad ogni ragione se ne può opporre un’altra, solo la potenza taglia corto. Ma io voglio essere servito con il sorriso sulla bocca, se mi servono con l’aria triste avvelenano le mie giornate. Per questo è importante avere servi ma chiamarli uomini liberi, per non esasperarli. Così loro sorrideranno e noi avremo la coscienza a posto. Io, io, io, ecco il refrain della mia vita, l’unica continuità. Mi sentivo libero rispetto a tutti per la semplice ragione che non riconoscevo nessun altro come mio pari: più intelligente, più sensibile, più avveduto. Quando mi occupavo degli altri lo facevo con degnazione. Ci sono persone la cui religione è quella di perdonare tutto, senza però dimenticare nulla. La verità è che ogni uomo intelligente sogna di essere un delinquente e di regnare sulla società con la sola violenza. Che importa umiliare il proprio spirito se in quel modo si arriva a dominare il mondo? Macché difensore dei miserabili, mi piaceva prendere le parti degli accusati perché non ero io al loro posto e ciò mi rendeva eloquente. Quando invece ero io sul banco degli imputati diventavo un giudice inflessibile dei miei accusatori. Non sono mai stato misogino, ho sempre considerato le mie donne superiori a me: collocandole così in alto, le potevo usare più di sovente che servirle. Ho avuto un solo grande amore nella mia vita: me stesso. Un’incapacità congenita di vedere nell’amore qualcosa che non fosse quel che volevo vederci: piacevole e, coniugata con l’oblio, favoriva la mia libertà. Credevo a quel che dicevo, recitavo bene il mio ruolo [Mirabeau diceva di Robespierre: “Quest'uomo andrà lontano, perché crede in tutto ciò che dice” – NdR].
Non ci si può augurare la morte del mondo intero né, al limite, spopolare il pianeta per godere di una libertà che altrimenti sarebbe inimmaginabile. Non potevo vivere che a condizione che tutti gli esseri fossero concentrati su di me, privi di vita indipendente, pronti a rispondere alle mie chiamate in qualunque momento. Per essere felice bisognava che gli altri non potessero vivere. Potevano ricevere la vita solo da me, a piccole dosi. Conoscevo i miei difetti e me ne dolevo, ma continuavo comunque a dimenticarli, con meritoria ostinazione. L’idea più naturale per l’uomo è quella della sua innocenza. Ciascuno esige di essere innocente, a qualunque prezzo, anche se ciò comporta accusare il genere umano o il cielo. In genere tendiamo a confessarci con le persone più simili a noi, con le nostre stesse debolezze; questo è perché non desideriamo correggerci, migliorarci, cerchiamo complicità. Ogni eccesso diminuisce la vitalità e quindi la sofferenza. Non c’è nulla di frenetico nel vizio, nella corruzione. Non è che un lungo sonno, indifferenza, stasi dell’umore, assenza di umore.
Attribuiamo a un rivale i pensieri meschini che abbiamo avuto nelle medesime circostanze. Ci sono sempre delle ragioni per uccidere un uomo. È, al contrario, impossibile giustificarne l’esistenza.

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