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domenica 25 dicembre 2011

Testa di Pesce - perché Informare per Resistere è un piccolo patrimonio dell'umanità




Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie, ma per quelli che osservano senza dire nulla.
Albert Einstein (o chi per lui)

Il pesce puzza dalla testa
Detto popolare

Applicato alle organizzazioni sociali, il detto popolare significa che se una società va in rovina la responsabilità principale è di chi sta in cima alla piramide, chi sta alla sua testa.
Gli indignati hanno deciso che è tempo di fare qualcosa per evitare che la barca affondi con tutti dentro tranne quei pochi che si stanno appropriando delle scialuppe di salvataggio. Io penso che abbiano tutto quel che serve per farcela.
Gli psicologi sociali ci spiegano che è sufficiente che il 5-6% della popolazione si muova compattamente in una direzione diversa da quella del resto della massa per indurre quest’ultima a seguirli. Un dato mortificante per il genere umano ma anche incoraggiante per chi, come gli autori di “Informare per Resistere”, usano la conoscenza per contrastare la disinformazione e l’autoritarismo.
Il documentario “I am Fishead” < f i s h e a d ( 
Qui sulla BBC:
descrive le responsabilità di psicopatici e sociopatici nel livello di degrado morale e civile in cui versa la società contemporanea, specialmente nelle cosiddette “democrazie” occidentali. Diversamente da quanto si tende a credere, gli individui affetti da questo disturbo della personalità sono perfettamente adattati alla vita in un società competitiva, avida, ostile alla compassione ed all’altruismo. Per questo, in genere, hanno successo. È una società creata da loro, su misura per loro. Se non è un inferno è solo perché sono una piccola minoranza (dal 2% al 6-7% della popolazione mondiale, comunque centinaia di milioni di persone) e la specie umana ha offerto resistenza, più spesso istintivamente, in qualche occasione consapevolmente (es. resistenza al Terzo Reich).
È però chiaro che quel 5-6% vale anche per loro e si stanno giocando bene le loro carte. Voler conoscere e capire è diventato sinonimo di arroganza, presunzione, superbia e…COMPLOTTISMO! Un risultato brillante. Eppure rimangono una minuscola minoranza. Per il restante 93-98% non dovrebbe essere troppo difficile mettere assieme un 6% di persone determinate (senza essere per forza eroiche - Vaclav Havel, intervistato in “I am Fishead”, o Sandro Pertini non corrispondevano certamente al prototipo dell’eroe) che spingano il “gregge” (ahimè) nella direzione opposta, verso una società più umana, più mite, più serena, più pacifica, più democratica, in cui i vizi della natura umana non siano premiati e le virtù non siano considerate degli handicap. È sufficiente che un 5-6% di persone si renda conto del pericolo che corriamo e l’intera popolazione, come per contagio psichico, improvvisamente apre gli occhi e le narici, annusa l’odore di bruciato e vede le fiamme in lontananza. A quel punto è fatta.
È come il gioco del tiro alla corda: loro hanno il potere, noi abbiamo il numero. Il loro potere deriva solo dall’acquiescenza delle masse, ossia dalla loro capacità di imporre un pensiero unico per loro vantaggioso. Grazie a internet, finché ci sarà, e poi grazie al semplice passaparola, questo non è più possibile. Il movimento degli indignati e di Occupy Wall Street è ormai inarrestabile e diventerà sempre più corposo a misura che le menzogne del potere saranno smascherate e l’illusorietà della sua forza coercitiva rivelata per quello che è, il trucco di un Mago di Oz camaleontico e privo di empatia che appare a ciascuno sotto una diversa sembianza, per poterlo meglio ingannare. Una volta che la gente sarà in grado di distinguere tra autorità legittima ed autorità illegittima le loro sorti saranno segnate. 
Hanno già perso la partita ma non si toglieranno di mezzo senza combattere, purtroppo. 
Il documentario mostra che un’importante strategia messa in campo per evitare la loro sconfitta è quella della diffusione degli antidepressivi. Gli antidepressivi rappresentano la salvezza per molti, ma quando uno legge certe statistiche:
e scopre che un terzo degli Europei soffre di disturbi psichici:
non può non allarmarsi, specialmente se si tiene conto che certi farmaci possono sopprimere quelle emozioni che ci rendono compassionevoli (empatici), ossia antitetici alla personalità dello psicopatico/sociopatico.
Siamo molto più vulnerabili delle generazioni che ci hanno preceduto. Ma siamo anche più informati, più numerosi, più interconnessi con il resto del mondo, più capaci di far risaltare l’assurdità di una società in cui i nostri genitori ci insegnano a stare al mondo in un certo modo e poi scopriamo che la società, ai suoi piani alti, non solo non segue assolutamente quel modello, ma lo considera ridicolo ed infantile.
Si può e si deve cominciare dicendo no a questo stato di cose: “No, a questo gioco al massacro io non ci sto”, come diceva l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro. Non è questa la società in cui voglio che crescano i miei figli e nipoti, una società che mi scoraggia dall’usare la mia testa ed ascoltare la mia coscienza (come se quest’ultima non esistesse, che è precisamente quel che credono gli psicopatici, essendone privi) in cui mi fanno credere che sia vero ciò che è falso e falso ciò che è vero:
in cui la TV e le riviste promuovono una visione del mondo fatta di edonismo, materialismo, sessualizzazione di ogni aspetto delle relazioni umane, feticismo, culto delle celebrità, ecc. Ma quanto è dozzinale e miserabile l’immagine di noi che proiettiamo nel resto del mondo, attraverso quei canali di “informazione”?
No al perpetuo lavaggio del cervello. Sì alle cose semplici ed autentiche della vita: la famiglia, gli amici, la bellezza del mondo, della natura e degli animali in genere, la bellezza delle cose e persone veramente belle e la bontà delle cose e persone veramente buone. No agli escrementi spacciati per oro che servono solo ad incatenarci al sistema, creando forme di dipendenza psicologica e debitoria. Sì alle cose vere e profonde, no alle cose false e superficiali.
Si comincia in pochi e si finisce in molti. Ce lo insegna < f i s h e a d ( 

venerdì 16 dicembre 2011

Tecniche di manipolazione - conoscerle per difendersi (parte prima)






Le scoperte delle scienze cognitive e della psicologia sociale sono molto utili per gli scopi di chi intende ritorcere contro gli esseri umani le vulnerabilità e le aberrazioni cognitive e comportamentali che li contraddistinguono.

lenire il dolore: la scomparsa del dolore significa felicità. Si ordina a qualcuno di gettare qualcun altro in un fiume e poi lo si recupera: salvando la sua vita, si conquista un’eterna gratitudine. Diventa quasi impossibile deprogrammare la vittima di questo salvataggio fasullo. Vale anche per le crisi economiche (generate). Si crea il problema, si offre una soluzione vantaggiosa per il manipolatore: problema – reazione – soluzione. Ripristinando l’ordine si ricevono come ricompensa gratitudine e fiducia;
disseminare un sentimento di commiserazione e condiscendenza nei confronti di chi dissente, che è ancora più efficace dell’odio. È arduo prendere sul serio le ragioni di chi è comunque destinato all’inferno, alla rovina, alla follia. Inoltre questa strategia ingenera un senso di superiorità intellettuale e morale tra le pecore del gregge. Classica è l’accusa di complottismo, che equivale ad un marchio di infamia e riduce alla condizione di appestato intellettuale chi ne è colpito (il complottismo è contagioso? Vade retro!);
capro espiatorio / strategia della distrazione: trovare una vittima designata (ebreo, rom, straniero, gay) concentrando su di essa l’insoddisfazione, la frustrazione, il risentimento della folla, che altrimenti si rivolgerebbe contro l’élite. Le masse possono arrivare ad essere grate a chi ha fornito loro un conveniente bersaglio per il loro scontento. Odiare fa stare meglio chi soffre;
elenchi di regole: indurre le pecore, cioè a dire gli esseri umani irreggimentati, a seguire quante più regole possibili (più materialiste e liberticide sono, meglio è). Devono arrivare a credere che l’osservanza delle regole li pone automaticamente dalla parte del giusto. Ciò produce gratificazione, quiete, mansuetudine che ipnotizzano ed intossicano le persone, mentalmente, emotivamente e fisicamente. Armonia = mansuetudine = controllo assoluto;
strumentalizzazione della naturale tensione verso la libertà: confondere gli animi tramutando la ricerca della libertà in una ricerca di espansività fisica: la crescita economica, l’estensione territoriale della patria, la moltiplicazione dei beni superflui, il gonfiarsi dei muscoli;
pacificazione ed unità: la gente tende a credere che unità ed integrità coincidano nella pace. Chi non crede ad una speciosa unità d’intenti imposta dall’alto è un’anima perduta, una pecora nera (cf. capro espiatorio o commiserazione);
sicurezza: il posto più sicuro in assoluto è una cella d’isolamento, ma molta gente è disposta ad accettare una condizione servile in cambio di un po’ meno ansia ed un po’ più di senso di sicurezza. Si legga la “Leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij per maggiori lumi. 
verità: ogni menzogna è efficace solo in virtù del fatto che contiene una parte di verità. Più potente questa verità (es. anelito verso la libertà), più ipnotica sarà l’illusione menzognera;
gradualità: mitridatizzazione (un po’ di veleno alla volta e ci si abitua) o rana nella pentola (butta una rana nell’acqua bollente e questa salterà fuori, fai bollire l’acqua con una rana dentro e questa si lascerà cuocere);
“doloroso ma necessario”: la gente crede all’esperto che assicura che è meglio fare un sacrificio oggi che soffrire di più domani (es. Manovra Salva-Italia). Fuori il dente, fuori il dolore;
emotività: far leva sull’emotività della gente inibisce il discernimento critico dei singoli e rende vulnerabili all’instillamento di idee ed archetipi manipolatori (cf. il film “Inception”);
sindrome del Grande Fratello: coltivare l’ignoranza, la superficialità, il culto per tutto ciò che è esteriore, dozzinale, vacuo ed il disprezzo per la cultura e le persone di cultura (anti-intellettualismo). La conoscenza protegge, l’ignoranza espone ad ogni sorta di pericolo e di manipolazione: informare per resistere;
dare la colpa alla gente per le cose che non vanno: La crisi socioeconomica è colpa della gente, non degli speculatori e dei politici consenzienti. Far leva sul senso di responsabilità. Chi si oppone è ignorante ed irresponsabile (es. la recente, patetica filippica di Ferdinando Adornato contro la Lega Nord e l’Italia dei Valori);

Per maggior dettagli su certe autolesionistiche inclinazioni umane e su come contrastarle:

mercoledì 14 dicembre 2011

Perché la gente non si mette in salvo quando potrebbe farlo?



Anche a causa del cattivo giornalismo a livello nazionale, non mi sembra che ci sia ancora una chiara percezione di quel che sta succedendo. Molti temono, giustamente, che stia per arrivare la tempesta ma fanno finta di niente, come se ignorare il problema potesse tenerlo a distanza. È una caratteristica della psiche umana che è stata abbondantemente studiata. Potete partire da qui:

MITO: quando c’è un disastro, l’istinto di sopravvivenza assume il controllo delle persone.
REALTÀ: nelle crisi la gente tende a comportarsi in modo anormalmente calmo e finge che tutto sia a posto.
Questo accade perché si tende a classificare ogni cosa nuova all’interno di categorie normali, normalizzandola. Per questo si reagisce in modo sorprendentemente banale. Indipendentemente dagli avvertimenti, migliaia di persone rimangono sulla traiettoria di un tornado pur avendo tutto il tempo di spostarsi e troppi di loro ci lasciano la pelle. Lo sanno bene gli esperti di tornado, ma anche chi calcola le perdite in caso di naufragio o di evacuazione di luoghi pubblici: moltissime persone decidono che la forza della natura o comunque di un evento straordinario li risparmierà e si fanno dominare da uno stato di quiete “innaturale”. Quel che si vede nei film, con masse di persone che istantaneamente si alzano e cominciano a correre urlando a squarciagola, non corrisponde alla realtà.
Mark Svenvold, un monitoratore di tornado, ha riferito di come le persone che tentava di convincere a cercare riparo altrove, lungi dal seguire il consiglio di uno specialista, si sforzavano di calmarlo e farlo restare lì con loro.
In caso di incidente aereo dopo un atterraggio, i passeggeri, di norma, non scappano e non si accoccolano in una posizione fetale, paralizzati dal terrore.
Nel 1977, per 20 minuti, a causa della nebbia fittissima, i pompieri all’aeroporto di Tenerife si concentrarono su un velivolo disintegrato, alla ricerca di superstiti, senza sapere che un altro aeroplano, colpito nella collisione, era anch’esso in fiamme, con decine di passeggeri ancora vivi a bordo. Quel che dovevano fare i passeggeri ancora incolumi o feriti leggermente era togliere la cintura, salire sull’ala intatta e poi saltare a terra. Esisteva una via di fuga ed alcuni (70) la sfruttarono. Ma decine di altri passeggeri non lo fecero, neppure quando videro gli altri che uscivano sani e salvi, e rimasero al loro posto finché il serbatoio principale esplose e bruciarono vivi. Un superstite, intervistato, ricorda che dovette urlare alla moglie di muoversi, perché era istupidita, in uno stato di semi-trance. Più tardi la moglie rimpianse di non aver fatto lo stesso con gli altri passeggeri, ma tutto quel che poté fare fu seguire meccanicamente, semi-consciamente, le istruzioni e i movimenti del marito. I loro amici rimasero immobili, come statue, e perirono.
John Leach, uno psicologo all’Università di Lancaster, è uno specialista di queste reazioni emotive e stima che circa il 75% delle persone sia incapace di pensare durante o appena prima di una catastrofe. Il restante 25% si divide tra quelli che reagiscono con una consapevolezza e determinazione a tratti sovrumana e quelli che precipitano nel panico.
Gli studiosi ritengono che sia più probabile la sopravvivenza di chi si prepara per lo scenario peggiore ed arriva al momento cruciale avendo una certa idea di cosa sia meglio fare. Agiscono quando gli altri cominciano a pensare a cosa dovrebbero fare, in condizioni avverse al raziocinio. Gli impreparati sono quelli che subiscono più facilmente il processo di normalizzazione dell’evento eccezionale, un meccanismo che serve per tenere sotto controllo l’ansia: “tutto andrà bene!”. In pratica si cerca di fare in modo che la realtà si conformi ai nostri desideri: crediamo che tutto sia a posto perché vogliamo che sia così e ci rifiutiamo di immaginare che certe cose terribili possano succedere proprio a noi.
I sopravvissuti dell’11 settembre ricordano che nella discesa per le scale non c’era bisogno di fare star calma la gente. Tutti scendevano tranquillamente, dopo aver preso tutte le loro cose e aver telefonato ai famigliari, convincendosi l’un altro che non c’era nulla da temere, come nel caso di molti tornado in avvicinamento. Si chiama incredulità di riflesso: si recepiscono selettivamente le informazioni che provengono dall’esterno per confermare il desiderio che non sta succedendo nulla di male. Gli studiosi giapponesi, alle prese con catastrofici terremoti hanno documentato abbondantemente il problema della sottovalutazione della gravità degli eventi ed il suo costo in termini di vite umane.
LA SOLUZIONE? È opportuno continuare ad inviare avvertimenti e delineare ipotetici scenari che, gradualmente, possono diventare “normalizzati” e quindi essere assimilati e diventare disponibili al momento giusto. Purtroppo, com’è facile immaginare, le ondate di panico generate dai media e risoltesi in nulla di concreto, come lo Y2K, l’aviaria, la suina, la SARS, ecc., fanno proliferare la normalizzazione in una misura tale che l’effetto benefico si trasforma in uno svantaggio, riducendo il livello di credibilità di chi trasmette le informazioni e diffondendo incertezza, cosa che fa ripiombare nella condizione originaria.

MITO: sei consapevole di quando menti a te stesso.
REALTÀ: spesso si ignorano le nostre reali motivazioni e si creano storie fantasiose, come i copioni di un film, che “spiegano” le decisioni, le emozioni e le vicende.
Come l’angolo cieco della nostra visuale. L’occhio non riesce a vedere il 2% di ciò sta all’interno del campo visivo, a causa della conformazione dell’occhio. Il cervello supplisce a questa lacuna ricostruendo la realtà sulla base del 98% percepito ed incollandola laddove manca. Fa lo stesso anche con i nostri ricordi, emozioni e ragionamenti. La nostra visione/ricordo della realtà è sempre divergente da quella di chi è/era presente assieme a noi.  Non solo, siamo in grado di costruire una narrazione lineare della nostra vita anche se la memoria è come un groviera e migliaia di momenti obiettivamente importanti svaniscono dal nostro orizzonte, sostituiti da falsi ricordi. La trama complessiva che ci permette di credere di avere un’identità univoca e che dà un significato alla nostra esistenza è una menzogna, una storia inventata sulla base di fatti realmente accaduti da una psiche che, curiosamente, ha sviluppato un sistema di difesa dalla realtà: perché la verità fa male.

MITO: le nostre opinioni e decisioni sono basate sui fatti, sull’esperienza.
REALTÀ: la maggioranza delle persone crede di essere migliore della media, più sveglia, meno manipolabile. Eppure tutti possono essere facilmente ingannati dall’informazione manipolata e nessuno pensa ed agisce sulla base dei dati di fatto.
Questo diventa un problema enorme quando la persona che crede di essere obiettiva detiene molto potere.

domenica 20 novembre 2011

Buoni steccati per un buon vicinato - quando i morti valgono più dei vivi


Non dobbiamo lasciare gli immigrati agli italiani. La maggior parte di loro ha frequentato la scuola italiana perché noi non li volevamo, ma è nel nostro interesse che imparino il tedesco, altrimenti si dichiareranno italiani.

Richard Theiner, Obmann (segretario) della Südtiroler Volkspartei.

La società multiculturale tiene al suo interno le diverse culture, ma l’una di fronte all’altra come sistemi di valori e visioni del mondo chiusi, ciascuno in sé sufficiente a fornire il quadro etico completo e bastante all’esistenza dei suoi membri. Onde, potrebbe dirsi che il pluralismo tende ad un orizzonte comune di senso, per quanto composito; mentre il multiculturalismo no, si ferma a una giustapposizione delle diverse culture, nella migliore delle ipotesi estranee l’una all’altra; nella peggiore, conflittuali. [...]. il primo schema è la separazione, cioè la co-esistenza senza convivenza. Il pregiudizio del separatismo è che le culture siano e debbano essere identità spirituali chiuse e che le relazioni interculturali nascondano di per sé pericoli di contaminazione o contagio, per la purezza, in primo luogo, della comunità di arrivo, ma anche di quelle in arrivo. Il punto di partenza è, dunque, la paura unita all’insicurezza. [...] La separazione tra le popolazioni è l’unico modo di evitare lo scontro tra realtà inconciliabili, lo “scontro di civiltà”. Noi non cerchiamo contatti con loro e loro non cerchino contatti con noi. L’optimum sarebbe renderci invisibili gli uni agli altri, vivere come se fossimo soli…In America, questa posizione aveva trovato espressione nel motto “separati ma uguali” che per quasi cento anni ha regolato i rapporti tra bianchi e neri negli Stati Uniti. 
Gustavo Zagrebelsky, “La felicità della democrazia. Un dialogo”.

All’interno di questa mentalità [ideologia tirolese] vorrei inserire il concetto di lotta ai corpi estranei, attorno al quale si sviluppa questa mia riflessione. Sono diventati corpi estranei idee, aspirazioni e movimenti che non rientravano nel quadro descritto, ma piuttosto disturbavano il mondo così ordinato e tramandato e per questo motivo sono cadute sotto questa straordinariamente vigile ed efficace lotta ai corpi estranei. Per fare un esempio, basta pensare cosa è successo in Tirolo dal XVI sec. in poi con il protestantesimo, arrivando persino all’espulsione fisica. Oppure richiamiamo alla memoria il destino degli ebrei in Tirolo. Pensiamo ai massoni e all’illuminismo – indipendentemente dal fatto se la minaccia proveniva da Vienna, da Monaco o persino (che orrore!) dalla Francia con le baionette napoleoniche. Pensiamo al rifiuto del liberalismo politico – la disputa nella scuola, il “Kulturkampf” e ciò che è successo attorno alla libertà di religione in Tirolo appena un po’ più di cent’anni fa lo dimostrano – oppure alla freddezza con cui sono state accolte in Tirolo le idee repubblicane o socialiste. Non serve un particolare acume per riconoscere proprio nel culto dell’eroe tirolese Andreas Hofer la celebrazione più alta ed evidente di questa convinta e alla fine vincente lotta ai corpi estranei.
Alexander Langer, “Ciechi dall’occhio destro: il Tirolo fra Andreas Hofer e Haider”.

Se la gente vuole restare separata lo farà spontaneamente, se vorrà unirsi lo farà spontaneamente. Gli esperimenti di ingegneria sociale su vastissima scala che prevedono la divisione tra gli esseri umani sono invece inevitabilmente il sintomo di una sconfinata hybris che prima o poi presenta il conto. Gli esseri umani sono già egocentrici di natura, con un corollario di gelosie, invidie, rivendicazioni possessive, avidità, egoismi, ecc., ormeggiare centinaia di migliaia di essi ad una proporzionale etnica permanente è suicida. Lo stesso discorso vale per quegli esperimenti che costringono all’assimilazione i nuovo arrivati, considerati automaticamente non all’altezza di poter insegnare qualcosa di nuovo e utile ai residenti. Il fascismo, fece anche peggio: irruppe in casa d’altri e gridò: voi non valete nulla, la vostra cultura è un intralcio, o diventerete come noi o è meglio se ve ne andate. 
L’eterna contesa tra natura e cultura. Da un lato abbiamo il modello imperialista ed assimilatore latino e neo-latino, quello che ha trasformato l’Alsazia in un penoso parco a tema del nazionalismo francese e francofono e che avrebbe fatto subire una sorte simile all’Alto Adige, se il fascismo fosse durato quanto il franchismo. È anche quello dei romani e dei conquistadores, sempre pronti a civilizzare i nativi, estirpando le loro specificità “per il loro bene”. Dall’altra parte abbiamo un modello ugualmente radicale, nella separazione biologica, che ha dato vita a tutte le forme di segregazionismo del passato coloniale europeo e della storia americana e sudafricana. Per un utile confronto tra mentalità dell’apartheid e segregazionismo in Alto Adige, rimando a “Contro i miti etnici” (Fait/Fattor, 2010).
Esempi documentati di questo secondo sistema sono i regni visigoti nell’Iberia e quelli anglosassoni in Britannia. L’analisi genetica indica che in Britannia la popolazione celtica locale, di origine iberica, fu presumibilmente sottoposta ad un regime di apartheid estremamente aggressivo che, nel corso di un paio di secoli, anche a causa del terribile impatto demografico della cosiddetta “peste di Giustiniano”,  invertì la proporzione di invasori germanici rispetto agli indigeni celto-romani. È ipotizzabile che la radice indoeuropea walos sia all’origine di nomi e toponimi come Welschtirol (Trentino), Wales (Galles), Cornwall (Cornovaglia), Vlach (nei Balcani), Valacchia (Romania meridionale) e Valloni (in Belgio), ossia di terre e popoli celti o latini confinanti con il mondo teutonico. Il che potrebbe indicare una tradizionale riluttanza a mescolarsi con popoli non-germanici, laddove possibile. Fu comunque quel che scelsero di credere i nazisti, che tentarono di restaurare l’antico istituto dell’Erbhof (maso chiuso) e del corrispondente diritto fondiario germanico in tutta l’Europa rurale occupata (D’Onofrio, 1997). 
In realtà non c’è nulla d’intrinseco in questa contrapposizione. La sua dimensione storica è più che plausibile (Strassoldo, 2000, p. 85):

La spiegazione apparentemente più ovvia delle differenze tra Germania e Italia negli atteggiamenti verso la natura sta nel fatto che l’Italia, come propaggine della civiltà ellenica, si è urbanizzata almeno quindici secoli prima della Germania. Da molto più tempo la sua cultura si è sviluppata nell’ambiente artificiale di insediamenti stabili di pietra e mattoni, ad altra densità di popolazione. Il suo territorio è stato antropizzato, la natura addomesticata e sottomessa, le selve emarginate negli ambienti estremi, dei monti e delle paludi. La sua religione ha perso i caratteri tellurici (animasti, politeisti e panteisti) e ha assunto caratteri iranici e metafisici, la sua cultura si è fatta antropocentrica e socio-centrica.

Non esiste una società che sia indipendente dalle persone che la compongono e dalle vicende storiche che la modellano. La società è una costruzione, se è corrotta è perché sono corrotti i suoi membri. È una gabbia che ci siamo eretti attorno e noi siamo i nostri carcerieri. Non ha senso dare la colpa alla società. Chi, comprensibilmente, ne ha abbastanza del modello degli steccati etno-linguistici dovrebbe seguire l’esempio di Rosa Parks, che con la sua disobbedienza civile diede il via al movimento per la fine del segregazionismo tra bianchi e neri. Costruire un’ortodossia della separazione per interrompere il flusso della vita significa erigere muri e proiettare sull’altro, sul diverso, la nostra ombra, tutto ciò che di negativo vogliamo rimuovere da noi stessi. Ci si guarderà in cagnesco e si competerà invece di intessere relazioni. Una persona di buona volontà, un giusto, non ha bisogno di potere, status, autorità, quindi non crede a nazioni e bandiere, non erige muri, non è aggressivo, non necessita di identificazioni che lo espandano, che lo sollevino dalle sue ansie di inadeguatezza, che gli consentano di dire orgogliosamente “io” e “mio”, camuffandoli da “noi” e “nostro”. In questo modo non solo inganniamo noi stessi, ma inganniamo anche gli altri, rendendoli nostri complici. Poniamo un’etichetta su di noi e sugli altri e così non dobbiamo più preoccuparci di prenderli singolarmente per capirli. Ci convinciamo di sapere già tutto quel che c’è da sapere su di loro. È un comportamento terribilmente infantile e la proporzionale etnica lo alimenta generando nuovi spazi di autovenerazione personale e collettiva: “io non ho bisogno di voialtri”, “staremmo meglio se voi vi levaste di torno”. Questo è quel che si sente dire sempre più spesso in Alto Adige ed è un pessimo segno, il segnale che un meccanismo di risoluzione dei conflitti è invece un meccanismo di spartizione della prosperità che li perpetua, fissandoli.
L’idolatria frammenta e dove c’è frammentazione c’è conflitto e dove c’è conflitto c’è spesso miseria umana, miseria dell’animo, incaapcità di analizzare obiettivamente le cose, le nostre vite, le esistenze ed i pareri altrui. Abbiamo paura dei fatti e scappiamo nel mondo delle astrazioni. I nostri problemi derivano dalla nostra riluttanza a far convergere i due binari, quello dei fatti e quello delle idee. Questa scissione, che rispecchia quella etno-linguistica, genera dissonanza e violenza, ma facciamo fatica a capire che la violenza non è fuori o dentro di noi, la violenza siamo noi. Ce lo insegna la storia, il buon senso e, come vedremo, la scienza sperimentale.
La violenza non è solo picchiare o uccidere qualcuno. È violenza anche quando usiamo frasi taglienti ingiustificate, per il puro gusto di ferire l’altro, quando con un gesto liquidiamo una persona, per lo stesso motivo, quando obbediamo per paura. La violenza è sottile, profonda. Quando ci autoidentifichiamo come altoatesino o sudtirolese, siamo già entrati nel ciclo della violenza, perché ci separiamo in qualche misura dal resto del mondo e quando lo facciamo, in nome delle nostre credenze, tradizioni, nazionalità ed altre sovrastrutture, allora generiamo violenza. Chi aspira ad essere nonviolento non può appartenere ad una nazione, ad un gruppo etnico o ad una religione, ad un partito politico o una fazione, perché ciò condizionerà il modo in cui intende le ragioni altrui, lo renderà meno obiettivo, e quindi meno giusto, meno equo, meno sereno, meno distaccato, più aggressivo, più rabbioso. Sono la paura, la rabbia, lo spirito antagonistico che ci spingono ad onorare nazioni, stracci che chiamiamo bandiere, leader che incarnano la nostra “essenza”, ad assumere un atteggiamento difensivo che produce equivoci sempre più aggrovigliati e pericolosi. Competiamo con gli altri, continuare a confrontarci, a voler prevalere, a scegliere la gelosia, l’avidità, l’ingordigia, l’aggressione come stile di vita. È curioso che due guerre mondiali non ci abbiano ancora insegnato che bisogna stare uniti, non creare barriere tra noi. Quante ne serviranno ancora per farci rinsavire?
Eppure, ogni volta ricadiamo nello stesso errore e dividiamo il mondo in noi e loro, in buoni e cattivi, i capri espiatori a cui assegnare l’onere della colpa per tutto ciò che non va. Nominiamo narratori ufficiali specialisti della semplificazione, che corroborino la nostra immeschinita visione del mondo, che personifichino il “noi”, per renderlo più gestibile, più uniforme, per farci dimenticare quanto variegata e preoccupantemente contraddittoria sia la natura di questo “noi”. Diciamo le cose come stanno: noi vogliamo vivere e gli altri hanno meno diritto di vivere di noi. In Alto Adige gli altri hanno meno diritto alla prosperità di noi e i tagli dovranno colpire prima di tutto gli altri, i veri parassiti, quelli che fruiscono di prerogative immeritate, perché hanno imparato a fare le vittime. Questo è un altro discorso che si continua a sentire, da una parte e dall’altra. “Parassita” è un vocabolo che, dopo la vicenda nazista, ci si augurerebbe di non dover più sentir pronunciare in pubblico.

Gli studi di psicologia sociale degli ultimi 60 anni dimostrano fuori di ogni ragionevole dubbio che il paradigma della segmentazione etnica sia una faglia sismica che si estende nel cuore di un’area che, solo per il momento, non è sottoposta a sollecitazioni tettoniche; che lo slogan più adatto sarebbe “quanto più ci separeremo, tanto più rischieremo di farci del male”; e che, per ridurre o eliminare questa faglia, occorrerebbe seguire il consiglio di Alexander Langer: “quanto più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, tanto meglio ci comprenderemo”.
Un mondo vivo cambia, fluisce, scorre, è in uno stato di flusso costante. Chi crede di poter fissare identità e confini sarà spazzato via. Le catene imposte alla realtà si spezzano come fuscelli. Quel che dev’essere chiaro, una volta per tutte, è che dividere gli esseri umani apre la strada alla violenza e che questo l’Alto Adige non se lo può più permettere (e non se lo sarebbe mai dovuto permettere). Chi divide dovrà essere considerato responsabile di ogni spiacevole conseguenza. Vediamo dunque perché.
L’esperimento di Robbers Cave, realizzato nel 1954 da Muzafer and Carolyn Sherif in un campo estivo dell’Oklahoma, è considerato ancora oggi uno dei migliori esperimenti di psicologia sociale della storia. Vi presero parte 22 ragazzi separati fin dal momento in cui montarono su due diversi autobus per recarsi al campo in due gruppi di undici elementi in modo tale che non si conoscessero. Ciascun gruppo ignorava l’esistenza dell’altro e per i primi giorni furono mantenuti ad una distanza tale da non scoprire mai la presenza dell’altro gruppo. Gli fu chiesto di darsi un nome. Un gruppo optò per “i serpenti a sonagli”, l’altro si battezzò, “le aquile”. Il che è già di per se curioso visto che nella mitologia indigena americana aquila e serpente sono i due acerrimi nemici per antonomasia. Entro pochi giorni in seno a ciascun gruppo si formarono spontaneamente dei rapporti gerarchici. Poi si fecero incontrare i due gruppi e, nel giro di un altro paio di giorni, cominciò a generarsi dell’ostilità reciproca, che crebbe molto oltre quel che era stato preventivato dagli sperimentatori. Furono costretti ad interrompere questa fase per dare inizio alla terza ed ultima fase, quella dell’integrazione, che prevedeva l’introduzione di compiti, sfide ed obiettivi condivisi che annullavano la salienza di ciascun gruppo e costringevano i vari ragazzi a ragionare in termini di interessi comuni e sforzi cooperativi, perché nessun gruppo sarebbe stato in grado di farcela da solo. Come ad esempio l’approvvigionamento d’acqua in seguito ad un’improvvisa scarsità (artificiale), la rottura (non accidentale) del motore di un furgoncino, la scelta di un film da proiettare. Questi incarichi fecero sì che l’ostilità svanisse e, alla fine dell’esperimento, tutti avevano fatto amicizia e pretendevano di tornare a casa assieme. Le conclusioni di questo esperimento confermavano i risultati di esperimenti precedenti e sono state a loro volta comprovate da altri esperimenti, sempre più ingegnosi, ideati negli anni successivi.
Il dato più preoccupante è che è sufficiente dividere le persone in gruppi perché, in modo automatico, i componenti di un gruppo, per quanto eterogenei, comincino ad elaborare dei pregiudizi omogenei nei confronti di ciò che è esterno (negativi) ed interno (positivi) al gruppo e delle forme di dipendenza nei confronti del gruppo stesso (Kecmanovic, 1996). A prescindere da ogni considerazione e senza neppure rendersi conto dell’arbitrarietà delle loro categorizzazioni e linee di demarcazione, una persona indotta a catalogare gli altri in gruppi tende: (a) a minimizzare le differenze tra i membri di questi gruppi e ad esagerare le differenze tra gruppi; (b) a ricordare più facilmente ciò che accomuna i membri del suo gruppo e ciò che lo distingue dai membri di un altro gruppo; (c) a ricordare più facilmente le informazioni positive che riguardano i membri del suo gruppo, ignorando o rimuovendo dalla memoria quelle negative; (d) a vedere più legami e legami più intensi ed evidenti tra i membri del suo gruppo e se stesso; (e) ad aspettarsi che i valori ed atteggiamenti dei membri del suo gruppo rispecchino i suoi in misura maggiore rispetto ai membri di altri gruppi; (f) ad affezionarsi ai membri del suo gruppo considerandoli maggiormente degni di fiducia, affetto e lealtà; (g) a comunicare in modo tale da preservare un orientamento benevolo e positivo nei loro confronti; (h) ad aiutarli in misura segnatamente maggiore rispetto ai membri di altri gruppi; (i) a sottrarre risorse agli altri gruppi ed essere meno leale verso i loro membri, fenomeno che svanisce quando la separazione lascia il posto all’identificazione dell’altro come persona e non come membro di un diverso gruppo (Dovidio/Gaertner/Saguy 2009).
Il che dimostra che separare, compartimentare (diaballein in greco) gli esseri umani è “diabolico”.
Le strategie sperimentate con successo dagli psicologi sociali per riuscire a superare lo scontro e stimolare la cooperazione includono invece un processo di decategorizzazione, che sottolinea le qualità individuali degli altri ed incoraggia le interazioni su base personale. Questo è quel che abbiamo cercato di avviare io e Mauro Fattor con il libro “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso”. Una strategia alternativa, più semplice, è quella di ricategorizzare i membri che si percepiscono come appartenenti a gruppi diversi in un’unica, sovrastante categoria (Dovidio/Gaertner/Saguy 2009). Questo è quel che alcuni cercano di fare in Alto Adige, estendendo il dominio simbolico e semantico di “patria” fino a comprendere la minoranza altoatesina, affinché si senta coinvolta nel comune progetto di migliorare la società locale. Ciò però comporta lo spostamento della linea di demarcazione (e dei pregiudizi favorevoli o antagonistici) un po’ più in là e può creare un più intenso dualismo con i vicini trentini a sud e i vicini tirolesi a nord. Storicamente, il nazionalismo ha sfruttato questa strategia per superare i regionalismi, con il risultato di pacificare vaste aree, ma anche di causare maggiori frizioni tra nazioni, in luogo delle più limitate faide tra signorie, feudi e contrade. Inoltre questa nuova, più ampia identità collettiva può essere instabile (se i pregiudizi sono troppo radicati), può non arrecare i vantaggi promessi, può essere percepita come un’imposizione ingiustificata e portare di conseguenza all’esacerbamento dei dissidi invece che alla loro risoluzione permanente. Mi pare che questo sia precisamente il caso dell’Italia di questi anni. 
Che la soluzione migliore sia quella di invitare le persone ad imparare a gestire una molteplicità di identità collettive – analogamente a come ciascuno di noi passa nel corso di stessa una giornata da un ruolo all’altro senza avvertire traumi o di sconnessioni – è dimostrato dal fatto che chi supera la barriera dell’appartenenza forte ed opta per un’identificazione plurale e complementare, tende ad essere psicologicamente più in salute, ad esperire minori livelli di stress e a dedicarsi ad attività che sono più salutari per il suo organismo (Dovidio/Gaertner/Saguy 2009). A ciò si aggiungono due aspetti ancora più decisivi: il mantenimento della volontà di denuncia delle disuguaglianze ed ingiustizie, che all’opposto un’eccessiva enfasi sulla coesione sociale inibisce, ed un più alto tasso di pensiero creativo ed innovativo, qualitativamente migliore (Fiske/Gilbert/Lindzey, 2010).

In sintesi, i sostenitori del comunitarismo identitario sbagliano quando affermano che la loro posizione sia naturale, razionale e conveniente. Nessuno di questi tre attributi è applicabile a questa ideologia. La scelta identitaria collettiva è al contrario emotiva, non è universale ed è potenzialmente disastrosa. Trovo semplicemente indecente che un presunto debito di riconoscenza verso antenati ignoti debba prevalere sulle responsabilità nei confronti dei vivi e che il paternalismo autoritario di genitori etnicamente militanti debba plasmare l’identità etnica dei figli, pena l’estinzione della comunità e dell’Heimat, cosicché ogni passeggiata, ogni conversazione, ogni domanda servano a trasformarli nel genere di persona che sarebbero ammirati da un Silvius Magnago o da un Pietro Mitolo. Goebbels, nel dicembre del 1942, esclamava: “Non possiamo neppure immaginare oggi il potere che i morti esercitano sui vivi!”.
Gli esseri umani non sono argilla e se davvero ci sentiamo in debito nei confronti delle future generazioni, sarebbe opportuno dimostrarlo facendo in modo che possano nascere in un mondo in cui gli esseri umani si incontrano, piuttosto che in uno in cui si scontrano nel nome di sentimentalismi ed arcaismi e sulla scorta di istinti primordiali francamente risibili, come ha messo in luce Hans Magnus Enzensberger nella sua acuta analisi delle dinamiche dello scompartimento ferroviario (Enzensberger, 1993, pp. 5-8):

Due passeggeri in uno scompartimento ferroviario. Non sappiamo nulla della loro storia, non sappiamo da dove vengono, né dove vanno. Si sono sistemati comodamente, hanno preso possesso di tavolino, attaccapanni, portabagagli. Sui sedili liberi sono sparsi giornali, cappotti, borse. La porta si apre, e nello scompartimento entrano due nuovi viaggiatori. Il loro arrivo non è accolto con favore. Si avverte una chiara riluttanza a stringersi, a sgombrare i posti liberi, a dividere lo spazio disponibile del portabagagli. Anche se non si conoscono affatto, fra i passeggeri originari nasce in questo frangente un singolare senso di solidarietà. Essi affrontano i nuovi arrivati come un gruppo compatto. È loro il territorio che è a disposizione. Considerano un intruso ogni nuovo arrivato. La loro autoconsapevolezza è quella dell'autoctono che rivendica per sé tutto lo spazio. Questa visione delle cose non ha una motivazione razionale ma sembra essere profondamente radicata. Questo innocente modello non è privo di lati assurdi. Lo scompartimento ferroviario è un soggiorno transitorio, un luogo che serve solo a cambiar luogo. E’ destinato alla fluttuazione. Il passeggero è di per sé la negazione del sedentario. Ha cambiato un territorio reale con uno virtuale. Ciononostante difende la sua precaria dimora con silenzioso accanimento.
Eppure quasi mai si arriva a uno scontro aperto. Ciò si deve al fatto che tutti i passeggeri sottostanno a un insieme di regole sul quale non possono influire. Il loro istinto territoriale viene frenato da un lato dal codice istituzionale delle ferrovie, dall'altro da norme di comportamento non scritte, come quelle della cortesia. Quindi ci si limita a qualche occhiata e a mormorare fra i denti formule di scusa. I nuovi passeggeri vengono tollerati. Ci si abitua a loro. Ma restano bollati, anche se in misura decrescente. […]. Ora altri due passeggeri aprono la porta dello scompartimento. A partire da questo momento cambia lo status di quelli entrati prima di loro. Solo un attimo prima erano loro gli intrusi, gli estranei; adesso invece si sono improvvisamente trasformati in autoctoni. Appartengono al clan dei sedentari, dei proprietari dello scompartimento e rivendicano per sé tutti i privilegi che questi credono spettino loro. Paradossale appare in questo contesto la difesa di un territorio «ereditario» appena occupato, e degna di nota la totale mancanza di empatia per i nuovi arrivati che si accingono a combattere contro le stesse resistenze e devono sottoporsi alla stessa difficile iniziazione a cui si sono dovuti sottoporre i loro predecessori; peculiare con quanta rapidità si riesca a dimenticare la propria origine che viene nascosta e negata.