domenica 11 dicembre 2011

Terrorismo islamico, omofobia e Terrore Rivoluzionario




Un essere umano è dotato di libero arbitrio. Può usarlo per scegliere tra il bene ed il male. Se può solo fare il bene oppure il male, allora è un’arancia meccanica, nel senso che ha l'apparenza di un organismo di bell’aspetto, colorato e succoso, ma in effetti è solo un giocattolo a molla che può essere caricato da Dio o dal Diavolo o, visto che ormai sta progressivamente rimpiazzando entrambi, dallo stato onnipotente.
Introduzione di Burgess all’edizione americana di “Arancia Meccanica” del 1986

L’idea che il mondo attuale sia corrotto così radicalmente da rendere impossibile qualunque miglioramento e che proprio per questo motivo il mondo che ad esso succederà debba portare con sé la perfezione assoluta e la liberazione definitiva, questa idea è una delle più mostruose aberrazioni dello spirito umano. La ragione sana suggerisce piuttosto: quanto più il mondo attuale è corrotto, tanto più lungo, difficile e incerto è il camino che lo separa dall’agognato regno della perfezione.
Leszek Kolakowski, “Lo spirito rivoluzionario”, 1982, p. 21

Quello che in tempo di pace viene considerato immorale, ingiusto, dannoso per la collettività, in tempo di guerra cambia di segno, si trasforma in valore positivo e viene perciò stimolato e incoraggiato. Non uccidere, non mentire, non tradire, ecc. sono tutte massime che devono essere ribaltate durante un conflitto lungo e radicale per il bene della collettività; inoltre deve essere sviluppata in tutti i modi una mentalità aggressiva, bellicosa, spietata se occorre. In altre parole la guerra crea un “nuovo universo morale” con regole e valori specifici che sono in contrasto profondo con quelli dell’universo morale dell’epoca in cui la società è in pace. Inoltre la guerra produce una mentalità manichea che porta a scomporre il mondo in amici e nemici e a guardare con sospetto gli stessi membri del gruppo di appartenenza, se questi manifestano in qualche modo un ardore sufficiente o addirittura riserve morali sulla lotta in atto.
Luciano Pellicani, “I rivoluzionari di professione”, 2008, p. 215

Nel 1921 Ernst Jünger osservò molto acutamente che la morte è la realizzazione ideale di una credenza, il suo complemento e completamento. Lo stesso vale per la fede di un terrorista: il contenuto conta poco, la convinzione è tutto. Essere degni del sacrificio della propria vita è la dimostrazione della propria superiore qualità e dell’immacolatezza del proprio spirito, cioè della propria sacralità. Il terrorista è un homo sacer, “nuda vita”, per riprendere un tema già sviluppato dal filosofo Giorgio Agamben. La sua condizione eccede quelle contemplate dal diritto umano e da quello divino: può uccidere senza essere accusato di omicidio e la sua morte volontaria è rituale per antonomasia.
Ma se di ritorno del sacro si deve parlare, allora è bene chiarire che sarebbe meglio concentrarsi su alcune sue componenti come “il magico”, “il sublime” e “l’epico”. La mitologizzazione della quotidianità si accompagna al titanismo di militanti che realmente credono di cavalcare la Storia, e di poter dare l’avvio alla rigenerazione palingenetica della civiltà (islamica, cristiana, giapponese, europea, ecc.). I fondamentalisti di ogni sorta semplificano la realtà fino a trasformarla in una caricatura di sé stessa, una funzione ad uso e consumo delle loro credenze ed intendimenti.
Il tempo e lo spazio ordinari evaporano nella loro coscienza rituale che si fonda sulla credenza millenarista che sia possibile accelerare l’avvento di un grande rivolgimento epocale che restituirà ai “puri” il ruolo di guide spirituali delle masse, assimilate all’immagine di un gregge di pecore disperso ed in attesa di un benevolo ma energico pastore. Tempo, spazio ed Ego si fondono nella comunità di destino che preannuncia la venuta di una nuova era e di una nuova umanità. Più che di religione sarebbe opportuno parlare di religiosità, o comunque di religione politica (e religione dell’Ego), per molti versi affine a quello che rappresentarono il nazi-fascismo ed il comunismo del secolo scorso per milioni di persone.
Questo sconsiderato riformismo ultraradicale non analizza le questioni sul tappeto prendendo in considerazione l’umanità per come è ora, con i suoi pregi e difetti, i suoi limiti e le sue potenzialità, ma per come dovrebbe essere, e per forza di cose sarà, quando l’onda fondamentalista avrà spazzato via la società materialista ed individualista dominante. Questa stessa ideale configurazione dell’umanità è il pretesto che giustifica il sacrificio di un certo numero di persone (terrorismo), o l’uso di determinati gruppi umani come capri espiatori (es. i Rom).
Accanto alla storia ordinaria, i militanti fondamentalisti costruiscono e mettono in moto una Storia “Nobile”, provvidenziale, ed una visione della vita totalizzante, cultista, dove tutto va esperito in maniera ed in misura assoluta e dove l’inversione o la sospensione o l’accelerazione – a seconda delle esigenze – dello scorrere del tempo restituirà all’ordine delle cose la sua integrità originale. È un’immagine confortante e sedativa, nonché gratificante per l’ego di chi, perdente radicale, si trova improvvisamente proiettato sul palcoscenico mondiale dove, per parafrasare Calvino, non un gesto e non una parola vanno sprecati, perché si è dalla parte del riscatto, della rettitudine, della purezza, in un mondo degradato, depravato ed impuro. L’istinto, l’emozione, l’intuito, la fede sopprimono la ragione: chi deve operare per migliorare la propria esistenza deve usare il cervello, chi si aspetta di essere salvato, deve solo attendere con fiducia, oppure andare incontro ad una morte “eroica”.
Questo dovrebbe risultare chiaro a chiunque si sia reso conto del fatto che lungi dall’essere espressioni specifiche di una rivitalizzazione dell’Islam “tradizionale”, i movimenti fondamentalisti musulmani sono in realtà una reazione estremamente moderna all’evento epocale che è stata la fine della Guerra Fredda e della contrapposizione ideologica tra comunismo e capitalismo. Molti di questi estremisti pensano e parlano come i militanti anti-imperialisti del secolo scorso e gli anarchici di fine Ottocento che condannavano la modernità occidentale; oppure come gli indignati più zelanti.
L’obiettivo non è quello di recuperare un presunto idillio confessionale e sociale dell’umma dei tempi dei loro nonni e bisnonni, né quello di costruire uno stato islamico di tipo fascista, ma piuttosto quello di islamizzare la modernità e di porre rimedio alla perdita delle identità collettive, spazzate via dall’irrompere del cosmopolitismo individualizzante. In questo senso le analogie con altri movimenti fondamentalisti ebraici e cristiani, ma anche, come detto, con ideologie politiche radical-populiste del passato e del presente, sono davvero numerose ed impressionanti. Basti pensare che Osama Bin Laden iniziò la sua carriera di sovversivo combattendo per la liberazione dell’Afghanistan dall’imperialismo sovietico negli anni Ottanta.
Nel gennaio del 2008 è stata pubblicata sul prestigioso settimanale britannico “The Observer” una brillante inchiesta di Jason Burke, uno dei giornalisti di lingua inglese più competenti in materia di fondamentalismo islamico, avendo trascorso molto tempo sul campo, intervistando militanti islamici e combattenti afgani. Quest’inchiesta riesaminava le sue esperienze ed i dati riguardanti il profilo psicologico e sociale degli appartenenti alle cellule del terrorismo islamico inglese raccolti in questi anni dalle unità anti-terrorismo europee. I risultati sono stati spiazzanti per molti. Chi si aspettava che i terroristi fossero in genere poco più che adolescenti, e quindi più esposti al rischio di plagio, ha appreso che l’età media dei militanti britannici era di 29 anni. Chi riteneva che l’indottrinamento nelle moschee fosse un fattore decisivo si è dovuto ricredere: il ruolo degli istigatori non sembra essere quello di inculcare nei giovani il fanatismo religioso, tanto che la gran parte dei militanti è accomunata da un’abissale ignoranza dei fondamenti coranici e della politica internazionale. In genere non si tratta di maestri religiosi ma di conoscenti leggermente più vecchi, a volte amici, altre volte parenti. Le fonti governative rivelano che meno del 10 per cento delle attività degli estremisti sono ricollegabili ai luoghi di culto. La povertà non è un fattore scatenante. Meno del 20 per cento dei militanti proviene da ambienti disagiati, anche se in genere tutti si percepiscono come sottoimpiegati. Né si tratta necessariamente di figure asociali: un terzo di loro è sposato e circa un quarto di loro ha almeno un figlio. Almeno uno su tre ha conseguito la laurea o una specializzazione equivalente mentre molti altri, nel momento in cui si sono lasciati coinvolgere dal radicalismo islamico, erano studenti, spesso di discipline tecniche e scientifiche, in special modo ingegneria ed informatica.
Quasi sempre la spinta finale è fornita dall’esperienza di un fallimento professionale e dalla percezione di un rigetto xenofobo. Spesso il passo successivo è il rifiuto della religiosità apolitica dei genitori e l’adesione alle correnti più politicizzate dell’Islam, che sembrano più rilevanti e più adatte a rispondere agli interrogativi dei nostri tempi.
C’è il caso di Shiraz Maher, un normale studente dell’Università di Leeds, con gli stessi interessi dei suoi pari età.  Tutto questo fino all’11 Settembre, un evento che lo costringe a prendere posizione: “Le regole del gioco erano cambiate…Improvvisamente mi ritrovai a pormi delle domande a proposito dell’Islam, della mia identità e del mondo, come non mi era mai capitato prima”. Alcuni giorni dopo l’attacco Maher fu avvicinato da un attivista di nome Hizb ut-Tahrir, un laureato in scienze politiche alla sua stessa università, solo pochi anni più vecchio di lui, che vestiva elegantemente, all’occidentale, e che sosteneva di conoscere il Corano a memoria. Hizb ut-Tahrir “sembrava avere tutte le risposte”, ci spiega Maher, sorpreso dalla sua comprensione del desiderio di spassarsela, di ballare e fumare spinelli, anatema per i frequentatori della moschea. Ma per Hizb ut-Tahrir non c’è problema: “Se non fosse divertente la gente non lo farebbe”. Così Maher pensa tra sé e sé: “Ecco qui qualcuno di successo che sa parlare la mia lingua”, cioè il linguaggio del riscatto musulmano, assalito dal capitalismo, dalle armi e dalla cultura occidentale. Come dichiarano due giovani intervistati musulmani, Ahmed e Mohammed, “c’è un piano anti-islamico. Non vogliono che diventiamo forti. Ci vogliono spingere in basso, nella povertà, umiliandoci. Ci chiamano terroristi ma anche loro sono terroristi”. Molti infatti, guardando le immagini dell’invasione dell’Iraq, hanno cominciato a sensibilizzarsi alla causa dei musulmani nel mondo, decidendo di volerli aiutare quantomeno economicamente. Altri facevano parte di bande che cacciavano via gli spacciatori dai loro quartieri e quindi erano già pronti a menare le mani. Altri ancora vedono la jihad come una scelta di vita romantica, gloriosa, avventurosa, clandestina, ribelle che ha il valore aggiunto di ricreare attorno a loro un ambiente familiare, fatto di persone che la pensano come loro e che comprendono le loro ansie e desideri.
Questo li isola progressivamente dal mondo. È un distanziamento decisivo perché rafforza la determinazione dei militanti ed impedisce che i loro pensieri siano “disturbati” da punti di vista alternativi o informazioni dissonanti. In seguito, una volta “entrati nel giro”, molti vengono spediti in Afghanistan come carne da cannone, ufficialmente per “farsi le ossa” (Burke, 2004). Ne ricaviamo ancora una volta l’impressione che la fede in una salvezza ultraterrena in quanto tale abbia ben poco a che fare con questi fenomeni. Ben più rilevante sembra essere il divario tra le legittime aspettative di migliaia di giovani e le reali prospettive di avanzamento sociale, che ormai ha superato la soglia di relativa tolleranza. Altrimenti non si spiega la forte concentrazione di insegnanti, funzionari pubblici, medici, ingegneri, ecc.
Sono gli scarti di un settore pubblico umiliato da governi nazionali laici di paesi arabi che non hanno saputo rilanciare l’economia e sono stati costretti ad operare tagli sostanziosi (Antoun, 2001). Sono gli scarti della modernità e sono affatto moderni, sganciati da una specifica comunità tradizionale di riferimento, dalla famiglia, dal passato, dal territorio, si sentono credenti rinati come parte della più grande ummah globale, Al-ummah al-islamiyyah, la comunità islamica transnazionale. Gesù invitava ad abbandonare famiglia, amici e casa per unirsi a lui, i terroristi giapponesi e quelli islamici sono pronti a farlo, ma la loro idea di redenzione personale e collettiva è diametralmente opposta. Sono pronti a compiere un qualche atto sensazionale che risuonerà sui media internazionali, rendendoli immortali. Non sono interessati a mobilizzare le masse, non pensano a riforme politiche, non intendono dedicare la loro vita all’assistenza ai disagiati o all’insegnamento della fede, non gradirebbero morire in qualche valle sperduta dell’Afghanistan, in un mercato iracheno, o ad un posto di blocco israeliano. Una morte troppo anonima per degli uomini con le loro competenze e talenti. Come tutti i perdenti radicali, i terroristi jihadisti contemporanei sono dei megalomani narcisisti che bramano la “bella morte” e gli “onori” della cronaca e, se possibile, desiderano che ciò avvenga nei luoghi simboli del glamour occidentale, anche perché la loro rinascita nella fede avviene quasi sempre in Occidente, dove le loro certezze dottrinarie, ossia i pilastri della loro tradizione culturale, sono messi a dura prova. Quando dichiarano di identificarsi con le vittime dell’imperialismo occidentale stanno mentendo a se stessi. Non v’è alcun processo di immedesimazione in corso, non v’è empatia nelle loro parole e nei loro atti. Se fosse così andrebbero ad aiutare la gente verso la quale dichiarano di nutrire una così profonda compassione. Ma non è così. Provano compassione solo per se stessi, esattamente come gli euroterroristi degli anni Settanta. Sono loro le vittime della modernità, del sistema, dell’umiliazione dell’Islam. Sono loro che non sono riusciti ad essere all’altezza delle proprie aspettative ed ora, per mascherare il proprio egoismo e le ferite interiori, ma anche per cancellare il senso di personale disfatta, si creano una falsa coscienza. In questo modo precipitano nell’idolatria, che è prima di tutto idolatria di se stessi, che nasce dal bisogno di mitizzare il proprio percorso esistenziale, proiettandolo sullo scenario globale di un immaginario scontro cosmico.
Come tutti i militanti radicali del passato e del presente, chiedono a Dio ed alla Storia quel che non hanno saputo ottenere da se stessi. Ma la loro è una battaglia privata, non collettiva. Le istituzioni religiose e quelle nazionali li hanno delusi, hanno fallito il loro compito di addomesticare la modernità risacralizzandola, ri-incantandola, per usare la terminologia weberiana. Per questo il loro rapporto con Dio è immediato, diretto, la loro religiosità fanatica proprio perché fondata su basi deboli e strumentali. Sono indifferenti alle grandi questioni teologiche che potrebbero solo soffocare il loro grande fervore ideologico. Non cercano una guida spirituale ma un coordinatore, un esperto di logistica, un’occasione per morire “alla grande”. Anch’essi, o forse loro più di tutti, esperiscono la vasta crisi delle religioni, quella che Ratzinger, nel 2004, definiva “lo sgretolarsi del cristianesimo”, che è anche lo sgretolarsi delle altre due religioni monoteistiche e del buddismo, dell’induismo e dello scintoismo, ecc. Mentre milioni di fedeli si radunano nei grandi meeting, sempre meno sono quelli che si ritrovano per pregare nei giorni designati e quelli che dedicano la loro vita all’apostolato. Questo perché si è giunti alla dissociazione finale tra cultura di appartenenza ed affiliazione religiosa, alla dispersione delle comunità tradizionali - fittizie ma in precedenza universalmente percepite come reali – ed alla ritribalizzazione della società attorno ai trend della moda ed a nuovi simboli di identificazione etnica. Nuove comunità immaginate che, condannate fin dalla nascita ad un’esistenza effimera sotto i colpi dell’apertura delle culture, delle società e delle menti che rappresenta la globalizzazione, reagiscono con l’irrigidimento dottrinale, o la violenza, alla loro manifesta gracilità. Lo jihadismo è una delle espressioni più note di questa ritribalizzazione e scomparirà nel giro di una generazione, per ricomparire dopo qualche decennio, quante le condizioni saranno favorevoli alla risurrezione della mistica dell’”eroismo fondamentalista”. In altre parole i fondamentalismi non sono reazioni difensive di culture tradizionali sotto assalto, non sono il risultato di uno scontro di civiltà, perché non esistono civiltà che si possano scontrare.
La destra pone l’accento sullo scontro di civiltà. La sinistra, come di consueto (e in certi casi non senza valide ragioni), punta l’indice contro le sperequazioni sociali. In realtà i rivoltosi non erano giovani poveri e senza speranza di riscatto ma figli sottoimpiegati di genitori piccolo-borghesi, non sempre musulmani, che impiegano le tecniche pedagogiche della generazioni precedenti, contadine, in una società che non sa cosa farsene. Questi figli ritenevano di poter ambire a qualcosa di più della carità pulciosa e mortificante di un paese che ufficialmente nega il razzismo ma nei fatti non può cancellarlo con un tratto di penna. Amano appassionatamente il proprio paese europeo, al punto da detestarlo quando questa li rifiuta, come succede negli amori non corrisposti. In realtà, quindi, i militanti e “potenziali terroristi” sono giovani di buona cultura che si sentono sradicati, discriminati, esclusi da una società che non è disposta ad accettarli per quello che sono (non semplice manodopera a basso costo) e cerca di imporre loro un certo modello di buon cittadino senza nel contempo usare lo stesso trattamento pedagogico-discriminatorio nei confronti dei non-musulmani. Di conseguenza questi giovani musulmani frustrati, come i loro omologhi giapponesi di Aum-Shinrikyo, s’imbarcano nella ricerca di una causa per la quale lottare, per dare un significato più profondo e saldo alla propria esistenza. Meglio sarebbe aiutarli a sentirsi integrati e non necessariamente omologati, costruendo luoghi di apprendimento e di culto, ma anche d’incontro con la gioventù non musulmana, piuttosto che spingerli tra le braccia di chi ha interesse a fomentare la violenza interculturale ed interreligiosa.
Se espandiamo gradualmente questo tipo di prospettiva arriviamo a capire che la loro reazione è per molti versi analoga a quella di Alex DeLarge, il protagonista di Arancia Meccanica di Anthony Burgess, che aveva ben compreso come lo Stato era del tutto indifferente alla sua esistenza, se non nella misura in cui questa non doveva in alcun modo minare l’armonia sociale. Le autorità rimangono interdette di fronte al comportamento antisociale di un amante della musica classica, un tratto generalmente associato ai “cittadini al di sopra di ogni sospetto”: “Hai una bella casa qui, dei genitori buoni e amorevoli, non hai un cervello da buttare. C’è un qualche demone che si impadronisce di te?”. Le risposte di Burgess sono ambigue, equivoche. Ma di Alex DeLarge è pieno anche il mondo non-islamico. Pensiamo ad esempio ai massacri nei college americani: Jonesboro, Arkansas; Pearl, Mississippi; Springfield, Oregon; Paducah, Kentucky; la Columbine High School di Littleton, Colorado; Conyers, Georgia, e poi Fort Gibson ed il massacro del Virginia Tech, perpetrato dal ventitreenne Cho Seung-Hui. Più recentemente un giovane finlandese, Pekka-Eric Auvinen, ha massacrato nove persone nella sua stessa scuola dopo aver diffuso online un manifesto radical-ecologista nel quale esaltava il pensiero del controverso e misantropico intellettuale finlandese Pentti Linkola e dichiarava che il suo credo Social-Darwinista lo spingeva a passare all’azione a tutela dell’ambiente, sperando di servire da modello per altri ed augurandosi che “la morte dell’umanità arrivi al più presto”. E poi c’è Breivik. Il numero di vittime di questi “terroristi fatti in casa” non si avvicina chiaramente a quello prodotto dai loro “colleghi” islamisti, ma stiamo comunque parlando di decine e decine di vite innocenti falciate in nome di un disagio esistenziale personale.
Chi ha analizzato gli scritti ed i video di questi giovani assassini ha potuto constatare che l’uccisione di massa dei propri compagni di scuola ed insegnanti ed il tentativo di distruggere gli istituti da loro frequentati erano motivati dalla convinzione che quelli, e non altri, fossero i responsabili del proprio malessere e senso di oppressione. Un ragazzo spiega che ci sono due modi per diventare famosi a scuola. La via del successo e la via dell’irrisione: “in pratica avevi paura di essere deriso per tutto quel che facevi perché se facevi una cosa fuori dell’ordinario, e ci si aspettava che nessuno facesse qualcosa del genere, avrebbero riso di te, ti avrebbero preso per i fondelli, e non avresti potuto far parte del gruppo. Così, poi, diventavi un escluso” (Klein, 2006).
In questo modo si viene a creare un sistema di sorveglianza benthamiano: un panopticon degno del Grande Fratello (quello letterario) che vede tutto e controlla tutto, sanzionando ogni devianza, nel vestire, nel comportamento, nei gusti, nella forma fisica, nel pensare, e così via. Stabilito un ideale ipermascolino ed iperfemminino al quale aspirare, tutti gli studenti sono costretti a misurarsi con esso, rendendosi conto della propria inadeguatezza e della propria fallibilità (Cook, 2000). Ecco la testimonianza di uno dei sopravvissuti alla strage di Columbine (15 morti, 23 feriti), riferendosi ai due omicidi, Dylan Klebold e Eric Harris: “Certo che li prendevamo per il culo. Ma che cosa altro ti aspetti quando vieni a scuola con certe pettinature e con delle corna sul cappellino?  Non erano solo gli atleti; facevano schifo all’intera scuola. Sono un branco di froci…Se ti vuoi liberare di qualcuno, in genere li prendi in giro, così tutta la scuola li chiama froci” (Gibbs & Roche, 1999, p. 48). In un video registrato la notte prima della sparatoria, Harris si sfoga dicendo “la gente mi prende costantemente per il culo per la mia faccia, i miei capelli, le mie camicie”, mentre Klebold aggiunge “vi ucciderò tutti. Ne ho abbastanza della vostra merda”, dove per “merda” s’intende il bullismo, l’essere spintonati, chiusi negli armadietti, il diventare bersaglio dei lazzi e delle ingiurie, dei sassi e delle lattine, l’essere chiamati froci tutto il tempo. Il risultato è l’aggressività maschile verso gli altri (eterodiretta) e l’aggressività femminile verso se stesse (autodiretta, come l’anoressia e la bulimia, l’automutilazione ed i ferimenti volontari, i tentativi di suicidio, ecc.).
Luke Woodham, di Pearl, Mississippi, dopo aver ucciso la madre che lo insultava e due studenti della sua scuola, ferendone altri sette, disse allo psichiatra che lo esaminava che non era pazzo: “Sono arrabbiato…non sono viziato o pigro; perché l’omicidio non è debole od ottuso; l’omicidio è cazzuto ed audace. Ho ucciso perché la gente come me viene maltrattata ogni giorno” (Chua-Eoan, 1997, p. 54).
Così, paradossalmente, anche un atto di protesta estrema come la violenza indiscriminata – così “virile” e totalitaria – serve solo a rinforzare il sistema di oppressione, ribadendo la naturalezza e correttezza degli standard di normalità imposti dalla società. Nessuna ragazza è finora entrata nella sua classe con delle pistole sparando all’impazzata e l’automutilazione maschile è piuttosto rara. Così non è un caso che molti studenti coinvolti nelle sparatorie abbiano scelto di farsi giustizia da soli dopo essere stati rifiutati da una ragazza: la loro mascolinità era stata messa in dubbio ed i ragazzi erano a rischio di essere accusati di inadeguatezza sessuale o di omosessualità latente.

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