Un essere umano è dotato di
libero arbitrio. Può usarlo per scegliere tra il bene ed il male. Se può solo
fare il bene oppure il male, allora è un’arancia meccanica, nel senso che ha
l'apparenza di un organismo di bell’aspetto, colorato e succoso, ma in effetti
è solo un giocattolo a molla che può essere caricato da Dio o dal Diavolo o,
visto che ormai sta progressivamente rimpiazzando entrambi, dallo stato
onnipotente.
Introduzione di Burgess
all’edizione americana di “Arancia Meccanica” del 1986
L’idea che il mondo attuale
sia corrotto così radicalmente da rendere impossibile qualunque miglioramento e
che proprio per questo motivo il mondo che ad esso succederà debba portare con
sé la perfezione assoluta e la liberazione definitiva, questa idea è una delle
più mostruose aberrazioni dello spirito umano. La ragione sana suggerisce
piuttosto: quanto più il mondo attuale è corrotto, tanto più lungo, difficile e
incerto è il camino che lo separa dall’agognato regno della perfezione.
Leszek Kolakowski, “Lo spirito
rivoluzionario”, 1982, p. 21
Quello che in tempo di pace
viene considerato immorale, ingiusto, dannoso per la collettività, in tempo di
guerra cambia di segno, si trasforma in valore positivo e viene perciò
stimolato e incoraggiato. Non uccidere, non mentire, non tradire, ecc. sono
tutte massime che devono essere ribaltate durante un conflitto lungo e radicale
per il bene della collettività; inoltre deve essere sviluppata in tutti i modi
una mentalità aggressiva, bellicosa, spietata se occorre. In altre parole la
guerra crea un “nuovo universo morale” con regole e valori specifici che sono
in contrasto profondo con quelli dell’universo morale dell’epoca in cui la
società è in pace. Inoltre la guerra produce una mentalità manichea che porta a
scomporre il mondo in amici e nemici e a guardare con sospetto gli stessi
membri del gruppo di appartenenza, se questi manifestano in qualche modo un
ardore sufficiente o addirittura riserve morali sulla lotta in atto.
Luciano Pellicani, “I
rivoluzionari di professione”, 2008, p. 215
Nel 1921 Ernst Jünger
osservò molto acutamente che la morte è la realizzazione ideale di una
credenza, il suo complemento e completamento. Lo stesso vale per la fede di un
terrorista: il contenuto conta poco, la convinzione è tutto. Essere
degni del sacrificio della propria vita è la dimostrazione della propria
superiore qualità e dell’immacolatezza del proprio spirito, cioè della propria
sacralità. Il terrorista è un homo sacer, “nuda vita”, per riprendere un
tema già sviluppato dal filosofo Giorgio Agamben. La sua condizione eccede
quelle contemplate dal diritto umano e da quello divino: può uccidere senza
essere accusato di omicidio e la sua morte volontaria è rituale per
antonomasia.
Ma se di ritorno del sacro
si deve parlare, allora è bene chiarire che sarebbe meglio concentrarsi su
alcune sue componenti come “il magico”, “il sublime” e “l’epico”. La
mitologizzazione della quotidianità si accompagna al titanismo di militanti che
realmente credono di cavalcare la Storia, e di poter dare l’avvio alla
rigenerazione palingenetica della civiltà (islamica, cristiana, giapponese,
europea, ecc.). I fondamentalisti di ogni sorta semplificano la realtà fino
a trasformarla in una caricatura di sé stessa, una funzione ad uso e consumo
delle loro credenze ed intendimenti.
Il tempo e lo spazio
ordinari evaporano nella loro coscienza rituale che si fonda sulla credenza
millenarista che sia possibile accelerare l’avvento di un grande rivolgimento
epocale che restituirà ai “puri” il ruolo di guide spirituali delle masse,
assimilate all’immagine di un gregge di pecore disperso ed in attesa di un
benevolo ma energico pastore. Tempo, spazio ed Ego si fondono nella
comunità di destino che preannuncia la venuta di una nuova era e di una nuova
umanità. Più che di religione sarebbe opportuno parlare di religiosità, o
comunque di religione politica (e religione dell’Ego), per molti
versi affine a quello che rappresentarono il nazi-fascismo ed il comunismo del
secolo scorso per milioni di persone.
Questo sconsiderato
riformismo ultraradicale non analizza le questioni sul tappeto prendendo in
considerazione l’umanità per come è ora, con i suoi pregi e difetti, i suoi
limiti e le sue potenzialità, ma per come dovrebbe essere, e per forza di cose
sarà, quando l’onda fondamentalista avrà spazzato via la società materialista
ed individualista dominante. Questa stessa ideale configurazione dell’umanità è
il pretesto che giustifica il sacrificio di un certo numero di persone
(terrorismo), o l’uso di determinati gruppi umani come capri espiatori (es. i
Rom).
Accanto alla storia
ordinaria, i militanti fondamentalisti costruiscono e mettono in moto una
Storia “Nobile”, provvidenziale, ed una visione della vita totalizzante,
cultista, dove tutto va esperito in maniera ed in misura assoluta e dove
l’inversione o la sospensione o l’accelerazione – a seconda delle esigenze –
dello scorrere del tempo restituirà all’ordine delle cose la sua integrità
originale. È un’immagine confortante e sedativa, nonché gratificante per
l’ego di chi, perdente radicale, si trova improvvisamente proiettato sul
palcoscenico mondiale dove, per parafrasare Calvino, non un gesto e non una
parola vanno sprecati, perché si è dalla parte del riscatto, della rettitudine,
della purezza, in un mondo degradato, depravato ed impuro. L’istinto,
l’emozione, l’intuito, la fede sopprimono la ragione: chi deve operare per
migliorare la propria esistenza deve usare il cervello, chi si aspetta di
essere salvato, deve solo attendere con fiducia, oppure andare incontro ad una
morte “eroica”.
Questo dovrebbe risultare
chiaro a chiunque si sia reso conto del fatto che lungi dall’essere espressioni
specifiche di una rivitalizzazione dell’Islam “tradizionale”, i movimenti
fondamentalisti musulmani sono in realtà una reazione estremamente moderna
all’evento epocale che è stata la fine della Guerra Fredda e della
contrapposizione ideologica tra comunismo e capitalismo. Molti di questi
estremisti pensano e parlano come i militanti anti-imperialisti del secolo
scorso e gli anarchici di fine Ottocento che condannavano la modernità
occidentale; oppure come gli indignati più zelanti.
L’obiettivo non è quello di
recuperare un presunto idillio confessionale e sociale dell’umma dei
tempi dei loro nonni e bisnonni, né quello di costruire uno stato islamico di
tipo fascista, ma piuttosto quello di islamizzare la modernità e di porre
rimedio alla perdita delle identità collettive, spazzate via dall’irrompere del
cosmopolitismo individualizzante. In questo senso le analogie con altri movimenti
fondamentalisti ebraici e cristiani, ma anche, come detto, con ideologie
politiche radical-populiste del passato e del presente, sono davvero numerose
ed impressionanti. Basti pensare che Osama Bin Laden iniziò la sua carriera
di sovversivo combattendo per la liberazione dell’Afghanistan dall’imperialismo
sovietico negli anni Ottanta.
Nel gennaio del 2008 è
stata pubblicata sul prestigioso settimanale britannico “The Observer” una
brillante inchiesta di Jason Burke, uno dei giornalisti di lingua inglese più
competenti in materia di fondamentalismo islamico, avendo trascorso molto tempo
sul campo, intervistando militanti islamici e combattenti afgani.
Quest’inchiesta riesaminava le sue esperienze ed i dati riguardanti il profilo
psicologico e sociale degli appartenenti alle cellule del terrorismo islamico
inglese raccolti in questi anni dalle unità anti-terrorismo europee. I
risultati sono stati spiazzanti per molti. Chi si aspettava che i terroristi
fossero in genere poco più che adolescenti, e quindi più esposti al rischio di
plagio, ha appreso che l’età media dei militanti britannici era di 29 anni.
Chi riteneva che l’indottrinamento nelle moschee fosse un fattore decisivo si è
dovuto ricredere: il ruolo degli istigatori non sembra essere quello di
inculcare nei giovani il fanatismo religioso, tanto che la gran parte dei
militanti è accomunata da un’abissale ignoranza dei fondamenti coranici e della
politica internazionale. In genere non si tratta di maestri religiosi
ma di conoscenti leggermente più vecchi, a volte amici, altre volte parenti. Le
fonti governative rivelano che meno del 10 per cento delle attività degli
estremisti sono ricollegabili ai luoghi di culto. La povertà non è
un fattore scatenante. Meno del 20 per cento dei militanti proviene da ambienti
disagiati, anche se in genere tutti si percepiscono come sottoimpiegati. Né si
tratta necessariamente di figure asociali: un terzo di loro è sposato e
circa un quarto di loro ha almeno un figlio. Almeno uno su tre ha
conseguito la laurea o una specializzazione equivalente mentre molti altri,
nel momento in cui si sono lasciati coinvolgere dal radicalismo islamico, erano
studenti, spesso di discipline tecniche e scientifiche, in special modo
ingegneria ed informatica.
Quasi sempre la spinta
finale è fornita dall’esperienza di un fallimento professionale e dalla
percezione di un rigetto xenofobo. Spesso il passo successivo è il rifiuto della
religiosità apolitica dei genitori e l’adesione alle correnti più politicizzate
dell’Islam, che sembrano più rilevanti e più adatte a rispondere agli
interrogativi dei nostri tempi.
C’è il caso di Shiraz
Maher, un normale studente dell’Università di Leeds, con gli stessi interessi
dei suoi pari età. Tutto questo fino all’11 Settembre, un evento che lo
costringe a prendere posizione: “Le regole del gioco erano
cambiate…Improvvisamente mi ritrovai a pormi delle domande a proposito
dell’Islam, della mia identità e del mondo, come non mi era mai capitato prima”.
Alcuni giorni dopo l’attacco Maher fu avvicinato da un attivista di nome Hizb
ut-Tahrir, un laureato in scienze politiche alla sua stessa università, solo
pochi anni più vecchio di lui, che vestiva elegantemente, all’occidentale, e
che sosteneva di conoscere il Corano a memoria. Hizb ut-Tahrir “sembrava
avere tutte le risposte”, ci spiega Maher, sorpreso dalla sua comprensione del
desiderio di spassarsela, di ballare e fumare spinelli, anatema per i
frequentatori della moschea. Ma per Hizb ut-Tahrir non c’è problema: “Se non
fosse divertente la gente non lo farebbe”. Così Maher pensa tra sé e sé: “Ecco
qui qualcuno di successo che sa parlare la mia lingua”, cioè il linguaggio del
riscatto musulmano, assalito dal capitalismo, dalle armi e dalla cultura
occidentale. Come dichiarano due giovani intervistati musulmani, Ahmed e
Mohammed, “c’è un piano anti-islamico. Non vogliono che diventiamo forti. Ci
vogliono spingere in basso, nella povertà, umiliandoci. Ci chiamano terroristi
ma anche loro sono terroristi”. Molti infatti, guardando le immagini
dell’invasione dell’Iraq, hanno cominciato a sensibilizzarsi alla causa dei
musulmani nel mondo, decidendo di volerli aiutare quantomeno economicamente.
Altri facevano parte di bande che cacciavano via gli spacciatori dai loro
quartieri e quindi erano già pronti a menare le mani. Altri ancora vedono la
jihad come una scelta di vita romantica, gloriosa, avventurosa, clandestina,
ribelle che ha il valore aggiunto di ricreare attorno a loro un ambiente
familiare, fatto di persone che la pensano come loro e che comprendono le loro
ansie e desideri.
Questo li isola
progressivamente dal mondo. È un distanziamento decisivo perché rafforza la
determinazione dei militanti ed impedisce che i loro pensieri siano
“disturbati” da punti di vista alternativi o informazioni dissonanti. In
seguito, una volta “entrati nel giro”, molti vengono spediti in Afghanistan
come carne da cannone, ufficialmente per “farsi le ossa” (Burke, 2004). Ne
ricaviamo ancora una volta l’impressione che la fede in una salvezza
ultraterrena in quanto tale abbia ben poco a che fare con questi fenomeni.
Ben più rilevante sembra essere il divario tra le legittime aspettative
di migliaia di giovani e le reali prospettive di avanzamento sociale, che ormai
ha superato la soglia di relativa tolleranza. Altrimenti non si spiega la forte
concentrazione di insegnanti, funzionari pubblici, medici, ingegneri, ecc.
Sono gli scarti di un
settore pubblico umiliato da governi nazionali laici di paesi arabi che non
hanno saputo rilanciare l’economia e sono stati costretti ad operare tagli
sostanziosi (Antoun, 2001). Sono gli scarti della modernità e sono affatto
moderni, sganciati da una specifica comunità tradizionale di riferimento, dalla
famiglia, dal passato, dal territorio, si sentono credenti rinati come parte
della più grande ummah globale, Al-ummah al-islamiyyah, la comunità
islamica transnazionale. Gesù invitava ad abbandonare famiglia, amici e casa
per unirsi a lui, i terroristi giapponesi e quelli islamici sono pronti a
farlo, ma la loro idea di redenzione personale e collettiva è diametralmente
opposta. Sono pronti a compiere un qualche atto sensazionale che risuonerà sui
media internazionali, rendendoli immortali. Non sono interessati a
mobilizzare le masse, non pensano a riforme politiche, non intendono dedicare
la loro vita all’assistenza ai disagiati o all’insegnamento della fede, non
gradirebbero morire in qualche valle sperduta dell’Afghanistan, in un mercato
iracheno, o ad un posto di blocco israeliano. Una morte troppo anonima per
degli uomini con le loro competenze e talenti. Come tutti i perdenti radicali,
i terroristi jihadisti contemporanei sono dei megalomani narcisisti che bramano
la “bella morte” e gli “onori” della cronaca e, se possibile, desiderano che
ciò avvenga nei luoghi simboli del glamour occidentale, anche perché la loro
rinascita nella fede avviene quasi sempre in Occidente, dove le loro certezze
dottrinarie, ossia i pilastri della loro tradizione culturale, sono messi a
dura prova. Quando dichiarano di identificarsi con le vittime dell’imperialismo
occidentale stanno mentendo a se stessi. Non v’è alcun processo di
immedesimazione in corso, non v’è empatia nelle loro parole e nei loro atti. Se
fosse così andrebbero ad aiutare la gente verso la quale dichiarano di nutrire
una così profonda compassione. Ma non è così. Provano compassione solo per
se stessi, esattamente come gli euroterroristi degli anni Settanta. Sono loro
le vittime della modernità, del sistema, dell’umiliazione dell’Islam. Sono loro
che non sono riusciti ad essere all’altezza delle proprie aspettative ed ora,
per mascherare il proprio egoismo e le ferite interiori, ma anche per
cancellare il senso di personale disfatta, si creano una falsa coscienza. In
questo modo precipitano nell’idolatria, che è prima di tutto idolatria di se
stessi, che nasce dal bisogno di mitizzare il proprio percorso esistenziale,
proiettandolo sullo scenario globale di un immaginario scontro cosmico.
Come tutti i militanti
radicali del passato e del presente, chiedono a Dio ed alla Storia quel che non
hanno saputo ottenere da se stessi. Ma la loro è una battaglia privata, non
collettiva. Le istituzioni religiose e quelle nazionali li hanno delusi,
hanno fallito il loro compito di addomesticare la modernità risacralizzandola,
ri-incantandola, per usare la terminologia weberiana. Per questo il loro
rapporto con Dio è immediato, diretto, la loro religiosità fanatica proprio
perché fondata su basi deboli e strumentali. Sono indifferenti alle grandi
questioni teologiche che potrebbero solo soffocare il loro grande fervore
ideologico. Non cercano una guida spirituale ma un coordinatore, un esperto
di logistica, un’occasione per morire “alla grande”. Anch’essi, o
forse loro più di tutti, esperiscono la vasta crisi delle religioni, quella che
Ratzinger, nel 2004, definiva “lo sgretolarsi del cristianesimo”, che è anche
lo sgretolarsi delle altre due religioni monoteistiche e del buddismo,
dell’induismo e dello scintoismo, ecc. Mentre milioni di fedeli si radunano nei
grandi meeting, sempre meno sono quelli che si ritrovano per pregare nei giorni
designati e quelli che dedicano la loro vita all’apostolato. Questo perché si è
giunti alla dissociazione finale tra cultura di appartenenza ed affiliazione
religiosa, alla dispersione delle comunità tradizionali - fittizie ma in
precedenza universalmente percepite come reali – ed alla ritribalizzazione
della società attorno ai trend della moda ed a nuovi simboli di identificazione
etnica. Nuove comunità immaginate che, condannate fin dalla nascita ad
un’esistenza effimera sotto i colpi dell’apertura delle culture, delle società
e delle menti che rappresenta la globalizzazione, reagiscono con
l’irrigidimento dottrinale, o la violenza, alla loro manifesta gracilità. Lo
jihadismo è una delle espressioni più note di questa ritribalizzazione e
scomparirà nel giro di una generazione, per ricomparire dopo qualche decennio,
quante le condizioni saranno favorevoli alla risurrezione della mistica
dell’”eroismo fondamentalista”. In altre parole i fondamentalismi non sono
reazioni difensive di culture tradizionali sotto assalto, non sono il risultato
di uno scontro di civiltà, perché non esistono civiltà che si possano
scontrare.
La destra pone l’accento
sullo scontro di civiltà. La sinistra, come di consueto (e in certi casi non
senza valide ragioni), punta l’indice contro le sperequazioni sociali. In realtà i rivoltosi non
erano giovani poveri e senza speranza di riscatto ma figli sottoimpiegati di
genitori piccolo-borghesi, non sempre musulmani, che impiegano le tecniche
pedagogiche della generazioni precedenti, contadine, in una società che non sa
cosa farsene. Questi figli ritenevano di poter ambire a qualcosa di più della
carità pulciosa e mortificante di un paese che ufficialmente nega il razzismo
ma nei fatti non può cancellarlo con un tratto di penna. Amano
appassionatamente il proprio paese europeo, al punto da detestarlo quando
questa li rifiuta, come succede negli amori non corrisposti. In realtà, quindi,
i militanti e “potenziali terroristi” sono giovani di buona cultura che si sentono
sradicati, discriminati, esclusi da una società che non è disposta ad
accettarli per quello che sono (non semplice manodopera a basso costo) e cerca
di imporre loro un certo modello di buon cittadino senza nel contempo usare lo
stesso trattamento pedagogico-discriminatorio nei confronti dei non-musulmani.
Di conseguenza questi giovani musulmani frustrati, come i loro omologhi
giapponesi di Aum-Shinrikyo, s’imbarcano nella ricerca di una causa per la
quale lottare, per dare un significato più profondo e saldo alla propria
esistenza. Meglio sarebbe aiutarli a sentirsi integrati e non necessariamente
omologati, costruendo luoghi di apprendimento e di culto, ma anche d’incontro
con la gioventù non musulmana, piuttosto che spingerli tra le braccia di chi ha
interesse a fomentare la violenza interculturale ed interreligiosa.
Se espandiamo gradualmente
questo tipo di prospettiva arriviamo a capire che la loro reazione è per molti
versi analoga a quella di Alex DeLarge, il protagonista di Arancia Meccanica
di Anthony Burgess, che aveva ben compreso come lo Stato era del tutto
indifferente alla sua esistenza, se non nella misura in cui questa non doveva
in alcun modo minare l’armonia sociale. Le autorità rimangono interdette di
fronte al comportamento antisociale di un amante della musica classica, un
tratto generalmente associato ai “cittadini al di sopra di ogni sospetto”: “Hai
una bella casa qui, dei genitori buoni e amorevoli, non hai un cervello da
buttare. C’è un qualche demone che si impadronisce di te?”. Le risposte di
Burgess sono ambigue, equivoche. Ma di Alex DeLarge è pieno anche il mondo
non-islamico. Pensiamo ad esempio ai massacri nei college americani:
Jonesboro, Arkansas; Pearl, Mississippi; Springfield, Oregon; Paducah,
Kentucky; la Columbine High School di Littleton, Colorado; Conyers, Georgia, e
poi Fort Gibson ed il massacro del Virginia Tech, perpetrato dal ventitreenne
Cho Seung-Hui. Più recentemente un giovane finlandese, Pekka-Eric
Auvinen, ha massacrato nove persone nella sua stessa scuola dopo aver
diffuso online un manifesto radical-ecologista nel quale esaltava il pensiero
del controverso e misantropico intellettuale finlandese Pentti Linkola e
dichiarava che il suo credo Social-Darwinista lo spingeva a passare all’azione
a tutela dell’ambiente, sperando di servire da modello per altri ed augurandosi
che “la morte dell’umanità arrivi al più presto”. E poi c’è Breivik. Il numero
di vittime di questi “terroristi fatti in casa” non si avvicina chiaramente a
quello prodotto dai loro “colleghi” islamisti, ma stiamo comunque parlando di
decine e decine di vite innocenti falciate in nome di un disagio esistenziale
personale.
Chi ha analizzato gli
scritti ed i video di questi giovani assassini ha potuto constatare che
l’uccisione di massa dei propri compagni di scuola ed insegnanti ed il
tentativo di distruggere gli istituti da loro frequentati erano motivati dalla
convinzione che quelli, e non altri, fossero i responsabili del proprio
malessere e senso di oppressione. Un ragazzo spiega che ci sono due modi per
diventare famosi a scuola. La via del successo e la via dell’irrisione: “in
pratica avevi paura di essere deriso per tutto quel che facevi perché se facevi
una cosa fuori dell’ordinario, e ci si aspettava che nessuno facesse qualcosa
del genere, avrebbero riso di te, ti avrebbero preso per i fondelli, e non
avresti potuto far parte del gruppo. Così, poi, diventavi un escluso”
(Klein, 2006).
In questo modo si viene a
creare un sistema di sorveglianza benthamiano: un panopticon degno del
Grande Fratello (quello letterario) che vede tutto e controlla tutto,
sanzionando ogni devianza, nel vestire, nel comportamento, nei gusti, nella
forma fisica, nel pensare, e così via. Stabilito un ideale
ipermascolino ed iperfemminino al quale aspirare, tutti gli studenti sono
costretti a misurarsi con esso, rendendosi conto della propria inadeguatezza e
della propria fallibilità (Cook, 2000). Ecco la testimonianza di uno dei
sopravvissuti alla strage di Columbine (15 morti, 23 feriti), riferendosi ai
due omicidi, Dylan Klebold e Eric Harris: “Certo che li prendevamo per il
culo. Ma che cosa altro ti aspetti quando vieni a scuola con certe pettinature
e con delle corna sul cappellino? Non erano solo gli atleti; facevano
schifo all’intera scuola. Sono un branco di froci…Se ti vuoi liberare di
qualcuno, in genere li prendi in giro, così tutta la scuola li chiama froci”
(Gibbs & Roche, 1999, p. 48). In un video registrato la notte prima della
sparatoria, Harris si sfoga dicendo “la gente mi prende costantemente per il
culo per la mia faccia, i miei capelli, le mie camicie”, mentre Klebold
aggiunge “vi ucciderò tutti. Ne ho abbastanza della vostra merda”, dove per
“merda” s’intende il bullismo, l’essere spintonati, chiusi negli armadietti,
il diventare bersaglio dei lazzi e delle ingiurie, dei sassi e delle lattine,
l’essere chiamati froci tutto il tempo. Il risultato è l’aggressività
maschile verso gli altri (eterodiretta) e l’aggressività femminile verso se
stesse (autodiretta, come l’anoressia e la bulimia, l’automutilazione ed i
ferimenti volontari, i tentativi di suicidio, ecc.).
Luke Woodham, di Pearl,
Mississippi, dopo aver ucciso la madre che lo insultava e due studenti della
sua scuola, ferendone altri sette, disse allo psichiatra che lo esaminava che
non era pazzo: “Sono arrabbiato…non sono viziato o pigro; perché l’omicidio
non è debole od ottuso; l’omicidio è cazzuto ed audace. Ho ucciso perché la
gente come me viene maltrattata ogni giorno” (Chua-Eoan, 1997, p. 54).
Così,
paradossalmente, anche un atto di protesta estrema come la violenza
indiscriminata – così “virile” e totalitaria – serve solo a rinforzare il
sistema di oppressione, ribadendo la naturalezza e correttezza degli standard
di normalità imposti dalla società. Nessuna ragazza è finora entrata nella sua
classe con delle pistole sparando all’impazzata e l’automutilazione maschile è
piuttosto rara. Così non è un caso che molti studenti coinvolti nelle
sparatorie abbiano scelto di farsi giustizia da soli dopo essere stati
rifiutati da una ragazza: la loro mascolinità era stata messa in dubbio ed i
ragazzi erano a rischio di essere accusati di inadeguatezza sessuale o di
omosessualità latente.
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