sabato 5 novembre 2011

Israele, l'atomica e l'apartheid sudafricano



"Fratelli d'armi": il patto segreto di Israele con il Sud Africa dell'apartheid
DI CHRIS McGREAL
The Guardian
Nel corso della seconda guerra mondiale, colui che stava per diventare il Primo ministro del Sud Africa dell’apartheid, John Vorster, fu arrestato dalle autorità britanniche per le sue attività in favore della Germania nazista. Ma trent’anni dopo, quell’uomo sarà accolto in pompa magna a Gerusalemme. Il giornalista del Guardian Chris McGreal, che ha svolto una grande parte della sua carriera tanto nel Sud Africa quanto nell’area israelo-palestinese, sta per pubblicare una lunga inchiesta sull’alleanza militare clandestina tra Israele ed il regime dell’apartheid, che trova il suo coronamento con lo sviluppo, in comune, dell’arma nucleare.
Qualche anno fa, a Johannesbourg, incontrai una donna ebrea, della quale la madre e la sorella erano state assassinate ad Auschwitz. Poco dopo venne il suo turno di entrare nella camera a gas. Ma avvenne un miracolo, e la decisione di mandare a morte il gruppo dei condannati, di cui faceva parte Vera Reitzer, fu annullato all’ultimo momento. Vera Reitzer sopravvisse all’inferno di Auschwitz, si sposò poco dopo la guerra ed emigrò in Sud Africa.
All’inizio degli anni ‘50 aderì al Partito Nazionale (PN) che aveva appena vinto le elezioni (riservate alla popolazione bianca, Ndr) su una base apertamente razzista e segregazionista. Fu in quel momento che il Primo Ministro del PN, Malan, introdusse al Parlamento una nuova legislazione, che richiamava prepotentemente le leggi di Norimberga adottate da Hitler contro gli ebrei: la «Legge portante del censimento della popolazione» di Malan classificava i sudafricani secondo la loro razza, proibiva il matrimonio e le relazioni sessuali tra popolazioni di diverso colore, e impediva ai neri l’accesso a molte professioni.
Vera Reitzer non volle tuttavia contraddire il fatto che ella stessa, sopravvissuta al genocidio, potesse aderire ad un sistema che richiamava, nella filosofia di base se non nell’ampiezza dei suoi crimini, ciò al quale ella era riuscita a sopravvivere. All’epoca, ella pensava che l’apartheid era una necessità, tanto per prevenire la dominazione da parte dei neri, che per arginare il comunismo, che trionfava nello stesso momento nel suo paese d’origine, la Yugoslavia. La Reitzer dichiara oggi la sua convinzione che gli africani fossero inferiori agli altri esseri umani, e che di conseguenza non dovessero essere trattati allo stesso modo. Io le feci osservare che Hitler diceva la stessa cosa di lei in quanto ebrea. Ella mi chiese allora di porre fine alla conversazione.
La Reitzer non era un caso isolato in quella comunità ebraica del Sud Africa, della quale molti membri manifestavano entusiasmo per l’apartheid e la loro personale appartenenza al Partito Nazionale. Del resto, ella era una rappresentante in vista della comunità, impegnata nell’Associazione dei Sopravvissuti dell’Olocausto, mentre gli ebrei che militavano contro il sistema dell’apartheid al contrario erano frequentemente denunciati dalla loro stessa comunità.
Numerosi israeliani respingono con orrore l’idea che il loro paese, nato sulle ceneri del genocidio e che si è costruito sugli ideali del giudaismo, possa essere comparato ad un regime razzista. Pertanto, durante gli anni, la maggioranza degli ebrei sudafricani, non solamente non hanno lottato contro il sistema dell’apartheid, ma al contrario hanno prosperato sotto la sua ala protettrice, anche se qualche membro di quella comunità ha occupato un posto di rilievo nei movimenti di liberazione. Al contempo, gli stessi governi israeliani hanno sottovalutato le critiche ad un regime i cui dirigenti, precedentemente, avevano manifestato ammirazione per Adolf Hitler. Per trent’anni, la celebre «purezza dei soldati» - il termine usato da Israele per vantare la superorità morale dei suoi soldati - fu segretamente sacrificata, poiché l’avvenire dello Stato di Israele si stava intrecciando strettamente con quello del Sud Africa tanto che i livelli dirigenziali della difesa israeliana finirono per convincersi che la relazione con il Sud Africa fosse vitale per il loro stesso paese.

L’antisemitismo Afrikaner
(Nota del traduttore: la storia coloniale del Sud Africa si è sviluppata in più tappe. Nel XVII secolo, la conquista del paese comincia con l’arrivo dei coloni di origine olandese, che si definivano appunto «Afrikaner», e parlavano una lingua molto simile all’olandese, l’Afrikaans. Ma l’Impero britannico penetrò a sua volta nel paese. Entrò in competizione con i primi colonizzatori, gli Afrikaner. Ne scaturirà una guerra tra le due forze, la guerra dei «Boeri» (1899-1902, Boero in olandese significa paesano, la colonizzazione era stata prima di tutto rurale, prima lo sviluppo delle risorse minerarie e industriali del paese con una mano d’opera nera privata di ogni diritto. Dopo il 1902 e la disfatta degli Afrikaner, il Sud Africa entrò nella sfera dell’Impero britannico, senza che ciò mettesse fine alle volontà «indipendentiste» - per modo di dire, essendo la maggioranza nera condannata ad uno sfruttamento ancora più feroce – dagli Afrikaner che facevano parte della popolazione bianca. Nel 1948, il PN Afrikaner vince le elezioni com’era previsto, realizza il regime dell’apartheid, e rompe ufficialmente gli ultimi legami con l’Impero britannico nel 1961).
Obiettivo dell’apartheid era l’introduzione della segregazione in tutti i livelli di vita e della società, dal lavoro alle camere da letto, anche se i bianchi dipendevano dai neri, sia come mano d’opera che nei servizi domestici. La segregazione prese in seguito l’appellativo di «sviluppo separato» e si crearono i «bantustan», cinque aree nominalmente indipendenti, dove si ammucchiavano milioni di neri sotto la sferza di potentati locali, al soldo dei dirigenti (bianchi) di Pretoria, la capitale.
Allorché il PN prese il potere per la prima volta a Pretoria, nel 1948, i sudafricani ebrei – dei quali la maggior parte era arrivata alla fine del XIX secolo, fuggendo dai pogrom dell’Impero zarista in Lituania e in Lettonia soprattutto – avevano qualche problema di cui preoccuparsi. Una decina d’anni prima di prendere i comandi del governo, cioè nel 1937, Malan dirigeva in effetti l’opposizione all’accoglienza degli ebrei tedeschi cacciati che stavano per essere ammessi in Sud Africa. «Si dice che io me la prenda con gli ebrei in quanto ebrei. Ebbene, permettetemi di dirvi che questo è perfettamente esatto», si vantava così Malan davanti al Parlamento sudafricano nel 1937.
I pregiudizi antisemiti nella popolazione Afrikaner si erano sviluppati dopo il successo economico ottenuto dagli ebrei a partire dal 1860, consecutivamente alla corsa verso le miniere di diamanti di Kimberly. All’inizio del XX secolo, un inviato speciale del giornale The Manchester Guardian, chiamato JA Hobson, raccontava per esempio che la guerra dei Boeri era sentita, sul posto, come una guerra condotta nell’interesse «di un piccolo gruppo di finanziatori stranieri, principalmente di origine tedesca e di razza ebraica». Cinquantanni dopo, Malan ed i suoi uomini erano sempre convinti di queste teorie di complotti. Hendrik Verwoerd, direttore di un giornale violentemente antisemita, Die Transvaler, e futuro autore di un progetto di «Grande apartheid», accusava gli ebrei di controllare l’economia. Prima della seconda guerra mondiale, una confraternita segreta Afrikaner, la Broederbond – della quale Malan e Verwoerd erano membri - entra in relazione con i nazisti. Un altro membro della Broederbond e futuro Primo Ministro, John Vorster, fu incarcerato durante la seconda guerra mondiale (quando il Sud Africa era ancora dominato dalla Gran Bretagna), per i suoi legami con i nazisti, e con la milizia fascista locale delle «Camicie Grigie».
Don Krausz, che presiede oggi l’Associazione dei Sopravvissuti all’Olocausto, è arrivato in Sud Africa nel 1946, dopo essere passato attraverso i campi di concentramento di Ravensbrück e Sachsenhausen, ed ha perso gran parte della sua famiglia durante il genocidio. «I nazionalisti avevano un programma elettorale fortemente antisemita nel 1948. La stampa Afrikaans era scelleratamente anti-ebraica, la si poteva paragonare a ciò che era lo Stürmer nella Germania di Hitler. Quando si era ebreo, all’epoca, si aveva paura dell’Afrikaner. Mia moglie è originaria di Potchefstroom, in quella che era allora la provincia più Afrikaner del Transvaal. Ogni volta che un ebreo arrivava nella località, poteva essere sicuro di avere dei fastidi con le Camicie Grigie. Non c’è alcun dubbio che nelle città e località a predominanza Afrikaner, gli ebrei erano tormentati. Ecco chi erano i tipi saliti al potere nel 1948 ... Si temeva il peggio », ricorda Don Krausz.
Helen Suzman, laica di origine ebraica, fu per lungo tempo la sola voce anti-apartheid al parlamento sud-africano. Racconta «Gli ebrei non paventavano una replica del genocidio, ma temevano l’adozione di leggi razziali tipo Norimberga, per esempio leggi che avrebbero impedito loro l’esercizio delle rispettive professioni. Il nuovo governo aveva previsto l’accentuazione della segregazione razziale, e gli ebrei si domandavano quale sarebbe stata la loro sorte in particolare».
La paura fu tuttavia di breve durata perché, se il governo adottò effettivamente delle dure leggi razziali, gli ebrei ne furono esonerati. Il governo dell’apartheid, fondato sulla supremazia bianca, doveva tenere conto delle realtà demografiche, e considerava che non poteva permettersi il lusso di privarsi di una parte della popolazione bianca, benché ebrea. Nello spazio di qualche anno, molti ebrei giunsero alla condizione nella quale non solamente essi non avevano più paura, ma avevano trovato sicurezza ed un incarico nel nuovo sistema. Vi furono anche quelli che vi trovarono un parallelo tra questo rinnovamento del nazionalismo Afrikaner ed il rinnovamento ebraico incarnato da Israele.
Molti Afrikaners consideravano che la vittoria elettorale del Partito Nazionalista li liberasse dal detestato ordine britannico. I campi di concentramento creati dai britannici, durante la guerra dei Boeri per rinchiudervi gli Afrikaners ribelli, non potevano certo essere paragonati a quelli dove i nazisti mettevano gli ebrei, ma la morte di 25.000 donne e bambini, per fame e malattie, aveva lasciato tracce profonde nella memoria Afrikaner, una memoria analoga a quella del genocidio, sulla quale Israele ha costruito la sua identità. Lo stesso regime Afrikaner, cavalcò l’idea che gli Afrikaners dovessero difendere i loro interessi, o affrontare l’annientamento.
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E poi c’era Dio. La Chiesa Riformata Olandese andava cercando giustificazioni all’apartheid nell’antico testamento e nella storia Afrikaner, affermando che la vittoria, già antica, degli Afrikaners sul popolo Zulù nella battaglia di Blood River era un segno che l’Onnipotente era dalla parte dell’uomo bianco.
«Gli israeliani dicono di essere il popolo eletto, scelto da Dio, e trovano una giustificazione biblica al loro razzismo ed al loro esclusivismo sionista», dice Ronnie Kasrils, ministro delle informazioni del nuovo Sud Africa, post-apartheid. Ronnie Kasrils, che è ebreo, ha lanciato una petizione diretta agli ebrei del Sud Africa, chiedendo loro di protestare anche loro contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi.
«C’è una similitudine con gli Afrikaners dell’epoca dell’apartheid; essi stessi facevano un discorso biblico, nel quale la terra era la loro, perché Dio l’aveva donata a loro. Tutto come i sionisti i quali raccontavano che la Palestina negli anni ‘40 era una terra senza popolo per un popolo senza terra, i coloni Afrikaners diffondevano il mito secondo il quale non c’era popolo nero in Sud africa quando essi cominciarono ad arrivare nel XVII secolo. In realtà, essi hanno conquistato con la forza delle armi, del terrore, ed hanno sferrato una serie di guerre coloniali sanguinose», prosegue Kasrils.
L’antisemitismo non è mai scomparso, ma dopo qualche anno di potere del PN, un certo numero di ebrei del Sud Africa si sentiva davvero sullo stesso livello degli altri bianchi. «Si era bianchi, ed anche se l’Afrikaner non era nostro amico, era tuttavia un bianco anche lui», riconosceva Krausz. «Ciò che ci univa era il timore dei neri. Quando io sono arrivato nel 1946, gli ebrei non smettevano di dire “i neri qui, i neri la”. Io dicevo loro “sapete, ho sentito i nazisti dire e fare agli ebrei esattamente la stessa cosa che voi dite dei neri. Qui ci sono dei cartelli con la scritta «Riservato ai bianchi», ebbene là, in Germania, c’erano cartelli «Interdetto agli ebrei».
Ma nel corso dei decenni, la Federazione Sionista ed il Jewish Board of Deputies (equivalente sud-africano del CRIF, NDR) ha tenuto in grande stima uno dei suoi notabili, Percy Yutar, il procuratore che aveva pronunciato la requisitoria contro Nelson Mandela, accusandolo di sabotaggio e cospirazione, e che fece poi condannare alla reclusione perpetua nel 1964! Yutar svolse, in seguito, una bella carriera sotto il regime dell’apartheid: procuratore generale dello Stato «libero» d’Orange, poi della provincia del Transvaal, e fu pure eletto presidente della più grande sinagoga ortodossa di Johannesburg. Nell’establishment ebraico del paese, si lodava volentieri «il suo apporto alla comunità», è un simbolo del contributo degli ebrei allo sviluppo del Sud Africa.
«Pertanto, in termini d’immagine, quando si pensa agli ebrei, si pensa piuttosto ad Helen Suzman», secondo Alon Liel, ex ambasciatore d’Israele in Sud Africa. «A mio avviso, la maggioranza degli ebrei non amava l’apartheid e ciò che quel sistema imponeva ai neri, ma essi ne raccoglievano i frutti, e forse si consolavano dicendo che dopotutto, era la sola maniera di dirigere un tale paese», aggiunge.
L’establishment ebraico ha evitato tutti i confronti con il governo. La dottrina ufficiale del Jewish Board of Deputies era la «neutralità», in modo di «non mettere in pericolo» la comunità. Quanto agli ebrei che pensavano che tacere significasse approvare l’apharteid e l’oppressione razziale, e che si impegnavano nella lotta contro la discriminazione, venivano messi in disparte.
«Li si stigmatizzava fortemente, e li si accusava di porre in pericolo la comunità. Il Board of Deputies diceva che ogni ebreo avrebbe potuto aderire al partito politico di sua scelta, ma doveva soppesare tutte le conseguenze che la sua scelta avrebbe avuto per la comunità. Per farla breve, diciamo che gli ebrei appartenevano alla minoranza bianca privilegiata, e l’attitudine della maggioranza è stata: di non fare nulla», riassume Helen Suzman.

Gli interessi comuni
Lo Stato d’Israele, dal canto suo, criticò apertamente l’apartheid negli anni ‘50 e ‘60, in un’epoca durante la quale si costruivano alleanze con i governi dei paesi africani di nuova indipendenza. Ma la maggior parte degli Stati dell’Africa ruppe con Israele dopo la guerra del Kippur del 1973, e Gerusalemme cominciò ad essere più disponibile verso il regime isolato di Pretoria. L’evoluzione fu importante e rapida tanto che dal 1976, Israele mandò un invito ufficiale al Primo ministro John Vorster (l’ex Nazi di cui si è parlato più sopra, NDR)
Silenzioso sul comportamento di Vorster durante la seconda guerra mondiale, Yitzhak Rabin sorvegliò che non se ne parlasse soprattutto durante la visita obbligata al memorial di Yad Vashem, dedicato ai 6 milioni di ebrei massacrati dai nazisti. Durante il brindisi del pranzo di Stato offerto a Vorster, Yitzahak Rabin disse «agli ideali comuni di Israele e del Sud Africa: la speranza nella giustizia, e in una coesistenza pacifica». I due paesi, disse ancora Rabin «affrontano brutalità e instabilità ispirata dall’esterno».
Vorster, il cui esercito aveva invaso, in quel periodo, l’Angola, rispose che i due paesi erano entrambi vittime di avversari della civilizzazione occidentale. Qualche mese dopo, il governo sud-africano. Nel suo bilancio di fine anno, scriveva che i due paesi avevano lo stesso problema: «Israele ed il Sud Africa hanno una cosa essenziale in comune: sono entrambi situati in un circondario ostile, abitato da popoli dalla pelle scura».
La visita di Vorster gettò le basi di una collaborazione che fece dell’asse Israele-Sud Africa un grande polo di sviluppo di attrezzature militari, e uno dei maggiori attori nell’ambito del commercio internazionale di armi. Liel, che dirigeva il dipartimento Sud Africa al ministero israeliano degli Affari Esteri negli anni ‘80, stima che quel processo condusse l’alta direzione israeliana in materia di sicurezza, all’intima convinzione che lo Stato israeliano non sarebbe sopravvissuto senza la relazione con gli Afrikaners.
«Siamo stati noi a creare l’industria militare sud-africane», stima Liel. «Essi ci hanno aiutato a sviluppare una vasta gamma di tecniche militari, perché essi avevano molti soldi. Il nostro modo di lavorare abituale era che noi apportavamo il know-how, ed essi il capitale. Dopo il 1976, c’è una vera storia d’amore iniziata tra i nostri dirigenti militari e le rispettive forze armate».
«Noi siamo stati implicati nella guerra dell’Angola, come consiglieri dell’esercito sudafricano. Avevamo ufficiali israeliani sul posto. La relazione era molto stretta».
Mentre le industrie dello Stato israeliane producevano materiali di guerra per il Sud Africa, il kibbutz Beit Alfa si diversificava in modo redditizio, producendo veicoli antisommossa, destinati alla repressione dei manifestanti neri nelle bidonville (NDT: è precisamente durante il 1976 che il movimento di liberazione del popolo nero emergerà nelle città, con il sollevamento del ghetto di Soweto, represso nel sangue)

Verso il nucleare
Il segreto meglio custodito era quello nucleare. ISRAELE FORNÌ ESPERIENZE E TECNOLOGIE CHE FURONO CRUCIALI PER LO SVILUPPO DELLA BOMBA ATOMICA SUDAFRICANA. Israele aveva già sufficienti difficoltà a giustificare tutte le sue strette relazioni con un regime fondato sulla discriminazione razziale, per non volere che la sua collaborazione militare fosse resa nota pubblicamente.
«Tutto ciò di cui parliamo oggi era totalmente segreto», prosegue Liel. «Fra i dirigenti degli affari della difesa, le persone messe al corrente erano molto poche. Ma alcuni Primi ministri ne hanno fatto parte, perciò si può dire che alcuni come Shimon Peres o Rabin ne erano evidentemente al corrente».
«Al tavolo delle Nazioni Unite ripetevamo: come popolo ebraico che ha subìto il genocidio, noi siamo contro l’apartheid, è intollerabile. Ma nella pratica, la collaborazione a livello militare continuava», continua Liel.
A livello politico anche. I gemellaggi tra le città dei due paesi si sviluppavano e, tra i paesi occidentali, Israele fu il solo a riconoscere la creazione, da parte del Sud Africa, il bantustan del Bophuthatswana, ed a permettergli di aprire una «ambasciata».
Negli anni ‘80, Israele ed il Sud Africa si aiutavano vicendevolmente per giustificare i loro rispettivi domini sugli altri popoli. L’uno e l’altro raccontavano che le loro stesse popolazioni erano minacciate di annientamento da forze esterne – in Sud Africa, dai governi neri del continente e dal comunismo; in Israele, dagli Stati arabi e dall’islam. Tutto ciò non impedì né all’uno né all’altro di conoscere sollevazioni popolari: (Soweto nel 1976, l’intifada palestinese nel 1987) che erano locali e spontanee, e cambiarono radicalmente la fisionomia dei due conflitti.
«Noi riconosciamo bene, in quanto sudafricani, nella lotta dei palestinesi, la lotta per l’auto-determinazione ed i diritti umani», ci disse l’attuale ministro Ronnie Kastrils. «Coloro che hanno subìto la repressione sono accusati di essere terroristi, allo scopo di trovare giustificazioni a violazioni ancora più grandi dei loro diritti. Si arriva a questi discorsi folli dove le vittime sono biasimate per la violenza esercitata contro di esse. Il regime dell’apartheid e Israele sono esempi sorprendenti di stati terroristi che accusano le loro stesse vittime».
C’è tuttavia un’importante differenza tra i due. Israele ha condotto tre guerre per la sua sopravvivenza, e la lotta armata in Sud Africa non è mai evoluta verso strategie di assassinio né ad una escalation di morti come si è vista da parte di taluni gruppi palestinesi in questi ultimi anni. Ma, nel decennio ‘80, la superiorità militare schiacciante d’Israele, l’abbassamento del livello della minaccia che potevano esercitare i suoi vicini, ed il trasferimento del conflitto verso i villaggi palestinesi hanno alterato la simpatia di cui aveva beneficiato, altre volte, Israele nel mondo.
Il Sud Africa, come Israele, si definiva come un’enclave della civilizzazione democratica, agli avamposti per la difesa dei valori del mondo occidentale. Ma essi hanno spesso domandato di essere giudicati attraverso il paragone con i loro stessi nemici, affermando che la loro missione era precisamente quella di proteggere il mondo libero dall’invasione da questi ultimi.
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Allorché la pressione internazionale cominciò a farsi sentire sul dossier dell’apartheid, e che anche Israele di conseguenza iniziò ad operare verso un ritiro, la prima reazione dei militari israeliani fu il rifiuto, indica Liel. «Verso il 1986-87 si arrivò ad incrociare i cammini. Quando però il ministero degli Affari esteri fece sapere che era tempo di dare una svolta, e di sostenere ormai i neri e non più i bianchi, l’establishment della sicurezza urlò: “voi siete completamente folli, è un suicidio”, racconta l’ex diplomatico israeliano. I militari ci dicevano che non ci sarebbero state industrie militari né aeronautiche se non si avesse avuto il Sud Africa come primo cliente dalla metà degli anni ‘70; i sudafricani avevano salvato Israele, dicevano. Devo dire che questo probabilmente è vero», continuò Liel.

Dimenticare il passato
Shimon Peres era il ministro israeliano della Difesa al tempo della visita di Vorster, e due volte Primo ministro durante gli anni ‘80, al picco della collaborazione con il regime dell’apartheid. Di fronte a noi, riusciva a sovvertire le questioni sulla morale di tali vincoli con Pretoria. «Io non guardo mai in dietro. Dal momento che non si può cambiare il passato, perché dovrei occuparmene?», ci rispondeva.
Quando noi insistiamo e gli domandiamo se ha mai avuto dubbi sul fatto di sostenere un regime che rappresenta l’antitesi di ciò per cui Israele era stato creato, Peres ci risponde che all’epoca, Israele portava avanti una lotta esistenziale. «Non si ha mai la scelta tra due situazioni perfettamente definite. Ogni scelta che si fa è tra due opzioni imperfette. All’epoca, i movimenti neri del Sud Africa erano vicini ad Arafat, contro di noi. In effetti, noi non avevamo veramente scelta. Ma noi non abbiamo mai cessato di denunciare l’apartheid. Nessuno è mai stato d’accordo», conclude Peres.
E Vorster ? « Certo, io non lo metterei sulla lista degli uomini più grandi della nostra epoca», dice.
Il direttore generale aggiunto del ministero israeliano degli Affari esteri, Gideon Meir, dopo averci detto che lui non aveva alcuna conoscenza dettagliata della relazione israelo-sudafricana dell’apartheid, preferisce parlare di «sicurezza». «Il nostro principale problema, è la sicurezza. Non c’è nessun altro paese al mondo la cui esistenza sia così minacciata. Ciò vale dal primo giorno dell’esistenza del nostro stato fino ad oggi. Tutto questo dipende dalla geopolitica di Israele».
Quando l’apartheid sprofondò, l’establishment ebraico-sudafricano, quello stesso che poco prima incensava Percy Yutar – il magistrato che spedì Nelson Mandela in prigione – operò una brusca virata, e tese dimostrativamente le braccia a quegli ebrei che avevano ingaggiato la lotta contro l’apartheid, come Joe Slovo, Ronnie Kastrils ou Ruth First.
«Ho ricevuto i complimenti da parte di organizzazioni sioniste internazionali. Dicevano che erano le mie radici giudaiche che avevano dato un senso alla mia lotta. Ma quando ricordai loro di non aver ricevuto un’educazione ebraica, e che la frequentazione di una scuola religiosa cristiana non mi aveva affatto influenzato, essi dissero che era stato l’istinto ebraico ad operare in me!»
Oggi il discorso anti-apartheid, nell’establishment ebraico-sudafricano, è diventato un mezzo per difendere Israele. Il grande rabbino del Sud Africa, Warren Goldstein, descrive il sionismo come «movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico», e recupera la terminologia ufficiale dell’attuale governo del Sud Africa, che vuole migliorare le sorti dei neri «precedentemente svantaggiati». «Israele è uno Stato risoluto, creato per proteggere gli ebrei dal genocidio. Anche noi siamo un popolo precedentemente svantaggiato, e non si può contare sulla benevolenza del mondo», dichiara Goldstein, che ha declinato la nostra richiesta di intervistarlo.
Nel 2004, Ronnie Kasrils si era recato nei territori palestinesi, per fare il bilancio dell’offensiva israeliana del 2002 in Cisgiordania, dopo un’ondata di attentati suicidi che aveva fatto centinai di morti. «E’ ben peggiore dell’apartheid», ci disse. «Le misure israeliane, la loro brutalità, fanno sembrare l’apartheid un giochetto da ragazzi. Non ci sono stati da noi dei jet che attaccavano le bidonvilles. Noi non abbiamo avuto accerchiamenti ripetuti ogni mese. Neanche carri armati che distruggevano le case. Il Sud Africa aveva molti veicoli blindati, e la polizia utilizzava le armi leggere per sparare sulla gente, ma mai a questi livelli», è la sua analisi.
(…)
Ma il conflitto può anche peggiorare, e portarci ad evocare paralleli ancora più scioccanti di quello stabilito con l’apartheid sudafricana.
Arnon Soffer ha lavorato molti anni come consigliere del governo incaricato della «minaccia demografica» costituita dagli arabi. Professore di geografia all’Università di Haifa, Soffer fa un pronostico pessimista sulla situazione nella striscia di Gaza una generazione dopo il ritiro israeliano.
«Quando voi avrete 2,5 milioni di persone che vivono nei territori chiusi, sarà una catastrofe umanitaria. Queste persone diventeranno animali ancora più feroci di oggi, con la forza della follia del fondamentalismo islamico. La pressione alle frontiere diventerà orribile. Ci sarà una guerra terribile. Allora se noi vogliamo rimanere vivi, bisognerà uccidere, uccidere e ancora uccidere. Uccidere tutta la giornata, tutti i giorni», dichiara questo accademico sul Jerusalem Post.
«Se non uccidiamo, cesseremo di esistere. La sola cosa che mi preoccupa, è come si farà affinché giovani e uomini inviati per massacrare siano capaci di ritornare a casa e di rimanere degli esseri umani normali».
Fonte: http://www.guardian.co.uk/
Link: http://www.guardian.co.uk/israel/Story/0,,1704037,00.html
Chris McGreal – The Guardian
07.02.2006
Traduzione per www.comedonchsiciotte.org a cura di MARIA VITTORIA GAZZOLA

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