lunedì 24 ottobre 2011

La Maschera del Potere e l’Apocalisse - Sulle orme di Eric R. Wolf






[contributo per SM annali di San Michele 24/2011 “Carnival King of Europe / Carnevale Re d’Europa. Potere, ritualità e i popoli senza storia. Giornate di studio in onore di Eric R. Wolf (1923–1999), nel decennale della scomparsa”]



L’odiosa maschera è caduta, resta l’uomo, senza scettro, libero, senza limiti, uomo soltanto, uguale, senza classi, senza stirpe o nazione, libero da timori, venerazioni, titoli,

sovrano di se stesso, giusto, mite, saggio

Percy Bysshe Shelley



Abstract

La maschera può essere usata per incutere timore (allo stadio) o per non venire riconosciuti (Zorro), copre deformità (Vanilla Sky), protegge dai demoni, permette di combattere la balbuzie, potenzia e sottolinea gli attributi delle persone che la indossano, serve nelle feste di paese come elemento aggregante, per fondere la sfera umana e quella spirituale e per eseguire certi rituali in cui è necessaria una personificazione del divino, la metamorfosi dell’indossatore e la successiva epifania. Sono funzioni innocue o positive. In questa sede sono più interessato a prendere in esame quelle negative, che sono strettamente connesse alla manipolazione del linguaggio ed alla relativizzazione della morale. Ritengo infatti che l’antropologo sia, per professione e per «forma mentis», idealmente collocato per palesare la realtà dietro i travestimenti, le forme sconcertanti, le fantasie mimetiche, le metamorfosi del potere. Seguendo l’esempio di Eric R. Wolf, l’antropologo può braccare la dissimulazione del potere, smascherare i falsi paradigmi che consentono ai potenti di travestire da legittimi imperativi i loro istinti irrefrenabili, scelleratezze e trasgressioni. La pratica dell’antropologia può disoccultare il potere e questo è un compito reso più facile dal fatto che la cifra del potere è quella della dismisura. È altresì un compito imprescindibile, dato che «la libertà illimitata del desiderio è la negazione dell’altro» (Albert Camus).



Viviamo in un mondo dominato dalla dissimulazione, dal rifacimento artefatto, da una mascherata perbenista, reazionaria e consolatoria che, a volte, cela un abisso di putredine (pedofilia, commercio d’armi, omicidi eccellenti, collusioni mafiose, speculazioni ai danni dei piccoli investitori, guerre «giuste», violenze domestiche, propaganda, truffe e raggiri di massa, ecc.). Non è più facile distinguere vero, verosimile e menzognero, l’invenzione dalla realtà, l’allucinazione paranoica e dietrologica dalle autentiche trame, collusioni e congiure del silenzio. Forse non lo è mai stato, sin dai tempi della tentazione edenica e della caduta, un motivo mitologico che, c’insegna l’etnografia, incontriamo, in forme diverse, ad ogni latitudine (come quello del diluvio). Il serpente – che in altre tradizioni assume le sembianze di animali totemici differenti (per esempio la volpe Inari in Giappone) – rassicura l’umanità: non è il nemico dell’uomo ma colui il quale ha reso divina l’umanità insegnando all’uomo a distinguere il bene dal male, ad essere libero. Il tema della vantaggiosità della caduta è presente nella gnosi, nella costellazione di mitemi che circonda la figura di Prometeo e di altri eroi culturali indigeni americani, ma anche nel satanismo e nell’occultismo.

Quest’ambiguità fondamentale alla radice della civiltà umana non è un dettaglio antropologico di poco conto. È altrettanto significativo che l’idea di illusorietà ingannevole della realtà, imitazione o mimesi della vera natura, che i nostri sensi fallaci non possono percepire, informi sia il mito platonico della caverna sia quello, contemporaneo, della trilogia di Matrix. Stando così le cose, è comprensibile che la tradizione cristiana prolunghi la condizione di mascheramento mendace del vero fino alla Rivelazione. L’Apocalisse, da apó (separazione) e kalýptein (nascosto), il venir meno della maschera, è l’evento che decreta la fine della civiltà umana e la trasfigurazione dell’umano stesso. Ancora una volta, come all’inizio, è in ballo la determinazione del vero, in un contesto caratterizzato dall’inganno e dalla dissimulazione sistematici. Cito dalla Didaché (o Dottrina degli Apostoli, I secolo a. C.), che offre un’efficace sintesi della questione:

«Negli ultimi giorni si moltiplicheranno i falsi profeti e i corruttori, e le pecore si muteranno in lupi, e la carità si muterà in odio; finché, crescendo l’iniquità, si odieranno l’un l’altro, si perseguiteranno e si tradiranno, e allora il seduttore del mondo apparirà come figlio di Dio e opererà miracoli e prodigi, e la terra sarà consegnata nelle sue mani, e compirà iniquità quali non avvennero mai dal principio del tempo. E allora la stirpe degli uomini andrà verso il fuoco della prova, e molti saranno scandalizzati e periranno; ma coloro che avranno perseverato nella loro fede saranno salvati da quel giudizio di maledizione»[1].

I Vangeli chiedono ai credenti di aderire alla realtà vera, di vivere la verità, a dispetto delle apparenze contraddittorie, anche se ciò dovesse costare la morte, con l’approssimarsi del tempo in cui Dio sarà adorato in spirito e verità.

Per i non-credenti, la ricerca del discernimento del vero dal falso in una società della finzione segue altre vie. Per l’anarchismo classico una persona è forte solo quando si erge sulla propria verità, quando parla e agisce a partire dalle proprie convinzioni. Allora, in qualunque condizione si trovi, saprà sempre ciò che va fatto e detto. Potrà cadere, ma non disonorerà se stesso e le sue cause. Per l’esistenzialista Albert Camus la verità non si trova nella separazione, ma nell’unione, nella solidarietà metafisica ed universale generata nell’istante della rivolta: «Mi ribello, dunque siamo». Platone punta sull’Anamnesis, l’opera­zione attraverso cui l’anima si ricorda della verità, nascosta dall’oblio al momento dell’incarnazione. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, una delle più nobili creazioni dello spirito e dell’intelletto umano, si fonda sulla premessa dell’esistenza di una verità primordiale della nostra natura alla base dell’etica e del diritto, un nucleo di verità non negoziabili, non in vendita, a nessun prezzo, che è stato definito consensualmente dai popoli del mondo, attraverso i loro rappresentanti. La Costituzione della Repubblica Italiana ha la stessa pretesa.

Eppure la ricerca della verità, il fine ultimo di qualunque disciplina che ami ritenersi una scienza, inclusa l’antropologia, sembra rimanere un’utopia. È più plausibile ritenere che, per la maggior parte del tempo, gli esseri umani non siano strutturalmente capaci di pensare in modo obiettivo, ma solo per approssimazione, mentre la pace, la giustizia, la libertà e l’autentica felicità richiedono equanimità ed obiettività. Ciò nonostante il nostro compito, come cittadini e come antropologi, è intuitivamente quello di essere fedeli ai noi stessi ed ai nostri ideali, alla nostra verità interiore, senza tradire se stessi, come fa chi emula il travicello o il giunco che si piega nella direzione di qualunque refolo. Intuitivamente, ci sembra giusto dare ragione a R.W. Emerson quando dichiara: «Per cosa è nato l’uomo se non per essere un riformatore, un rimodellatore di ciò che è stato fatto; un rinunciatore delle menzogne; un restauratore della verità e del bene?»[2].
Ma pure i fanatici si credono restauratori della verità, del bene e della giustizia. Persino chi si limita a testimoniare la propria verità in modo del tutto pacifico, chi la esprime chiaramente, distintamente, pubblicamente, anche se è in contrasto con quella di chi lo circonda, non passa certo per una persona assennata, ma semmai per un fazioso, un esagitato. Questo è forse il risultato della cosiddetta «dittatura del politicamente corretto», uno strumento nato per tutelare i deboli e che ora serve soprattutto a limitare la libertà d’espressione delle verità altrui. George Orwell aveva intuito una possibile destinazione di questo percorso: la scissione dell’intelligenza, la paralisi della volontà, l’automo­nitoraggio del pensiero, la stupidità protettiva che ci induce a bloccare il ragionamento prima che partorisca un pensiero impuro o pericoloso che ci fa credere che stiamo dicendo il vero anche quando mentiamo, che due proposizioni antitetiche possono essere vere contemporaneamente, che la logica può negare se stessa e la versione ufficiale nega il dato reale e la memoria dell’esperienza diretta.

«Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi». Lo scenario peggiore è l’instau­razione di una società psico-patogenica, in cui persone psicologicamente sane sono indotte a comportarsi come degli psicopatici, cioè come se avessero un deficit di empatia e di coscienza, a manipolare con successo se stessi e gli altri. Una società dell’offuscamento mentale, dell’intorpidimento psico-sociale, dove le menzogne psicopatiche e le verità artatamente incomplete ipnotizzano, producono allucinazioni più realistiche del reale, mesmerizzano, narcotizzano, seducono ed allettano. Una società dominata da dogmi, riflessi condizionati e da una comprensione superficiale delle conseguenze dei propri atti, dove ci si immagina di poterla sempre fare franca, sopravvalutando se stessi e sottovalutando gli altri. Un muro di auto-inganni si frappone tra noi e la verità, sostenuto dalla cosiddetta «Sindrome di Tolstoj», così ribattezzata perché il grande scrittore russo l’aveva descritta molto accuratamente nel suo Che cos’è l’arte?, del 1897:

«So che la maggior parte degli uomini, compresi coloro che hanno dimestichezza con problemi della massima complessità, accettano raramente la verità più semplice e ovvia, se questa li costringe ad ammettere la falsità delle conclusioni che loro stessi si sono deliziati orgogliosamente di insegnare ad altri e che hanno intessuto, un filo dopo l’altro, nell’ordito della propria vita».

Questo non è un futuro così improbabile. La democrazia non gode di buona salute, presa com’è tra i due fuochi delle destre etno-populiste e delle sinistre tecnocratiche. Le finanze di molti paesi, a partire dagli Stati Uniti, sono allo stremo. Per queste ragioni la libertà va difesa e, se la intendiamo come capacità di seguire la voce della ragione, della conoscenza e della coscienza, contro la voce delle passioni irrazionali che mascherano la verità, allora l’unica via per giungere ad una ragionevole approssimazione della verità che ci mantenga liberi è attraverso una comprensione obiettiva della realtà e del nostro ruolo in essa. Questo, io credo, dovrebbe essere l’obiettivo del­l’antropologia che, in questo senso, diventa la più nobile e virtuosa delle discipline scientifiche. Tuttavia gli antropologi non sempre sono in grado di assolvere la loro missione civile.

L’antropologo al carnevale dei valori

In teoria il rapporto tra relativismo ed antropologia dovrebbe essere chiaramente definito e limitato agli aspetti epistemologici dello studio etnografico. In antropologia il relativismo è il principio per cui tutti i sistemi culturali hanno un valore equivalente ed i loro elementi vanno interpretati e spiegati contestualmente. Insomma all’antropo­logo è richiesto di non giudicare una cultura sulla base delle premesse proprie alla cultura in cui è cresciuto, dato che ogni cultura è un adattamento alle condizioni in cui esiste e tali condizioni non possono certamente essere le medesime ovunque. Di conseguenza, finché indosso le lenti da antropologo, non può esistere un parametro universale di valutazione di ciascuna cultura o un ordinamento gerarchico di culture superiori ed inferiori. Questo, di per sé, non autorizza però alcun relativismo di natura morale, quando le tolgo. Il relativismo morale, in termini pratici, è il preludio al soggettivismo radicale – non esistono ragioni oggettive ma solo punti di vista e dunque non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato –, cioè al nichilismo. La differenza tra relativismo morale e nichilismo morale è puramente semantica e non ontologica; infatti, se tutti i sistemi morali sono socialmente e storicamente contingenti, allora non esiste alcun criterio di scelta affidabile ed obiettivo e la morale si riduce all’usanza, alla credenza, alla volontà di una maggioranza in seno ad una comunità, ad un rigido soggettivismo egotista. D’altra parte, poiché ogni società è la sommatoria di individui con opinioni differenti, nessuna società o cultura potrebbe imporre un sistema morale definito. Di qui la deriva nichilista, perfettamente esemplificata da un editoriale di Benito Mussolini dal titolo Relativismo e fascismo, pubblicato sul Popolo d’Italia il 22 novembre 1921, in cui afferma:

«Se per relativismo deve intendersi il dispregio per le categorie fisse, per gli uomini che si credono i portatori di una verità obiettiva immortale, per gli statici che si adagiano, invece che tormentarsi e rinnovellarsi incessantemente, per quelli che si vantano di essere sempre uguali a se stessi, niente è più relativistico della mentalità e dell’attività fascista. … Dall’equivalersi di tutte le ideologie, tutte egualmente finzioni, il relativista moderno deduce che, dunque, ciascuno ha il diritto di crearsi la sua e d’imporla con tutta l’energia di cui è capace».

Questa citazione è un dato storico che descrive una possibile modalità di transizione dal relativismo morale al soggettivismo radicale o nichilismo e – per inerzia, narcisismo ed horror vacui – all’asso­lutismo, alla tirannia.

Un antropologo che si rispetti dovrebbe ripudiare la mascherata relativista di chi si permette di giustificare misure repressive o deflettere le critiche in nome dell’incommensurabilità dei valori. È in nome del relativismo che si difende la pena di morte; in nome del relativismo il razzista segregazionista sudafricano J.B.M. Hertzog esortava bianchi e neri a collaborare alla difesa dell’apartheid, affinché ciascuno preservasse i suoi ideali e la sua cultura; in nome del relativismo, infine, nell’Atene classica, Trasimaco rispondeva a Socrate che la giustizia non è altro che l’interesse del più forte. È quindi fondamentale capire che il relativismo culturale degli antropologi è un relativismo epistemico, non valoriale. È una scelta euristica, non etica e perciò non va vista come un atto di deliberata connivenza con la violazione dei diritti fondamentali di bambini, donne, disabili, omosessuali, minoranze etniche e religiose, degli animali e dell’ecosfera.

Ernest Gellner aveva visto giusto quando aveva riepilogato l’intera questione della contrapposizione tra universalismo e relativismo nella doppia domanda: «C’è un solo tipo di uomo, o ce ne sono molti? C’è un solo mondo, o ce ne sono molti?». Proprio l’anno in cui nacqui Eric R. Wolf diede la sua risposta, che io sottoscrivo con piacere:

«Difendo la mia convinzione che il compito dell’antropologia sia quello di affermare la possibilità di una vera scienza dell’uomo. Sappiamo tutti che questa scienza dell’uomo allo stato embrionale è in pericolo, proprio come lo è l’umanità… l’umanità può farcela oppure no, e la vittoria potrebbe costare quasi quanto la sconfitta. Tuttavia la logica dell’approccio antropologico è esplicita, indipendentemente dal fatto che gli antropologi siano in grado di esserne all’altezza. Abbiamo dichiarato e dimostrato l’unità dell’umanità nell’articolazione di un processo culturale. Negare questi legami con il nostro passato e presente significa restringere la nostra prospettiva, ritrarsi verso un adattamento più limitato, voltare le spalle a ciò che possiamo ancora diventare. … Il punto di vista antropologico è quello della cultura mondiale che si sforza di nascere… se questa cultura fallirà, analogo sarà il fato dell’antropologia».

Fin che è sul campo l’etnografo si affida al giudizio di autenticità locale ed accoglie la richiesta che certi argomenti siano collocati in una sfera al di là del bene e del male. Una volta a casa, però, non può ignorare i rapporti di potere, le discriminazioni e sperequazioni, gli interessi privati, le ipocrisie, la miriade di contraddizioni ed eccezioni e, soprattutto, l’inconsistenza della pretesa che determinati concetti e valori siano intraducibili, che esistano differenze insormontabili e che le culture siano internamente omogenee ed ermeticamente sigillate rispetto alle influenze esterne. Altrimenti l’antropologia dovrebbe rinunciare al titolo di scienza sociale, seguendo l’auspicio di certi critici post-modernisti, troppo impegnati a de-strutturare e frammentare la conoscenza per preoccuparsi delle conseguenze delle loro frivolezze sulle persone in carne ed ossa. Queste sono persone di scarsa caratura morale ed abbondante falsa coscienza che, finché se ne stanno nel proprio paese, dichiarano di apprezzare la dignità umana, il rispetto per l’individuo, la libertà e di ritenerli valori fondamentali che distinguono l’uomo dall’animale, ma quando poi mettono piede all’estero, in un luogo esotico, cambiano improvvisamente idea.

Quale forza prescrittiva può avere una dottrina relativista? È evidentemente una contraddizione in termini. Ciò nonostante, per anni, molti antropologi si sono scagliati furiosamente contro la formulazione dei diritti umani, come se la loro origine «occidentale» li macchiasse per sempre di una colpa originaria. Quest’approccio ha fatto il gioco dei «mimetisti» del potere, figure scaltre e prive di scrupoli che guardavano con favore all’identificazione del giusto col tradizionale, del buono col vecchio, del valido con l’originale, dell’obbligatorio con il consuetudinario, alla generale disponibilità a sospendere consapevolmente il proprio ragionevole scetticismo, la propria capacità di dubitare. Per questi presunti antropologi rimanere ignoranti riguardo agli altri è preferibile rispetto ad un inavvertito fraintendimento. Un silenzio passivo è da preferirsi rispetto all’imprigionamento ed alla perversione della Sacra Alterità nella cornice della nostra conoscenza convenzionale. «Sono totalmente diversi», «non siamo in grado di capirli», «criticarli è un sintomo di mentalità imperialista». Lo studioso deve dunque prorogare o sospendere la valutazione critica e soppiantarla con il giudizio di valore che riceve dall’Altro, l’unico giudice dell’adeguatezza della descrizione realizzata dall’osservatore. Si accettano acriticamente i pregiudizi e le interpretazioni soggettive dell’Al­tro in una sorta di auto-lobotomizzazione critica. L’idea della cultura come radicale alterità infrange ed offusca le evidenti ed istruttive omologie, ponendosi in contrasto con i più elementari principi di logica e metodo scientifico. Viene da chiedersi perché l’assenza di logica sia degna di nota, piuttosto che il sintomo dell’assenza di qualcosa di significativo da dire, della rinuncia a fare il proprio lavoro con senso di responsabilità e dedizione, della complicità con il potere «indigeno» che mette in campo tutte le sue funzioni mitopoietiche e mimetiche nell’intento di auto-perpetuarsi, magari con l’aiuto di una corte di intellettuali stranieri, più grulli che meschini, interessati ad assicurarne l’auto-promozione per varie ragioni. Un perfetto dispositivo usato dalle classi dominanti per occultare la natura dispotica del loro governo. Ogni peana dedicato al relativismo morale è un elogio dell’infermità mentale, di un pensiero confinato che rinuncia ad alimentarsi dell’esperienza concreta.

D’altro canto è un’idea bizzarra quella secondo cui per avere una mente aperta e non essere bigotto significa non avere una salda opinione su niente, oscillando da una posizione ad un’altra in nome dell’equanimità e del relativismo. Una persona intelligente crede in qualcosa, sa perché crede in questo qualcosa e sa articolare le sue convinzioni ed argomentare le ragioni a sostegno delle medesime. La fondamentale differenza tra relativismo culturale e relativismo morale è che il primo è un procedimento empatico che consente all’osser­vatore di assumere la prospettiva dell’altro mentre il secondo è un’ottica che nega che credenze morali e giudizi etici possano essere o veri o falsi e che esistano proprietà morali che stanno a cuore a tutti gli esseri umani. Senza relativismo culturale non si può fare antropologia. Non solo, senza una forma di relativismo epistemico non potrebbe neppure esistere alcun sistema etico. Infatti l’etica, l’insieme strutturato dei nostri principi morali, si basa sul nostro sentire empatico, sulla nostra simpatia immaginativa che permette la mutua comprensione e non la semplice proiezione dei nostri sentimenti in un’altra persona. L’empatia è identificazione emotiva, assorbimento e fusione emozionale al punto che uno si estrania da se stesso e si vede come parte dell’altra persona con la quale condivide una data sensazione. L’etica deriva dalla necessità di riflettere la visione del mondo di un altro essere umano. Così facendo si diventa più morali, si espandono i propri orizzonti e si indebolisce il naturale egocentrismo. L’empatia più autentica è quella che è rivolta a tutti e non solo a quelli a cui teniamo. Non ci limitiamo a replicare i loro sentimenti e sensazioni ma riconosciamo che appartengono a qualcuno che merita il nostro rispetto. Empatizzare troppo con qualcuno e non abbastanza con tutti ci porta fuori strada. Dunque il relativismo tanto caro agli antropologi è l’espressione deontologica di questo aspetto della natura umana, dell’unica maniera che conosciamo di raggiungere uno stadio in cui possiamo esaminare le nostre azioni dal punto di vista di uno spettatore imparziale. L’empatia ed il relativismo culturale tengono a bada le nostre emozioni, filtrandole, ed evitando così che ci facciano deragliare, sopprimendo la nostra obiettività, discernimento e buon senso. Questo è il secondo motivo per cui ritengo legittimo concepire l’antropologia “fatta come si deve” come un’impresa virtuosa.

Il buon antropologo, una volta tolto il cappello del professionista, dovrebbe essere in grado di distinguere ciò che è relativo da ciò che è universale o sostanzialmente universale. Mi riferisco ad esempio alle virtù primarie come la benevolenza, la sapienza, l’amore, la fede, la speranza, la compassione, la tenacia, il coraggio morale, la solidarietà, l’armonia, la sicurezza, l’avvedutezza, il buon senso, la cooperazione, l’operosità, ecc. Queste sono qualità grandemente apprezzate in ogni angolo del globo. La stessa regola aurea – il caposaldo di ogni sistema etico – è presente in tutte le maggiori tradizioni culturali e religiose umane. Dunque il relativismo culturale non comporta un’auto­matica adesione ad un relativismo morale del tipo «se Dio è morto allora tutto è lecito». Come notava C.S. Lewis, «è necessario credere fermamente nell’oggettività di certi valori se si vuole vivere in un mondo in cui i governi non siano tirannie e l’obbedienza non sia quella dello schiavo verso il padrone».

Eric Wolf, o l’antropologo come sgamatore di corbellerie

L’antropologo è un ottimo «sgamatore di corbellerie», o «bullshit detector», come si direbbe in inglese. Non si può permettere di dare nulla per scontato perché il suo oggetto d’indagine è proprio lo scontato, che ha il compito di problematizzare. Inoltre, per indole e per formazione, è incline ad accettare l’umanità per quello che è, con i suoi pregi e difetti. Naturalmente non tutti gli antropologi sono fatti in questo modo, ma credo si possa parlare di una tendenza di fondo che va in questa direzione. L’antropologia è quindi un perfetto antidoto al cinismo misantropico di certa scienza riduzionista, al sensazionalismo dei mezzi d’informazione, alla manipolazione propagandistica dei movimenti politici. È certamente piuttosto paradossale che quest’an­tidoto sia rappresentato proprio dall’antropologia, una disciplina nata come puntello del colonialismo e dell’imperialismo euro-americano e fin dal principio incline a trasformare in oggetti i suoi soggetti di studio, gli esseri umani appunto. Ma l’approfondito quanto necessario esame di coscienza degli antropologi è evidentemente servito a qualcosa.

Questo è lo spirito con il quale ho scritto questo mio intervento apologetico ma anche ammonitore per chi fatica ad esercitare il libero pensiero e ad emanciparsi da un eventuale stato di soggezione nei confronti di miracoli, misteri ed autorità, per chi continua a credere acriticamente a quella parodia anti-umanista che ci descrive come burattini i cui fili sono manovrati dalla Cultura e dalla Natura, oppure ramoscelli trasportati dalla corrente delle tradizioni ancestrali e del genoma umano. Non c’è libero arbitrio, in queste rappresentazioni dell’umano, perché ogni azione è predeterminata da costumanze e cromosomi. E quando gli esseri umani si sforzano di liberarsi dalle catene della tradizione e della biologia, di dimostrare che la natura umana è complessa ed inafferrabile e proprio per questo libera, e che gli adulti non hanno bisogno di tutori ma solo di buoni consigli, sbucano fuori tuonanti inquisitori che ci mettono in guardia contro l’eccessiva autonomia di giudizio, contro le contaminazioni della tradizione, contro la nostra natura intrinsecamente maligna. Questi tutori, come ci ricorda Immanuel Kant nel suo Sapere Aude, si sono arrogati la preorigativa di esercitare una speciale sorveglianza delle persone comuni, mostrando loro il pericolo che le minaccerebbe qualora tentassero di camminare da sole. Così facendo essi mortificano «il sentimento della stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé». La loro benevolenza e magnanimità è una maschera, la loro retorica una bufala. Proviamo a riflettere etnograficamente su un aspetto particolarmente visibile della cultura contemporanea, l’uso metodico di eufemismi, sofismi e trappole semantiche come «esportare la democrazia», «portare la pace», «proteggere la nostra libertà», «l’amore vince sull’odio», «il prezzo della libertà», «guerra al terrore», «danni collaterali», «difesa aggressiva», «cambio di regime», «omicidio extra-giudiziario», «metodi d’interrogatorio più aggressivi», «crescita economica», «consegne straordinarie» (extraordinary renditions), «promotori della libertà» e «religione della libertà», «intelligence», «combattenti nemici illegali», «Patriot Act», «flessibilità d’impiego», «non è questo il problema» e «non è questo il momento», «stati canaglia», «ateo devoto», «bombe intelligenti», «missione di pace», ecc. La lingua è la via maestra per raggiungere una comprensione il più possibile obiettiva del mondo, ma manipolarla non è difficile. L’effetto può essere paragonabile ad un’induzione ipnotica e può rendere concepibile ed accettabile ciò che prima non lo era. Non bisogna dunque sottovalutare il potere che un linguaggio esercita su di noi. Il grande antropologo statunitense Eric Wolf, che qui celebriamo, esortava i colleghi ad «esplorare il nesso tra idee e potere», ad esaminare il modo in cui «le idee divengono monopolio dei gruppi di potere» e come «le vecchie idee sono riformulate alla luce della diversità di contesto, mentre le nuove idee sono presentate come verità ancestrali». Sfruttando ritmi, allusioni, ambivalenze, toni perentori ed apodittici, ambiguità e reiterazioni insistite, analogie, metafore, allegorie, acronimi, eufemismi, slogan, parole-chiave, tormentoni, gergalità, l’associazione e la risonanza psicologica e simbolica di certe espressioni comuni può acquisire delle dimensioni nuove e subdole. In questo modo la comunicazione linguistica può essere pervertita per generare confusione nel lettore, o una falsa consapevolezza, in modo da prenderlo per mano e fargli accettare idee che non avrebbe mai accettato se fossero state presentate con un’esposizione chiara e responsabile. Purtroppo il nostro cervello non è sempre in grado di individuare affermazioni contraddittorie ed incoerenti perché tende a completare frasi e pensieri e correggere errori in modo da dare loro un senso, come quando vediamo un’insegna luminosa con la scritta «mtel» e sappiamo che significa «motel». George Orwell ammoniva che la cosa peggiore che si può fare con le parole è arrendervisi, lasciare che esse controllino i nostri pensieri. Dobbiamo ascoltare e leggere attentamente le parole che ci piovono addosso per evitare che divengano mantra capaci di ottundere la nostra capacità di discernimento. Pensiamo a cosa successe nel Terzo Reich, che coniò un suo linguaggio, la Lingua Tertii Imperii, la chiamava Victor Klemperer. I nazisti fabbricarono la loro newspeak, uno strumento di oppressione e disinformazione disumanizzante formato attraverso la destrutturazione del tedesco convenzionale. L’omicidio di massa divenne eutanasia, la soluzione finale designava il genocidio, il trattamento speciale copriva l’assassinio, essere devoti significava essere fanatici, lavorare in un campo di sterminio rendeva liberi, gli avvocati e giuristi furono trasformati in «tutori della legge» ed i libri di testo scolastici impiegarono un vocabolario semplificato per limitare il ragionamento critico. La targa all’ingresso del campo di Buchenwald recitava JEDEM DAS SEINE, «a ciascuno il suo».

Tutto questo dimostra la validità dell’osservazione di Friedrich August von Hayek, che

«il modo più efficace per far sì che il popolo accetti la validità dei valori che deve servire è di persuaderlo che si tratta in fondo degli stessi valori che si sono sempre sostenuti, almeno da parte delle persone migliori, ma che prima non erano completamente compresi o riconosciuti… E la tecnica più efficace a questo fine è di usare le vecchie parole cambiandone il significato. Pochi tratti dei regimi totalitari sono … così caratteristici dell’intero clima intellettuale come la completa perversione del linguaggio».

Messinscena e mimetismo – la maschera del potere

In Envisioning Power, Eric R. Wolf riporta una sua riflessione che considero ancora estremamente attuale, a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione dell’opera. Queste le sue parole:

«Per diverso tempo ho pensato che tanto di quel buon lavoro che si fa nelle scienze umane non raggiunge gli scopi prefissati perché manca la volontà o la capacità di venire a capo del modo in cui le relazioni sociali e le configurazioni culturali sono intrecciate alle relazioni di potere. Gli antropologi hanno fatto grande affidamento su certe nozioni che spiegano la coerenza culturale come il risultato di logiche culturali, linguistiche ed estetiche. Di conseguenza, non si è prestata sufficiente attenzione a come il potere strutturi gli ambiti in cui questo tipo di stimoli prende forma, oppure a come il potere è coinvolto nella riproduzione di queste disposizioni».

Chi è al potere ha buon gioco con noi, con le persone ordinarie, perché esiste un’umana abitudine alla proiezione che ci spinge ad attribuire a qualcuno le sensazioni che suscita in noi. Se la forma è bella e piacevole, allora lo sarà anche la sostanza. Se il lupo si traveste da agnello, noi pensiamo che sia mansueto, perché la sua lana è morbida. La propaganda, la mimesi, non inganna le persone, le aiuta ad ingannarsi. Le maschere non coprono gli occhi, lo specchio dell’anima, ma noi non osiamo fissarli. Guardiamo in basso, perché siamo stati abituati a farlo da sempre, di fronte al potere che, per abitudine relativizza camaleonticamente ciò che lo riguarda ed assolutizza invece ciò che riguarda i «sudditi». In quest’ultima sezione tento di mostrare il carattere empatocida (nocivo all’empatia e quindi all’integrità morale) dei travestimenti del potere com’è stato concepito e rappresentato dal­l’immaginario simbolico umano, il punto d’incontro di etnografia, psicologia e psicanalisi.



La coulrofobia è la paura irrazionale dei clown e, per estensione, delle figure mascherate. Causa sudori, tremori, pianto, palpitazioni e perfino attacchi di panico. È sorprendentemente diffusa e non se ne conoscono con certezza le cause. Si sa che le persone che ne sono affette non sopportano la vista neppure di maschere comiche e felici. È più che probabile che l’origine di questa sindrome vada ricercata nel carattere non-umano della maschera e nella sua funzione di occultamento delle reali emozioni ed intenzioni di chi la indossa. Infatti quasi sempre queste persone non sono intimorite da un travestimento che lascia scoperto il volto. Un’intervistata mi ha spiegato che la inquietano anche «le persone che indossano i caschi e gli occhiali molto scuri, perché sembrano statue». Infatti la fobia delle maschere è spesso legata alla fobia degli automi e di figure umanoidi, cioè non pienamente umane. Philip K. Dick, forse il più grande scrittore di fantascienza della storia, soffriva di questa fobia: «Ma ciò che mi spaventava di più era quando mio padre indossava la maschera. Il suo volto spariva. Non era più mio padre. Non era più un essere umano». In un convegno del 1976 a Vancouver, dichiarò:

«Dobbiamo stare attenti a non confondere la maschera, qualunque maschera, con la realtà retrostante. … Nell’universo esistono cose gelide e crudeli, a cui io ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo.

In questo caso le chiamo “androidi”. Per “androide” non intendo il risultato di un onesto tentativo di ricreare in laboratorio un essere umano. Mi riferisco invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile. Che ciò avvenga in un laboratorio o meno non ha molta importanza: l’intero universo è una sorta di enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità che ci sorridono tendendoci la mano. Ma la loro stretta è quella della morte, e il loro sorriso è di un gelo tombale».

Dick soffriva di allucinazioni visive. Un caso analogo è quello di Friedrich Nietzsche, che a 24 anni scriveva:

«Ciò ch’io temo non è l’orrenda figura dietro la mia sedia, ma la sua voce; e nemmeno le parole, bensì il tono terribilmente inarticolato e disumano di questa figura. Sì, se parlasse almeno come parlano gli uomini!».

In entrambi troviamo il tema dell’occultamento/mimèsi («maschere ghignanti», «spacciandosi con successo per un nostro simile» – «dietro la sedia») e quello della meccanizzazione («cose gelide e crudeli», «l’armatura metallica», «tratti gelidi, la severità marziale, senza il minimo segno di compassione» – «Tono inarticolato e disumano»). Se un’elevatissima capacità empatica è la caratteristica che meglio definisce l’umano al suo meglio, allora maschere e androidi, che sono anempatici – cioè rendono impossibile riconoscere ed identificarsi con i sentimenti e le necessità del prossimo – interferiscono con i nostri processi di socializzazione, interferiscono con il nostro essere umani. Abbiamo paura di maschere ed androidi perché non li capiamo. Una mente ed un volto senza compassione ed empatia ci appaiono come una forma di stortura evolutiva, una nociva stoltezza. È la simpatia immaginativa che ci rammenta che non siamo più importanti degli altri, che il loro dolore non è meno significativo del nostro. Chi non la prova, la sopprime, o la nasconde è pericoloso, è un potenziale psicopatico, la nemesi dell’umano; non pensa esistano azioni immorali perché il suo orientamento è puramente strumentale: noi stessi, ai suoi occhi, siamo mezzi per realizzare un fine. Questo è il Primo Terrore. Il Secondo Terrore è che maschere e macchine ci facciano diventare come loro. Che ci tolgano una delle funzioni basilari dell’umano, la scelta morale tra bene e male; che ci trasformino in un’arancia meccanica, senza polpa dentro, in un apparato eterodiretto, non più un autentico essere vivente.

Ogni persona ha un repertorio di maschere da indossare per gli altri (non per se stessi). La maschera diventa la realtà, la nostra vera identità. Il nostro sé autentico può essere parzialmente ricostruito solo a partire dal tipo di maschera che uno si è scelto (o che gli è stato assegnato). La maschera ha un potere su di noi. Pizzorno spiega che i Dogon la chiamano imina – ciò che cattura e fissa il nyama, il mana, l’essenza, l’anima, la potenza di ogni cosa –. La maschera di fatto abolisce la persona pietrificandone l’espressione, esiliando la manifestazione dei sentimenti, rendendola identica a se stessa attraverso il tempo, priva di vita. Effetto Gorgone. Frobenius parla di Ergriffenheit, l’essere afferrato, l’essere in preda ad uno stato in cui l’uomo forma un tutt’uno con la realtà, in completa identificazione con essa.

La Maschera ha un enorme potere anche sugli altri. È un elemento fondamentale nelle società segrete maschili. È una «falsa faccia», come la chiamano gli Irochesi. Il diavolo appare per la prima volta agli uomini sotto le sembianze di un serpente. Gli Anticristo, dicono le cosiddette «Sacre Scritture», assumeranno le sembianze di Angeli di Luce, lupi travestiti da agnelli. Nella bellissima animazione Coraline, il ragno al centro della ragnatela cosmica, l’incarnazione del male, finge di essere una madre perfetta, migliore di quella vera. Promette di tenere con sé la bambina nel suo fasullo Paradiso Terrestre se questa lascerà che i suoi occhi siano sostituiti da bottoni. Meccanizza, mineralizza, oggettifica, come la Gorgone.

Esaminiamo meglio la maschera della Medusa o Gorgone. Essa appare sovente nell’arte etrusca e in latino «larva» e «persona» sono sinonimi, stanno ad indicare gli spettri e le maschere. Come mai? «Persona» deriva etimologicamente da Phersu (phèrsuna, «appartenente al Phersu», ossia la maschera, appunto), termine etrusco collegato a Perseo e Persefone (Phersipnai) e forse persino a Parsifal, del ciclo arturiano, l’unico cavaliere che è riuscito a rintracciare il Re Pescatore ed il Sacro Graal. Nella Tomba degli Àuguri a Tarquinia (VI secolo a. C.), Phersu (si pronuncia «fersu», come fertilità e ferino) è rappresentato con una maschera sul volto, una barba probabilmente posticcia, una giubba maculata ed un cappuccio. Compare in coppia con un guerriero dalla testa avvolta in un panno che brandisce una nodosa clava con la quale si difende da un molosso che lo azzanna e che è tenuto al guinzaglio dallo stesso Phersu. Forse ludi gladiatori associati a rituali funerari. Altrove Phersu appare anche mentre danza e suona con la testa rivolta all’indietro o con una clava ed uno scudo. È stato fatto notare che nelle pitture murali etrusche Ade è raffigurato con un cappuccio di pelle di lupo o cane che richiama il kunee usato da Perseo e la maschera di Phersu. Ecco la descrizione di Hermes: uomo barbuto con un copricapo (un pilos con il cocuzzolo appuntito) e un corto mantello, indossa stivali alati e porta il caduceo. A volte corre o danza suonando la lira e guardando dietro di sé al di sopra della spalla. Altre volte suona la lira mentre guida una processione sacrificale che comprende Eracle (con la sua pelle di leone), che scorta agli Inferi, esattamente come fa con Perseo o Ulisse. Hermes è un furbone, ma aiuta in ogni modo i due eroi, che Atlante invece confonde, forse perché si tratta dello stesso eroe proveniente da due tradizioni diverse che si sono fuse. Hermes e Phersu sono psychopompos, guidano le anime dei morti e proteggono i viventi che si addentrano nell’Ade. Hermes aiuta Perseo a sconfiggere Medusa e a prendere la Gorgeiè képhalè, testa della Gorgone. La stessa espressione è usata nell’Odissea quando Ulisse teme l’arrivo improvviso di una testa mostruosa che lo impietrirebbe all’istante, poiché l’Ade non è posto per i viventi. Di nuovo il tema della pietrificazione.

Quella testa terribile è proprietà di Persefone, signora dell’Ade, che la usa come guardiana, come Cerbero. È la Maschera del Potere supremo, quello di vita e di morte, di progressione bio-spirituale o di regressione allo stato minerale, il più remoto gradino dell’evoluzione. Potenza di terrore. Gli astronomi arabi chiamano la costellazione Perseo Hamil Ras al Ghul, «Colui che porta la testa di Ghul», cioè Beta Persei, la stella Algol, la più diabolica e nefasta del cielo, che prende il nome da un demone o un’orca del deserto che assale i viaggiatori e li divora cominciando dai piedi. Gli Ebrei la chiamano Rosh ha Satan, la testa di Satana.

Quella di Perseo è un’impresa epocale. Omero lo definisce «preminente tra tutti gli uomini». Da quel momento in poi la Maschera del Potere della Gorgone diventa strumento per rettificare i torti e le ingiustizie del passato, ristabilendo gli equilibri cosmici. Ercole taglia le teste dell’Idra, Perseo quella di Medusa, per poi uccidere il drago che tiene prigioniera Andromeda. Anche San Michele uccide il drago, diventando la controparte cristiana di Perseo. E dov’è il drago vicino al San Michele trentino? È il Basilisco di Mezzocorona, che si fa fregare da uno specchio: risponde ad ogni sguardo con il medesimo sguardo, a ogni suo gesto con un simmetrico gesto e, così distratto, si fa uccidere, diventa polvere. Riduzione allo stato minerale. Come Narciso, il Basilisco si ammira e perde di vista la realtà vera, è sviato dal suo doppio, dalla maschera. Così è per Medusa: uno specchio la condanna riflettendo il suo sguardo mortifero. San Michele è lo sterminatore dell’Anticristo – il quintessenziale psicopatico, che indossa la maschera della santità per sedurre le vittime, come ogni serial killer che si rispetti – alla fine dei tempi, sarà l’accompagnatore delle anime dei morti in cielo (psicopompo), soppesatore delle colpe e dei peccati delle anime medesime nel giorno del giudizio, protettore dell’umanità dalle calamità naturali.

Pare di poter dire che, quantomeno nell’ambito mediterraneo e medio-orientale, la caratteristica precipua dell’eroe civilizzatore o salvatore – il vero e proprio Menschenfreund – sia quella di combattere contro la Maschera del Potere, il cui tratto distintivo sembra essere la facoltà di tramutare in pietra o polverizzare chi non sa guardare oltre le apparenze, chi non riconosce la minaccia che si cela dietro di essa. Di che minaccia si tratta? Io credo che il significato ultimo di questo mitema, la sua morale più profonda sia quella di non rinunciare alla propria coscienza, non fuggire dalla vita nel nulla, non peccare contro se stessi. E come si pecca contro se stessi? Credendosi dèi, crogiolandosi nel potere, nella potenza, nella manipolazione del prossimo, nella brutalità e nell’egoismo. Gli eroi sono tutti individui con una personalità forte, schierata in favore della dignità e del rispetto verso il prossimo. La Maschera invece de-individualizza, de-identifica, disumanizza, equivale ad un suicidio spirituale, a volte preludio a quello fisico. La Maschera nasconde il parassita, il vampiro, chi fa brucare al gregge l’ultima erba che non ricrescerà, chi vuol ricevere tutti i vantaggi del bene pubblico scaricando sugli altri i costi, chi prende sempre ed evita di dare, chi indulge nella brutalità sadistica, nell’ingra­titudine cronica, nell’indiscrezione patologica chi, caduto, vive all’unico scopo di trascinare altri con sé nell’abisso. I suoi occhi possono essere belli, intelligenti e potenti, ma sono tetri, vuoti, inanimati, esattamente come quelli di uno psicopatico.

La via dell’Eroe è ascendente e convergente – verso Dio, l’ordine, l’amore e soprattutto la conoscenza. La via della Maschera è discendente – verso l’entropia, l’odio, l’ignoranza, il buco nero, la dissoluzione nella materia grezza. Per questo chi incontra la Maschera del Potere e non vi si oppone finisce pietrificato, privato dell’empatia, della coscienza e dell’anima. Peccare contro di sé, significherebbe, in pratica, scegliere un percorso che ci degrada invece di esaltarci, che pone la nostra spiritualità al servizio di scopi materialistici. La Maschera è il tentatore, che si impadronisce di chi cede volontariamente alle tentazioni, accecato dall’ignoranza, che induce un cattivo uso del libero arbitrio, che ne causa la negazione.

Purtroppo l’uomo è affascinato dal Potere, non può più distogliere lo sguardo. Si fa assorbire, risucchiare nel suo vortice, imprigionare nel suo regno, dopo essere stato strappato a se stesso, alla propria identità, individualità, personalità, indipendenza di giudizio. È invaso e posseduto dalla Maschera del Potere e non se ne rende conto. Si fa mettere le redini, domare, addomesticare ed addestrare. La Maschera del Potere promette ai suoi seguaci un potere infinito, ma per poterselo guadagnare dovranno accumulare una conoscenza infinita. In cambio di questa conoscenza giurano fedeltà perpetua alla Maschera e sono così perduti, hanno venduto l’anima e sono condannati a servire in eterno, tramutati in pietre o automi, lungo il ramo discendente della vita e dell’evoluzione. È il rischio che corre Dottor Bill, in Eyes Wide Shut, quando la curiosità lo sta per fagocitare in un gorgo di corruzione e violenza governato da potenti mascherati. Ma ha la possibilità di scegliere e si salva, torna a casa come Dorothy, nel «Meraviglioso Mago di Oz»: «Casa dolce casa». La Maschera del Potere inganna e manipola, ma non può violare il libero arbitrio, può solo influenzare le persone facendole sbagliare. È quel che fa con Eva, nel Paradiso Terrestre.

Cosa c’è dietro la Maschera? Il nulla originario del francese personne, nessuno. Un Buco Nero che assorbe ciò che non può riempire il suo vuoto. La smania di controllare, di parassitare, di schiavizzare, di vampirizzare, di plasmare il prossimo, considerandolo una mera proprietà. L’ottusità meccanomorfa di chi brama un costante aumento dell’ordine, del potere, della prevedibilità e del controllo. La necrofilia, ossia l’attrazione per ciò che è puramente meccanico, esangue, corazzato, prescrittivo, predeterminato, deumanizzato, rigido, devivificato, irreggimentato e monolitico, sviscerato in quanto robotico, distruttore dei nessi vitali. Ciò che è morto, ma si rifiuta di prenderne coscienza, s’aggrappa a ciò che è vivo, come gli strigoi/vampiri rumeni, per assorbirne la forza vitale. In questo modo si illude di poter continuare a negare la sua transitorietà e permeabilità. Masca è il vocabolo longobardo che corrisponde al latino striga e che denomina un mostruoso trapassato che divora i vivi. È un qualcosa di essenzialmente diverso dalla vita e ne esorcizza l’assenza, ma allo stesso tempo può generare un’esistenza parallela, fittizia, formalmente immutabile e perpetua, che attira chi è insicuro della propria salvezza e dell’esi­stenza di una vita ultraterrena, chi ha paura della vita e della morte e quindi brama il potere, direttamente o per interposta persona, come appiglio per non sprofondare nell’abisso, come il cornicione per Rick Deckard in Blade Runner. Non è forse vero che ogni motto dei falangisti, dei repubblichini, delle Guardie di Ferro romene, delle SS e dei samurai era un peana in favore della morte, un inno alla mistica della violenza e della guerra, una manifestazione del loro disprezzo per la compassione, l’empatia, la vita stessa, troppo spontanea, creativa, mutevole, calda, amorevole, fluida, imprevedibile, liquida, sensuale, impura e promiscua? Il potere parla di trascendenza e spiritualità, ma sono termini ai quali conferisce un senso ben diverso. Questa spiritualità non trascende la materia, la compenetra è, in modo apparentemente contraddittorio, uno spiritualismo materialista incentrato sull’assolutizzazione di questo mondo. È un feticismo della materia che ambisce a trascenderla solo per governarla meglio. Potere significa diritto di disprezzare, uccidere e rimodellare la Creazione a proprio piacimento. Significa un ego mascolino armato e corazzato per affrontare un mondo che avverte sempre sull’orlo della disintegrazione. Il Potere è insicuro ma indossa la maschera della marzialità, della solidità, dell’inamovibilità, del turgore fallico, del corpo-macchina che ama le strutture rigide e prescrittive, che rassicurano, placano, confortano, tengono sotto controllo i pericoli emozionali e forniscono confini e barriere nette. Il Potere predica il relativismo dei valori, ma solo per sopprimere le virtù primarie ed i principi più nobili, al fine di sostituirli più agevolmente con i suoi valori, con il suo intransigente moralismo, con il suo linguaggio sterile e fraudolento, con la sua fede in un certo ordine ed armonia della natura e del cosmo, in favore dei quali si possono sacrificare i peccatori, ossia i dissidenti, cioè a dire quelli che lo smascherano.


Link utili

Bibliografia

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[1] Didaché, XVI, 3-5.
[2] R.W. Emerson, Man the Reformer, 1841.

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