venerdì 21 ottobre 2011
il razzismo - un compendio
Le differenze statistiche tra razze, a livello genetico, esistono, ma sono piuttosto esigue, rispetto alla diversità genetica tra gli individui. Le differenze all’interno di un gruppo sono molto maggiori di quelle tra popolazioni, perché le popolazioni stesse sono storicamente effimere e mutevoli e geneticamente porose, in quanto i gruppi umani sono di norma esogami e storicamente, purtroppo, spesso aggressivi. La genetica di popolazioni nata come studio biologico delle razze, le ha sostituite con il termine eticamente neutrale di “popolazioni” o “gruppi etnici”. In genere si giustifica l’uso del concetto di popolazione spiegando che, a differenza di quello di razza, il primo non prevede distinzioni nette tra i gruppi umani, bensì una gradazione di tratti (clinal variation) che, ai margini, si confonde con altre gradazioni di tratti di altre popolazioni e che, per di più, non sono statiche, continuano a mutare in conseguenza di derive genetiche (mutazioni causale del genoma durante la trasmissione del patrimonio genetico di generazione in generazione), migrazioni e della selezione naturale. Si tratta insomma di approssimazioni statistiche piuttosto che di tipologie naturali. Tuttavia le stesse popolazioni, come le razze, sono solo costrutti euristici, concetti buoni per pensare, idealtipi che non esistono nella realtà. Le categorie del pensiero (o tassonomie) raramente coincidono con la multiforme realtà del mondo empirico, per il semplice fatto che il nostro cervello screma e seleziona le informazioni, prima di accumularle ed incamerarle. Ciò è ben espresso dalla formula “la mappa non è il territorio” coniata dall’antropologo e linguista Gregory Bateson. Così nessun tratto genetico è concordante, vale a dire non esistono attributi che compaiono invariabilmente associati (es. labbra grosse e naso grosso). Esiste però un problema che la genetica di popolazione non può facilmente aggirare. Anche se la differenza qualitativa di un tempo è ora diventata una differenza quantitativa (cioè statistica), non per questo essa è incompatibile con la stereotipizzazione degli esseri umani. Nella peggiore delle ipotesi invece di affermare “i negri sono stupidi” ora si potrà affermare “è statisticamente più probabile che questo individuo i cui antenati sono di origine africana sia intellettualmente inferiore”. Che è precisamente quel che va dicendo James D. Watson, lo scopritore della struttura del DNA, anche se non ha mai potuto mostrare uno straccio di prova empirica a sostegno dei suoi proclami. E non l’ha mai potuto fare perché non è possibile quantificare l’intelligenza in modo rigoroso, visto che non esiste una definizione univoca di cosa sia l’intelligenza (la nostra conoscenza delle funzioni cerebrali e del rapporto mente-cervello è ancora seriamente carente). Tant’è vero che esistono numerose scuole di psicometria e numerosi metodi per valutare il quoziente di intelligenza, ognuno dei quali si concentra su una dimensione specifica delle funzioni psichiche, in modo più o meno arbitrario. Non v’è perciò nulla di scientifico nelle affermazioni di chi stabilisce una correlazione tra razza ed intelligenza. Sono semplici pareri che vengono liberamente espressi e dibattuti su giornali e riviste scientifiche ma, per il momento, rimangono meri articoli di fede che possono solo rafforzare dei pregiudizi già esistenti, non modificare il consenso scientifico generale sull’inesistenza di gruppi umani chiaramente determinabili da un punto di vista biologico-genetico (Barbujani 2005; Barbujani & Belle 2006).
Qualunque inferenza riguardo alla biologia delle “razze” può essere vera solo in un dato momento ed in un luogo specifico, perché la diversa localizzazione geografica sembra fornire la miglior spiegazione per la variabilità umana. Il fatto che le distanze genetiche e quelle geografiche mostrino una correlazione quasi perfetta prova che la diversità umana è il risultato dei processi evolutivi e storici e che non bisogna confondere la razza con la genealogia. Così, per esempio, l’anemia falciforme, una malattia genetica del sangue, caratterizzata da anemia cronica, non è presente solo tra gli Africani ma anche in Asia ed in Europa, perché collegata alla diffusione dell’agricoltura intensiva nel neolitico. In Asia la più altra frequenza di anomalie legate all’insorgere delle talassemie è stata riscontrata in Nepal, ma sarebbe assurdo considerare i Nepalesi una razza a parte. Ne consegue che un genetista potrà farsi un’idea più verosimile del nostro patrimonio genetico se conoscerà la nostra provenienza (Cuba, Spagna), mentre sarà assai più arduo il contrario (“ispanicità”, “ebraicità”, ecc.). Ma se le cose stanno così, perché alcuni scienziati continuano a credere nell’esistenza delle razze? Perché non si mettono il cuore in pace? Ebbene, molto probabilmente questi scienziati “razzialisti” si direbbero d’accordo con quello spettatore che, al termine di un dibattito sul razzismo al quale partecipava il genetista Guido Barbujani, ha commentato che “se i negri fossero come me si chiamerebbero bianchi”. Il che è indubbiamente vero, ma la questione è se le differenze somatiche, cioè nell’aspetto, celino differenze più sostanziali, una tesi che finora non ha trovato riscontri che abbiano superato il vaglio delle verifiche empiriche. Il problema è prima di tutto di carattere morale e politico, come testimonia il genetista Steve Jones che ricorda il giorno in cui, nel corso di una lezione per studenti di colore del Botswana, questi si sentirono rassicurati nell’apprendere che la differenza genetica tra loro ed i ragazzi bianchi del Sudafrica era minima. Poi però uno di loro obiettò: “Quel che Lei dice sarà sicuramente vero per noi e per i bianchi, ma non può esserlo per i Boscimani, che sono ovviamente molto diversi da noialtri” (Jones, 1993).
In secondo luogo, tra le ragioni che spingono alcuni scienziati a tenersi stretto il concetto di razza, c’è la confusione tra razze e continenti. In un suo recente saggio critico della nozione di razza Barbujani non nasconde l’esistenza di una certa differenza tra razze (“bianca”, “gialla” e nera”), o per meglio dire tra i continenti, differenza che oscilla tra il 7 ed il 10 per cento dell’intera variabilità genetica umana, a seconda dei criteri di misurazione, con circa l’85-86% di variazione attribuibile alla diversità tra individui ed il rimanente alla diversità tra popolazioni (Barbujani, 2007). Ciò conferma quel che era intuibile, e cioè che “la gente che viene da regioni diverse è, in media, un po’ più distante da noi geneticamente di quanto lo siano i membri della nostra comunità: 5% se viene dal nostro continente, 15% in più se viene da un altro continente” (Barbujani, 2007, p. 87). Il genetista conclude che queste differenza sono marginali e questo è certamente vero, ma allora perché i genetisti di popolazione continuano a studiare il genoma di popolazioni diverse quando la differenza tra le razze, ossia tra i continenti, è maggiore e quest’ultima è in ogni caso ritenuta poco significativa? È più ragionevole concludere che le differenze ci sono ma non è possibile quantificarle in modo esatto, perché variano a seconda della tecnica di analisi, né è possibile intuirle dal fenotipo di una persona – a meno che non si decida che l’enorme differenza tra un etiope ed un ghanese è azzerata dalla pigmentazione della pelle –, anche perché la variabilità individuale è enorme ed infine che non possono essere gerarchizzate, perchè nessun dato in nostro possesso indica che queste si riflettano a livello intellettivo, che è l’unico vero elemento di interesse per i razzisti (oltre alla patetica ossessione per gli attributi sessuali). In fondo lo stesso Barbujani sostiene che “la suddivisione migliore è quella in cui ogni individuo forma un gruppo per conto suo, cioè ogni individuo è una razza distinta” (Barbujani, ibid. 91).
Questo è il nodo cruciale della questione. Una possibile soluzione al problema del razzismo sarebbe quello di ribadire con insistenza l’evidenza scientifica che dimostra che gli individui, e non i gruppi umani, sono la sorgente principale di diversità umana e che le medie sono solo astrazioni statistiche. Solo gli individui che compongono le popolazioni sono reali. Ma questo è un dato che può essere di conforto solo per chi è già convinto dell’assurdità di classificare gli esseri umani a seconda della loro appartenenza ad una nazione, razza, etnia, cultura, religione, ecc. Dunque, in realtà, tenendo conto dell’improbabilità di ogni tentativo di ridimensionare la salienza della nozione di razza, almeno per il momento, sarebbe meglio concludere che: (a) la razza è un concetto semanticamente indefinibile ed una variabile statisticamente inafferrabile; (b) la provenienza geografica è un indicatore più significativo, anche se ancora approssimativo, almeno a livello medico; (c) per quel che ne sappiamo al giorno d’oggi essa non ha alcun effetto a livello intellettuale; (d) discriminare sulla base dell’appartenenza razziale di una persona sarebbe sbagliato anche se si scoprisse che le razze esistono e producono delle conseguenze, come è parimenti sbagliato discriminare una persona sulla base di una caratteristica sulla quale non ha mai potuto decidere (provenienza, famiglia d’origine, sesso, preferenze sessuali, ecc.); (e) tutti gli Homo Sapiens appartengono alla stessa specie ed hanno pari dignità.
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