domenica 23 ottobre 2011

Tolleranza, Intolleranza e Politicamente Corretto



Und doch fordert die Welt, in der wir beben, daß die Menschen miteinander, nicht bloß nebeneinander gehe, daß sie zusammen planen und aufbauen, was alle angeht und allen Leben auf dieser Erde sichert. Tendenz zur Einheit: Einheit, die vielleicht oft nicht im entferntesten geahnt oder erstrebt wird, die vielleicht mit Koexistenz oder Toleranz beginnt, die versucht, eine Widerstreit zu mildern (das Problem der "zwei Kulturen" und seine Überwindungsversuche legen Zeugnis ab), die aber unweigerlich in vielen Bereichen heraufzieht
Alex Langer, “Pluralismus und Einheit”, 1965

In questo senso molti integralismi ecologici e molte tecnocrazie dipinte di verde possono assumere un atteggiamento altrettanto ostile e negativo nei confronti degli uomini e degli altri esseri viventi. […]. Oggi, infatti, una parte delle motivazioni che vengono apportate per caldeggiare politiche ecologiste, sono essenzialmente motivazioni per così dire “di paura”. In altre parole è come se si dicesse: “devi smettere di fumare, altrimenti avrai il cancro; devi smettere di bere, altrimenti etc...”. Sono atteggiamenti che poi non tengono: sono poche, infatti, le persone che smettono in tempo di fumare o di bere, perché la paura non è una motivazione che alla lunga tenga. E la paura inoltre come motivazione non appartiene all’atto della generosità, semmai appartiene all’atteggiamento del “si salvi chi può”, e può spesso indurre a comportamenti o a scelte assai egoiste. La paura spesso può essere un utile campanello d’allarme, ma in genere non è una motivazione che con il tempo regge. Anche le motivazioni ecologico-economiche - cioè quelle di chi guarda alla biosfera semplicemente come una dispensa che deve essere amministrata con cura perché deve durare a lungo, e quindi ne ritaglia fettine piccine, molto sottili - potrebbero portare a politiche di razionamento sociale, di amministrazione oculata della scarsità, ma molto difficilmente ad un cambiamento forte di cultura e di atteggiamento verso la vita sociale e personale.
Alexander Langer, "Fare la pace: scritti su "Azione nonviolenta" 1984-1995", 2005, pp. 135-136

Cicerone, Seneca, Epitteto, Marco Aurelio e Gesù il Cristo hanno fatto della tolleranza un valore centrale dei propri sistemi di pensiero. La ragione di questa enfasi risiede nel fatto che la libertà è la condizione che consente agli esseri umani di maturare spiritualmente e civilmente, mentre la tolleranza è il principio e l’atteggiamento che tutelano la libertà e dunque la possibilità di coltivare il proprio potenziale. Come aveva intuito Voltaire, è più facile essere tolleranti quando si è consapevoli della nostra finitezza, dei nostri difetti e della nostra ignoranza. La disposizione d’animo di chi ritiene di poter apprendere dal prossimo è il fondamento della tolleranza, “l’unico principio che si può considerare propriamente laico” (Bobbio, 1994). 
Il bisogno di convertire il prossimo al nostro punto di vista è invece alla radice dell’intolleranza. La persona tollerante è pronta ad includere nel principio di libertà l’altrui espressione anche di idee che personalmente ripudia. La persona intollerante non è meno umana di quella tollerante. È solo meno informata – e quindi tende a giungere a conclusioni errate partendo da premesse incomplete o false –, meno riflessiva e psicologicamente e cognitivamente meno flessibile, essendo incline a ritenere che tutti gli altri dovrebbero pensarla in un dato modo e che chi non lo fa o è in cattiva fede o è un illuso (Stouffer 1966; Peffley/Sigelman, 1990). 
Nella maggior parte delle persone una certa misura di tolleranza coesiste con un esplicito sentimento di superiorità e convincimento della naturale bontà delle proprie aspettative e desideri. Questo è dovuto al fatto che la quasi totalità degli esseri umani tende all’egocentrismo, ad un pigro appagamento e ad un’ingiustificata fiducia nella correttezza della propria visione della realtà che inibisce la curiosità, la volontà di cercare e sperimentare spiegazioni alternative e stili di vita differenti. 
In pratica, l’intolleranza è il prodotto di una valutazione eccessiva delle nostre capacità di discernimento e giudizio, un circuito autoreferenziato in cui continuiamo a riprodurre quegli schemi di lettura della realtà che confermano le nostre convinzioni essenziali. Abbiamo investito troppo in noi stessi, nella nostra autostima, nelle nostre credenze per permettere a qualcun altro di infrangere le nostre certezze. 
Per inibire una reazione intollerante dovremmo guardarci con gli occhi degli altri, distanziarci da noi stessi, fare un passo indietro nel rispetto dell’altro o un passo avanti verso chi ci chiede assistenza, ma per molti è un compito molto arduo. Per questo siamo tutti intolleranti pur non essendone quasi mai consapevoli
Ci è difficile vedere nell’altro una persona di pari dignità e valore, un mondo ampiamente intelligibile, se solo facessimo lo sforzo di accostarcivisi. Peggio ancora, a causa del nostro relativamente basso livello di tolleranza nei confronti della pluralità del reale, in diversi casi ci risulta persino difficile assegnare all’altro un livello di realtà pari al nostro; tendiamo insomma ad astrarlo e spersonalizzarlo, ristrutturandolo in accordo con i nostri preconcetti e pregiudizi. Così definiamo stupidi i ragionamenti di chi non la pensa come noi e ripetiamo all'interlocutore dissenziente che in realtà è lui a non aver capito. Qualche volta è vero, altre volte no, ma è difficile ammetterlo prima di tutto con noi stessi.
Studi comparativi hanno mostrato che più una società valorizza la specificità dei singoli, maggiori sono la tolleranza e fiducia reciproca tra i cittadini e la democraticità dei processi decisionali (Kasser 2002; Houtman 2003; Allik/Realo 2004; Inglehart et al. 2004; Inglehart/Welzel 2005; Marquart-Pyatt/Paxton 2007; Van de Vijver et al. 2008). 
Una società civile vitale non tollera usanze ed idee diverse perché ne è entusiasta, ma semplicemente perché crede nel principio di libertà, colonna portante del vivere democratico. Dunque la tolleranza non si manifesta nell’accentuazione stereotipica della diversità – come fu il caso del Sudafrica, dove la segregazione era giustificata dalla necessità di mantenere cammini di sviluppo civile separati –, ma nella ricerca di un sentimento di umanità condivisa che trascende le differenze superficiali. Sono tollerante con te perché sei umano esattamente come me e non ho ragione di impedirti di esserlo a modo tuo, a patto che tu non mi impedisca di fare lo stesso. Perciò la prassi sociale della tolleranza è, in ultima analisi, l’atteggiamento di chi vede in ogni altra persona un singolo individuo, con tutte le sue peculiarità, e non l’espressione di un fascio di credenze popolari, portatore più o meno sano delle per noi irritanti caratteristiche del suo gruppo di riferimento o di origine.
Ciò comporta la ferma volontà di consentire al mio prossimo di dire ciò che pensa, nella convinzione che le idee possono ferire e mortificare solo chi dà peso a chi le proclama, mentre le azioni possono far male in ogni caso. Si badi bene, non v’è alcun obbligo di rispettarle – e qui sta il vizio di fondo del dogma progressista del politicamente corretto –, ma unicamente quello di tollerarle, nella piena libertà di criticarle anche aspramente. La tolleranza comporta un obbligo morale di far emergere e dar spazio ad una pluralità di opinioni, non di giudicarle tutte ugualmente valide
L’intolleranza è invece quella di chi, da una posizione di pessimismo antropologico e dunque di paternalismo pedagogico, giudica che la soppressione di certe idee sia un atto di carità e tutela nei confronti delle persone volubili, credule ed impressionabili. Nel difendere questa posizione, purtroppo, l’intollerante pregiudica a se stesso molte occasioni di confronto e di crescita personale, condannando molti altri alla stessa sorte. Come c’insegna Norberto Bobbio, “la tolleranza non è indifferenza…Tolleranza significa che è lecito, anzi doveroso il confronto” (Bobbio 1985).
Ciò non significa però che la tolleranza debba essere illimitata. Senza dubbio esiste una soglia oltre la quale una democrazia non può più gestire un eccesso di pluralismo e deve farsi intransigente. Ad esempio il diritto di espressione non implica il mio dovere di fornire a qualcuno i mezzi per amplificare il suo messaggio
Ma più importante ancora è l’esigenza di evitare che la tolleranza divenga un passepartout per il relativismo morale e per il capriccio snob di porre su un piano di equivalenza la crassa ignoranza, la viscida faziosità, la coscienza bigotta di chi opera per costruire una società in cui la tolleranza stessa non sarà più tollerata, dove la libertà d'espressione sarà un ricordo del passato, il diverso sarà considerato inferiore, l'empatia sarà vista come un segno di debolezza e di infantilismo. La retorica della differenza non può e non deve soppiantare quella dell’uguaglianza, perché altrimenti sarà fin troppo facile etichettare la tolleranza come una velleità elitaria, tipica di chi non vive a contatto con la realtà di ogni giorno, se non un tradimento del bene comune. Esistono dei principi non-negoziabili, incastonati nelle nostre costituzioni e nelle convenzioni internazionali, rispetto ai quali facciamo bene a non transigere.
Lo ripeto: permettere ad un’idea di farsi notare non significa doverla rispettare indiscriminatamente. Ci sono pratiche sociali e norme di condotta che sono migliori delle altre ed è opportuno difenderle. In questo senso, il politicamente corretto è una tirannia della mente ed una forma di intolleranza generalizzata ed istituzionalizzata. Originariamente un lodevole sforzo di depurare la lingua e, in prospettiva, il pensiero, da pregiudizi discriminatori, è diventato un filtro censorio ed uno strumento di allineamento conformistico. Questo meccanismo impedisce di poter avere un dibattito serio su certe tematiche, facilita il controllo del dibattito da parte di fanatici, dogmatici e militanti, esiliando gli interlocutori più creativi e lucidi, e cosparge le discussioni di banalità, preconcetti, semplificazioni, eufemismi (surrogati, come etnia al posto di razza) e tabù (il non-detto). Il tutto in una clima farisaico e puritano, alimentato da persone in buona fede ma di scarso discernimento. Si seppellisce l’esperienza, per poi erigervi sopra un nuovo edificio di credenze. Tutto questo è pervicacemente anti-democratico ed una cittadinanza informata e consapevole avrebbe riservato a questa deriva puritana il trattamento che merita: l’irrisione.

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