lunedì 28 novembre 2011

Le virtù trentino-tirolesi alla prova del Terzo Reich



Ho appena finite di leggere il rapporto del Gauleiter Frauenfeld sul Sudtirolo. Propone che i Sudtirolesi siano trapiantati in massa in Crimea e penso sia un’idea eccellente. Ci sono pochi altri luoghi su questo pianeta in cui una razza possa avere più successo nel conservare la sua integrità per secoli e secoli. I Tartari ed i Goti ne sono la prova vivente. Anch’io penso che la Crimea sarà climaticamente e geograficamente ideale per i Sudtirolesi e, se paragonata alla loro attuale situazione, sarà un paradiso di latte e miele. Il loro trasferimento in Crimea non presenta alcuna difficoltà fisica o psicologica. Tutto quel che devono fare è navigare un corso d’acqua tedesco, il Danubio, e saranno arrivati.
Adolf Hitler, luglio 1942 (Hitler, 2010)

“…la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. […] tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. […] Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo”.
Italo Calvino, “Il sentiero dei nidi di ragno”

Come si comporterebbero Trentini e Sudtirolesi nell’evenienza di un loro inglobamento in un regime totalitario? Se i precedenti sono un’indicazione, allora è bene preoccuparsi, perché quel che si ricava dalla lettura di “La zona d'operazione delle Prealpi nella seconda guerra mondiale”, atti di un convegno di studi tenutosi nel 2006 e curati da Andrea Di Michele e Rodolfo Taiani (FMST, 2009), è un quadro a dir poco sconfortante.
Quello nazista era un ordine fondato non sul diritto del più forte, un diritto che è intrinsecamente transitorio, ma su quello metafisico e metastorico della purezza e preziosità del Sangue, della Razza e dello Spirito della Stirpe, un criterio così radicale, assoluto ed inesorabile da non sembrare neppure di origine umana. Tuttavia, mentre la fascistizzazione di entrambe le province fallì, l’occupazione nazista fu un successo. Lo pone in evidenza lo storico Luigi Ganapini, riepilogando i punti salienti dei vari contributi e citando “l’ambiguo comportamento del prefetto de Bertolini”, “il contributo sostanzioso allo sforzo bellico tedesco” da parte del Trentino Alto Adige, “i semi di conflittualità interetnica seminati a piene mani dagli studiosi”, “la scelta estrema del Corpo di Sicurezza Trentina”, la “guerra civile latente” in Alto Adige, l’immenso divario morale tra il vescovo di Belluno, monsignor Bortignon – salito su una scala per baciare i partigiani impiccati davanti ai loro carnefici – e quella del principe vescovo pangermanista di Bressanone Johannes Geisler, che si limitò a predicare disciplina ed obbedienza, in contrasto con il basso clero, schierato contro il neo-paganesimo razzista. Il ruolo dell’élite scientifica è stato esaminato da Michael Wedekind nel suo bel contributo ed in un articolo più esteso, intitolato “Le sporadi tedesche: comunità germanofone dell’Alta Italia come oggetto dell’etnoscienza ed etno-politica tedesche”, pubblicato quasi contemporaneamente nell’ultimo numero di Archivio Trentino (2/2008). Lungi dall’attenersi a criteri di obiettività e rigore, gli etno-antropologi di lingua tedesca che operarono nella nostra regione e che sono stati riscoperti ed in qualche misura “sdoganati” negli ultimi anni [cf. capitolo sull’Ahnenerbe in questo stesso volume], dimostrarono “affinità ideologiche” col regime, una “bizzarra mancanza di aderenza alla realtà”, una “visione del mondo etnocentrica radicalizzata” ed una manifesta “disponibilità a partecipare al nuovo ordine europeo nazista”. Lorenzo Baratter ci ricorda che oltre 3000 Trentini, dovendo scegliere tra la prigionia in Germania assieme ad altri 600mila militari italiani, il lavoro nella Todt e il Corpo di Sicurezza Trentino, scelsero di indossare un’uniforme tedesca e di partecipare alle rappresaglie contro altri Trentini ed Italiani. Al contrario, il Corpo di Sicurezza Bellunese non prese mai forma. L’ambiguità degli obiettivi e la ristrettezza delle visioni sembrano aver sabotato il movimento resistenziale trentino. Alberto Vadagnini riporta che a fine 1944 Walter Pienagonda (“Rado”) scrive ad Andrea Mascagni che “il CLN trentino è bloccato da inerzie, beghe di partito, interessi personali, egoismi, invidie e da una visione troppo localista”. Bizantinismi morali che, secondo lo storico altoatesino Andrea Di Michele, si fanno evidenti nelle scelte postbelliche dell’SVP che, dovendo presentarsi come partito di raccolta etnico, accolse un po’ tutti, “dai più aperti oppositori al nazismo fino a coloro che vi avevano collaborato attivamente. Ciò significò anche tacere le voci degli ex resistenti in quanto scomodi testimoni di una profonda divisione che non si voleva mostrare verso l’esterno”.
Contraddizioni che, com’è noto, sono riemerse di recente in tutta la loro virulenza con il rifiuto del vicesindaco di Bolzano Oswald Ellecosta di partecipare alle commemorazioni al lager di via Resia e con certe sue esternazioni che rivelano che lui considera l’incorporazione dell’Alto Adige nel Terzo Reich come un intervallo di libertà dall’occupante italiano. Dunque si rifiuta di riconoscere come un problema la deportazione e sterminio degli Ebrei residenti nell’area o la partecipazione ad un progetto efficacemente ricapitolato dalle considerazioni dei due massimi esponenti del nazismo, Martin Bormann, leader del partito nazista e segretario personale del Führer, e Adolf Hitler. Sul destino di milioni di Europei orientali: “Gli Slavi devono lavorare per noi. Quelli che non ci servono possono pure morire…La fertilità degli Slavi è indesiderabile. Possono usare contraccettivi o praticare l’aborto, più lo faranno meglio sarà. L’educazione è pericolosa. È sufficiente che sappiano contare fino a cento…ogni persona educata è un futuro nemico” (Martin Bormann, Memorandum, 1942). Sulle politiche demografiche del Reich: “Il soggiogamento di 350.000 Eloti da parte di 6000 Spartani fu possibile solo grazie alla superiorità razziale degli Spartani che a sua volta era il risultato di una preservazione razziale sistematica. Quello Spartano fu il primo stato razziale. La distruzione dei bambini malati, deformi e fragili dimostrava una grande dignità ed era mille volte più umana della patetica infermità dei nostri tempi che tiene in vita i malati cronici e impedisce la nascita dei sani tramite l’aborto e l’uso dei metodi anticoncezionali” (Adolf Hitler, 1928/1961). Più importante di tutto, per Ellecosta, è l’integrità dell’Heimat e la possibilità di tornare a parlare liberamente la propria lingua. L’etnia viene prima della libertà e della democrazia. Dall’altra parte c’è comunque chi, come Giorgio Holzmann, omaggia Ettore Tolomei, il campione della fascistizzazione e pulizia etnica dell’Alto Adige. Per entrambi, valgono le parole di Di Michele: “Io credo che su questio­ni così delicate e centrali non si debba transigere. Di fronte a una data che segna per tutti noi, italiani, tede­schi e ladini, la fine della dit­tatura e il ritorno alla demo­crazia, il riconoscimento de­ve essere esplicito e privo di ambiguità. Per questo, an­che nella nostra provincia, combatterono e morirono uomini sia di lingua italia­na che di lingua tedesca, ma­gari divisi sul destino che il Sudtirolo avrebbe dovuto conoscere dopo la guerra, ma consapevoli che la pri­ma cosa da fare era quella di dare il proprio contributo per sconfiggere le dittature. […]. Non è questione di essere italiani, tedeschi o ladini, ma di credere sinceramente nei valori della democrazia. Non ci possono essere ambi­guità nella condanna a fasci­smo e nazismo e va detto chiaramente che sono stati due Stati democratici, Italia e Austria, a trovare una so­luzione al problema sudtiro­lese” (Alto Adige, 28 aprile 2009).  
Quali dunque le cause della remissività, che a volte sconfinava nella duplicità, se non in un tacito e dissimulato collaborazionismo con l’orrore nazista da parte della popolazione trentino-tirolese? Ragioni storiche e politiche, certamente; la paura, comprensibilmente. Ma forse anche una sorta di “teutonofilia”, ossia il desiderio di essere tedesco, o come i tedeschi, o dalla parte dei tedeschi, a prescindere dai frangenti; e l’amore per tutto ciò che proviene dal mondo nordico, al punto da associare perizia tecnica e competenza morale e politica. Purtroppo quanto più un paese è ben organizzato, tanto più facile è sfruttarlo e tanto più arduo è trovare modi di interferire con gli obiettivi dell’occupante. In Trentino, la propaganda nazista si avvalse della stampa locale per lanciare il suo appello al tradizionale senso di lealtà e rispetto verso le istituzioni e l’autorità costituita, alla pazienza, concordia, disciplina, operosità, generosità, parsimonia, diligenza, sobrietà, cortesia ed allo spirito di sacrificio “tipicamente” trentini per garantire la pace sociale nelle retrovie alpine (Baggiani, 2010). Adolfo De Bertolini, nominato Commissario Prefetto dal Gauleiter Hofer, si era fatto interprete della diffusa volontà trentina di evitare il peggio e, nell’annunciare la costituzione del Corpo di Sicurezza Trentino, che indossava uniformi tedesche e doveva prestare un giuramento di fedeltà ad Hitler, ripropose alcuni dei motivi retorici più triti ma forse anche più rassicuranti per una popolazione angosciata: “Si tenderanno qui la mano i figli dei patrizi e quelli del popolo, i giovani avviati agli studi con quelli che devono guadagnarsi la vita con la forza delle loro braccia; tutti però animati da un medesimo slancio; quello di trovare in un lavoro disciplinato il fermento di una più utile esistenza, a vantaggio della collettività sociale. […]. Essa impedirà che la collettività provinciale possa essere sommersa da elementi estranei, conserverà al Paese la sua impronta locale tramandata dai padri; eviterà allo sfregio di quell’onesto costume che ha fatto in passato della gente trentina, più che un popolo, una famiglia”. L’allora vescovo di Trento, monsignor Carlo De Ferrari, una figura che non si distinse per audacia, nell’appello ai fedeli della Vigilia di Natale del 1943 li esortò a “proseguire sulla giusta via nella fede dei Padri che si tempra alle prove nell’austera disciplina che é obbedienza alle Autorità e alle leggi, per giungere così alla carità che é amor patrio e amore ai fratelli, secondo l’insegnamento di Paolo”. Il riferimento all’insegnamento paolino è quantomai significativo, perché ricorre frequentemente nei memoriali di chi denuncia le forme di collaborazionismo più o meno dell’Europa occupata dai nazisti. L’epistola ai Romani (13, 1-6) è di particolare interesse: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio”. Dietrich Bonhoeffer si interrogò a lungo sul senso e sulla validità di questo tipo di sollecitazioni in un mondo alle prese con un potere malvagio come quello nazista.
I partigiani non avevano dubbi: non esistono spazi per alcun compromesso con il Male ed un regime che stermina le popolazioni ed intende conquistare il mondo è l’incarnazione terrena del Male. Perciò il giudizio dei pochi partigiani trentini sulle presunte virtù trentine fu ben diverso: mentalità arretrata e reazionaria, clericalismo antimodernista, passività ed arrendevolezza, pavidità, scarsa lungimiranza, concretezza meschina ed ipocrita, chiusura mentale. Vi era la sensazione, peraltro non troppo distante dal vero, che la principale preoccupazione fosse quella di preservare la buona amministrazione, la coesione sociale ed un forte spirito comunitario, a qualunque costo. Come per tutta la storia trentina, le poche ribellioni non smossero più di tanto le acque e, nei fatti, i rapporti, i ruoli, la serialità dei comportamenti e delle relazioni rimasero quasi intatti ed immutati. In linea con l’antica tradizione secondo cui “il singolo era una creatura imperfetta che aveva bisogno della perfezione di una comunità per operare come cittadino” (Lo Preiato, 2009).
Maria Garbari (1984, p. 60) constata che lo scopo della retorica dell’occupante era quello di “associare il localismo con la visione della sicurezza, del benessere, dello starsene fuori dalla mischia, di evocare antiche tradizioni legate alla stabilità ed all’ordine: in nome di questo mondo fatto di conservazione e valorizzazione degli occupanti, si sarebbero potuti smussare alcuni angoli di frizione fra le popolazioni locali ed i nazisti ed evitare che la gente di montagna ed i contadini passassero nel campo dell’opposizione, magari attraverso la cerniera della chiesa e del clero minuto”. La Gleichschaltung nazista - allineamento coordinato e sincronizzato dell’intera società - fu senza alcun dubbio facilitato dalla tendenza locale ad esaltare il modello sociale ed amministrativo germanico e disprezzare quello italiano: “Sono questi dei luoghi comuni, che naturalmente solo parzialmente corrispondevano a verità, ma ebbero molto peso sulla mentalità locale e condizionarono senz’altro le scelte in certi momenti. Era difficile scindere l’ammirato stile di vita del mondo austro-tedesco dal nazismo di Hitler con i mezzi di informazione di cui allora si disponeva perlomeno nelle piccole comunità rurali, era difficile in quel momento ammirare il popolo tedesco e condannarne il regime del quale non si conoscevano ancora le atrocità (Palla, 2003, p. 219). Di conseguenza ogni forma di resistenza che mettesse a repentaglio lo spontaneo fluire della quotidianità era visto come il fumo negli occhi, “in quanto sinonimo in generale di disordine, di violenza gratuita, di rottura di tutte le regole e quindi del venir meno di ogni moralità e legalità” (Palla, ibidem).
Per ciò stesso i partigiani godevano di pessima fama ed erano assimilati a rubagalline, a briganti, a predoni che usavano gli slogan socialisti per appropriarsi della “roba” altrui. Invece il miraggio del completo autogoverno delle popolazioni autoctone giustificava ogni connivenza, costituendo “la più insidiosa, la più subdola, la più temibile delle prospettive che Franz Hofer è riuscito a far credere alla popolazione trentina nella prima fase del suo governo sulla regione, prima cioè di dare il via alla seconda fase che è stata quella della più feroce, efficiente, spietata repressione poliziesca” (Agostini & Romeo, 2002, p. 71). I Trentini non si lasciarono nazificare, come non si erano lasciati fascistizzare. Tirarono semplicemente a campare, attendendo l’arrivo degli Alleati. Ma è proprio il prevalere della filosofia del “Ha da passa' 'a nuttata” che rappresenta il trofeo più ambito per un esercito occupante: è sufficiente convincere la popolazione che se non ci saranno motivi di irritazione tutto si risolverà per il meglio e poi attendere gli effetti della Sindrome di Stoccolma, quella del rapito che si allea col rapitore contro i soccorritori, reintepretando in modo radicale la sua situazione, per difendere la sua psiche.
Diversa fu la reazione era la situazione in Alto Adige, dove molti video i nazisti come dei liberatori, tanto che vi trovarono rifugio ed assistenza, tra gli altri, persino dei mostri come Adolf Eichmann (al convento dei Francescani di Bolzano), Franz Stangl (Castel Labers), Josef Mengele (Vipiteno e Termeno), Gerda Bormann, la fanatica moglie di Martin Bormann (Merano) ed Erich Priebke (via Leonardo da Vinci, a Bolzano) (cf. Steinacher, 2010). Anche a questo proposito Francesco Comina scrive “pare che buona parte degli uomini sia senz’altro pronta ad adeguarsi ai poteri ed alle ideologie imperanti se ciò consente loro di perseguire i loro scopi e valori prettamente materialistici. Il mascheramento di tale comportamento con un folclore tinto di toni religiosi risulta fastidioso all’osservatore che viene da fuori e fa sì che gli spiriti più critici si allontanino da questa patria e dal consorzio culturale così pomposamente dichiarati” (2000, p. 11). Io credo che la sua valutazione del comportamento sudtirolese sia incompleta. Accanto ai motivi pratici ed al desiderio di continuare a vivere costi quel che costi, magari approfittando delle circostanze eccezionali per arricchirsi a spese degli altri, c’era un’adesione sincera ad un certo ruolo dell’individuo nella società. In Alto Adige, come in Trentino, gli individui erano “come organi in un corpo” (Lo Preiato, 2009). Non potevano esistere interessi qualitativamente differenti dei quali tener conto, in un quadro di riferimento assoluto in cui la sudditanza nei confronti del potere non poteva essere messa in discussione. “I cittadini erano sottoposti alla potestà di un padre sui figli con un obbligo di fedeltà assoluto, perpetuo e generale” (Lo Preiato, ibidem). Obbedire senza porsi troppe domande era considerata una virtù. E ciò dà conto del comportamento delle popolazioni locali che, come annota Armando Vadagnini, si dimostrò “priva di senso rivoluzionario”, “apatica”, “fredda e indifferente” (Di Michele / Taiani, 2009). Nel Bellunese, dove le autorità ecclesiastiche e civili erano apertamente critiche nei confronti del Terzo Reich, dove centinaia di partigiani emiliani erano affluiti per combattere sulle Alpi e dove permaneva la memoria della lotta contro il nemico austriaco, le cose andarono diversamente e la prospettiva localista non esaurì l’interpretazione degli eventi degli autoctoni. L’orientamento trentinistico riemergerà invece nel dopoguerra in seno all’autonomismo trentino, che ebbe due anime: una progressista e cosmopolita, sinceramente ispirata al federalismo di Carlo Cattaneo e di Altiero Spinelli, ed una più chiusa, localista e xenofoba. Di questa corrente faceva parte chi vedeva nell’unificazione con l’Italia la minaccia di “un progressivo decadimento economico, morale e culturale della nostra regione”, chi deplorava l’abrogazione delle “chiare leggi austriache che esercitavano una profonda distinzione del male e del bene” e “l’incontrollato afflusso dal sud di gente di ogni risma, pronta al raggiro e ad ogni mezzo di corruzione”. Il Movimento Separatista era addirittura pronto a riprendere in mano le armi nel 1945 qualora ci fosse stata la necessità di un’immediata azione di forza per richiamare l’attenzione internazionale (Baratter, 2009, p. 37).
La teutonofilia indusse molti ad anteporre a valori primari quali la dignità, l’onestà, il rispetto, l’attenzione verso il prossimo, il libero arbitrio, la compassione, la giustizia e la solidarietà, quei valori secondari come la diligenza, l’obbedienza, l’efficienza, la dedizione, la coesione e l’ordine che già godevano peraltro di uno status immeritato – se fini a se stessi – in questa regione. Immeritato perché le tradizionali virtù trentine o teutoniche sono virtù secondarie, funzionali al buon governo di una popolazione, non al buon governo delle coscienze. Vediamo perché. Giamblico di Calcide, rifacendosi a Pitagora, distingueva le virtù teoriche, che sono le virtù dell’anima che ha già abbandonato se stessa e si volge verso l’alto, dalle virtù civiche. Mentre queste riguardano la ragione che si dirige verso ciò che è inferiore a se stessa, le prime traggono origine dallo sforzo della ragione verso ciò che è superiore ad essa. Pur prescindendo dalle premesse metafisiche di Giamblico, ritengo che questa divisione tra virtù primarie e secondarie sia affatto plausibile.
Le virtù primarie comprenderebbero unità, armonia, pace, equilibrio, saggezza/sapienza, amore, fede, speranza, compassione, tenacia, calore umano, coraggio, umiltà, gratitudine, benevolenza. Quasi tutte queste virtù possono essere pervertite conducendo a: assimilazione, obbedienza supina, apatia, indifferenza, ordine, fanatismo, dipendenza psicologica, anticipazioni irrealistiche, manipolazione emotiva, rigidezza mentale, facili entusiasmi, sconsideratezza, auto-svalutazione, indebitamento perpetuo, sfruttamento.
Le virtù secondarie includono competenza, efficienza, senso del dovere, puntualità, lindore, diligenza, obbedienza, efficienza, dedizione, coesione, ordine, disciplina, parsimonia, utilità, mansuetudine, accuratezza, rapidità, prevedibilità, precisione, celerità, continuità, unità, rigorosa subordinazione, riduzione degli attriti, massimizzazione, ecc. Tutte qualità generalmente associate alle macchine. Sono utili per il vivere associato perché ci aiutano a vivere in maniera organizzata ed efficiente. Ma sono strumenti in vista di un fine e non devono diventare un fine in se stesse. In quel caso possono finire per formare gli anelli di una catena di male che termina in luoghi come Auschwitz. Infatti, essere un eccellente cittadino dotato di virtù civiche non significa essere un eccellente essere umano dotato di virtù umane. In molte società le due cose divergono. Riferendosi ai meriti di Danesi ed Italiani nel salvataggio di Ebrei durante l’Olocausto, Hannah Arendt, in “Eichmann a Jerusalem”, scriveva: “Ciò che in Danimarca fu il risultato di un autentico senso politico, una congenita comprensione dei requisiti e delle responsabilità della cittadinanza e dell’indipendenza…in Italia ebbe origine da una quasi automatica umanità generale di un popolo antico e civile” (Arendt, 2009). Questa generalizzazione va presa con le molle, perché le virtù italiane giacevano e giacciono in una matrice di vizi mal sopportabili, come il disordine, la disobbedienza, il menefreghismo, la malizia, la corruzione ed il pressappochismo che peraltro intralciarono, loro malgrado, la macchina dello sterminio. Resta però il fatto che la disumanità nazista si espresse al meglio proprio in quel sistema di virtù secondarie che sono da sempre esaltate da patrioti e riformatori sociali. A questo punto, prima di procedere, è bene ammonire il lettore a non identificare nazismo e “germanità”. Norvegia, Danimarca e Olanda sono nazioni nordiche che hanno dimostrato livelli di umanitarismo pari se non superiori a quelli italiani, mentre non dobbiamo mai dimenticarci degli eccidi commessi dagli Italiani, fascisti o meno, in Africa e nei Balcani e dalla prontezza con la quale molti Italiani hanno chiuso gli occhi di fronte alla sorte dei Sudtirolesi. È bene non indulgere nell’autostereotipizzazione degli “Italiani, brava gente”.
Lo storico Jonathan Steinberg (Steinberg 1997) ha evidenziato l’uniformità della brutalità nell’esercito tedesco, la virtuale assenza di espressioni di umanità nella corrispondenza privata e nei documenti pubblici. Non si parla mai di esseri umani (Menschen), ma solo di materiale, forniture, roba. Apparentemente tra le mansioni del soldato tedesco non era contemplato il comportarsi umanamente: termini come morale ed etico non trovavano posto nei manuali degli ufficiali. Invece i soldati italiani facevano riferimento alle virtù cristiane in pubblico ed in privato, al retaggio dei codici di condotta cavallereschi, mostrando una forte consapevolezza dei dettami dell’onore ed un impegno a proteggere i deboli e gli oppressi. Perché una tale divergenza tra due paesi che appartengono alla medesima tradizione europea? Jonathan Steinberg ipotizza una biforcazione nella concezione stessa dell’umano e cita l’autore satirico Kurt Tucholsky che, nel 1928, scrisse un brillante pamphlet intitolato “Das Menschliche” (l’umano) in cui spiegava che “Das Menschliche” è un qualcosa che altrove è auto-evidente ma non in tedesco, dove rischia spesso di decadere nella categoria di “ciò che è al servizio” o, peggio ancora, di “ciò che è una cosa”. Tucholsky concludeva che questo è ciò che rende la mentalità tedesca così difficile da far intendere altrove. Nella Germania del tempo – ossia quella che stava per cedere alla seduzione nazista, non esistendo una Germania eternamente nazificabile – l’umano era strettamente associato al disordine, all’impertinenza, al caos incontrollabile…”das Menschliche” è tutto ciò che rimane dopo che il danno è fatto”. Come antropologo devo obiettare ad ogni essenzializzazione di una cultura così ricca e variegata. È evidente che milioni di Tedeschi, anche sotto il nazismo, non smarrirono i sentimenti umanitari. Ma non c’è alcun dubbio che la teologia politica nazista aveva come fine prioritario quello di de-umanizzare i nemici e robotizzare i seguaci, o per meglio dire adepti (perché di veri e propri fedeli parliamo, non di simpatizzanti), magnificando le virtù secondarie ed emarginando quelle primarie, le uniche che potevano interferire con i piani hitleriani.
A me pare che Emmanuel Levinas abbia colto con estrema acutezza e perspicacia la vera essenza del nazismo. Riporto qui di seguito una lunga citazione tratta da “Emmanuel Levinas” di Giuliano Sansonetti e che concerne la libertà dello spirito rispetto alla materia, un pilastro del pensiero filosofico occidentale (ma anche orientale): “Tale libertà si esprime nell’estraneità dell’anima che, senza comportare una fuga dal mondo, si distanzia da esso fondando così la propria trascendenza. È questa libertà sostenuta dal cristianesimo ad aver ispirato i movimenti profondi della storia, anche quelli, come il marxismo, che si sono posti in alternativa al cristianesimo. Rispetto a tale tradizione, l’hitlerismo costituisce una vera e propria rottura, un radicale rovesciamento di prospettiva. Lo specifico di questo movimento infatti Levinas lo individua nell’incatenamento dello spirito al corpo, per cui il biologico, con tutto ciò che comporta di fatalità, più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore. Donde le misteriose voci del sangue, i richiami dell’eredità e del passato, ai quali il corpo serve da enigmatico veicolo. Ne deriva che l’essere dell’uomo non è più nella libertà ma in una specie d’incatenamento. Sul piano dei rapporti sociali, non è l’accordo libero della volontà a costituire l’elemento unificante, bensì la consanguineità, per cui se la razza non esiste, bisogna inventarla. Ogni comunione di spiriti che non sia fondata sulla consanguineità non può che apparire sospetta. Anche questa idea ha bisogno di affermarsi come universale, ecco allora che il razzismo deve far posto all’idea di espansione; quest’idea, però, a differenza delle altre, non lascia la libertà di accoglierla o meno, ma si trasforma in politica di potenza. Con l’hitlerismo, in sostanza, non è messo in discussione questo o quell’aspetto della civiltà occidentale, ma l’umanità stessa dell’uomo” (Sansonetti, 2009, pp. 42-43). Il nazismo è prima di tutto la negazione della dignità, la principale virtù umana, che dipende dalla capacità dell’individuo di continuare ad essere un soggetto dotato di volontà, di autogovernarsi, un attributo che si applica ai singoli esseri umani, non alle collettività. La seconda virtù primaria negata dal nazismo è quella della giustizia che, secondo Simone Weil, consiste nel comportarsi esattamente come se ci fosse uguaglianza quando uno è più forte in un rapporto diseguale. Per Pitagora il principio di giustizia determina la relazione reciproca e bilanciata tra eguali e deve stare alla base di ogni attività umana. È l’incontro di mutualità e giustizia che genera l’altra virtù primaria che è l’uguaglianza. Un’ulteriore virtù primaria oggetto delle attenzioni naziste è la mitezza, che Bobbio definiva “la più impolitica delle virtù” e che non va confusa con la passività mansueta. Sempre per Bobbio, il mite non è remissivo davanti alla soperchieria, anzi è baluardo contro l’arroganza (l’opinione eccessiva di sé che giustifica la sopraffazione), la protervia (l’ostentazione dell’arroganza) e la prepotenza (l’abuso di potere ostentato e praticato). Come William Blake, Bobbio era fautore di una civiltà fondata sulla dolcezza e sulla “parte migliore dell’io”, anatema per ogni autentico nazista.
I nazisti avevano una valida ragione a sostegno delle loro pretese: l’inesistenza di una morale obiettiva. In un mondo in cui ha valore solo ciò che è misurabile e computabile non possono esistere valori spirituali che non necessitino di una qualche giustificazione razionale. La scienza nazista era perfettamente in grado di avvalorare le intuizioni del Führer, se necessario anche falsando i dati. C’erano dei fatti che la scienza tedesca sotto il nazismo aveva il compito di tradurre in dogmi utili al riformismo politico hitleriano. L’esistenza della razza, la perpetuazione del genotipo (allora si chiamava plasma germinale) dai primordi fino al Terzo Reich, la determinazione genetica del temperamento e delle facoltà intellettuali, la causazione naturale della Storia e dell’evoluzione sociale. Questi erano tutti fatti “scientificamente dimostrati”. Essi comprovavano implacabilmente la validità della teoria dell’Ahnenerbe (eredità ancestrale), che definiva l’individuo e la sua spiritualità come il mero epifenomeno di linee genealogiche perpetue. In pratica i tratti caratteriali e le facoltà intellettive di ogni individuo erano il portato di un lungo processo di trasmissione del patrimonio germinale a partire dai suoi antenati, processo che non poteva essere influenzato da alcun fattore ambientale. Secondo questa teoria le popolazioni e le razze sarebbero fasci di linee germinali e gli esseri umani anelli di una catena genealogica millenaria che determinerebbe chi siamo, in cosa crediamo e come agiamo.
Questo sistema di coordinate faceva sì che le virtù preferite dai nazisti trovassero un ancoraggio nella Natura – trasformata in un idolo da venerare e in un agente cosmico schierato dalla parte del Terzo Reich –, e quindi nell’evoluzione universale. La spiritualità materialista dell’hitlerismo implicava il collettivismo identitario e quindi il rigetto di ogni concettualizzazione degli individui quali soggetti autonomi ed indipendenti. Questa logica classificatoria imputava a tutti i membri di una razza, ad esempio gli ebrei, le colpe di alcuni ed attribuiva a tutti gli ariani i meriti di alcuni presunti ariani. Vi era poi la pretesa che chi fosse stato identificato come membro di una razza dovesse allinearsi alle pratiche e prescrizioni ad essa associate, accettando l’appiattimento della sua identità sulla categoria bio-sociale assegnatagli fin dalla nascita. Il danno in termini di dignità umana e realizzazione delle proprie potenzialità si estendeva anche al nazista, che non si rendeva conto di sconfessare la propria individualità e di condurre un’esistenza moralmente parassitaria, a rimorchio della sua razza ed ideologia di riferimento, narcisisticamente convinto di condividere le virtù del Volk e del Geist. Questo senso di impeccabilità e di intangibilità morale è alla base del comportamento osservato e denunciato dal grande alpinista Tita Piaz in Val di Fassa nel periodo dell’occupazione nazista (Palla, cf. Di Michele/Taiani, 2009): “Due giorni fa si flagellò uno di Campestrin perché non voleva ammettere di essere ebreo! Pare che la civilizzazione presso certi popoli sia passata attraverso i secoli senza lasciar traccia di sé. Se le cose venutemi a conoscenza questi ultimi tempi mi fossero state raccontate alcuni mesi fa mi sarei decisamente rifiutato di crederle non foss’altro che per rispetto della natura umana. Ma dunque siamo ritornati ai primordi della vita, retrocesso nel tempo delle scure profondità dell’essere? E l’uomo immagine di Dio dov’è ora?” (p. 349). E ancora, riguardo al mercanteggiamento dei beni delle vittime da parte delle guardie: “Capisco come i soldati romani abbiano diviso le misere vesti di Cristo che era un ribelle estraendole a sorte, ma non riesco a trovare una scusa per questi miserabili pigmei e questi quadrati egoisti che non arrossiscono punto di vendere il più piccolo favore al miglior offerente, che speculano sulle sventure delle vittime che sono loro fratelli” (p. 352). È interessante notare che Piaz impiega il termine “fratelli”. Nessun aguzzino avrebbe mai visto nell’altro un fratello, che è invece un concetto centrale dell’etica umanistica e cristiana.
Chi sostiene l’etica umanista-cristiana tanto aborrita dai nazisti ritiene che le virtù primarie ed i valori centrali definiti dalle carte costituzionali non abbiano bisogno di una qualche giustificazione razionale o di un ancoraggio naturalistico-evolutivo. Ritiene che non sia davvero necessario dimostrare scientificamente l'utilità di amore, amicizia, familiarità, comunanza, collegialità, fraternità, buon vicinato, dignità umana e solidarietà. Che per i diritti umani non siano richieste verifiche di autenticità e che principi ed intuizioni extra-scientifiche non siano il prodotto di superstizioni o di emozioni inaffidabili ma di semplice buon senso. Torniamo a toccare il nodo irrisolto del senso ultimo dei nostri ragionamenti morali. Possiamo fare a meno di ricercare in motivazioni che eccedono la nostra umanità le ragioni per comportarci decentemente, equanimemente ed affettuosamente nei confronti del prossimo? Dobbiamo chiedere a Dio o alla Scienza di spiegarci perché non si debbano fare certe cose? Oppure siamo giustificati nel sostenere che la madre di tutte le regole, “tratta gli altri come loro vorrebbero essere trattati”, esaurisce ogni discussione in merito al perché ed al percome uno debba agire in un modo piuttosto che in un altro? Personalmente credo che sia questo il caso e che la nostra umanità ci obblighi ad intervenire quando ci si chiede di alleviare le sofferenze altrui. Rimarranno comunque persone che non la riterranno un’argomentazione soddisfacente e vorranno risalire ancora più a monte, sostenendo magari che quelle centrate sull’empatia ed il buon senso (intuizioni morali) siano confuse pretese argomentative e che la comune condizione di vulnerabilità della nostra specie – nell’infanzia, nella malattia e nella senilità – non possa dar conto dell’esistenza dei sentimenti del rispetto, della gentilezza, dell’amore e della compassione. Questi critici sono liberi di pensare come credono, a patto che non cerchino di imporre all’intera collettività il loro riduzionismo epistemologico ed etico.

1 commento:

Attilio fronza ha detto...

Se vuole le consiglio un volume riguardante un milite del C.S.T. che racconta la sua esperienza in questo corpo militare.
Attilio Fronza, "LA POLIZIA TRENTINA" AI CONFINI DEL REICH. UNA TESTIMONIANZA. 1943-1945, Egon/Emanuela Zandonai Editore, Rovereto, 2008, 2009.
Interessante per capire gli stati d'animo, esperienze, aneddoti di una persona comune.