domenica 20 novembre 2011

La partita a scacchi globale che si gioca in Siria - Israele in trappola?




Poiché ero preoccupantemente ignorante riguardo alla questione siriana e le vicende stanno prendendo una piega sempre più drammatica, ho deciso di auto-educarmi. In questo articolo condivido quel che ho imparato.
I testi che riporto vanno in profondità nella questione, per questo potrebbe essere opportuno dare prima un’occhiata a questo precedente articolo dedicato alla Siria, che può aiutare ad inquadrare lo scenario in una cornice globale:
Jonathan Steele, Syria needs mediation, not a push into all-out civil war
La Siria è sull’orlo della guerra civile e la Lega Araba ha deciso, scelleratamente, di spingerla oltre il precipizio. Qatar e Arabia Saudita, i falchi del Golfo, hanno trovato una sponda nel re Abdullah di Giordania, che finora era sempre stato un moderato. Il buon senso suggerirebbe che i governi arabi dovrebbero mediare tra il regime e i suoi avversari, ma hanno invece umiliato i governanti siriani sospendendoli dalla Lega Araba. Algeria, Libano ed Iraq si sono opposti a questa decisione, memori degli sfaceli che comporta una guerra civile. Libano e Iraq, che confinano con la Siria, non si possono permettere un bagno di sangue in quel paese, che tra l’altro li inonderebbe di profughi. Secondo la normativa della Lega araba il voto sarebbe dovuto essere unanime, quindi sarebbe da considerarsi nullo.
Gli scenari sono cambiati. Se prima le immagini erano quelle di un regime che sparava ai manifestanti disarmati, ora i rivoltosi sono bene armati, organizzati in un esercito e sono letali per l’esercito regolare e per le forze di polizia, sfruttando il fatto che operano da basi localizzate al di fuori della Siria. Se questo conflitto dovesse degenerare non sarebbe da escludere operazioni di pulizia etnica tra le diverse fazioni, come in Jugoslavia. I sunniti moderati, i cristiani e i kurdi, si preoccupano per l’ascesa della fratellanza islamica e dei Salafiti, che hanno preso il controllo dell’opposizione: preferiscono il regime al fondamentalismo islamico. Le grandi manifestazioni a favore del regime di Damasco e di Aleppo non possono essere ridotte a folle intimidite, minacciate o comprate.
Gli oppositori hanno già richiesto l’istituzione di una no-fly zone e un intervento sul modello libico, infuocando ulteriormente gli animi.
Servirebbe una mediazione internazionale che garantisse una transizione democratica che garantisse la tutela delle minoranze ed un’amnistia per il clan Assad. Come ci si può aspettare che lascino il potere visiti i precedenti di Mubarak, Gheddafi e Saddam Hussein? L’ONU non sembra intenzionata a svolgere questo ruolo di mediazione. Solo la Russia si è spesa in tal senso. La Lega Araba è vittima dell’isteria anti-iraniana di statunitensi, israeliani e sauditi. L’abisso della guerra civile in Siria è più reale di una loro mediazione, ed è incombente.

Alastair Crooke [diplomatico britannico] Syria and Iran: the great game, 4 novembre 2011
Il monarca saudita ha riferito che un cambio di regime in Siria sarebbe un evento devastante per la Repubblica Islamica iraniana, il suo acerrimo nemico. Il gioco è ormai scoperto: si istituisce un consiglio di transizione raffazzonato, che non ha legami con la società siriana, si fanno affluire insorti armati dai paesi confinanti, s’impongono sanzioni che danneggiano la classe media, si organizza una campagna mediatica di denigrazione di ogni iniziativa riformatrice del regime, si fomentano le divisioni tra l’esercito e l’élite siriana. Così il presidente Assad non potrà che cadere. L’Iran ha già fatto sapere che risponderà ad ogni intervento esterno in Siria. Gli elementi radicali che dirigono la rivolta indicano che la prospettiva, in caso di una loro vittoria, non sarà un processo di democratizzazione di stampo occidentale. Crooke ricorda che negli anni Ottanta aveva lanciato un analogo allarme a proposito dei mujaheddin afgani ma un politico americano gli rispose: “stanno facendo il sedere ai Sovietici”. Oggi gli Europei chiudono gli occhi, invece di domandarsi chi possano mai esser questi insorti così ben addestrati e così letali per le forze regolari siriane.
L’origine di questo sconvolgimento va ricercata nel fallimento israeliano di danneggiare seriamente Hezbollah durante la guerra libanese del 2006 e nella previsione che la caduta del regime di Assad avrebbe condannato Hezbollah e indebolito gravemente l’Iran. Fu il principe saudita Bandar a proporre di impiegare forze islamiche ed il suo progetto fu approvato. Il piano è stato messo in atto quando la caduta di Mubarak ha fatto sentire vulnerabile Israele. Poi è stata la volta del coinvolgimento di Sarkozy e Erdogan. Nonostante questo colossale dispiegamento di forze, l’esito non è scontato. Bandar non gode del consenso della famiglia reale saudita, che ha mire diverse e intende giocare la carta islamica per altri fini. Iran, Iraq, Algeria e occasionalmente persino l’Egitto hanno collaborato in seno alla Lega Araba per frustrare le manovre antisiriane dei paesi del Golfo. Inoltre, in sette mesi, le defezioni all’interno dell’esercito siriano sono state di entità trascurabile e la popolarità di Assad è ancora considerevole. Solo un intervento esterno diretto potrebbe modificare la situazione, ma equivarrebbe ad un suicidio politico per l’opposizione interna, che vuole evitare una guerra civile e che ora si trova contrapposta a quella esterna, interventista.
Stando così le cose, la Siria deve aspettarsi mesi di insurrezione fomentata dall’esterno, un costante stato di assedio ed incessanti frizioni internazionali. Scorrerà molto sangue. I Salafiti radicali (sunniti fondamentalisti), manovrati dai Sauditi e dai loro alleati nel Golfo, continueranno a seminare morte in Siria, Libia, Egitto, Libano, Yemen e Iraq. Vale la pena di rilevare il paradosso di potenze occidentali che, per instaurare la democrazia sul modello occidentale, utilizzano il fondamentalismo islamico, incluso Al-Qaeda (cf. Bengasi).

Joseph Massad [Columbia University], The struggle for Syria 15 Nov 2011 Al Jazeera.
È stato in Libia che le menzogne e la propaganda sono cominciate dalla prima settimana della rivolta: eccidi di dimostranti, distribuzione di viagra per stupri organizzati, uso di mercenari neri contro la sua popolazione, piano per l’impiego di armi chimiche contro le città insorte, uccisione di 50mila libici, ecc. Gli osservatori internazionali e le agenzie di stampa hanno mostrato che erano tutte pure invenzioni. Autentiche erano invece le bombe NATO che hanno ucciso i civili.
Ora stiamo assistendo ad un fenomeno analogo in Siria. I propagandisti sono ancora le nazioni del Golfo, con i loro media controllati dai governi, le potenze occidentali e i “rappresentanti” occidentali dei manifestanti siriani. In Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Marocco, Giordania, Oman e Arabia Saudita, dove le proteste, benché meno massicce, si sono protratte per mesi, la Lega Araba, istruita in tal senso dagli Stati Uniti, non ha proposto alcun intervento. In Libia e Siria è stata subito molto attiva. On è la prima volta che la Lega si schiera contro uno stato membro per facilitare un’invasione. È già successo con l’Iraq nel 1990/1991. Saddam Hussein era un brutale dittatore appoggiato dagli Stati Uniti e dalla Francia negli anni Ottanta, quando fu esortato ad invadere l’Iran, una guerra che causò la morte di un milione di iraniani e 400mila iracheni. Allo stesso modo, l’invasione dell’Iraq ha portato alla morte di centinaia di migliaia di iracheni, la distruzione del paese, una massiccia repressione e la diffusa corruzione del nuovo governo-fantoccio. Evidentemente le lezioni del passato non sono servite a niente.
La lezione più importante è che se si vive sotto un dittatore cliente degli Americani gli Stati Uniti faranno di tutto per sopprimere la rivolta e se ce la si fa ugualmente, organizzeranno e finanzieranno una contro-rivoluzione, direttamente o tramite i loro alleati: Arabia Saudita, Israele e Qatar. È quel che è successo in Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Marocco, Giordania, Oman e nella stessa Arabia Saudita. Se invece si vive sotto un dittatore che non è ostile all’Occidente ma non è neppure un burattino – l’Iran aiutò gli Americani a liberarsi di Saddam Hussein, la Siria li assistette quando si trattava di contrastare la sinistra libanese e l’OLP negli anni Settanta –
allora gli Stati Uniti appoggeranno la rivolta contro il dittatore, a patto che il successivo regime sia più remissivo e deferente, e tutto questo in nome della democrazia.  Anche i moti contro-rivoluzionari sono presentati come misure a favore della democrazia.
Dunque la domanda che dovremmo porci riguardo alla Siria è la seguente: l’obiettivo è quello di instaurare una vera democrazia oppure solo quello di rimuovere dal potere Assad? I precedenti iracheni e libici sembrano far propendere per la seconda. L’interrogativo che dovrebbero porsi i manifestanti è se la loro posizione ormai non sia quella di chi non può che uscire sconfitto, sia che vincano gli uni, sia che vincano gli altri.
Furono gli Stati Uniti a distruggere la democrazia in Siria nel 1949, con un colpo di stato della CIA. Sono ancora una volta gli Stati Uniti ad operare in modo tale da impedire una transizione democratica.
“Le mie più sentite condoglianze al popolo siriano”.

“In Siria è guerra – in maniera strisciante, ma sempre più rapida”
E’ difficile prevedere i prossimi sviluppi in Siria, ma la creazione di zone cuscinetto al confine con la Turchia e la Giordania potrebbe rappresentare la prima fase dell’internazionalizzazione della crisi – scrive il giornalista palestinese Abdel Bari Atwan
Viviamo in questi giorni le stesse circostanze che vivemmo vent’anni fa, quando i leader arabi si riunirono al Cairo sotto la cupola della Lega Araba e decisero a maggioranza di invitare le truppe straniere a scatenare una guerra per cacciare le forze irachene dal Kuwait. Anzi, non esageriamo se diciamo che la lite che ha avuto luogo nei corridoi della Lega Araba durante la conferenza dei ministri degli esteri, dopo che era stata emanata la decisione di sospendere la Siria, è la stessa che ebbe luogo nell’agosto del 1990, con una differenza fondamentale e cioè che nel ’90 si verificò tra la delegazione irachena (guidata da Taha Yassin Ramadan) e il ministro degli esteri kuwaitiano dell’epoca Sheikh Sabah al-Ahmad, mentre questa volta il litigio è avvenuto fra l’ambasciatore siriano Youssef al-Ahamd e il primo ministro e ministro degli esteri qatariota Sheikh Hamad bin Jassim Al-Thani.
La prima volta il regime siriano era schierato dalla stessa parte degli Stati del Golfo contro il regime iracheno, ovvero faceva parte del cosiddetto fronte dei paesi “contro”, ma soprattutto inviò truppe nella penisola araba per partecipare alla “liberazione” del Kuwait, ovvero per contribuire alle forze della “Tempesta nel deserto”. Ed ecco che ora la storia ritorna, ma in forma diversa, visto che il regime siriano si trova contro i propri alleati di un tempo, e forse di fronte a una nuova “tempesta nel deserto”. L’interrogativo è: la Siria andrà incontro allo stesso destino dell’Iraq? Bashar al-Assad e i vertici del suo regime faranno la stessa fine di Saddam Hussein, con le dovute differenze?
La decisione dei ministri degli esteri arabi, presa in tutta fretta in una seduta d’emergenza sabato scorso, apre la strada a un intervento militare straniero in Siria all’insegna della protezione del popolo siriano. Il ruolo della Lega Araba negli ultimi vent’anni si è infatti ridotto a fornire una copertura araba – a prescindere dalla sua legittimità o meno – agli interventi stranieri. Questo ruolo ebbe inizio in Iraq ed è proseguito in Libia, ed è probabile che nell’immediato futuro sarà la volta della Siria; e Dio solo sa – oltre all’America – a quale paese toccherà dopo.
Il presidente iracheno Saddam Hussein aveva alcuni amici, sebbene fossero Stati deboli o marginali (secondo alcuni) come lo Yemen, il Sudan, la Libia, la Tunisia e la Mauritania, a cui bisogna aggiungere l’OLP. Ma sorprendentemente il presidente siriano (come è emerso dal voto sulla decisione di sospendere la Siria) non ha trovato un solo amico che votasse contro la risoluzione ad eccezione del Libano e dello Yemen. L’Iraq si è astenuto. E perfino il Sudan assediato, smembrato e preso di mira non ha avuto il coraggio di opporsi alla decisione. Lo stesso dicasi per l’Algeria. Ciò fornisce una lezione che deve essere colta dal regime siriano, affinché ne tragga beneficio e sviluppi le sue politiche nella prossima fase – o meglio nei prossimi giorni – sulla base degli insegnamenti che ne ha tratto.
Non vi è dubbio che qualche “scenario” riguardo al prossimo eventuale intervento militare deve essere stato elaborato da mesi, forse da anni, poiché questa fretta nel decidere di delegittimare il regime siriano non può giungere per caso. Ogni cosa è avvenuta con estrema rapidità, a cominciare dal furioso impiego dei media, passando per l’improvviso assemblaggio del Consiglio nazionale siriano, per finire con le ripetute riunioni pubbliche dei ministri degli esteri arabi, caratterizzate da una “coraggiosa determinazione” e da una straordinaria “accuratezza” nel prendere le decisioni.
Il segretario generale della Lega Araba Nabil El-Araby ha affermato che la Lega si appresta ad approntare un meccanismo per fornire protezione al popolo siriano, ma non ha rivelato la natura di questo meccanismo: sarà un meccanismo arabo (improbabile), americano e occidentale (difficile, a causa del cambiamento delle strategie di intervento americane), o islamico (probabile, dopo i crescenti discorsi su un ruolo militare turco in Siria)?
Il regime siriano, a causa della sua erronea lettura della situazione sul terreno da quando ha sostenuto l’intervento militare internazionale in Iraq, ha reso più facile l’applicazione di questi scenari. Esso ha respinto tutti gli appelli e i suggerimenti che gli chiedevano e gli chiedono di fermare il ricorso eccessivo alle sanguinose soluzioni militari e securitarie per rispondere alle legittime richieste di riforma da parte del suo popolo. Ed ecco che ora, a causa di ciò, esso va incontro ad una internazionalizzazione della crisi siriana.
E’ difficile prevedere la natura della prossima mobilitazione militare contro la Siria, ma possiamo dire – sulla base di dichiarazioni rilasciate da alcune figure chiave dell’opposizione siriana che non parlano a vanvera – che la creazione di zone cuscinetto al confine con la Turchia e la Giordania potrebbe rappresentare la prima fase dell’internazionalizzazione. E’ evidente che vi è gran fretta di impedire che la crisi in Siria si trasformi in una guerra civile settaria che si estenda in particolare ai paesi del Golfo, e che vi è la necessità di risolvere la situazione rapidamente.
L’amministrazione americana ha imparato molto dalle lezioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. Il principale insegnamento che ne ha tratto è di lasciare che siano gli arabi a combattere gli arabi, e i musulmani a combattere i musulmani, limitando il suo ruolo e quello degli altri paesi occidentali a un sostegno dalle retrovie o dal cielo. Questa conclusione è stata applicata con grande successo in Libia.
La Siria tuttavia non è la Libia, e ciò che vale per quest’ultima potrebbe non valere per la prima. Il regime siriano infatti gode tuttora di un certo sostegno all’interno – giacché un settore della popolazione lo appoggia per ragioni settarie o economiche – e all’estero, da parte dell’Iran e di Hezbollah, e in seconda battuta della Cina e della Russia. Forse la lezione più importante che il regime siriano ha tratto dalla Libia è la consapevolezza che, se dovesse avere inizio un intervento militare ai suoi danni, tale intervento si concluderebbe solo con la sua caduta, e ciò potrebbe spingerlo a combattere fino alla morte.
Potremmo dunque trovarci di fronte a una guerra regionale fra le più violente, la quale potrebbe cambiare la mappa demografica della regione prima ancora di quella politica. L’obiettivo principale di questa guerra sarebbe quello di cambiare i due regimi che ancora fanno parte del cosiddetto asse della resistenza, ovvero del “vecchio Medio Oriente”: il regime siriano e quello iraniano. L’interrogativo è dove sarà sferrato il primo colpo. Sarà rivolto contro l’Iran o contro la Siria, o contro entrambi i paesi allo stesso tempo? Ovvero, ISRAELE ATTACCHERÀ L’IRAN, E LA TURCHIA MEMBRO DELLA NATO ATTACCHERÀ LA SIRIA CON IL SOSTEGNO ARABO?
E’ presto per rispondere a questi interrogativi, ma l’unica persona che può fermare questa guerra, almeno per quanto riguarda la Siria, è il presidente Bashar al-Assad, qualora prendesse una decisione coraggiosa e iniziasse ad applicare alla lettera il piano arabo, bevendo l’amaro calice che bevve l’imam Khomeini quando accettò “obtorto collo” di fermare la guerra con l’Iraq e salvare il proprio paese – una decisione che successivamente trasformò l’Iran in una superpotenza regionale.
Ci auguriamo che il presidente Assad prenda questa decisione coraggiosa, e che non si affidi ancora per molto alle manifestazioni da un milione di persone – e soprattutto che prenda tale decisione nei prossimi giorni, rapidamente.
Abd al-Bari Atwan è un giornalista palestinese residente in Gran Bretagna; è direttore del quotidiano panarabo “al-Quds al-Arabi”
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

Alastair Crooke è fondatore e direttore di Conflicts Forum, ed è stato consigliere dell'ex responsabile della politica estera della UE Xavier Solana tra il 1997 ed il 2003.
E' possibile spiegare quanto sta accadendo in Siria considerandolo alla stregua di un esempio di rivoluzione popolare araba allo stato puro, come un'insurrezione caratterizzata da una protesta non violenta e liberale contro la tirannia che ha finito per imbattersi in una pura e semplice operazione repressiva? A mio parere si tratta di un'ottica completamente errata e deliberatamente messa in piedi per servire ambizioni di tutt'altro genere. Chiudere gli occhi sugli avvenimenti siriani comporta un grosso rischio, quello di ignorare le potenziali implicazioni di un conflitto settario che non rimarrebbero confinate alla sola Siria. Uno dei problemi che si devono affrontare tentando di dare una spiegazione al paradosso siriano è che esiste una sincera richiesta di cambiamenti che proviene dall'interno del paese. A chiedere delle riforme è una grande maggioranza della popolazione siriana che avverte un senso di claustrofobia dovuto alla inerte mano pesante dello stato, e che percepisce l'altezzoso senso di sufficienza con cui la macchina burocratica assiste al suo affaccendarsi quotidiano ed alle sue tribolazioni. I siriani soffrono per una corruzione pervasiva e per le intromissioni arbitrarie delle autorità preposte alla sicurezza, che toccano la maggior parte degli àmbiti del vivere quotidiano. Questa richiesta di riforme è da sola una spiegazione sufficiente alle violenze siriane, come molti affermano? Che esista una richiesta di riforme da parte delle masse è un dato di fatto. Paradossalmente però, e contrariamente a quello che afferma certa narrativa del "risveglio", la maggior parte dei siriani è anche dell'opinione che il presidente Bashar Al Assad condivida la loro convinzione del fatto che le riforme siano necessarie. La popolazione di Damasco, di Aleppo, la classe media, quella mercantile e le minoranze non sunnite (che sono un quarto della popolazione) tra le altre, compresa la dirigenza dei Fratelli Musulmani, rientrano in questa categoria. Tutti pensano anche che non esista nessun altro in grado di condurre in porto le riforme.
Dunque, cosa sta succedendo? Perché il conflitto si è polarizzato e si è fatto tanto aspro, se esiste un consenso tanto condiviso? […]. Partendo da un profondo risentimento per l'erosione del potere sunnita, gli alleati di Zarqawi hanno sviluppato una dottrina politica secondo la quale la Siria ed il Libano non rappresentavano più dei territori da cui lanciar il Jihad, ma territori per il Jihad medesimo (contro gli sciiti così come contro altri). I salafiti siriani alla fine si sono messi sulla strada di casa, covando il loro risentimento. Molti di loro, siriani e non siriani, si sono stabiliti in villaggi di campagna prossimi alla frontiera con il Libano e con la Turchia e, così come avevano fatto i loro confratelli a Naher Al Barad, si sono imparentati con le famiglie locali. La violenza armata contro le forze regolari siriane nasce da questi gli elementi, come già successo in Libano nel 2007. A differenza dell'Egitto e della Tunisia, la Siria ha avuto centinaia di morti e molte centinaia di feriti nelle forze armate e nella polizia. (Daraa è qualcosa di diverso: a prendere le armi sono qui beduini che si muovono tra l'Arabia Saudita, la Giordania e la Siria).
Non è facile fare delle cifre, ma forse quarantamila o cinquantamila siriani hanno combattuto in Iraq. Grazie ai matrimoni contratti nelle varie comunità la base di sostenitori su cui possono contare è più estesa degli effettivi che hanno partecipato ai combattimenti veri e propri in Iraq. Il loro obiettivo in Siria è simile: porre le condizioni per il Jihad portando all'estremo i rancori di origine settaria; la stessa cosa che Zarqawi ha fatto in Iraq, attaccando la comunità sciita ed i suoi luoghi sacri. Allo stesso modo, essi stanno cercando di guadagnare terreno nella Siria nordorientale, e di fondarvi un emirato islamico di orientamento salafita destinato a funzionare in modo autonomo rispetto all'autorità statale.
Questo settore dell'opposizione non è interessato alle "riforme" o alla democrazia: essi affermano con chiarezza ed in modo pubblico che se rovesciare gli alawiti "sciiti" gli dovesse costare due milioni di morti, sarebbe comunque un sacrificio che varrebbe la pena di fare. Il fatto che si modifichi la legge vigente perché permetta l'esistenza di nuovi partiti politici o che si allarghino le maglie della libertà di stampa sono cose che li lasciano completamente indifferenti. Il movimento di Zarqawi rifiuta scopertamente ogni politica occidentale. […]. Il secondo lato della scatola siriana è rappresentato da alcuni gruppi in esilio: anch'essi sono ben finanziati dal governo statunitense e da altre agenzie estere, ed hanno legami con l'esterno del paese sia a livello locale che in Occidente. Le comunicazioni del 2009 partite dall'ambasciata statunitense a Damasco rivelano che un certo numero di questi gruppi e le emittenti televisive ad essi collegate hanno ricevuto decine di milioni di dollari dal Dipartimento di Stato e da altre fondazioni basate negli USA, nonché addestramento ed assistenza tecnica. Questi gruppi in esilio pensano di poter utilizzare con successo gli insorti salafiti per i propri scopi.
Gli esiliati speravano che un'insurrezione salafita contro lo stato, anche se confinata all'inizio nelle regioni periferiche del paese, avrebbe provocato una reazione governativa che avrebbe polarizzato un considerevole numero di persone su posizioni ostili nei confronti dello stato e che alla fine un intervento occidentale in Siria sarebbe stato inevitabile; il modello di riferimento è Bengasi.
Questo non si è verificato, nonostante i leader occidentali, come il ministro degli esteri francese Alain Juppé, abbiano fatto molto per mantenere aperta questa possibilità.
Sempre gli esiliati, spesso di orientamento laico e di sinistra, tentano anche di aggiustare la concezione della situazione siriana adottata dai mass media. Questi espatriati hanno allenato i salafiti nell'utilizzo delle tecniche caratteristiche delle "rivoluzioni colorate", per fare il ritratto di una storia di immotivata e gratuita repressione di massa portata avanti da un regime che rifiuta le riforme, intanto che l'esercito si disgrega sotto le pressioni esercitate su di esso perché si comporti come un carnefice nei confronti dei cittadini del proprio stesso paese. Al Jazeera e Al Arabia hanno messo del proprio nella diffusione di questa narrativa, trasmettendo racconti di testimoni oculari rimasti anonimi e riprese video, senza stare a far domande (si veda, per esempio, il caso di Ibrahim Al Amine).
I salafiti capiscono che gli esiliati li stanno usando per provocare incidenti, e quindi a rafforzare la narrativa mediatica della repressione portata avanti dall'opposizione esterna; la cosa potrebbe tornare utile anche agli interessi dei salafiti.
Le due componenti qui descritte contano su effettivi relativamente contenuti, ma la spinta emotiva che viene dall'amplificazione dello scontento sunnita e dalle riparazioni che esso pretende ha una portata più ampia e più significativa. Può facilmente trasformarsi in azioni concrete, tanto in Siria quanto nell'intera regione nel suo complesso. L'Arabia Saudita e gli stati del Golfo traggono esplicite rendite di posizione dai timori legati ad un "espansionismo" sciita e se ne servono per giustificare la repressione promossa in Bahrein dal Consiglio di Cooperazione tra Stati Arabi del Golfo e l'intervento militare nello Yemen, intanto che i clamori su questo settarismo assertivo vengono amplificate anche all'interno della Siria.
Gli ambienti clericali sunniti tentano di mettere il cappello sul "risveglio" arabo, come se fosse una risposta alla Rivoluzione Sciita in Iran. A marzo, Al Jazeera ha trasmesso un sermone dello sceicco Youssef Al Qaradawi, che ha alzato lo stendardo della restaurazione di una predominanza sunnita in Siria. A Qardawi, che ha una propria base in Qatar, si è unito il religioso saudita Saleh Al Luhaidan, che ha esortato perentoriamente ad "uccidere un terzo dei siriani, perché gli altri due terzi possano vivere".
E' chiaro che molti dei contestatori, nelle città che sono tradizionalmente centri di irredentismo sunnita come le siriane Homs e Hama, vengono dalle file dei sunniti in preda allo scontento, favorevoli alla cacciata degli alawiti e ad un ritorno della predominanza sunnita. Non sono salafiti, ma siriani appartenenti alla maggioranza per i quali gli elementi fatti propri dall'ascendenza sunnita, l'irredentismo e l'invocazione delle riforme, si sono fusi in un'unica rivendicazione. Una prospettiva molto preoccupante per quel quarto di popolazione siriana che appartiene alle minoranze non sunnite.
La marginalizzazione dei sunniti in Iraq, in Siria, e più di recente anche in Libano ha provocato scontento tra i sauditi ed in alcuni paesi del Golfo, proprio come tra i salafiti. La convinzione che Assad abbia tradito gli interessi dei sunniti in Iraq, anche se fondata su basi molto deboli, fornisce credibilità ai toni veementi caratteristici della tendenziosa campagna di informazione che Al Jazeera, finanziata dal Qatar, ha rivolto contro Assad.
La rivista francese Le Nouvel Observateur ha riferito di un attivista mediatico di Stoccolma che si è recato ampiamente per tempo ed in segreto a Doha, laddove il personale di Al Jazeera permetteva libero accesso al canale televisivo panarabo e addestrava il personale che vi lavorava a rendere più impressionanti le proprie riprese video: "Filmate donne e bambini. Insistete sul fatto che stanno usando slogan pacifici".
[…]. …l'altra dimensione degli avvenimenti siriani, che riguarda la posizione strategica della Siria come pilastro dell'arco che unisce il Libano del sud all'Iran. Questo ruolo rappresenta qualcosa che tutti coloro che negli USA ed in Europa si preoccupano in primo luogo della sicurezza di Israele hanno cercato di eliminare. NON È ALTRETTANTO CHIARO, TUTTAVIA, SE ISRAELE SIA ANSIOSO DI VEDERE ASSAD ROVESCIATO COSÌ COME LO SONO CERTE PERSONALITÀ DELLA POLITICA OCCIDENTALE. I POLITICI ISRAELIANI TRATTANO IL PRESIDENTE CON RISPETTO. E SE ASSAD DOVESSE LASCIARE, NESSUNO HA IDEA DI CHI POTREBBE SUCCEDERGLI IN SIRIA.
Gli Stati Uniti, storicamente, hanno tentato di intromettersi negli affari siriani perfino da prima del colpo di stato della CIA e del MI6 attuato nel 1953 in Iran contro il primo ministro Mossadeq.
Tra il 1947 ed il 1949 personalità del governo statunitense sono intervenuti negli affari siriani. Il loro intento era quello di liberare il popolo siriano da una élite corrotta ed autocratica. Ne venne fuori un disastro che alla fine sfociò nella presa del potere da parte della famiglia Assad. Le potenze occidentali possono anche essersi dimenticate di come sono andate le cose, ma, come ha fatto recentemente notare un commentatore della BBC, i siriani ne hanno sicuramente conservato memoria.
Fin dai tempi dell'invasione dell'Iraq nel 2003, gli USA hanno obiettivamente minacciato il presidente siriano con ultimatum continui, di concerto con Parigi, affinché facesse la pace con Israele. Assad rispedì al mittente tutte le minacce del 2003, cosa che diede origine ad una catena di pressioni e di minacce nei suoi confronti, compreso il ricorso al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, il tribunale speciale sulle vicende libanesi e l'azione militare israeliana volta a indebolire Hezbollah ed a mutare di segno l'equilibrio dei poteri in Libano a tutto detrimento di Assad. Gli USA hanno anche cominciato a finanziare i gruppi di opposizione siriani, almeno dal 2005 in poi; più recentemente hanno cominciato ad addestrare attivisti, anche siriani, sui sistemi per evitare l'arresto e sulle tecniche per comunicare in modo sicuro utilizando reti telefoniche abusive e software per internet. Queste tecniche, insieme all'addestramento di attivisti operato da organizzazioni non governative occidentali e da altre agenzie mediatiche, sono tornate utili anche all'insurrezione armata e militarizzata, almeno quanto lo sono state ai movimenti di protesta pacifici e filodemocratici.
Gli USA si sono adoperati anche per finanziare, direttamente o indirettamente, organizzazioni per i diritti umani che si sono rivelate molto attivi nel fornire agli attivisti che operano con i mass media casi non verificati di vittime della repressione e racconti di sedicenti testimoni oculari. Alcuni, come il Damascus Centre for Human Rights ammettono il loro accordo con lo US National Endowment for Democracy e con le altre organizzazioni da cui ricevono finanziamenti, per esempio il Democracy Council e l'International Republican Institute. La decisione del governo siriano di cacciare i giornalisti stranieri ha certamente contribuito a concedere alle fonti di informazioni controllate dagli attivisti all'estero carta bianca nell'imporre ai mass media la loro narrativa sugli avvenimenti siriani.
Il lato mancante del vaso di Pandora siriano, sul quale fino ad ora si è evitato di soffermarsi, è rappresentato dall'esercito siriano e dal suo comportamento nei confronti delle proteste. L'esercito, per la maggior parte addestrato allo stile russo, non ha esperienza di combattimento in contesti urbani complessi in cui dei contestatori autentici si trovino mescolati ad un piccolo numero di insorti armati che sanno come muoversi negli ambienti urbani, che hanno fatto esperienza di imboscate in Iraq e che abbiano l'intenzione di arrivare allo scontro con le forze di sicurezza.
L'esercito siriano non ha esperienza nel campo del contrasto alle insurrezioni; è cresciuto alla scuola del Patto di Varsavia, fatta di grandi manovre e di brigate dotate di armamento pesante, in cui la parola "moderazione" non rientrava a nessun titolo nel vocabolario. Carri armati e brigate corazzate non hanno alcuna utilità in operazioni che richiedano il controllo di una folla, soprattutto in aree ristrette e congestionate. Non sorprende che il movimento dei militari finisca per uccidere contestatori disarmati rimasti presi tra due fuochi, esasperando le tensioni con quanti chiedono sinceramente le riforme e lasciando attonito il pubblico. La reputazione dell'esercito ha innanzitutto risentito delle critiche. Anche se le storie che riferiscono di diserzioni di massa possono essere ascritte in blocco alla disinformazione, ai gradi più bassi si è comunque verificata una certa erosione della tenuta dei reparti; col crescere delle vittime anche la fiducia dei cittadini nei confronti dei militari ha vacillato. Solo che questo vacillare è cessato con il drammatico scontro verificatosi alla metà di giugno attorno alla cittadina di Jisir Al Shagour, vicino al confine turco.
[…]. L'opinione pubblica è polarizzata e carica di rancore nei confronti dei salafiti e dei loro alleati. Gli ambienti dell'opposizione laica e di sinistra stanno prendendo le distanze dalla violenza salafita: la contraddizione presente nelle divergenti aspirazioni degli "esuli" e dei salafiti, che li separa dal consenso della maggioranza del paese, adesso si manifesta con chiarezza. E costituisce in buona sostanza l'ultimo lato della paradossale "scatola" siriana.
In un clima simile l'introduzione plateale di una serie di riforme verrebbe interpretata dai sostenitori del presidente come un segnale di debolezza, se non di condiscendenza nei confronti di chi ha ucciso tanti poliziotti e tanti militari a Jisr. Non sorprende dunque che Assad si sia avvalso del discorso tenuto la scorsa settimana per parlare ai suoi sostenitori, sia per mettere in chiaro le difficoltà e le minacce che la Siria si trova ad affrontare, sia per stabilire le tappe di un percorso che conduca all'uscita da questa situazione pericolosa e verso riforme sostanziali.
In Occidente il discorso di Assad è stato ampiamente descritto come "deludente" o "non approfondito sui temi specifici", ma non è questo il problema. Se le cose non fossero arrivate a questo punto una serie di riforme radicali come quella invocata dal ministro degli esteri turco avrebbe potuto, ad un certo momento, avere un effetto shock tale da portare a profonde trasformazioni; è tuttavia dubbio che ormai questo possa succedere. Al contrario, ogni concessione strappata al governo da una violenza come quella vista a Jisr causerebbe con ogni probabilità l'ira dei sostenitori di Assad, ed altrettanto probabilmente non supererebbe il rifiuto categorico dell'opposizione militante, che cerca di esacerbare le tensioni al punto da far sì che l'Occidente si risolva a intervenire.
Il presidente Assad, precisando con attenzione alcuni passi avanti ed alcuni sviluppi da perseguire con determinazione, ha correttamente interpretato lo spirito della maggioranza dei siriani. A giudicare sarà il tempo, ma pare che Assad stia riuscendo ad emergere da una ingarbugliata serie di sfide in parallelo, direttegli contro sia da movimenti politici che da stati sovranim che riflette un ampio spettro di motivi di scontento, di interessi specifici e di motivazioni. Le radici di tutto questo sono lungi dal venir rimosse dalle questioni che riguardano le riforme legislative e politiche in Siria.
Se Assad considerasse l'insieme di tutto quanto sta contro di lui come il vero e proprio montare di un golpe morbido sarebbe difficile stupirsi. Può anche darsi che Assad si chieda fino a che punto il presidente Barack Obama sia al corrente di quanto sta succedendo in Siria. Sembra improbabile che le personalità statunitensi fossero del tutto all'oscuro della matrice di minacce che concorrono a minare la stabilità di Assad o ne ignorassero la natura. Se questo fosse davvero il caso, non sarebbe la prima volta che i siriani si trovano alle prese con un esempio di cattivo funzionamento tra "mano sinistra" e "mano destra" nello stile adottato da obama quanto a politica estera, con approcci di tipo contraddittorio portati simultaneamente avanti da personalità statunitensi differenti.
Se Assad riuscirà a venire a capo di tutte le sfide, come sembra probabile, il tono delle risposte fornite agli inviati arabi ed europei fa pensare che le riforme verranno davvero portate a termine, anche per proteggere l'etica resistenziale della Siria da minacce dello stesso genere che possano presentarsi in futuro.
Nel 2007, ha notato con ironia Assad in una considerazione aggiuntiva al suo discorso, non aveva avuto il tempo di portare a termine delle riforme degne di questo nome: "Noi non abbiamo neppure avuto il tempo di discutere alcunché che riguardasse, tra le altre cose, la legge sui partiti. Ad un certo punto bisognava tenere in considerazione innanzitutto l'economia, ma non avevamo tempo di farci un'idea precisa di quale fosse la situazione economica. Siamo stati coinvolti in una battaglia decisiva [sul fronte esterno], e dovevamo vincerla. Non è che ci fossero altre scelte...".
Adesso il fronte esterno decisivo è proprio quello delle riforme. Ma se lo scopo di tutto questo era quello di provocare un rovesciamento nell'equilibrio dei poteri in Medio Oriente, la cosa non ha funzionato. E' improbabile che Assad esca da questa storia più disponibile ad accettare le sfide dell'Occidente di quanto lo sia stato in passato.

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