Non lasciatevi ingannare, già una volta il fascismo e il nazismo hanno portato il nostro popolo alla rovina, state alla larga da quelli lì, un tirolese sincero non ha niente in comune con loro...
Alexander Langer
Tutti i nazionalismi hanno il potere di non vedere alcuna rassomiglianza fra due serie simili di fatti. […] Il nazionalista non solo non disapprova le atrocità commesse dalla sua fazione, ma ha la notevole capacità di non sentirne nemmeno parlare. […]. Nel pensiero nazionalista esistono fatti che sono contemporaneamente veri e non veri, conosciuti e non conosciuti. Un fatto conosciuto può essere così insopportabile da essere abitualmente accantonato e non ammesso ad entrare nei processi logici o, altrimenti, può entrare in ogni valutazione senza esser accettato come fatto, perfino nella proprio mente. […]. Ogni nazionalista è perseguitato dalla convinzione che il passato può essere alterato […]. I fatti materiali sono soppressi, le date alterate, le citazioni estrapolate dal loro contesto e alterate in modo da cambiarne il significato. Eventi che si sente non avrebbero mai dovuto accadere non sono menzionati e sono infine negati […]. L’indifferenza alla verità obiettività è incoraggiata isolando una parte del mondo dall’altra, cosa che rende sempre più difficile scoprire cosa stia effettivamente accadendo […]. Per qualcuno che in un qualunque angolo della mente nutra lealtà nazionalistiche od odio, alcuni fatti – sebbene in un certo senso si sappia siano veri – sono inammissibili
George Orwell
Ma come ci sono dei nevrotici che non riescono a superare, a un certo punto, un blocco, riandando al loro passato emotivo, così ci sono dei gruppi sociali nevrotici che ritornano coattivamente ad un certo punto della storia passata, come il Mississippi, per esempio, che torna periodicamente a combattere la Guerra Civile o come certi separatisti del Québec, che si battono ancora contro la conquista britannica. C’è da chiedersi, tuttavia, se in certe circostanze d’emergenza questa coazione a tornare allo stesso punto, la coazione di don Chisciotte a combattere di nuovo le battaglie di cui ha letto nei libri, non sia di tutti, nel nostro mondo.
Northrop Frye, “Cultura e miti del nostro tempo”
L’autodeterminazione, come principio morale, si fonda sulla premessa che un popolo libero abbia il diritto di scegliere da sé il proprio stile di vita e la propria forma di governo.
Un sondaggio condotto in Alto Adige nella primavera del 2011, in occasione del 50º anniversario della “Notte dei fuochi”, l’ondata di attentati separatisti avvenuti nella notte tra il 11 e 12 giugno 1961, dall’istituto di ricerche sociali di Bolzano Apollis indica che il 56% dei sudtirolesi di lingua tedesca e ladina vorrebbe l’indipendenza dell’Alto Adige, mentre un 44% è contento di come stanno le cose. Ciò significa che un referendum sull’autodeterminazione si risolverebbe in un fallimento per gli indipendentisti. Tenuto però conto della forte crescita degli iscritti a Süd-Tiroler Freiheit, che hanno sfiorato quota 3mila, conferma anche che uno dei principali effetti della crisi globale, o per meglio dire il caos nel quale sta precipitando il modello socio-economico dominante, è il ripiegamento localista – spesso condito da vittimismo, emotivismo, narcisismo, falsificazione della storia e della realtà, populismo e dogmatismo – e questo non è un buon segno per una società di separati in casa.
Così, mentre si afferma che il nazionalismo sia in declino, ciascuno si vuole fare la propria nazione e, secondo i più recenti sondaggi elettorali (“Provinciali 2013: tiene la Svp, crollo Pdl”, Alto Adige, 2 settembre 2011), alle Provinciali del 2013 un quarto degli elettori voterebbe per l’estrema destra sudtirolese, in linea con una tendenza alla robusta e stabile crescita (quasi un +5% per i Freiheitlichen).
Gabriele di Luca, in un’analisi apparsa sul Corriere dell’Alto Adige il 24 giugno 2011 (“Un’identità geo-politica rischiosa”), commenta: “I Freiheitlichen ignorano in realtà il nodo più tenace che impedirebbe la realizzazione di un simile progetto: la rinuncia, da parte dei singoli gruppi, a sciogliere le proprie specificità in un contesto che – se non accuratamente regolato – esporrebbe nuovamente i soggetti minoritari alla tendenza assimilatrice o prevaricatrice esercitata da quelli maggioritari. L’autonomia è riuscita a raffreddare il conflitto etnico. Il “Libero Stato” potrebbe di nuovo scaldarlo”.
Io prediligo una diversa metafora: ritengo che negli ultimi anni l’autonomia etnocentrata sia più che altro servita a mantenere le braci calde a vantaggio di certi interessi politici ed economici e che il separatismo abbia come principale obiettivo proprio quello di rinfocolarle, al grido di "io sono solo perché noi siamo" (ubuntu), senza il fondamentale contrappeso del "noi siamo solo perché tu sei". Molti sionisti, come Martin Buber credevano in un Israele apprezzabilmente simile a quello che hanno in mente i più lucidi ed altruistici tra i separatisti, ma quale progetto ha finito per prevalere? Questo perché, nel separatismo nobile e non egoista e meschino, prevale l’angelismo sul realismo. Per angelismo intendo la propensione a sovrastimare le virtù umane e sottostimarne i vizi, come ad esempio l’ambizione, l’egocentrismo, l’avidità, la tracotanza, la compulsione a prostrarsi di fronte agli idoli etnici e di altro genere, o a nobilitare il proprio egoismo/narcisismo convincendosi di essere al servizio di una nobile causa collettiva, ecc. I separatisti, come i pacifisti senza se e senza ma, presumono che tutti in fondo vogliano la pace e che la ragionevolezza sia destinata a prevalere, ignorando completamente la fondamentale dimensione del potere (estintasi assieme all'analisi marxista), dei vizi umani (estintasi assieme al dogma del peccato originale) e dell'eterogenesi dei fini (trascurata in nome del mito del progresso: "le magnifiche sorti e progressive"); oltre alle ripercussioni di una crisi globale che può solo amplificare l’aggressività ed il risentimento tra la gente comune.
Questo è un atteggiamento sorprendentemente irresponsabile ed autodistruttivo, presumibilmente frutto del potere che ha l'immaginazione di plasmare la realtà in modo che, ai nostri occhi, si conformi alle nostre aspettative e desideri. Purtroppo, come dice il proverbio, la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni, di autoinganni e di utopie capaci di soddisfare i bisogni psicologici e spirituali dei militanti. In particolare, l’utopia di un Sudtirolo esempio per il mondo, come se la popolazione locale avesse ormai raggiunto un livello sufficiente di maturità civile e morale e fosse pronta a collaborare attivamente emarginando gli estremisti e liberandosi di colpo di quelle ruggini, malizie, egoismi personali e collettivi, meschinerie, preconcetti, pregiudizi ed aggressività che hanno invece viziato ogni altra intrapresa umana in fasi storiche molto meno complicate di questa.
La presunta nobiltà dell'ideale non comporta l’assenza di egoismi e piccinerie; l'impostazione nonviolenta della lotta non implica l'assenza di violenza; la presunta giustezza della causa non rende automaticamente giusti; il presunto altruismo dello spendersi per una comunità può anche significare che si legittima l'amore narcisistico di sé (aspetto comune a tutti gli esseri umani), trasferendolo su una collettività, persuadendo se stessi che ciò possa renderlo moralmente meno discutibile. Purtroppo, così facendo, agli occhi dei militanti, la comunità diventa la loro immagine riflessa. I sudtirolesi/altoatesini in carne ed ossa ("come sono adesso") svaniscono, lasciando il posto a cittadini immaginari ("come dovrebbero essere"), l'amore per il futuro spinge a disprezzare il presente, l'amore per i sudtirolesi "liberi" del futuro rende ancora più insopportabile l'inadeguatezza dei sudtirolesi "servi" del presente. Questo meccanismo prepara la strada alla "violenza rivoluzionaria", al terrorismo, o anche solo alla "semplice" intolleranza verso chi non la pensa come noi e quindi è di ostacolo ai nostri "virtuosi" progetti.
I conflitti sorti intorno alle questioni della toponomastica, dei monumenti fascisti, dell'euregio, dell'istruzione, della storiografia locale, dell'integrazione degli extracomunitari e chi più ne ha più ne metta, dimostrano che piuttosto che garantire pace, giustizia, uguaglianza, prosperità e felicità, la realizzazione di questo progetto incrementerebbe dissapori e occasioni di scontro; questo perché si troverebbe ad esercitare la propria autorità in un'area in cui manca un obiettivo comune ed un’identità condivisa. Di conseguenza, un governo sudtirolese si dimostrerebbe o totalmente inefficiente e perciò irrilevante, oppure dispotico, e questo in misura crescente. Senza una comunità organica non si formano istituzioni durevoli, ma l’assetto etnicista ha impedito la nascita di una comunità eterogenea e pur tuttavia organica. Non basta uno splendido statuto/costituzione per fare una nazione, serve un processo storico e di maturazione, che in Alto Adige non è mai iniziato.
Quanto alle ragioni strettamente pratiche per cui una tale iniziativa si risolverebbe in un disastro, tacendo del rischio, tutt’altro che remoto, di una guerra civile, esse sono numerose. L’ipotetico Freistaat Südtirol dovrebbe per prima cosa uscire dall’Unione Europea (ipotizzandone la sopravvivenza, che non darei per certa) per poi chiedere l’adesione ufficiale, con conseguenze finanziarie e commerciali drammatiche che si protrarrebbero per diversi anni.
Queste, a loro volta, renderebbero improbabile la sua ammissione, senza un preliminare e detestabile programma draconiano di austerità.
Contemporaneamente, si registrerebbe un vistoso collasso demografico, visto che migliaia di italiani ed immigrati si trasferirebbero in Italia, spinti da paure/disagi/timori/malesseri più o meno giustificati.
La totalità delle competenze comporterebbe costi impressionanti ed insostenibili – sicurezza, poste, giustizia, sistema carcerario, stato sociale, sanità, infrastrutture, ecc.
Si verificherebbe certamente un boicottaggio di massa da parte di consumatori e turisti italiani, ossia la maggior fonte di introiti dell’Alto Adige (es. 40% del turismo invernale).
Ci sarebbe poi la fondata possibilità di una fuga verso Italia (Trentino), Austria e Germania di personale qualificato, generalmente sfavorevole alle svolte localiste. Il tutto senza avere l’opportunità, fortunatamente, di convertirsi in un paradiso fiscale o in un narcofeudo, ossia in una centrale del malaffare e della corruzione morale.
Poiché queste sono cose risapute, l’unica conclusione alla quale possiamo giungere è che i separatisti/nazionalisti/etnopopulisti sono cani che abbaiano senza poter mordere e non hanno a cuore il miglior interesse della popolazione locale, ma solo il loro. Sono unicamente interessati al potere, alla visibilità ed al melodramma di una vita spesa eroicamente per una nobile causa, costi quel che costi. Scherzano col fuoco e si bruceranno le mani. Il problema è come evitare che, assieme a loro, ci bruciamo le mani tutti quanti.
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Poiché la Catalogna rappresenta un modello per il separatismo sudtirolese, il nostro compito è quello di capire meglio se questo separatismo sia veramente così progressista come si è soliti credere.
Francisco Caja, storico e filosofo della cultura all’Università di Barcellona, ha da poco pubblicato una monografia dedicato al nazionalismo catalano che smonta completamente il suo preteso carattere progressista, rivelando le credenze razziste dei suoi fondatori, un tempo di stampo biologi sta, ora culturalista (la cultura come destino di ciascun individuo, matrice che predetermina l’essenza di una persona). Caja spiega che la lingua per i nazionalisti catalani è come la voce del sangue e marca un’irriducibile differenza spirituale. La lingua coincide con l’etnia e l’etnia con un impalpabile Volksgeist. Perciò la lingua non è più un diritto ma un dovere, è un organismo vivo che ha delle pretese, che esprime delle rivendicazioni, che impone la sua volontà, usando i rappresentanti etnici come suoi portavoce, piegando l’ecumenismo cattolico alle esigenze particolaristiche del nazionalismo e diffondendo l’idea che ci può essere un nazionalismo progressista, in quanto incarnazione della volontà generale del popolo (Caja, 2009). Vedo numerose corrispondenze con la summenzionata dimensione della realtà altoatesina, e non c’è di che stupirsene.
Le correlazioni s’infittiscono leggendo l’illuminante analisi comparativa della didattica nazionalista nei Paesi Baschi e in Catalogna compiuta da Pedro Antonio Heras Caballero (Heras, 2009), docente di storia contemporanea all’Università di Tarragona, in Catalogna. Heras constata che, sovente, la sensazione che si ricava dalla lettura dei testi scolastici delle due regioni autonome è quella del disprezzo nei confronti della Spagna, che non merita neppure di essere definita tale, ma solo “Stato spagnolo”, come nella narrazione separatista sudtirolese, che predilige l’espressione “italienischer Staat”, una sorta di Moloch che richiede un costante tributo di vittime sacrificali. Per la precisione, non è solo disprezzo per lo Stato ma – e ciò è molto più grave e rivelatore della psiche di chi si allinea a questo genere di posizione ideologica – assoluta sfiducia nei confronti della possibilità di poter far convivere delle comunità all’interno di uno stesso Stato. “Se ci date il nostro Stato, tutto si risolverà, come per magia”.
Una piattaforma politica molto debole per i due separatismi, che sono anche accomunati dall’identificazione di lingua e anima di popolo (L'ànima de Catalunya) e dalla difficoltà con la quale si condanna il terrorismo (nei Paesi Baschi). Non si capisce come, date queste premesse ed appurata l’esistenza di: (a) un imprigionamento in schematiche rigidità del pensiero giudicate insindacabili e non ulteriormente indagabili di questi interlocutori politici; (b) l’indisponibilità a considerare gli incapsulamenti etnici (ethnische Schubladen) come un qualcosa di diverso da un diritto inalienabile. Non si capisce, dicevo, come tutti i problemi della convivenza dovrebbero magicamente risolversi con l’autodeterminazione. Sembra invece molto più probabile il contrario.
L’integralismo egoistico della patria e dell’etnia è l’unico vero ostacolo sulla strada dell’autodeterminazione dei singoli cittadini e della provincia di Bolzano. Sono i miti di una parte che hanno contaminato la coscienza di molti, troppi residenti, il mito della lingua come cosmovisione e manifestazione di un’indole di popolo che va salvaguardata ad ogni costo, il mito di una diversità che teoricamente dovrebbe contrastare le pulsioni omologanti esterne, ma serve solo ad imporre l’uniformità all’interno. “L’uomo è vasto, sin troppo vasto, io lo restringerei”, diceva Dimitrij Karamazov. Potrebbe essere il motto ufficiale dell’Alto Adige.
Dio non si schiera con un popolo piuttosto che un altro, le lingue non hanno diritti, solo le persone ne sono investite. Le lingue non impongono obblighi, solo le persone se li assumono nei confronti di altre persone. La decisione di parlare o no una certa lingua spetta al cittadino, dev’essere completamente libera e deve presupporre che la scelta sia reale, ossia che la società fornisca tutti gli strumenti (didattica, bilinguismo diffuso) atti a renderla tale. La politica linguistica non deve dunque danneggiare nessun cittadino e non può essere un pretesto per buttarsi a capofitto in un progetto di costruzione nazionale che avrebbe conseguenze quasi certamente disastrose per la stessa popolazione residente in Alto Adige.
In un’Euregio aperta e plurale queste forze sarebbero più controllabili. L’Euregio non sarebbe così grande da opprimere e non sarebbe così piccola da vivere nel timore degli stati nazione più grandi.
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