Ho appena finite
di leggere il rapporto del Gauleiter Frauenfeld sul Sudtirolo. Propone che i
Sudtirolesi siano trapiantati in massa in Crimea e penso sia un’idea
eccellente. Ci sono pochi altri luoghi su questo pianeta in cui una razza possa
avere più successo nel conservare la sua integrità per secoli e secoli. I
Tartari ed i Goti ne sono la prova vivente. Anch’io penso che la Crimea sarà
climaticamente e geograficamente ideale per i Sudtirolesi e, se paragonata alla
loro attuale situazione, sarà un paradiso di latte e miele. Il loro
trasferimento in Crimea non presenta alcuna difficoltà fisica o psicologica.
Tutto quel che devono fare è navigare un corso d’acqua tedesco, il Danubio, e
saranno arrivati.
Adolf Hitler,
luglio 1942 (Hitler, 2010)
“…la stessa cosa
ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si
risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava
sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel
furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è
lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa
speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi,
nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. […] tutto servirà
se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza
più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. […] Io credo che il
nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana,
utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti
utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo”.
Italo Calvino, “Il
sentiero dei nidi di ragno”
Come si
comporterebbero Trentini e Sudtirolesi nell’evenienza di un loro inglobamento
in un regime totalitario? Se i precedenti sono un’indicazione, allora è bene
preoccuparsi, perché quel che si ricava dalla lettura di “La zona d'operazione
delle Prealpi nella seconda guerra mondiale”, atti di un convegno di studi
tenutosi nel 2006 e curati da Andrea Di Michele e Rodolfo Taiani (FMST, 2009), è
un quadro a dir poco sconfortante.
Quello nazista era
un ordine fondato non sul diritto del più forte, un diritto che è
intrinsecamente transitorio, ma su quello metafisico e metastorico della
purezza e preziosità del Sangue, della Razza e dello Spirito della Stirpe, un
criterio così radicale, assoluto ed inesorabile da non sembrare neppure di
origine umana. Tuttavia, mentre la fascistizzazione di entrambe le province
fallì, l’occupazione nazista fu un successo. Lo pone in evidenza lo storico
Luigi Ganapini, riepilogando i punti salienti dei vari contributi e citando “l’ambiguo
comportamento del prefetto de Bertolini”, “il contributo sostanzioso allo
sforzo bellico tedesco” da parte del Trentino Alto Adige, “i semi di
conflittualità interetnica seminati a piene mani dagli studiosi”, “la scelta
estrema del Corpo di Sicurezza Trentina”, la “guerra civile latente” in Alto
Adige, l’immenso divario morale tra il vescovo di Belluno, monsignor Bortignon –
salito su una scala per baciare i partigiani impiccati davanti ai loro
carnefici – e quella del principe vescovo pangermanista di Bressanone Johannes
Geisler, che si limitò a predicare disciplina ed obbedienza, in contrasto con
il basso clero, schierato contro il neo-paganesimo razzista. Il ruolo dell’élite
scientifica è stato esaminato da Michael Wedekind nel suo bel contributo ed in
un articolo più esteso, intitolato “Le sporadi tedesche: comunità germanofone
dell’Alta Italia come oggetto dell’etnoscienza ed etno-politica tedesche”,
pubblicato quasi contemporaneamente nell’ultimo numero di Archivio Trentino
(2/2008). Lungi dall’attenersi a criteri di obiettività e rigore, gli
etno-antropologi di lingua tedesca che operarono nella nostra regione e che
sono stati riscoperti ed in qualche misura “sdoganati” negli ultimi anni [cf.
capitolo sull’Ahnenerbe in questo stesso volume], dimostrarono “affinità
ideologiche” col regime, una “bizzarra mancanza di aderenza alla realtà”, una “visione
del mondo etnocentrica radicalizzata” ed una manifesta “disponibilità a
partecipare al nuovo ordine europeo nazista”. Lorenzo Baratter ci ricorda che oltre
3000 Trentini, dovendo scegliere tra la prigionia in Germania assieme ad altri
600mila militari italiani, il lavoro nella Todt e il Corpo di Sicurezza
Trentino, scelsero di indossare un’uniforme tedesca e di partecipare alle
rappresaglie contro altri Trentini ed Italiani. Al contrario, il Corpo di
Sicurezza Bellunese non prese mai forma. L’ambiguità degli obiettivi e la
ristrettezza delle visioni sembrano aver sabotato il movimento resistenziale
trentino. Alberto Vadagnini riporta che a fine 1944 Walter Pienagonda (“Rado”)
scrive ad Andrea Mascagni che “il CLN trentino è bloccato da inerzie, beghe di
partito, interessi personali, egoismi, invidie e da una visione troppo
localista”. Bizantinismi morali che, secondo lo storico altoatesino Andrea Di
Michele, si fanno evidenti nelle scelte postbelliche dell’SVP che, dovendo
presentarsi come partito di raccolta etnico, accolse un po’ tutti, “dai più
aperti oppositori al nazismo fino a coloro che vi avevano collaborato
attivamente. Ciò significò anche tacere le voci degli ex resistenti in
quanto scomodi testimoni di una profonda divisione che non si voleva mostrare
verso l’esterno”.
Contraddizioni
che, com’è noto, sono riemerse di recente in tutta la loro virulenza con il
rifiuto del vicesindaco di Bolzano Oswald Ellecosta di partecipare alle
commemorazioni al lager di via Resia e con certe sue esternazioni che
rivelano che lui considera l’incorporazione dell’Alto Adige nel Terzo Reich
come un intervallo di libertà dall’occupante italiano. Dunque si rifiuta di
riconoscere come un problema la deportazione e sterminio degli Ebrei residenti
nell’area o la partecipazione ad un progetto efficacemente ricapitolato dalle
considerazioni dei due massimi esponenti del nazismo, Martin Bormann, leader
del partito nazista e segretario personale del Führer, e Adolf Hitler. Sul
destino di milioni di Europei orientali: “Gli Slavi devono lavorare per noi.
Quelli che non ci servono possono pure morire…La fertilità degli Slavi è
indesiderabile. Possono usare contraccettivi o praticare l’aborto, più lo
faranno meglio sarà. L’educazione è pericolosa. È sufficiente che sappiano
contare fino a cento…ogni persona educata è un futuro nemico” (Martin Bormann,
Memorandum, 1942). Sulle politiche demografiche del Reich: “Il soggiogamento di
350.000 Eloti da parte di 6000 Spartani fu possibile solo grazie alla superiorità
razziale degli Spartani che a sua volta era il risultato di una preservazione
razziale sistematica. Quello Spartano fu il primo stato razziale. La
distruzione dei bambini malati, deformi e fragili dimostrava una grande dignità
ed era mille volte più umana della patetica infermità dei nostri tempi che
tiene in vita i malati cronici e impedisce la nascita dei sani tramite l’aborto
e l’uso dei metodi anticoncezionali” (Adolf Hitler, 1928/1961). Più importante
di tutto, per Ellecosta, è l’integrità dell’Heimat e la possibilità di tornare
a parlare liberamente la propria lingua. L’etnia viene prima della libertà e
della democrazia. Dall’altra parte c’è comunque chi, come Giorgio Holzmann,
omaggia Ettore Tolomei, il campione della fascistizzazione e pulizia etnica
dell’Alto Adige. Per entrambi, valgono le parole di Di Michele: “Io credo che
su questioni così delicate e centrali non si debba transigere. Di fronte a una
data che segna per tutti noi, italiani, tedeschi e ladini, la fine della dittatura
e il ritorno alla democrazia, il riconoscimento deve essere esplicito e privo
di ambiguità. Per questo, anche nella nostra provincia, combatterono e
morirono uomini sia di lingua italiana che di lingua tedesca, magari divisi
sul destino che il Sudtirolo avrebbe dovuto conoscere dopo la guerra, ma
consapevoli che la prima cosa da fare era quella di dare il proprio contributo
per sconfiggere le dittature. […]. Non è questione di essere italiani, tedeschi o ladini, ma di credere
sinceramente nei valori della democrazia. Non ci possono essere ambiguità
nella condanna a fascismo e nazismo e va detto chiaramente che sono stati due
Stati democratici, Italia e Austria, a trovare una soluzione al problema
sudtirolese” (Alto Adige, 28 aprile 2009).
Quali dunque le
cause della remissività, che a volte sconfinava nella duplicità, se non in un
tacito e dissimulato collaborazionismo con l’orrore nazista da parte della
popolazione trentino-tirolese? Ragioni storiche e politiche, certamente; la
paura, comprensibilmente. Ma forse anche una sorta di “teutonofilia”, ossia il
desiderio di essere tedesco, o come i tedeschi, o dalla parte dei tedeschi, a
prescindere dai frangenti; e l’amore per tutto ciò che proviene dal mondo
nordico, al punto da associare perizia tecnica e competenza morale e politica.
Purtroppo quanto più un paese è ben organizzato, tanto più facile è sfruttarlo
e tanto più arduo è trovare modi di interferire con gli obiettivi dell’occupante.
In Trentino, la propaganda nazista si avvalse della stampa locale per lanciare
il suo appello al tradizionale senso di lealtà e rispetto verso le istituzioni
e l’autorità costituita, alla pazienza, concordia, disciplina, operosità,
generosità, parsimonia, diligenza, sobrietà, cortesia ed allo
spirito di sacrificio “tipicamente” trentini per garantire la pace sociale
nelle retrovie alpine (Baggiani, 2010). Adolfo De Bertolini, nominato
Commissario Prefetto dal Gauleiter Hofer, si era fatto interprete della diffusa
volontà trentina di evitare il peggio e, nell’annunciare la costituzione del
Corpo di Sicurezza Trentino, che indossava uniformi tedesche e doveva prestare
un giuramento di fedeltà ad Hitler, ripropose alcuni dei motivi retorici più
triti ma forse anche più rassicuranti per una popolazione angosciata: “Si
tenderanno qui la mano i figli dei patrizi e quelli del popolo, i giovani
avviati agli studi con quelli che devono guadagnarsi la vita con la forza delle
loro braccia; tutti però animati da un medesimo slancio; quello di trovare in
un lavoro disciplinato il fermento di una più utile esistenza, a vantaggio
della collettività sociale. […]. Essa impedirà che la collettività provinciale
possa essere sommersa da elementi estranei, conserverà al Paese la sua impronta
locale tramandata dai padri; eviterà allo sfregio di quell’onesto costume che
ha fatto in passato della gente trentina, più che un popolo, una famiglia”.
L’allora vescovo di Trento, monsignor Carlo De Ferrari, una figura che non si
distinse per audacia, nell’appello ai fedeli della Vigilia di Natale del 1943
li esortò a “proseguire sulla giusta via nella fede dei Padri che si tempra
alle prove nell’austera disciplina che é obbedienza alle Autorità e alle leggi,
per giungere così alla carità che é amor patrio e amore ai fratelli, secondo l’insegnamento
di Paolo”. Il riferimento all’insegnamento paolino è quantomai significativo,
perché ricorre frequentemente nei memoriali di chi denuncia le forme di
collaborazionismo più o meno dell’Europa occupata dai nazisti. L’epistola ai
Romani (13, 1-6) è di particolare interesse: “Ciascuno stia sottomesso alle
autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che
esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone
all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso
la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma
quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa il bene e ne avrai
lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male,
allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di
Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare
sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di
coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono
dediti a questo compito sono funzionari di Dio”. Dietrich Bonhoeffer si
interrogò a lungo sul senso e sulla validità di questo tipo di sollecitazioni
in un mondo alle prese con un potere malvagio come quello nazista.
I partigiani non
avevano dubbi: non esistono spazi per alcun compromesso con il Male ed un
regime che stermina le popolazioni ed intende conquistare il mondo è l’incarnazione
terrena del Male. Perciò il giudizio dei pochi partigiani trentini sulle
presunte virtù trentine fu ben diverso: mentalità arretrata e
reazionaria, clericalismo antimodernista, passività ed arrendevolezza, pavidità,
scarsa lungimiranza, concretezza meschina ed ipocrita, chiusura mentale.
Vi era la sensazione, peraltro non troppo distante dal vero, che la principale
preoccupazione fosse quella di preservare la buona amministrazione, la coesione
sociale ed un forte spirito comunitario, a qualunque costo. Come per tutta la
storia trentina, le poche ribellioni non smossero più di tanto le acque e, nei
fatti, i rapporti, i ruoli, la serialità dei comportamenti e delle relazioni
rimasero quasi intatti ed immutati. In linea con l’antica tradizione secondo
cui “il singolo era una creatura imperfetta che aveva bisogno della perfezione
di una comunità per operare come cittadino” (Lo Preiato, 2009).
Maria Garbari
(1984, p. 60) constata che lo scopo della retorica dell’occupante era quello di
“associare il localismo con la visione della sicurezza, del benessere, dello
starsene fuori dalla mischia, di evocare antiche tradizioni legate alla
stabilità ed all’ordine: in nome di questo mondo fatto di conservazione e
valorizzazione degli occupanti, si sarebbero potuti smussare alcuni angoli di
frizione fra le popolazioni locali ed i nazisti ed evitare che la gente di
montagna ed i contadini passassero nel campo dell’opposizione, magari
attraverso la cerniera della chiesa e del clero minuto”. La Gleichschaltung
nazista - allineamento coordinato e sincronizzato dell’intera società - fu
senza alcun dubbio facilitato dalla tendenza locale ad esaltare il modello
sociale ed amministrativo germanico e disprezzare quello italiano: “Sono questi
dei luoghi comuni, che naturalmente solo parzialmente corrispondevano a verità,
ma ebbero molto peso sulla mentalità locale e condizionarono senz’altro le
scelte in certi momenti. Era difficile scindere l’ammirato stile di vita
del mondo austro-tedesco dal nazismo di Hitler con i mezzi di informazione di
cui allora si disponeva perlomeno nelle piccole comunità rurali, era difficile
in quel momento ammirare il popolo tedesco e condannarne il regime del quale
non si conoscevano ancora le atrocità (Palla, 2003, p. 219). Di
conseguenza ogni forma di resistenza che mettesse a repentaglio lo spontaneo
fluire della quotidianità era visto come il fumo negli occhi, “in quanto
sinonimo in generale di disordine, di violenza gratuita, di rottura di tutte le
regole e quindi del venir meno di ogni moralità e legalità” (Palla, ibidem).
Per ciò stesso i
partigiani godevano di pessima fama ed erano assimilati a rubagalline, a
briganti, a predoni che usavano gli slogan socialisti per appropriarsi della “roba”
altrui. Invece il miraggio del completo autogoverno delle popolazioni autoctone
giustificava ogni connivenza, costituendo “la più insidiosa, la più subdola, la
più temibile delle prospettive che Franz Hofer è riuscito a far credere alla
popolazione trentina nella prima fase del suo governo sulla regione, prima cioè
di dare il via alla seconda fase che è stata quella della più feroce,
efficiente, spietata repressione poliziesca” (Agostini & Romeo, 2002, p.
71). I Trentini non si lasciarono nazificare, come non si erano lasciati
fascistizzare. Tirarono semplicemente a campare, attendendo l’arrivo degli
Alleati. Ma è proprio il prevalere della filosofia del “Ha da passa' 'a
nuttata” che rappresenta il trofeo più ambito per un esercito occupante: è
sufficiente convincere la popolazione che se non ci saranno motivi di
irritazione tutto si risolverà per il meglio e poi attendere gli effetti della
Sindrome di Stoccolma, quella del rapito che si allea col rapitore contro i
soccorritori, reintepretando in modo radicale la sua situazione, per difendere
la sua psiche.
Diversa fu la
reazione era la situazione in Alto Adige, dove molti video i nazisti come dei
liberatori, tanto che vi trovarono rifugio ed assistenza, tra gli altri,
persino dei mostri come Adolf Eichmann (al convento dei Francescani di
Bolzano), Franz Stangl (Castel Labers), Josef Mengele (Vipiteno e Termeno),
Gerda Bormann, la fanatica moglie di Martin Bormann (Merano) ed Erich Priebke
(via Leonardo da Vinci, a Bolzano) (cf. Steinacher, 2010). Anche a
questo proposito Francesco Comina scrive “pare che buona parte degli uomini sia
senz’altro pronta ad adeguarsi ai poteri ed alle ideologie imperanti se ciò
consente loro di perseguire i loro scopi e valori prettamente materialistici.
Il mascheramento di tale comportamento con un folclore tinto di toni religiosi
risulta fastidioso all’osservatore che viene da fuori e fa sì che gli spiriti
più critici si allontanino da questa patria e dal consorzio culturale così
pomposamente dichiarati” (2000, p. 11). Io credo che la sua valutazione del
comportamento sudtirolese sia incompleta. Accanto ai motivi pratici ed al
desiderio di continuare a vivere costi quel che costi, magari approfittando
delle circostanze eccezionali per arricchirsi a spese degli altri, c’era un’adesione
sincera ad un certo ruolo dell’individuo nella società. In Alto Adige, come in
Trentino, gli individui erano “come organi in un corpo” (Lo Preiato, 2009). Non
potevano esistere interessi qualitativamente differenti dei quali tener conto,
in un quadro di riferimento assoluto in cui la sudditanza nei confronti del
potere non poteva essere messa in discussione. “I cittadini erano sottoposti alla
potestà di un padre sui figli con un obbligo di fedeltà assoluto, perpetuo e
generale” (Lo Preiato, ibidem). Obbedire senza porsi troppe domande era
considerata una virtù. E ciò dà conto del comportamento delle popolazioni
locali che, come annota Armando Vadagnini, si dimostrò “priva di senso
rivoluzionario”, “apatica”, “fredda e indifferente” (Di Michele / Taiani,
2009). Nel Bellunese, dove le autorità ecclesiastiche e civili erano
apertamente critiche nei confronti del Terzo Reich, dove centinaia di partigiani
emiliani erano affluiti per combattere sulle Alpi e dove permaneva la memoria
della lotta contro il nemico austriaco, le cose andarono diversamente e la
prospettiva localista non esaurì l’interpretazione degli eventi degli
autoctoni. L’orientamento trentinistico riemergerà invece nel dopoguerra in
seno all’autonomismo trentino, che ebbe due anime: una progressista e
cosmopolita, sinceramente ispirata al federalismo di Carlo Cattaneo e di
Altiero Spinelli, ed una più chiusa, localista e xenofoba. Di questa corrente
faceva parte chi vedeva nell’unificazione con l’Italia la minaccia di “un
progressivo decadimento economico, morale e culturale della nostra regione”,
chi deplorava l’abrogazione delle “chiare leggi austriache che esercitavano una
profonda distinzione del male e del bene” e “l’incontrollato afflusso dal sud
di gente di ogni risma, pronta al raggiro e ad ogni mezzo di corruzione”. Il
Movimento Separatista era addirittura pronto a riprendere in mano le armi nel
1945 qualora ci fosse stata la necessità di un’immediata azione di forza per
richiamare l’attenzione internazionale (Baratter, 2009, p. 37).
La teutonofilia
indusse molti ad anteporre a valori primari quali la dignità, l’onestà, il
rispetto, l’attenzione verso il prossimo, il libero arbitrio, la compassione,
la giustizia e la solidarietà, quei valori secondari come la diligenza, l’obbedienza,
l’efficienza, la dedizione, la coesione e l’ordine che già godevano peraltro di
uno status immeritato – se fini a se stessi – in questa regione. Immeritato
perché le tradizionali virtù trentine o teutoniche sono virtù secondarie,
funzionali al buon governo di una popolazione, non al buon governo delle
coscienze. Vediamo perché. Giamblico di Calcide, rifacendosi a Pitagora, distingueva
le virtù teoriche, che sono le virtù dell’anima che ha già abbandonato se
stessa e si volge verso l’alto, dalle virtù civiche. Mentre queste riguardano
la ragione che si dirige verso ciò che è inferiore a se stessa, le prime
traggono origine dallo sforzo della ragione verso ciò che è superiore ad essa.
Pur prescindendo dalle premesse metafisiche di Giamblico, ritengo che questa
divisione tra virtù primarie e secondarie sia affatto plausibile.
Le virtù primarie
comprenderebbero unità, armonia, pace, equilibrio, saggezza/sapienza, amore,
fede, speranza, compassione, tenacia, calore umano, coraggio, umiltà,
gratitudine, benevolenza. Quasi tutte queste virtù possono essere pervertite
conducendo a: assimilazione, obbedienza supina, apatia, indifferenza, ordine,
fanatismo, dipendenza psicologica, anticipazioni irrealistiche, manipolazione
emotiva, rigidezza mentale, facili entusiasmi, sconsideratezza,
auto-svalutazione, indebitamento perpetuo, sfruttamento.
Le virtù
secondarie includono competenza, efficienza, senso del dovere, puntualità,
lindore, diligenza, obbedienza, efficienza, dedizione, coesione, ordine,
disciplina, parsimonia, utilità, mansuetudine, accuratezza, rapidità,
prevedibilità, precisione, celerità, continuità, unità, rigorosa
subordinazione, riduzione degli attriti, massimizzazione, ecc. Tutte qualità
generalmente associate alle macchine. Sono utili per il vivere associato perché
ci aiutano a vivere in maniera organizzata ed efficiente. Ma sono strumenti in
vista di un fine e non devono diventare un fine in se stesse. In quel caso
possono finire per formare gli anelli di una catena di male che termina in
luoghi come Auschwitz. Infatti, essere un eccellente cittadino dotato di virtù civiche non
significa essere un eccellente essere umano dotato di virtù umane. In molte
società le due cose divergono. Riferendosi ai meriti di Danesi ed Italiani nel
salvataggio di Ebrei durante l’Olocausto, Hannah Arendt, in “Eichmann a
Jerusalem”, scriveva: “Ciò che in Danimarca fu il risultato di un autentico
senso politico, una congenita comprensione dei requisiti e delle responsabilità
della cittadinanza e dell’indipendenza…in Italia ebbe origine da una quasi
automatica umanità generale di un popolo antico e civile” (Arendt, 2009).
Questa generalizzazione va presa con le molle, perché le virtù italiane
giacevano e giacciono in una matrice di vizi mal sopportabili, come il
disordine, la disobbedienza, il menefreghismo, la malizia, la corruzione ed il
pressappochismo che peraltro intralciarono, loro malgrado, la macchina dello
sterminio. Resta però il fatto che la disumanità nazista si espresse al meglio
proprio in quel sistema di virtù secondarie che sono da sempre esaltate da
patrioti e riformatori sociali. A questo punto, prima di procedere, è bene
ammonire il lettore a non identificare nazismo e “germanità”. Norvegia,
Danimarca e Olanda sono nazioni nordiche che hanno dimostrato livelli di
umanitarismo pari se non superiori a quelli italiani, mentre non dobbiamo mai
dimenticarci degli eccidi commessi dagli Italiani, fascisti o meno, in Africa e
nei Balcani e dalla prontezza con la quale molti Italiani hanno chiuso gli
occhi di fronte alla sorte dei Sudtirolesi. È bene non indulgere nell’autostereotipizzazione
degli “Italiani, brava gente”.
Lo storico
Jonathan Steinberg (Steinberg 1997) ha evidenziato l’uniformità della brutalità
nell’esercito tedesco, la virtuale assenza di espressioni di umanità nella
corrispondenza privata e nei documenti pubblici. Non si parla mai di esseri
umani (Menschen), ma solo di materiale, forniture, roba. Apparentemente
tra le mansioni del soldato tedesco non era contemplato il comportarsi
umanamente: termini come morale ed etico non trovavano posto nei manuali degli
ufficiali. Invece i soldati italiani facevano riferimento alle virtù cristiane
in pubblico ed in privato, al retaggio dei codici di condotta cavallereschi,
mostrando una forte consapevolezza dei dettami dell’onore ed un impegno a
proteggere i deboli e gli oppressi. Perché una tale divergenza tra due paesi
che appartengono alla medesima tradizione europea? Jonathan Steinberg ipotizza
una biforcazione nella concezione stessa dell’umano e cita l’autore satirico
Kurt Tucholsky che, nel 1928, scrisse un brillante pamphlet intitolato “Das
Menschliche” (l’umano) in cui spiegava che “Das Menschliche” è un qualcosa che
altrove è auto-evidente ma non in tedesco, dove rischia spesso di decadere
nella categoria di “ciò che è al servizio” o, peggio ancora, di “ciò che è una
cosa”. Tucholsky concludeva che questo è ciò che rende la mentalità tedesca così
difficile da far intendere altrove. Nella Germania del tempo – ossia quella che
stava per cedere alla seduzione nazista, non esistendo una Germania eternamente
nazificabile – l’umano era strettamente associato al disordine, all’impertinenza,
al caos incontrollabile…”das Menschliche” è tutto ciò che rimane dopo che il
danno è fatto”. Come antropologo devo obiettare ad ogni essenzializzazione
di una cultura così ricca e variegata. È evidente che milioni di Tedeschi,
anche sotto il nazismo, non smarrirono i sentimenti umanitari. Ma non c’è alcun
dubbio che la teologia politica nazista aveva come fine prioritario quello di
de-umanizzare i nemici e robotizzare i seguaci, o per meglio dire adepti (perché
di veri e propri fedeli parliamo, non di simpatizzanti), magnificando le virtù
secondarie ed emarginando quelle primarie, le uniche che potevano interferire
con i piani hitleriani.
A me pare che
Emmanuel Levinas abbia colto con estrema acutezza e perspicacia la vera essenza
del nazismo. Riporto qui di seguito una lunga citazione tratta da “Emmanuel
Levinas” di Giuliano Sansonetti e che concerne la libertà dello spirito
rispetto alla materia, un pilastro del pensiero filosofico occidentale (ma
anche orientale): “Tale libertà si esprime nell’estraneità dell’anima che,
senza comportare una fuga dal mondo, si distanzia da esso fondando così la
propria trascendenza. È questa libertà sostenuta dal cristianesimo ad aver
ispirato i movimenti profondi della storia, anche quelli, come il marxismo, che
si sono posti in alternativa al cristianesimo. Rispetto a tale tradizione, l’hitlerismo
costituisce una vera e propria rottura, un radicale rovesciamento di
prospettiva. Lo specifico di questo movimento infatti Levinas lo individua nell’incatenamento
dello spirito al corpo, per cui il biologico, con tutto ciò che comporta di
fatalità, più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore. Donde
le misteriose voci del sangue, i richiami dell’eredità e del passato, ai quali
il corpo serve da enigmatico veicolo. Ne deriva che l’essere dell’uomo non è più
nella libertà ma in una specie d’incatenamento. Sul piano dei rapporti sociali,
non è l’accordo libero della volontà a costituire l’elemento unificante, bensì
la consanguineità, per cui se la razza non esiste, bisogna inventarla. Ogni
comunione di spiriti che non sia fondata sulla consanguineità non può che
apparire sospetta. Anche questa idea ha bisogno di affermarsi come universale,
ecco allora che il razzismo deve far posto all’idea di espansione; quest’idea,
però, a differenza delle altre, non lascia la libertà di accoglierla o meno, ma
si trasforma in politica di potenza. Con l’hitlerismo, in sostanza, non è messo
in discussione questo o quell’aspetto della civiltà occidentale, ma l’umanità
stessa dell’uomo” (Sansonetti, 2009, pp. 42-43). Il nazismo è prima di
tutto la negazione della dignità, la principale virtù umana, che dipende dalla
capacità dell’individuo di continuare ad essere un soggetto dotato di volontà,
di autogovernarsi, un attributo che si applica ai singoli esseri umani, non
alle collettività. La seconda virtù primaria negata dal nazismo è quella della
giustizia che, secondo Simone Weil, consiste nel comportarsi esattamente come
se ci fosse uguaglianza quando uno è più forte in un rapporto diseguale. Per Pitagora
il principio di giustizia determina la relazione reciproca e bilanciata tra
eguali e deve stare alla base di ogni attività umana. È l’incontro di mutualità
e giustizia che genera l’altra virtù primaria che è l’uguaglianza. Un’ulteriore
virtù primaria oggetto delle attenzioni naziste è la mitezza, che Bobbio
definiva “la più impolitica delle virtù” e che non va confusa con la passività
mansueta. Sempre per Bobbio, il mite non è remissivo davanti alla soperchieria,
anzi è baluardo contro l’arroganza (l’opinione eccessiva di sé che giustifica
la sopraffazione), la protervia (l’ostentazione dell’arroganza) e la prepotenza
(l’abuso di potere ostentato e praticato). Come William Blake, Bobbio
era fautore di una civiltà fondata sulla dolcezza e sulla “parte migliore dell’io”,
anatema per ogni autentico nazista.
I nazisti avevano
una valida ragione a sostegno delle loro pretese: l’inesistenza di una morale
obiettiva. In un mondo in cui ha valore solo ciò che è misurabile e computabile
non possono esistere valori spirituali che non necessitino di una qualche
giustificazione razionale. La scienza nazista era perfettamente in grado di
avvalorare le intuizioni del Führer, se necessario anche falsando i dati. C’erano
dei fatti che la scienza tedesca sotto il nazismo aveva il compito di tradurre
in dogmi utili al riformismo politico hitleriano. L’esistenza della razza, la
perpetuazione del genotipo (allora si chiamava plasma germinale) dai primordi
fino al Terzo Reich, la determinazione genetica del temperamento e delle facoltà
intellettuali, la causazione naturale della Storia e dell’evoluzione sociale.
Questi erano tutti fatti “scientificamente dimostrati”. Essi comprovavano
implacabilmente la validità della teoria dell’Ahnenerbe (eredità ancestrale),
che definiva l’individuo e la sua spiritualità come il mero epifenomeno di
linee genealogiche perpetue. In pratica i tratti caratteriali e le facoltà
intellettive di ogni individuo erano il portato di un lungo processo di
trasmissione del patrimonio germinale a partire dai suoi antenati, processo che
non poteva essere influenzato da alcun fattore ambientale. Secondo questa
teoria le popolazioni e le razze sarebbero fasci di linee germinali e gli
esseri umani anelli di una catena genealogica millenaria che determinerebbe chi
siamo, in cosa crediamo e come agiamo.
Questo sistema di
coordinate faceva sì che le virtù preferite dai nazisti trovassero un
ancoraggio nella Natura – trasformata in un idolo da venerare e in un agente
cosmico schierato dalla parte del Terzo Reich –, e quindi nell’evoluzione
universale. La spiritualità materialista dell’hitlerismo implicava il
collettivismo identitario e quindi il rigetto di ogni concettualizzazione degli
individui quali soggetti autonomi ed indipendenti. Questa logica
classificatoria imputava a tutti i membri di una razza, ad esempio gli ebrei,
le colpe di alcuni ed attribuiva a tutti gli ariani i meriti di alcuni presunti
ariani. Vi era poi la pretesa che chi fosse stato identificato come membro di
una razza dovesse allinearsi alle pratiche e prescrizioni ad essa associate,
accettando l’appiattimento della sua identità sulla categoria bio-sociale
assegnatagli fin dalla nascita. Il danno in termini di dignità umana e
realizzazione delle proprie potenzialità si estendeva anche al nazista, che non
si rendeva conto di sconfessare la propria individualità e di condurre un’esistenza
moralmente parassitaria, a rimorchio della sua razza ed ideologia di
riferimento, narcisisticamente convinto di condividere le virtù del Volk
e del Geist. Questo senso di impeccabilità e di intangibilità morale è
alla base del comportamento osservato e denunciato dal grande alpinista Tita
Piaz in Val di Fassa nel periodo dell’occupazione nazista (Palla, cf. Di
Michele/Taiani, 2009): “Due giorni fa si flagellò uno di Campestrin perché non
voleva ammettere di essere ebreo! Pare che la civilizzazione presso certi
popoli sia passata attraverso i secoli senza lasciar traccia di sé. Se le cose
venutemi a conoscenza questi ultimi tempi mi fossero state raccontate alcuni
mesi fa mi sarei decisamente rifiutato di crederle non foss’altro che per
rispetto della natura umana. Ma dunque siamo ritornati ai primordi della vita,
retrocesso nel tempo delle scure profondità dell’essere? E l’uomo immagine di Dio
dov’è ora?” (p. 349). E ancora, riguardo al mercanteggiamento dei beni delle
vittime da parte delle guardie: “Capisco come i soldati romani abbiano diviso
le misere vesti di Cristo che era un ribelle estraendole a sorte, ma non riesco
a trovare una scusa per questi miserabili pigmei e questi quadrati egoisti che
non arrossiscono punto di vendere il più piccolo favore al miglior offerente,
che speculano sulle sventure delle vittime che sono loro fratelli” (p. 352). È
interessante notare che Piaz impiega il termine “fratelli”. Nessun aguzzino
avrebbe mai visto nell’altro un fratello, che è invece un concetto centrale
dell’etica umanistica e cristiana.
Chi sostiene l’etica umanista-cristiana tanto aborrita
dai nazisti ritiene che le virtù primarie ed i valori centrali definiti dalle
carte costituzionali non abbiano bisogno di una qualche giustificazione
razionale o di un ancoraggio naturalistico-evolutivo. Ritiene che non sia
davvero necessario dimostrare scientificamente l'utilità di amore, amicizia,
familiarità, comunanza, collegialità, fraternità, buon vicinato, dignità umana
e solidarietà. Che per i diritti umani non siano richieste verifiche di
autenticità e che principi ed intuizioni extra-scientifiche non siano il
prodotto di superstizioni o di emozioni inaffidabili ma di semplice buon senso.
Torniamo a toccare il nodo irrisolto del senso ultimo dei nostri ragionamenti
morali. Possiamo fare a meno di ricercare in motivazioni che eccedono la nostra
umanità le ragioni per comportarci decentemente, equanimemente ed
affettuosamente nei confronti del prossimo? Dobbiamo chiedere a Dio o alla
Scienza di spiegarci perché non si debbano fare certe cose? Oppure siamo
giustificati nel sostenere che la madre di tutte le regole, “tratta gli altri
come loro vorrebbero essere trattati”, esaurisce ogni discussione in merito al
perché ed al percome uno debba agire in un modo piuttosto che in un altro?
Personalmente credo che sia questo il caso e che la nostra umanità ci obblighi
ad intervenire quando ci si chiede di alleviare le sofferenze altrui.
Rimarranno comunque persone che non la riterranno un’argomentazione
soddisfacente e vorranno risalire ancora più a monte, sostenendo magari che
quelle centrate sull’empatia ed il buon senso (intuizioni morali) siano confuse
pretese argomentative e che la comune condizione di vulnerabilità della nostra
specie – nell’infanzia, nella malattia e nella senilità – non possa dar conto
dell’esistenza dei sentimenti del rispetto, della gentilezza, dell’amore e
della compassione. Questi critici sono liberi di pensare come credono, a patto
che non cerchino di imporre all’intera collettività il loro riduzionismo
epistemologico ed etico.
1 commento:
Se vuole le consiglio un volume riguardante un milite del C.S.T. che racconta la sua esperienza in questo corpo militare.
Attilio Fronza, "LA POLIZIA TRENTINA" AI CONFINI DEL REICH. UNA TESTIMONIANZA. 1943-1945, Egon/Emanuela Zandonai Editore, Rovereto, 2008, 2009.
Interessante per capire gli stati d'animo, esperienze, aneddoti di una persona comune.
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