La guerricciola
slovena – che dà il via nel 1991 alla disintegrazione dei Balcani – è un
capolavoro di astuzia strategica e di messa in scena, e l’esperienza fatta a
Timosoara mi aiuta a prenderne atto con relativa rapidità. Lo strappo – come si
vedrà più tardi – avviene grazie a una tacita unità d’intenti con la Serbia. Si
consuma all’insaputa della Croazia, e soprattutto dell’esercito federale, che
cade nel tranello della provocazione. La Slovenia non interessa a Milošević; dietro alle sue
dichiarazioni roboanti sull’integrità dei confini, egli già lavora per
ritagliare dal paese la fetta più larga possibile di Grande Serbia, dunque il
separatismo sloveno gli è utile a mettere in mora il processo e a schivarne la
responsabilità. Anche per i dirigenti di Lubiana è un abile gioco delle tre
carte. Essi hanno costruito la separazione pompando la rabbia popolare dei ‘mitteleuropei’
contro i ‘bizantini’ serbi, ma è proprio con i bizantini che essi si accordano
per spaccare la Federazione.
Paolo Rumiz, “Maschere
per un massacro”, 2000, p. 58.
Incremento del
costo dei combustibili fossili, eccessivo indebitamento, forti disparità
nord-sud, regionalismi separatisti, cultura democratica deficitaria, burocrazia
inefficiente e corrotta, malavita organizzata, speculazioni internazionali, trame geopolitiche globali:
queste sono state le cause principali della morte della Jugoslavia.
Succederà
anche all’Unione Europea, in caso di
crollo dell’eurozona, come hanno vaticinato Merkel e Sarkozy?
Occorre prima fare
piazza pulita della tenace credenza che siano le lealtà etniche a causare le
guerre civili. I miti etnici e religiosi sono ingredienti fondamentali di quasi
ogni guerra civile, ma si attivano solo se e quando conviene a quelli che
chiamo gli “imprenditori dell’etnico” – politici, intellettuali, industriali e
finanzieri che hanno interesse a rinfocolare dissidi per dividere la
popolazione. Un semplice, incontestabile dato di fatto è sufficiente a
confutare una volta per tutte il mito dell’incontenibile forza dell’odio
interetnico. Il censimento ruandese del 1991 stimava che la popolazione
tutsi ammontasse a 600mila cittadini e almeno 300mila Tutsi sono sopravvissuti
al loro genocidio. Se il conto delle vittime è affidabile – tra il mezzo milione
ed il milione –, allora il numero di Hutu uccisi da altri Hutu è paragonabile
se non superiore a quello dei Tutsi massacrati dagli Hutu. Il che
significa che, ancora una volta, le semplificazioni binomiali (bianco/nero,
buono/cattivo) non rendono giustizia alla complessità degli eventi umani.
Per capire cosa
sia successo in Jugoslavia si deve anche tener conto della trama mafiosa che la
avvolgeva in un reticolo di poderosi traffici di esseri umani, di armi, di
droga tra Kosovo, Croazia, Germania e Italia, che hanno coinvolto alcuni tra i
politici croati ed austriaci più in vista. Per maggiori dettagli, rimando all’articolo
di Vito Lops, sul Sole 24 Ore del 10 settembre 2010, dal titolo “Il giallo
della banca Hypo Alpe-Adria. Tra i contatti con la malavita e quei
finanziamenti ad Haider”, alle fondamentali inchieste pubblicate online da “EaST
Journal” ed agli studi rigorosissimi del politologo Francesco Strazzari, in
particolare l’inestimabile “Notte balcanica : guerre, crimine, stati falliti
alle soglie d'Europa” (2008), che hanno già tratteggiato i contorni della
vicenda, in cui criminalità e sovranità si intrecciano inestricabilmente e
trasversalmente rispetto ai gruppi etnici.
I Serbi, Milosevic
in primis, restano comunque i principali responsabili di ciò che è avvenuto.
Fino al 1958 il partito comunista era intento a creare una “coscienza jugoslava”.
Poi, negli anni Sessanta, questa politica fu rovesciata e non solo non ci si
curò più di fare riferimento alla nazionalità jugoslava, ma addirittura si
introdusse l’obbligo per i cittadini di dichiarare la loro affiliazione etnica.
Questo fu fatto perché molti Serbi stavano tentando di impadronirsi
clandestinamente dei centri di potere dell’intera nazione – l’esercito e l’amministrazione
pubblica –, approfittando del fatto che l’etnia non contava. Perciò bisognava
in qualche modo identificarli. Il nazionalismo etnico divenne la principale
forma di opposizione al comunismo, ma soprattutto ad un colpo di stato serbo
dissimulato. Non si trattava di un atavismo, la natura del conflitto non era
etnica. C’era invece un uso mafioso dei legami clanici per conquistare fette
sempre più grandi di potere, prestigio, influenza e benessere. Tutto questo
produsse un processo scismogenetico: le varie fazioni assunsero posizioni
gradualmente sempre più estreme, in una crescente polarizzazione. I mass media,
invece di mitigare questi processi, irrobustirono la tendenza a tessere
interazioni simboliche all’insegna della contrapposizione scismatica. Ogni
questione sociale andava letta in termini etnici, cosicché le simpatie e
preferenze di ciascuno finivano per andare alla “sua” gente, indipendentemente
dalla ragionevolezza delle istanze sollevate dall’altra parte (Denich, 2000).
I fatti, perciò,
danno ragione al sociologo e politologo Marco Deriu, quando sostiene che “Il
conflitto etnico non è la realtà della guerra, ma piuttosto il nome della
rappresentazione pregiudiziale con cui gli osservatori sia locali che
occidentali si dispongono a fronte di un conflitto del quale capiscono ben poco
e da cui vogliono a tutti i costi sentirsi distanti” (Deriu, 2005, p.105).
E anche a Paolo Rumiz: “Spiegare la guerra con l’odio tribale è come
spiegare un incendio doloso col grado di infiammabilità del legno da
costruzione, e non col fiammifero” (Rumiz, 2000, p.29). Quando invece
quella tribale è una mera mascherata che serve innanzitutto a far credere
“all’irrazionalità di uno scontro i cui scopi (economici) e i cui metodi
(di manipolazione) sono invece assolutamente razionali, e dove le responsabilità
di vertice sono del tutto trasparenti; in secondo luogo, fornisce la base
teorica all’impossibilità della convivenza e dunque all’inevitabilità della
pulizia etnica; in terzo luogo, soddisfa in pieno il bisogno di spiegazioni
banali da parte dell’opinione pubblica internazionale” (Rumiz, ibid., p.
76).
Guido Rampoldi (“L'Occidente allora trovò la sua missione”, Repubblica, 11
luglio 2005) ha parlato di ribaltamento della verità ed ha denunciato due
motivi propagandistici convergenti: quello che associava il nazionalismo serbo
al nazismo e quello che si agganciava alla teoria fatalistica dello scontro di
civiltà di Samuel Huntington, che leggeva ogni conflitto come un fenomeno
naturale o un’ineluttabilità storica e perciò incontrollabile: “Nella sua
essenza questa era la medesima rappresentazione fabbricata dai regimi di
Croazia e Serbia per convincere l'Occidente ad assecondare la spartizione della
Bosnia: la guerra doveva risultare uno scontro 'spontaneo' tra popolazioni
portatrici di 'civiltà' inconciliabili; e la 'civiltà' dei musulmani doveva
avere caratteristiche aggressive (come è anche nell'Huntington più recente). […]
È la fabbrica d'una vulgata in cui "civiltà" ha la spiacevole
tendenza a funzionare come un'altra pseudocategoria, "razza", cioè a
spalmarsi in ogni individuo, quale che siano le sue idee, come si trattasse
d'un patrimonio genetico”.
Queste impressioni
sono state confermate da un progetto di ricerca internazionale che ha coinvolto
storici e scienziati sociali e che aveva come obiettivo quello di scrivere una
storia il più possibile imparziale del conflitto jugoslavo (MacDonald et al.,
2009). Lo studio internazionale riporta che in un sondaggio del 2003, a
poco più di un decennio dalla fine delle pulizie etniche, tra il 21% ed il 25%
di Serbi, Croati e Musulmani Bosniaci non avrebbero avuto alcun problema ad
accogliere in famiglia un genero o una nuora dell’altro gruppo etnico,
indipendentemente dal giudizio della propria comunità. Un valore ai miei occhi
sbalorditivo.
Dunque perché l’odio
assassino? Gli studiosi elencano una serie di ragioni: la crisi economica, l’autoritarismo
e clientelismo diffuso, dalla famiglia allo stato, la manipolazione dell’opinione
pubblica da parte di politici che cercavano lo scontro, i mezzi di informazione
che battevano il tasto sull’atavicità ed inevitabilità dei conflitti
interetnici, perché controllati da lobbies governative ed industriali che
pensavano di poter avvantaggiarsi da uno scontro generalizzato. La guerra fu
fabbricata anche a partire dalle acredini residue risalenti alla seconda guerra
mondiale che lo stato ignorò, come se non esistessero, invece di affrontarle e
creare una vera riconciliazione. Questi esperti sono concordi nel respingere la
logica circolare per cui la guerra era inevitabile per il semplice fatto che ha
avuto luogo. Obiettano, come Rumiz, che la debolezza con cui ci si
oppose alla guerra fu paradossalmente il risultato dell’impreparazione della
popolazione ad un tale sviluppo estremo. La gente non se l’aspettava e non si
era attivata per evitarla. Invece politici, produttori d’armi,
intellettuali, giornalisti e organizzazioni criminali avevano investito molto
nell’innescamento di una spirale di distruzione e riuscirono a convincere
ciascuno jugoslavo che erano stati gli altri a volere la guerra, non “noi”.
Nonostante questo moltissimi jugoslavi aiutarono i propri “nemici etnici”.
Con ciò non si
vuol dire che la Jugoslavia fosse un’utopia plurale, Ma non era nemmeno una
terra di rancori e faide insanabili dove l’unità era stata imposta da fuori. C’erano
separazione e convivenza, tolleranza e pregiudizio: come in Alto Adige, come in
Italia, come in ogni altro luogo. Non era una società tribale, ma fu
tribalizzata e si lasciò tribalizzare. Un paesano serbo aveva molte più cose
in comune con il suo compaesano musulmano che con un serbo di Belgrado, sia
per quel che riguarda il dialetto, sia per quel che concerne lo stile di vita;
ma il conflitto rese saliente il parametro religioso e quindi la barriera separò
categorie religiose, e non economiche, sociali e di ideologia politica. Vi
erano relazioni amichevoli tra gruppi, ma diverse pratiche sociali li
separavano, specialmente al di fuori degli ambienti urbani, dove i matrimoni
misti erano rari e le amicizie erano monoetniche, così come lo erano i colleghi
di lavoro. I matrimoni misti non erano comuni non per una questione di
xenofobia ma perché creano complicazioni di adattamento a tradizioni diverse
che molte persone preferiscono evitare. Era più facile frequentare e coniugarsi
a persone che condividevano le medesime pratiche e che erano già inserite nel
medesimo reticolo di obblighi reciproci dei propri genitori. Insomma, la sfera
pubblica era condivisa ma quella dell’intimità era separata (Bringa, 1995). La
Bosnia rurale era una società plurale, nell’accezione di Furnivall (1948): “Essa
è, nel suo senso più stretto, una mescolanza, poiché essi si mescolano,
ma non si combinano. Ciascun gruppo ha la sua propria religione, la sua cultura
e la sua lingua, le sue idee e costumi. Come individui si incontrano, ma solo
al mercato, per comprare e vendere. C’è una società plurale, con differenti
sezioni della comunità che vivono fianco a fianco, ma separatamente, all’interno
della stessa unità politica”. Un po’ come l’Unione Europea, in effetti.
Questa separazione spiega perché, una volta che lo stato jugoslavo si sfasciò
ed iniziarono le violenze, fu relativamente facile per i fomentatori d’odio
rendere così determinanti e disumani i legami etnici, trasformandoli in legami
clanici, cioè in una grande famiglia fittizia in cui ogni parente è tenuto ad
aiutare e sacrificarsi per gli altri parenti. Un familismo su scala
gigantesca reso possibile da un’accorta e scellerata manipolazione simbolica.
Le persone non possono scegliere i loro familiari e, allo stesso modo, non fu
più possibile scegliere con chi stare: o con noi o contro di noi. Fu la fine
del volontarismo e l’inizio del sanguinario dominio del fatalismo. Non
importava più ciò che uno sentiva dentro, importava la sua collocazione nell’universo
simbolico serbo, croato e musulmano. Ognuno era prigioniero, volente o nolente,
nella sua gabbia etnica e poteva solo cercare di allargarla a spese delle
gabbie altrui.
Nelle città il
problema dell’etnocentrismo era molto meno sentito ed i matrimoni misti erano
molto più comuni. Le statistiche sui matrimoni misti indicano che in
Jugoslavia, fino al 1981, sei milioni di cittadini si erano imparentati
attraverso un matrimonio misto, su una popolazione complessiva di poco più di
22 milioni di abitanti. L’integrazione sociale era dunque un
fatto, non un’impossibilità (Petrović, 2000). Infatti le città multietniche bosniache
resistettero alla propaganda e respinsero l’esortazione a separare le comunità
miste. Per questo i Serbi bosniaci furono costretti a tagliare le linee
telefoniche tra quartieri etnicamente differenziati. Tagliando le comunicazioni
tra le persone si ristabiliscono i confini che la gente ignorava. L’assenza
di informazioni non consentiva di farsi un’idea realistica di ciò che stava
accadendo e si era più facile preda della propaganda (Ramet, 2005).
Purtroppo la
psiche umana è conformata in modo tale che una diversa affiliazione – una
distinzione ed un senso di missione – è sufficiente per innescare un processo
scismogenetico, ossia la formazione di una frattura. Ma ancora negli anni
Ottanta per molti era impossibile immaginare una tragedia del genere. Solo a
partire dal 1987 si cominciò a prestare attenzione a quelle Cassandre che
avvertivano che c’erano tutti i presupposti per una guerra civile, se le
autorità non avessero corretto la rotta (Ramet, 2008). Gli stessi etnografi che
lavoravano sul posto, lontano dai centri urbani dove lo tsunami stava montando,
non si erano dati pensiero di quel che sarebbe potuto accadere ed effettivamente
accadde di lì a pochi anni. C’era sì l’idea di una possibile separazione, ma
generalmente non si temeva una guerra civile e certamente non un evento di tale
ferocia. In fondo i popoli bosniaci non si erano assaliti dai tempi della
Seconda Guerra Mondiale, e anche lì c’era stato bisogno dell’intervento
nazifascista per scatenare l’inferno. Se l’odio fosse davvero stato una
costante, un elemento intrinseco ai rapporti tra le genti jugoslave, allora si
sarebbe arrivati ad una separazione netta, in aree etnicamente pure, già da
secoli. Se la coesistenza fosse stata davvero impossibile e le relazioni
interetniche fossero state realmente troncate come si sostiene ora, perché
comunità differenti avrebbero continuato a convivere e risiedere in territori
potenzialmente ostili, come hanno fatto? Paolo Rumiz, infatti, parla di incredulità
della gente, ignoranza, sorpresa: “NON ESISTE PROVA MIGLIORE FORSE CHE LA
BOSNIA NON È STATA DISTRUTTA DALL’ODIO, MA DA UNA DIFFUSA IGNORANZA DELL’ODIO”
(Rumiz, 2000, p. 7).
I musulmani
pensavano che solo i forestieri (ljudi sa strane) avrebbero creato
incidenti. Ma quando queste forze esterne si presentarono alle loro porte, si
stupirono nello scoprire che alcuni dei loro vicini si univano ad esse nell’eccidio
dei musulmani, nel saccheggio e nella distruzione delle loro case (Bringa,
1995). Questa inconsapevolezza è da attribuire alla distanza dagli epicentri
del fenomeno scismogenetico ed alla complessità della convergenza di fattori
politici, economici, istituzionali ed ideologici tali da produrre una “tempesta
perfetta” che compromise gli equilibri attivando certi meccanismi di
progressiva contrapposizione in tutta l’area, anche laddove non c’erano stati
dissidi diversi da quelli che s’incontrano in ogni comunità umana. Quel che si
può escludere recisamente è che sia colpa di anonimi fattori storici o
biologici. Ci furono persone in posizione di autorità che fecero tutto
quanto era in loro potere perché accadesse quel che poi successe. Narcisismo ed
orgoglio ferito, problemi di autostima, la ricerca spasmodica di un leader
carismatico e messianico che conducesse il gregge, fecero il resto. A
ciò si aggiunse la convinzione serba, alimentata dal regime, di essere tra i
pochi guardiani rimasti dei valori del cuore e dello spirito e contro l’americanizzazione
del pianeta (Ramet, 2005).
La pulizia etnica
servì prima di tutto a creare le contrapposizioni, non ne fu la conseguenza.
Poiché, essenzialmente, c’era un solo linguaggio, serbi musulmani e croati
cominciarono a distorcere le loro lingue per andare incontro al mito della
separazione. I musulmani introdussero termini arabi al posto di quelli
serbi, i croati cercarono di inventarsi un croato puro ed autentico con picchi
farseschi come quando si smise di usare il termine hiljada (mille) che era un
vecchio termine croato, perché era stato impiegato dal governo jugoslavo,
preferendo il sinonimo tisuca. Si distrussero i monumenti dedicati agli eroi
della guerra antinazista, perché erano jugoslavi (Hedges, 2003).
Come i
nazionalismi precedono l’esistenza delle nazioni e le creano dal nulla,
immaginandosi delle comunità che prima non c’erano, allo stesso modo la pulizia
etnica produsse legami solidissimi tra i carnefici, che si sentirono uniti dal
senso di colpa e dalla necessità di proseguire nell’escalation di odio e
violenza per dare un senso alle atrocità compiute in precedenza, in un circolo
vizioso di razionalizzazione dell’imbarbarimento progressivo. Ad ulteriore
dimostrazione che la maggior parte delle persone coinvolte in questa pratiche
mostruose possiede una coscienza e va ritenuto pienamente responsabile di ciò
che sta facendo. Il risultato fu che molti serbi bosniaci – ma certamente non
tutti, anzi – si distaccarono da quei criteri morali, psicologici e cognitivi
che fino a quel momento avevano impiegato per valutare se stessi e gli altri
(Ramet, 2005).
La crisi jugoslava non va letta come il risultato di odio
etnico. Quel tipo di interpretazione inverte la storia e comincia a leggerla
dalla fine. L’odio è arrivato alla fine. Accettare la naturalezza ed inevitabilità delle animosità
etniche ne facilita l’insorgere e il trinceramento in appartenenze gelose,
possessive, intolleranti e paranoici (Woodward, 1995). Tutti i gruppi si
percepivano come vittime, ignorando gli eccessi della propria parte, ignorando
le rivendicazioni altrui. Fu uno di quei casi di autismo collettivo che sono
molto frequenti nella specie umana. Il fatto è che finché non esiste un
vocabolario comune ed una storia condivisa non ci sarà pace, ma solo assenza di
conflitto violento. Ciò non significa deresponsabilizzare le persone. La
gente comune non era innocente. Fu dopo tutto una maggioranza di elettori a
continuare a votare per dei candidati che avevano enfatizzato la loro eticità e
la contrapposizione rispetto agli altri gruppi etnici e a non votare in massa
per chi voleva una pacifica convivenza. Queste persone avrebbero potuto e
dovuto immaginare che il continuo rilancio di accuse, l’escalation dei proclami
e la progressiva polarizzazione avrebbero causato una guerra civile.
SEGUE L'IMPORTANTE CORREZIONE INTEGRATIVA DI GIULIANO GERI (ZANDONAI EDITORE), CHE RINGRAZIO:
SEGUE L'IMPORTANTE CORREZIONE INTEGRATIVA DI GIULIANO GERI (ZANDONAI EDITORE), CHE RINGRAZIO:
"Un piccolo
appunto. Non si può, a rigor di logica, parlare di divisioni
"etniche" tra popolazioni della stessa etnia (slavi), dunque
l'introduzione di un simile concetto è già di per sé la cifra di una
manipolazione a fini diversificati, di cui l'Occidente è responsabile al
pari della classe politica interna che ha preparato, studiato a tavolino e poi
scatenato la dissoluzione. Inoltre non si può parlare di "nazionalità
jugoslava", se non in termini particolari. "Narodnost" è proprio
la categoria cui si è voluta sostituire quella, impropria, di
"etnia". Gli ultimi censimenti chiedevano ai cittadini jugoslavi di
esprimere la propria "nazionalità" (serbi, croati, bosgnacchi ecc.).
Chi si rifiutava di appartenere a quelle che sarebbero diventate "gabbie
etniche", si definiva ufficialmente di "nazionalità jugoslava",
senza alcun criterio né sentimento di appartenenza socio-politica che non fosse
quella federale.
Una
settimana fa c'è stato il ventennale della caduta di Vukovar, mirabile esempio
di come la guerra civile sia stato un evento rigorosamente pianificato".
5 commenti:
grazie Stefano, lettura molto interessante
Articolo molto interessante, complimenti!
Un unico appunto. Trovo di una faciloneria che stride con l'accuratezza del resto dell'argomentazione quella frase buttata lì: "I Serbi, Milosevic in primis, restano comunque i principali responsabili di ciò che è avvenuto". A parte l'utilizzo della categoria "i serbi", piuttosto fastidioso, è difficile sostenere che le colpe di Milosevic siano poi così più nette di quelle di Tuđman o Izetbegovic. E' evidente che tutte le elite politiche repubblicane lavorarono fin dagli '80 per la dissoluzione. Per analizzare le cause di questo fatto servirebbe un altro saggio, ma credo che siano da ricercare nella distribuzione dei poteri pensata da Tito nella Costituzione del '74 (pensata per garantire transizione e pace dopo la sua morte, portò la Jugoslavia tra le braccia dei nazionalismi. Fu sicuramente l'errore più grave di Tito).
Anche la decisione presa dopo l'epurazione di Rankovic di abbandonare il tentativo di "fare gli jugoslavi" e iniziare a sottolineare l'appartenenza "etinica" (più correttamente "nazionale") fù il frutto di dinamiche un po' più complesse rispetto al semplice fatto che "molti Serbi stavano tentando di impadronirsi clandestinamente dei centri di potere dell’intera nazione". La realtà è che la misura venne presa innanzitutto per togliere la terra da sotto i piedi alle rivendiacazione nazionalistiche dei Croati e degli albanesi kosovari in primis, i cui nazionalismi cavalcavano la presunta supremazia serba dentro alla Jugoslavia per propagandare il loro sciovinismo. Allora Tito decise per la politica dell'"accuratezza etnica". Dentro al partito, in esercito e polizia, nelle fabbriche, ovunque, la percentuale degli impiegati doveva rispecchiare fedelmente la proporzione nazionale del luogo. Ancora una volta una scelta fatta in buona fede che però alla lunga rese molto più tortuoso il percorso per creare una nuova nazionalità jugoslava. (Col senno di poi un altro errore di Tito, ma la storia fatta a posteriori è un esercizio un po' vano ed è difficile avere la prova che l'unica alternativa non sarebbe stata una repressione brutale ,e forse ancor più controproducente, dei nazionalismi locali).
Credo che il voler soppesare un tanto al chilo le colpe delle guerre sia esercizio vano.
Comunque sia, ho trovato la lettura dell'articolo molto interessante. Non prenderla come una critica esagerata, tanto più che riguarda solo poche righe dello scritto, mentre molte altre forniscono spunti di riflessione preziosi.
Intanto ringrazio. Senza critiche non si matura ed ogni commento intelligente ed informato arricchisce il testo portando alla luce nuove prospettive, a beneficio di tutti i lettori che verranno dopo. Un blog è fatto dall'autore ma anche dai lettori/commentatori.
A questo proposito, segnalo un altro articolo sulla questione jugoslava che potrebbe meritare un ulteriore commento critico (riguarda il Kosovo):
http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/un-po-di-chiarezza-sullintervento-in.html
gentile stefano trovo l'analisi molto interessante a fronte di esperienze personali vissute nei balcani (kosovo e bosnia)dove ho operato come funzionario dell'Onu prima e dell'Unione Europea. in merito ho scritto due libri pubbicati con il titolo LA TORRE DEI CRANI e MADRASSE....sto concludendo il terzo in cerca di editore. condivido anche le osservazioni assolutamente puntuali di aredna....ci sono documenti ufficiali e testi in abbondanza, a distanza di anni, che dimostrato come le guerre balcaniche siano state un campione di manipolazione, disinformazione e "dolo internazionale". consiglio la visione di un interessante documentario THE WEIGHT OF CHAIN....dove si ricava con evidenza palmare come i cd. odii religiosi ed etnici siano stati NON la causa delle guerre, bensì gli effetti. un rispettoso saluto.
antonio evangelista
Antonio Evangelista, Vice Questore Aggiunto e Capo della squadra mobile di Asti, nonchè ex comandante del contingente italiano presso la missione ONU in Kosovo (UNMIK).
Che bello sapere che ci sono lettori di questo calibro!
Mi vado a cercare i due libri citati, anche perché sospetto che l'Alto Adige (e l'Italia) siano a rischio di sviluppi analoghi.
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