venerdì 25 novembre 2011

Vendetta e Rivoluzione - l'eroe indignato in Omero e in Shakespeare




Se in casa mi offendono, il tuo cuore sopporti di vedermi soffrire, anche se mi trascinassero per i piedi alla porta o mi bersagliassero di colpi, se lo vedi, sopporta; pregali soltanto di smettere dalle loro follie con parole amabili: certo non ti obbediranno, perché su di loro incombe il giorno fatale.
Odisseo al figlio Telemaco

Chi sopporterebbe la frusta e l’ingiuria del tempo, i torti dell'oppressore, le contumelie del superbo, i dolori dell’amore disprezzato, i ritardi della giustizia, l'insolenza del potere, gli scherni che il meritevole pazientemente subisce da parte di gente indegna?
Amleto

Per queste strade meschine deve camminare un uomo che non è meschino, che non è né macchiato né pavido. Il detective in questo tipo di storia deve essere un uomo così. È l’eroe, è tutto. Deve essere un uomo completo e un uomo comune e nonostante tutto un uomo insolito. Deve essere, per usare una frase un po’ stagionata, un uomo d’onore – per istinto, inevitabilmente, senza pensarci, e certo senza dirlo... La storia è l’avventura di quest’uomo in cerca di una verità nascosta. […]. Nell'arte occorre sempre un principio di redenzione. Può essere pura tragedia se è alta tragedia, può essere ironia, pietà o l'aspro riso del forte. Ma sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, che non è un tarato, che non è un vigliacco. Nel poliziesco realistico quest'uomo è il  detective. È l'eroe, è tutto. Un uomo completo, un uomo comune, eppure un uomo come se ne incontrano pochi. Dev'essere, per usare un'espressione un poco abusata, un uomo d'onore per istinto, per necessità, per impossibilità a tralignare. Dev'esserlo senza pensarci e, certamente, senza mai parlarne troppo.  Il miglior uomo di questo mondo è abbastanza buono anche per qualsiasi altro mondo. Non m'interessa la sua vita privata; non è un eunuco e non è un satiro...se è un uomo d’onore in una cosa, lo sarà in tutte. […]. Il romanzo, il racconto, è l’avventura di quest’uomo alla caccia di una verità nascosta, e non sarebbe avventura se non toccasse a un uomo fatto apposta per affrontare l’avventura…Se ci fossero abbastanza persone come lui, penso che il mondo sarebbe un posto sicuro in cui vivere, ma non così noioso da non essere degno di viverci.
Raymond Chandler, “La semplice arte del delitto”, The Atlantic Monthly, dicembre 1944.

Come mai i politici e … gli scienziati tedeschi hanno osato forzare la scienza per creare, con uno sproposito teorico e morale, il mito della razza superiore. Un popolo è superiore in civiltà e cultura non per i progressi tecnici ma per i progressi morali, non se si dimostra feroce e violento, ma se manifesta le doti cristiane di bontà e giustizia. Se noi volessimo seguire i tedeschi nel principio scientifico sostenuto da Carlo Schmitt che la loro razza è superiore perché gli scheletri dei loro avi sono giganteschi, noi potremmo ironicamente affermare che il proavo dei tedeschi è Polifemo, il monocolo gigante descritto da Omero come bestione sciolto da ogni legge, athemistos, come dice appunto il poeta, guidato da un solo occhio, cioè unilaterale come unilaterale si è dimostrato il popolo tedesco in questa guerra, ove non ha considerato il diritto degli altri popoli, non ha previsto le reazioni possibili dei popoli liberi, si è dimostrato privo di onestà, di umanità, di intelligenza. Anzi più pericoloso delle bestie perché ha usato la ragione per rendere più violente le sue azioni.
Alfredo Poggi, “Polifemo senza legge”, Mezzalira/Romeo, 2002, p. 69

Questo articolo parte dal presupposto che il 2012 sarà l’anno della Rivoluzione Globale, come il 2011 è stato l’anno della cosiddetta “Primavera Araba”. Questo perché chi governa il mondo non ha alcuna intenzione di dialogare con il movimento nobilmente nonviolento degli indignati, perché la crisi è destinata ad acuirsi e perché il diffondersi della violenza (cf. black bloc, infiltrati, agenti provocatori, ecc.) fa il gioco dell’establishment ed è quindi virtualmente inevitabile.
Dato questo stato di cose, che cospira contro lo stato di diritto democratico e i valori costituzionali, che dovrebbero stare a cuore a tutti, mi propongo di esaminare il concetto di “giusta vendetta”, per prevenire l’avvento del Terrore Rivoluzionario che considero un’infamia incancellabile e, come detto, un regalo ai guardiani dello status quo, cioè alla Contro-Rivoluzione.

La vendetta è un valore morale positivo? Un eroe vendicativo è un eroe positivo?
“Spontaneamente”, quasi tutti direbbero di no. Ma soffermiamoci un momento sulle figure del Conte di Montecristo, di Ulisse, di Amleto: sono tutti eroi positivi e sono tutti eroi vendicatori. Lo è anche V di “V per Vendetta”, che considero un eroe negativo perché usa la tortura come strumento didattico.
Moltissime altre persone invece lo ammirano. Pensiamo anche ai partigiani che si vendicano per i torti subiti dai fascisti, in Italia, in Francia, in Jugoslavia e in tutta l’Europa liberata dal nazi-fascismo. Esiste una considerevole discrepanza tra la nostra prima impressione e le conclusioni che potremmo trarre da una più attenta riflessione. È difficile immaginare di poter negare l’evidenza del fatto che il nostro sistema giudiziario sia prima di tutto vendicativo: se volesse redimere i rei, come il Prospero di Shakespeare, non li tratterebbe come bestiame o come minacce ambulanti da escludere dal consorzio civile. La nostra società non è giusta, non lo è mai stata, né mai lo sarà, almeno finché saremo come siamo, cioè congenitamente egoisti. Si tratta dunque di capire se e quando sia opportuno vendicarsi, se esista una giusta vendetta e non sia l’ipocrisia a farci chiamare “giustizia” quella che è mera vendetta.

Il concetto di vendetta mette in discussione il principio della nonviolenza. Chi è nonviolento non dovrebbe vendicarsi, dovrebbe porgere l’altra guancia. Ma poiché viviamo in un mondo violento, porgere l’altra guancia significa permettere ai forti e violenti di rendere questo mondo un inferno in terra. Dunque non-resistere al male significa non assumersi alcuna responsabilità nei confronti del bene delle generazioni che verranno, significa lasciare dietro di noi un mondo peggiore di quello che abbiamo ricevuto in eredità da chi è venuto prima di noi. Chi non resiste con la forza alla violenza dei predatori è responsabile anche degli abusi che subiranno gli indifesi. Il che invalida moralmente la nonviolenza assoluta: se per essere responsabili nei confronti del prossimo – per soccorrerlo nel bisogno, ad esempio – e della nostra coscienza ci è richiesto di essere violenti, allora sia.
Risolta questa questione – almeno per quanto mi riguarda –, approfondiamo il tema della vendetta. Personalmente non sono contrario all’idea di consentire ad un uomo a cui è stata sterminata la famiglia di farsi giustizia da solo, se non ci sono altre vie legali per punire il colpevole (es. guerra totale, rivoluzione, pandemia, ecc. insomma quando lo stato di diritto viene meno).
Nel Sudafrica del post-apartheid il sistema giudiziario funzionava, le istituzioni democratiche erano ancora in piedi e questo ha permesso di perseguire la via – certamente migliore – della riconciliazione attraverso l’ammissione delle proprie colpe. In altre condizioni, l’assenza di un processo e di sanzioni che riequilibrino una situazione di squilibrio tra carnefice e vittima genera una cancrena nella società: le vittime del torto non si possono dare pace, si struggono nella sofferenza, sospesi nel limbo dell’impotenza. Quando queste persone che non hanno ottenuto giustizia sono molte, la società si disintegra, si corrompe fin nelle sue viscere.
Per questo Edmond Dantès, Odisseo, Amleto e Prospero sono figure generalmente intese come positive: sono eroi che hanno ristabilito un equilibrio che era venuto a mancare a causa di un’iniquità impunita. Lo stesso discorso, a mio avviso, vale per i rivoluzionari francesi del 1789 o quelli americani del 1775. Lo stato di diritto del tempo serviva anche a legalizzare e rafforzare una condizione di privilegio ed iniquità nella distribuzione della ricchezza e del potere. Quest’iniquità andava sanata.
Un problema che potrebbe riproporsi:
Un problema, quello dell’iniquità, molto sentito anche nelle cosiddette “Sacre Scritture”:
“Il figliuolo non porterà l’iniquità del padre, e il padre non porterà l’iniquità del figliuolo, la giustizia del giusto sarà sul giusto, l’empietà dell’empio sarà sull’empio” (Ezechiele, 18-20). Gesù profetizza: “Or voi udirete parlar di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi, perché bisogna che questo avvenga, ma non sarà ancora la fine. Poiché si leverà nazione contro nazione e regno contro regno; ci saranno carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto questo non sarà che principio di dolori. Allora vi getteranno in tribolazione e v’uccideranno, e sarete odiati da tutte le genti a cagion del mio nome. E allora molti si scandalizzeranno, e si tradiranno e si odieranno a vicenda. E molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti. E perché l'iniquità sarà moltiplicata, la carità dei più si raffredderà. Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” (Matteo 24:6-14).

Il merito di Ulisse e di Amleto è che si vendicano, eppure non diventano come i loro persecutori. Sanno che la loro condotta non è buona, che non possono essere innocenti, che stanno comunque compiendo un male, ma lo considerano un male necessario. D’altra parte l’idea del “male necessario” è spesso un utile espediente per giustificare qualunque azione: se le conseguenze sono positiva, tutto è permesso. Questa, purtroppo, è la logica utilitaristica dei nostri tempi. Ma Ulisse e Amleto sono sufficientemente maturi da non cercare il proprio utile, cercano di ristabilire la giustizia, l’equità, in poche parole: il “giusto equilibrio”. Ulisse massacra i Proci, che volevano sua moglie e i suoi beni, hanno tentato di uccidere suo figlio, hanno vissuto come parassiti per anni ed erano pronti a farlo fuori. Se non l'avesse fatto, dopo aver scoperto il suo ritorno, avrebbero raccolto i loro uomini e messo a ferro e fuoco la sua casa e i suoi beni, sterminando tutte le persone a lui care. È quel che fanno i parassiti, allora come oggi, quando si minaccia la loro fonte di sostentamento. In questo senso l'Odissea è un grande poema didattico, la descrizione di una magnifica maturazione spirituale, che tiene conto della realtà in cui viviamo, che non ha nulla a che vedere con le utopie pacifiste.
Frye (1986, p. 132) registra l’universalità archetipica della vicenda: “La trama complessiva dell’Odissea, in cui l’eroe è bandito o esiliato, poi ritorna sotto mentite spoglie a reclamare ciò che gli appartiene, è comune a molti racconti popolai e opere letterarie”. Ulisse è pensato per essere un modello esemplare.
Odisseo è polytropous – versatile, “multi-tasking”, poliedrico –, è saggio (polumetis, polufronos),  ricco di espedienti (polumexanos), paziente (talasifronos), paziente e chiaro (polutlas dios), è insomma un uomo di vasto potenziale, dalle mille risorse e sa come vanno le cose del mondo. È oratore, negoziatore, riflessivo, pio, creativo, accorto (polymetis), perché aveva pensieri complessi (pyknà médea) e sapeva guardarsi da ogni trappola (pantoious dolous). È tenace, cade ma ogni volta si rialza, scoprendo in sé facoltà e risorse che non sapeva di possedere. Sopravvive perché si sa adattare, trasformare. Impara progressivamente a prevedere molte delle conseguenze delle sue azioni, mentre per quasi tutto il viaggio, per quanto scaltro, sembra troppo autocentrato per avvalersi di strategie che non implichino l’uso della forza, indipendentemente dal tipo di ostacolo incontrato. L’Odisseo che lascia le rovine di Troia sarebbe un pessimo marito, un pessimo padre e un pessimo re. Occorre prima che demilitarizzi la sua personalità, come sono stati costretti a fare molti veterani di ogni guerra, quelli che non sono finiti in carcere per aver ucciso i loro familiari, o nel gorgo dell’alcol e degli stupefacenti. Occorre che usi la violenza giusta, che la sua vendetta sia giusta, che ogni azione sia consapevole, ponderata, finalizzata ad una rapida risoluzione, non ad una “gloriosa tenzone”. Va fatto quel che è necessario fare.   
L’Ulisse che arriva ad Itaca è una persona trasformata, ci spiega Pietro Citati. “Mentre Achille si concentra in sé stesso, Ulisse si espande all’infinito”: “non rifiuta nessuna parte della vita: accoglie qualsiasi cosa esista”, “nessun eroe omerico ha la sua curiosità, il suo amore di esperienza e, come diceva Cicerone, il suo desiderio di sapere…e, per capire gli altri, si trasforma”, “non cede a nessuna lusinga: vince una dopo l’altra le forze – i Lotofagi, Circe, Calipso – che lo spingerebbero a dimenticare”, “non ama l’accecamento, la follia eroica, la possessione, la furia quasi dionisiaca, l’ira divina, che avevano distinto Achille e Agamennone, Diomede, Ettore e Patroclo”. È pronto per fare la Rivoluzione, sanguinosa ma istantanea, e seguita da un’immediata operazione di riconciliazione con i parenti delle vittime, che non sono per nulla innocenti. Infatti, “incarnano il Male Assoluto, come poteva immaginarlo un greco del settimo secolo”, precisa Citati. Omero li descrive come frivoli, avidi, bramosi, traviati e degradati, empi, che non rispettano ospiti e mendicanti, non fanno attenzione ai segni dei tempi, agli ammonimenti divini, credono solo in ciò che possono vedere e toccare. Sono affetti da hybris: arroganti, tracotanti, violenti, prepotenti, smodati, privi di contegno, insozzano la casa che li ospita, nessuno di loro può essere innocente.
Si comportano come degli psicopatici e forse lo sono:
Hanno offeso Temi, la legge di natura, la legge della convivenza, il principio del reciproco rispetto e per questo meritano la punizione che viene loro inflitta con la tremenda vendetta di Odisseo e Telemaco (e di Penelope, che quasi certamente aveva riconosciuto il marito).

L’universo psicologico greco è molto diverso dal nostro. Noi siamo ancora legati al monoteismo (un dio, un principio supremo), al nesso lineare causa-effetto, crediamo di dover essere monofrenici (un’unica personalità), epistemologicamente monocoli (una prospettiva, un modo di vedere le cose). Al nostro peggio, ci convinciamo che i modi di vivere e pensare alternativi sono sbagliati, dannosi e pericolosi.
L’universo greco era la sfera dell’unità nella diversità: l’unità era tale solo grazie alle interconnessioni tra i molteplici. E in questa molteplicità ci poteva stare anche la vendetta, intesa a veicolare la giusta punizione retributiva a chi, con la sua hybris, ha sbilanciato il cosmo.
Ne “Il ritorno del guerriero: lettura dell'Odissea” (2005), Privitera si domanda e domanda ai lettori: “ma perché il reduce usa tanta brutalità? Non poteva svelarsi a chi gli era ancora fedele – figlio, moglie, padre, servi e sudditi – e con il loro aiuto allontanare i Proci? Erano così gravi i loro crimini da meritare la morte?”. L’accademico dei Lincei risponde affermativamente: erano colpevoli di prevaricazione, di hybris: “avevano varcato i limiti entro cui erano stati collocati dalla sorte e dalla vita. Avevano sconfinato. Avevano invaso la casa del re, ne sperperavano i beni, abusavano delle sue ancelle, ne insidiavano la moglie, attentavano alla vita di suo figlio, imponevano il loro volere all’aèdo, sobillavano i servi, aggredivano ospiti e stranieri, come era appunto il mendicante”.
Molti indignati non troveranno troppo arduo stabilire dei paralleli con quel simbolico 1% che imperversa sul 99% dell’umanità.
Inoltre, come detto, i pretendenti, se fossero sfuggiti alla morte, “sarebbero divenuti dei potenziali avversari di Odisseo, pronti a guidare la rivolta degli Itacesi contro un re incapace di riportare sani e salvi i suoi compagni in patria: se non li avessero soppressi, Odisseo avrebbe corso il rischio di venire egli stesso soppresso”. Non è che ci fossero molte scelte. Lo conferma il filosofo Pietro M. Toesca (2001, p. 23): “Ormai l’aggressione non è più per conquista ma per difesa di sé, del proprio luogo come luogo umano, anzi come vera umanità finalmente raggiunta. […]. Questo eccidio (che tale è, comunque, e atroce) non deve essere ricordato, non dà gloria, è una triste e tragica necessità”. Per sottolineare la futilità di ogni glorificazione dell’evento, l’Odissea recita: “…noi della strage di figli e fratelli, diamo l’oblio; e amandosi essi a vicenda, come prima, pace e ricchezza grande vi sia” (XXIV, 484-486).
La vendetta è una reazione ad un potere tirannico, come quello dei Proci, che non sono disposti al dialogo ed al negoziato (II 210), sono miscredenti (II, 179-181), superbi, accidiosi, villani, lussuriosi, cospiratori ed aspiranti omicidi. Sono dei parassiti, dei vampiri, divoratori di sostanze altrui: tra le lagnanze di chi si schiera con Ulisse, il termine “mangiare” è quello più ricorrente. I pretendenti consumano ciò che non gli spetta, smodatamente.
La vendetta è anche una ribellione alla propria impotenza, l’asserzione o riaffermazione della propria dignità di fronte all’iniquità ed alla superbia di chi si considera superiore per natura.
È chiaro che in Omero la vendetta rappresenta l’apice del ventennale processo di maturazione di Odisseo, sviluppatosi nel corso della guerra e del suo peregrinare, attraverso gli errori, le peripezie, l’incontro coi defunti, i lutti, le umiliazioni patite, tutto ciò che serve a ridimensionare ego e far risaltare la coscienza, minacciata da droghe intossicanti, incantesimi, seduzioni e soprattutto dalla sua hybris, la tracotanza dell’eroe che si sente sovrumano, che vede nella sua volontà la legge che deve governare l’universo.
Ulisse sbaglia nel sottrarre a Polifemo i suoi beni – gli offre comunque un grande otre colmo di vino ed un cesto pieno di cibi, non essendo un predone, bensì un viandante –, ma Polifemo si merita ciò che gli accade, quando il suo rifiuto della sacre norme dell’ospitalità ed il suo cannibalismo rivelano la dismisura del suo ego. La vendetta di Odisseo non è mai improvvisata, non è un impulso meccanico, emotivo, è il frutto dell’elaborazione del suo ingegno  della capacità di porre da parte l’orgoglio e l’ira per un fine più elevato. Achille non è in grado di farlo, la sua “ira funesta” è dissennata e lo conduce alla morte. Odisseo lo incontrerà nell’Ade e questi gli confesserà di essersi pentito della sua impulsività: che se ne fa della gloria un’ombra?
Per assisterlo nella sua missione, Atene rende irriconoscibile Odisseo, tranne che per il cane Argo. Per gli altri ci vuole più tempo. Una mimetizzazione che simboleggia una condizione del sé: non è più un re, ma un mendicante, un supplicante che aspira a tornare ad essere re, a riprendersi ciò che è suo.
La vicenda si svolge in accordo con una morale più antica dell'Odissea: l’arrogante (Antinoo) non concederà nulla, vittima, come tutti gli avidi, della coazione a ripetere il male, senza saper controllare le proprie pulsioni, privo della capacità di analizzare obiettivamente la realtà e presagire quel che sta per succedere. Il savio e giusto (Eumeo) concederà ciò che può, consapevole del fatto che i rovesci del destino, la vulnerabilità, la mortalità e, più in generale, la precarietà e la transitorietà accomunano tutti gli esseri umani.
Forse, però, la figura più struggente, seppur secondaria, è quella di Anfinomo, una brava persona che però, con il suo silenzio, si rende complice del male. Riceve tutti gli avvertimenti ed ammonimenti del caso, sa che le cose volgono al peggio – “attraversò la stanza, afflitto nel cuore, scuotendo il capo e presentendo la sventura nel cuore” – ma non ha la forza di dissociarsi, di far valere la propria coscienza sulla volontà del gruppo dei Proci, e per questo seguirà la loro sorte, mentre invece avrebbe potuto essere un giusto. Quanti rischierebbero di fare la sua stessa fine, se nei prossimi mesi o anni scoppiasse una rivoluzione? Quanti riproducono, nella realtà, i vizi e le lacune dei personaggi omerici che sprofondano nella morte e nell’oblio, man mano che l’Odissea si dipana? Seth L. Schein (1996) rileva perspicacemente che l’Odissea è piena zeppa di personaggi che si dimenticano le cose, non pongono attenzione a quello che fanno, si formano una valutazione superficiale ed estremamente arbitraria della realtà e per questo falliscono e periscono. Il loro è un fallimento morale e pratico: vengono tutti puniti per aver preteso ciò che non gli spettava, per aver sottratto indebitamente i mezzi di sostentamento altrui senza dare nulla in cambio, per essersi comportati empiamente e parassitariamente. Chi è in grado di riconoscersi in questa caratterizzazione, ha ancora la possibilità di pentirsi e riscattarsi. Non è mai troppo tardi, come testimonia la parabola dei lavoratori della vigna (Matteo 20, 1-16).

Agostino Lombardo è dell’opinione che Amleto non sia un eroe, non è il classico uomo d’azione, come Odisseo (Lombardo, 1986). È un intellettuale, un uomo di pensiero ma, alla bisogna, si fa soldato, come gli intellettuali del 1848. Se esita ad agire, è perché possiede una coscienza, non è per viltà. Come Odisseo, però, con il passare del tempo matura una “prodigiosa consapevolezza”: “ad Amleto non sfugge nulla di quanto accade intorno a lui, e in sua funzione… se gli altri personaggi si muovono in una sfera limitata, parziale, e vedono, della vita, soltanto una sezione, la sfera di Amleto abbraccia tutta la vita. Se gli altri personaggi vedono soltanto una parte dei rapporti che li legano gli uni agli altri e tutti ad Amleto, Amleto li vede tutti, e ha dispiegata davanti a sé la loro trama, il loro intrecciarsi” (p. 45). Il fido Orazio completa il suo campo visivo, già stupefacente. Da dove scaturisce questo suo talento? Dal suo attaccamento al principio di realtà ed il suo rifiuto della finzione, dell’inganno e della corruzione. Se si finge pazzo è, come Lucio Giunio Bruto, per sopravvivere e per portare a termine la vendetta. Non è, questo, un comportamento di cui si vanta: “sempre egli stabilirà, anche attraverso la finta pazzia, un rapporto totale con la realtà, quasi partecipasse, o tentasse di partecipare, della dura, concreta essenza delle cose” (Lombardo, ibidem, p. 51). I suoi avversari, al contrario, proprio come gli avversari di Ulisse e i potenti della contemporaneità (in primis gli psicopatici in giacca e cravatta http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/psicopatici-in-giacca-e-cravatta.html), scambiano i loro desideri per la realtà, condannandosi alla rovina. Amleto, come gli indignati, ha una marcia in più. Lo dimostra quando si fa beffe di Polonio, senza che questi si renda conto del suo patetico conformismo (atto terzo, scena seconda):
AMLETO: Vedete voi quella nuvola che ha quasi la forma d'un cammello?
POLONIO: Per la messa, e assomiglia a un cammello davvero.
AMLETO: Mi pare che assomigli a una donnola.
POLONIO: Ha il dorso come una donnola.
AMLETO: O come una balena.
POLONIO: Proprio come una balena.
Polonio non può vedere una cosa da più di una prospettiva, ma può essere indotto a concordare sul fatto di vedere qualunque cosa. Anche Rosencrantz e Guildenstern sono presi in contropiede perché si attendono che lui agisca meccanicamente e prevedibilmente come sono soliti fare loro, in quanto motivati da ambizioni banali. Chi fraintende il proprio ruolo per la propria vera, totale identità non può capire né se stesso né gli altri. Continuerà a leggere la realtà e i comportamenti altrui in funzione dei ruoli, non delle indoli, non degli spiriti, non della tempra. Quando questi uomini e donne inautentici incontrano qualcuno che non ha tradito il proprio sé interiore asservendolo ad una persona fissa, - è il caso di Amleto e, di nuovo, potrebbe essere quello degli indignati – si difendono dall’auto-esame, dalla messa in discussione di se stessi che in genere è provocata dall’incontro stesso, inevitabilmente, proiettando il loro tradimento di se stessi sull’individuo autentico. Per questo gli indignati diventano capri espiatori, per questo i cittadini sono gli unici responsabili dell’indebitamento pubblico e della necessità di ricapitalizzare le banche. È avidità, è ipocrisia, ma è anche cecità mentale.
I potenti, come Rosencrantz e Guildenstern e i membri della famiglia di Polonio, sono alienati dalla loro autentica identità, sono ciechi e non riconoscono la vera identità di Amleto. Per questo Amleto ha buon gioco, contro ogni pronostico.  L’ironia della cosa è che proprio Polonio declama la verità centrale della tragedia, senza neppure capirla, senza saperla applicare a se stesso, tanto radicata è la sua abitudine a banalizzarla, pronunciandola a comando: Questo sopra tutto: a te stesso sii fedele, e deve seguirne, come la notte al giorno, che tu non puoi allora esser falso per nessuno” (Atto primo, scena terza).

Amleto è spronato a vendicarsi dall’apparizione del fantasma del padre, che gli rivela il terribile complotto ordito ai suoi danni dal fratello Claudio e dalla moglie. Un figlio non può lasciare invendicato il padre. Per alcuni il Fantasma appartiene ad un ordine di esistenza e di moralità antiquato, che è stato sopravanzato dal lento ma inesorabile progredire dell’umanità. Ma è proprio vero? Peter Alexander (1955) si compiace del fatto che ci siano persone capaci di concepire pensieri così nobili, ma sottolinea che indulgere in questo tipo di fantasie a spese del nostro intelletto non porta solo ad un indebolimento del nostro senso estetico ma anche all’incapacità di comprendere l’Amleto e, in ultimo, Auschwitz. Per Alexander Amleto vuole giustizia, prima ancora che vendetta. Vuole che le cose siano sistemate, perché sono state sovvertite e non ci sono spazi per una vera riconciliazione, a causa dell’hybris di chi ha la spada dalla parte del manico ed è responsabile dello squilibrio. Nel vendicare il padre senza macchiarsi di hybris (ossia senza produrre altro scompenso), nel farsi giustizia, nel ristabilire l’ordine, Amleto otterrà la redenzione, che peraltro non era quel che pensava di raggiungere, all’inizio. Amleto vince la disfida con Claudio, lo zio usurpatore ed assassino, perché si vendica senza ridurre la sua identità di ego al ruolo del vendicatore. In altre parole, resta se stesso, non sacrifica la sua identità al ruolo costringente di vendicatore, che soffocherebbe la sua libertà e la sua coscienza (Driscoll, 1983). Anche e soprattutto quando si traveste. Anche il principe di Danimarca, infatti, come Ulisse, si prepara, si mimetizza, finge di essere pazzo, si confida solo con poche persone fidate. Non con Ofelia, che infatti dimostrerà di non essere sufficientemente matura e sagace per svolgere il ruolo di Penelope, un’autentica eroina. La vendetta si compie, ma lui dimostra di non essere diventato un mostro, chiede che la vita della madre Gertrude sia risparmiata.

Alexander Welsh (“Hamlet in his modern guises”) ha notato come il viaggio ed il ritorno di Amleto assomiglino al ritorno di Ulisse camuffato da mendicante. Anche il massacro ricorda quello di Itaca, come i suoi trucchi e la sua auto-mortificazione. Il principe di Itaca, Telemaco, è diverso, non è ancora pronto per sostituirsi al padre e difendere l’onore della madre. Non combatte i Proci, li tiene a bada, per quel che può. Più che altro subisce il loro bullismo, attendendo chissà quale miracolo, temendo il peggio. La sua è, a ben guardare, una non-resistenza non-violenta, un tentativo di guadagnare tempo, senza peraltro avere un piano. Atena lo aiuta, lo fa partire per incontrare gli eroi che hanno combattuto a fianco del padre, dai quali riceverà fondamentali lezioni di vita, quelle che non gli sono state impartire dal padre assente. I Proci cercano di eliminarlo, così come Amleto, in Francia, rischia di essere ucciso, da sicari inviati dallo zio Claudio, l’usurpatore, tramite il re d’Inghilterra. Ma sopravvivere per aiutare il padre a ristabilire il giusto ordine delle cose, la coincidentia oppositorum, ossia l’indispensabile armonia dei contrari.   
Alla fine anche lui, come Amleto e come lo stesso Odisseo (o come alcuni dei protagonisti di Lost), subisce una palingenesi, la rinascita in una realtà più profonda.

BIBLIOGRAFIA
Peter Alexander, Hamlet: Father and Son, Oxford: Clarendon Press, 1955.
Pietro Citati, La mente colorata: Ulisse e l'Odissea, Milano: Mondolibri, 2002.
James P. Driscoll, Identity in Shakespearean drama, London: Associated University Presses, 1983.
Northrop Frye, Tempo che opprime, tempo che redime: riflessioni sul teatro di Shakespeare, Bologna: Il mulino, 1986.
Agostino Lombardo, L'eroe tragico moderno: Faust, Amleto, Otello, Roma: Donzelli, 1996.
Guido Paduano, La nascita dell'eroe: Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale, Milano: Rizzoli, 2008.
G. Aurelio Privitera, Il ritorno del guerriero: lettura dell'Odissea, Torino: Einaudi, 2005.
Seth L. Schein (a cura di), Reading the Odyssey: selected interpretive essays, Princeton, N.J.: Princeton university press, 1996.
Pietro M. Toesca, Itaca: il luogo del ritorno, la terra dei padri, Bolzano [etc.]: Il Brennero, 2001.
Cedric H. Whitman, Homer and the Heroic Tradition, Cambridge Mass, NY: Norton, 1965.

Testo dell’Amleto:
Testo della Tempesta:

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