La militarizzazione e
fascistizzazione del buddismo non è stato un fenomeno esclusivamente
giapponese.
Come si spiegano le deviazioni
così radicali in una dottrina che proibisce categoricamente di togliere la
vita? Come si sono giustificati quelli che hanno violato il caposaldo della
dottrina buddista?
Per il buddhista non è peccato
solo uccidere, ma anche provocare una morte, approvarla, fornire i mezzi per
causarla. In molti casi sarebbe meglio morire che uccidere. Per certe correnti
buddhiste (ma non per il Dalai Lama), anche in guerra è meglio lasciarsi
uccidere che uccidere (nonresistenza).
Poiché la natura umana è
quella che è, anche le migliori filosofie – e il buddhismo è certamente una di
quelle – si prestano a fondamentali distorsioni che razionalizzano il male,
facendolo apparire come un bene. Nel caso del buddhismo, poiché l’altro suo
caposaldo è che la vita è sofferenza e scopo di ciascuno dovrebbe essere quello
di non rinascere più, allora uccidere qualcuno è rendergli un servizio, un atto
caritatevole. Per di più la persona è un’illusione, non esiste realmente,
quindi anche il peccato non esiste veramente. È chiaro che questa
interpretazione della dottrina buddhista ha un carattere “satanico”, nel senso
che perverte un messaggio di amore e tolleranza per giustificare l’egoismo più
sconfinato e l’intolleranza più spietata, l’esatto opposto dell’insegnamento di
Siddharta Gautama.
Il problema centrale dell’umanità
il la gestione del potere e la corruzione che questa porta con sé. Quando il
buddhismo ha incontrato il potere, si è corrotto, come ogni altro nobile
messaggio di riscatto
Nel buddhismo, come in tutte
le altre discipline filosofico-religiose, si è infiltrata l’idea della costante
lotta tra luce ed oscurità, creatività e distruttività, spiritualità e
materialità, egoismo ed altruismo, nonviolenza e violenza, ecc. che, invece di
perseguire l’equilibrio tra gli opposti, deve risultare nel trionfo definitivo
di una parte sull’altra: questa è la radice principale della corruzione morale.
Da essa è derivato ogni genere di possibile ipocrisia e manipolazione logica e
morale che ha vessato il buddhismo, fino a farlo diventare uno strumento di
violenza di massa in Giappone, nel Sud-est asiatico e nello Sri Lanka.
Cerchiamo di capire meglio
come.
Il maestro zen Takuan, nel
diciassettesimo secolo, scrive che la spada non ha una sua volontà, è vuota.
Tutto è vuoto, tutto è come il bagliore di un fulmine. Anche l’uomo che sta per
essere ucciso dalla katana è vuoto, come chi lo sta per uccidere. Le loro menti
non hanno sostanza. Loro stessi non possiedono una mente propriamente detta.
Dunque non sono realmente uomini e la spada non è realmente una spada. Dunque
uccidere non è male: è al di là del bene e del male, come avrebbe concordato
Nietzsche.
Il celebre Daisetsu Teitaro
Suzuki si muoveva sulla stessa linea. Una persona che uccide nella stessa
condizione mentale di una forza naturale, come il fuoco brucia una montagna,
come l’uragano abbatte gli alberi e come uno smottamento uccide gli animali,
non può essere considerato un assassino. È una forza naturale e quindi è
intrinsecamente innocente, cosmicamente neutro. L’uomo illuminato dev’essere
indifferente ed incosciente come una forza della natura. Se mi annullo sono
neutrale come l’universo ed ogni mia azione è intrinsecamente corretta. Così la
tortura può essere compassionevole (in un antico testo Mahayana) perché consuma
i peccati della vittima della tortura e la libera dal ciclo delle
reincarnazioni. Quando si raggiunge la saggezza della vacuità (Śūnyatā),
non si può commettere un errore, perché si è interamente interdipendenti
rispetto a tutto il resto e dunque nulla di ciò che facciamo ricade nella sfera
della nostra responsabilità personale. È la negazione della nostra vacuità
intrinseca, che è la nostra natura autentica, ad essere all’origine della
violenza, ci spiegano i buddhisti pro-violenza. Peccato che Takuan, che si
identifica completamente con il vuoto, usi questa identificazione proprio per
autorizzare se stesso a perseguire la volontà di potere senza alcuna
restrizione. Nei testi di Suzuki la vacuità è descritta come cieca e brutale
quanto la natura. Per altri il vuoto è l’essenza della compassione. Il karma
diventa un orpello o un pretesto per indulgere nella violenza catartica (la
redenzione “compassionevole” della vittima della propria violenza).
È l’intenzione che conta, non
l’atto, e chi può giudicare facilmente un’intenzione, che è soggettivamente
interpretabile? Il relativismo morale (“tutto è lecito”) scaturisce dal
relativismo ontologico: tutto l’esistente è relativo, anche il senso delle mie
azioni lo è (indipendentemente dai miei interessi). La razionalità e le
riflessioni morali sono superflue: le intuizioni viscerali sono sufficienti.
Così il buddismo scivola nel soggettivismo e si può integrare perfettamente in
ogni ideologia politica dominante: non esiste più alcun parametro di
riferimento sovrapersonale, i miei desideri diventano la norma. Potrebbe
esistere un’inversione più integrale delle intuizioni di Siddharta?
Ciò giustifica l’indiscriminata
violenza buddista (guerre, torture, punizioni di crudele, sadica efferatezza)
che ha avuto ed ha luogo in Tibet, Cina, Mongolia, Corea, Sri Lanka, Birmania e
Thailandia, indipendentemente dal fatto che si tratti del buddismo theravada o
di quello tantrico o di quello zen (es. i monaci guerrieri che costrinsero il
governo centrale a sottometterli con la forza per porre fine agli scontri tra
monasteri rivali ed alle sevizie e soprusi ai danni dei contadini, per poi
giustificare le peggiori atrocità del militarismo giapponese in ossequio alla
volontà governativa di una “mobilitazione spirituale” della popolazione).
Nel 2008 i monaci tibetani
infrangono le vetrine dei negozi cinesi a Lhasa. Nello Sri Lanka i monaci
buddisti promuovono una guerra spietata nel nome dell’ideale della purezza
etnica e religiosa. I Tibetani, nel corso della loro storia, hanno invaso Cina,
India, Mongolia e soprattutto il piccolo Bhutan. Il Tibet è stato costretto ad
optare per la strada del pacifismo dalla forza militare di India e Cina (di
necessità virtù). Si dovrebbe citare la pedofilia endemica dei monasteri zen:
gli efebi travestiti da donne e chiamati chigo, utili come distrazione
sessuale, gli scontri tra monasteri per il possesso di un efebo speciale.
Infine, l’orrore dello zen imperialista giapponese si commenta da solo. Tutto
legittimo e perfino auspicabile nel contesto della tutela del Dharma.
La tanto magnificata vacuità
dei buddhisti violenti e guerrafondai non ha nulla a che vedere con il distacco
pregno di divino dei mistici occidentali ed orientali, è semplice assenza di riflessione
morale e di assunzione di responsabilità per le proprie azioni. Cieco
egocentrismo intossicato dalla megalomania e dal narcisismo. In questo ambito,
l’APPARENTE soppressione di ego diventa, paradossalmente la strada maestra per
la complicità negli orrori di un regime tirannico: la fusione del sé nel tutto
organico (dissoluzione del sé: da ego personale a ego di gruppo) consente di
agire senza sentirsi colpevoli nell’obbedire agli ordini che provengono dall’alto.
Fu questo il caso dei soldati giapponesi nella Seconda Guerra Mondiale: “uccidete
tutti i nemici, il Buddha riconoscerà i suoi e si impedirà a persone malevole
di compiere il male”.
SINTESI DI COME SI DEPRAVA IL
BUDDHISMO:
In special modo nel Buddismo
del Grande Veicolo (Mahayana), l’intera esistenza è vista come un’illusione, un
qualcosa che non è mai avvenuto, perciò porvi fine non è grave anzi, può essere
un atto compassionevole. Nel buddismo Mahayana e tantrico anche la tortura può
essere un veicolo di salvezza per il torturato (o un male necessario). La realtà
ultima, oltre l’illusione è al di là del bene e del male, l’omicidio diventa un
fatto tecnico, in conseguenza della negazione del sé. L’uomo che sa che la
realtà è illusione non potrà che compiere un male illusorio, ossia inesistente.
Non si può uccidere il vuoto più di quanto si possa distruggere il vento. Si è
in perfetta e spontanea armonia con l’universo: il male non esiste di per sé.
Chi non è spinto da ragioni egoistiche ma da una consapevolezza superiore
(illuminato) non può essere ritenuto responsabile di fronte alle leggi terrene,
non è più prigioniero degli attaccamenti materiali (come il “me ne frego”
fascista). La violenza è il risultato del karma della vittima (se l’è cercata
in una vita precedente). Vi è l’obbligo di difendere il Dharma, lo Stato tutela
il Dharma, perciò la violenza è sacra quando è minacciato dalle forze del male
(ma non avevano oltrepassato le dicotomie? Forse solo quando conviene a loro?).
L’uccisione è liberazione dell’anima di un peccatore che ora potrà rinascere
sotto dei migliori auspici. La morte dei nemici del Buddha è moralmente neutra:
i nemici del Buddha possono anche essere quelli che si rifiutano di pagare le
tasse al monastero locale. I tempi sono cambiati dall’epoca del Buddha ed i suoi
principi erano giusti allora ma adesso non sono più adattabili alla realtà
contemporanea. In questo modo il buddista può
giustificare la propria violenza e contemporaneamente condannare quella altrui.
In conclusione, i buddisti non
sono persone violente, sono semplicemente esseri umani come gli altri. Il
buddismo è indubbiamente più tollerante di tutte le altre religioni ed
ideologie – salvo l’organizzazione gerarchica e patriarcale e la misoginia –,
ma quando incontra le gerarchie di potere appare ugualmente vulnerabile e
manipolabile.
BIBLIOGRAFIA :
Bernard Faure, Bouddhisme
et violence, Paris: Le Cavalier Bleu, 2008.
Michael K. Jerryson, Mark
Juergensmeyer (eds.) Buddhist Warfare. Oxford: Oxford University Press,
2010.
Georges Renondeau, « Histoire des moines-guerriers du
Japon », in Mélanges publiés par l’Institut des hautes études
chinoises, t. 1, Paris, Collège de France, 1957.
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