martedì 29 novembre 2011

Violenza Buddista




La militarizzazione e fascistizzazione del buddismo non è stato un fenomeno esclusivamente giapponese.

Come si spiegano le deviazioni così radicali in una dottrina che proibisce categoricamente di togliere la vita? Come si sono giustificati quelli che hanno violato il caposaldo della dottrina buddista?

Per il buddhista non è peccato solo uccidere, ma anche provocare una morte, approvarla, fornire i mezzi per causarla. In molti casi sarebbe meglio morire che uccidere. Per certe correnti buddhiste (ma non per il Dalai Lama), anche in guerra è meglio lasciarsi uccidere che uccidere (nonresistenza).

Poiché la natura umana è quella che è, anche le migliori filosofie – e il buddhismo è certamente una di quelle – si prestano a fondamentali distorsioni che razionalizzano il male, facendolo apparire come un bene. Nel caso del buddhismo, poiché l’altro suo caposaldo è che la vita è sofferenza e scopo di ciascuno dovrebbe essere quello di non rinascere più, allora uccidere qualcuno è rendergli un servizio, un atto caritatevole. Per di più la persona è un’illusione, non esiste realmente, quindi anche il peccato non esiste veramente. È chiaro che questa interpretazione della dottrina buddhista ha un carattere “satanico”, nel senso che perverte un messaggio di amore e tolleranza per giustificare l’egoismo più sconfinato e l’intolleranza più spietata, l’esatto opposto dell’insegnamento di Siddharta Gautama.  

Il problema centrale dell’umanità il la gestione del potere e la corruzione che questa porta con sé. Quando il buddhismo ha incontrato il potere, si è corrotto, come ogni altro nobile messaggio di riscatto

Nel buddhismo, come in tutte le altre discipline filosofico-religiose, si è infiltrata l’idea della costante lotta tra luce ed oscurità, creatività e distruttività, spiritualità e materialità, egoismo ed altruismo, nonviolenza e violenza, ecc. che, invece di perseguire l’equilibrio tra gli opposti, deve risultare nel trionfo definitivo di una parte sull’altra: questa è la radice principale della corruzione morale. Da essa è derivato ogni genere di possibile ipocrisia e manipolazione logica e morale che ha vessato il buddhismo, fino a farlo diventare uno strumento di violenza di massa in Giappone, nel Sud-est asiatico e nello Sri Lanka.

Cerchiamo di capire meglio come.

Il maestro zen Takuan, nel diciassettesimo secolo, scrive che la spada non ha una sua volontà, è vuota. Tutto è vuoto, tutto è come il bagliore di un fulmine. Anche l’uomo che sta per essere ucciso dalla katana è vuoto, come chi lo sta per uccidere. Le loro menti non hanno sostanza. Loro stessi non possiedono una mente propriamente detta. Dunque non sono realmente uomini e la spada non è realmente una spada. Dunque uccidere non è male: è al di là del bene e del male, come avrebbe concordato Nietzsche.

Il celebre Daisetsu Teitaro Suzuki si muoveva sulla stessa linea. Una persona che uccide nella stessa condizione mentale di una forza naturale, come il fuoco brucia una montagna, come l’uragano abbatte gli alberi e come uno smottamento uccide gli animali, non può essere considerato un assassino. È una forza naturale e quindi è intrinsecamente innocente, cosmicamente neutro. L’uomo illuminato dev’essere indifferente ed incosciente come una forza della natura. Se mi annullo sono neutrale come l’universo ed ogni mia azione è intrinsecamente corretta. Così la tortura può essere compassionevole (in un antico testo Mahayana) perché consuma i peccati della vittima della tortura e la libera dal ciclo delle reincarnazioni. Quando si raggiunge la saggezza della vacuità (Śūnyatā), non si può commettere un errore, perché si è interamente interdipendenti rispetto a tutto il resto e dunque nulla di ciò che facciamo ricade nella sfera della nostra responsabilità personale. È la negazione della nostra vacuità intrinseca, che è la nostra natura autentica, ad essere all’origine della violenza, ci spiegano i buddhisti pro-violenza. Peccato che Takuan, che si identifica completamente con il vuoto, usi questa identificazione proprio per autorizzare se stesso a perseguire la volontà di potere senza alcuna restrizione. Nei testi di Suzuki la vacuità è descritta come cieca e brutale quanto la natura. Per altri il vuoto è l’essenza della compassione. Il karma diventa un orpello o un pretesto per indulgere nella violenza catartica (la redenzione “compassionevole” della vittima della propria violenza).

È l’intenzione che conta, non l’atto, e chi può giudicare facilmente un’intenzione, che è soggettivamente interpretabile? Il relativismo morale (“tutto è lecito”) scaturisce dal relativismo ontologico: tutto l’esistente è relativo, anche il senso delle mie azioni lo è (indipendentemente dai miei interessi). La razionalità e le riflessioni morali sono superflue: le intuizioni viscerali sono sufficienti. Così il buddismo scivola nel soggettivismo e si può integrare perfettamente in ogni ideologia politica dominante: non esiste più alcun parametro di riferimento sovrapersonale, i miei desideri diventano la norma. Potrebbe esistere un’inversione più integrale delle intuizioni di Siddharta?

Ciò giustifica l’indiscriminata violenza buddista (guerre, torture, punizioni di crudele, sadica efferatezza) che ha avuto ed ha luogo in Tibet, Cina, Mongolia, Corea, Sri Lanka, Birmania e Thailandia, indipendentemente dal fatto che si tratti del buddismo theravada o di quello tantrico o di quello zen (es. i monaci guerrieri che costrinsero il governo centrale a sottometterli con la forza per porre fine agli scontri tra monasteri rivali ed alle sevizie e soprusi ai danni dei contadini, per poi giustificare le peggiori atrocità del militarismo giapponese in ossequio alla volontà governativa di una “mobilitazione spirituale” della popolazione).

Nel 2008 i monaci tibetani infrangono le vetrine dei negozi cinesi a Lhasa. Nello Sri Lanka i monaci buddisti promuovono una guerra spietata nel nome dell’ideale della purezza etnica e religiosa. I Tibetani, nel corso della loro storia, hanno invaso Cina, India, Mongolia e soprattutto il piccolo Bhutan. Il Tibet è stato costretto ad optare per la strada del pacifismo dalla forza militare di India e Cina (di necessità virtù). Si dovrebbe citare la pedofilia endemica dei monasteri zen: gli efebi travestiti da donne e chiamati chigo, utili come distrazione sessuale, gli scontri tra monasteri per il possesso di un efebo speciale. Infine, l’orrore dello zen imperialista giapponese si commenta da solo. Tutto legittimo e perfino auspicabile nel contesto della tutela del Dharma.

La tanto magnificata vacuità dei buddhisti violenti e guerrafondai non ha nulla a che vedere con il distacco pregno di divino dei mistici occidentali ed orientali, è semplice assenza di riflessione morale e di assunzione di responsabilità per le proprie azioni. Cieco egocentrismo intossicato dalla megalomania e dal narcisismo. In questo ambito, l’APPARENTE soppressione di ego diventa, paradossalmente la strada maestra per la complicità negli orrori di un regime tirannico: la fusione del sé nel tutto organico (dissoluzione del sé: da ego personale a ego di gruppo) consente di agire senza sentirsi colpevoli nell’obbedire agli ordini che provengono dall’alto. Fu questo il caso dei soldati giapponesi nella Seconda Guerra Mondiale: “uccidete tutti i nemici, il Buddha riconoscerà i suoi e si impedirà a persone malevole di compiere il male”.

SINTESI DI COME SI DEPRAVA IL BUDDHISMO:
In special modo nel Buddismo del Grande Veicolo (Mahayana), l’intera esistenza è vista come un’illusione, un qualcosa che non è mai avvenuto, perciò porvi fine non è grave anzi, può essere un atto compassionevole. Nel buddismo Mahayana e tantrico anche la tortura può essere un veicolo di salvezza per il torturato (o un male necessario). La realtà ultima, oltre l’illusione è al di là del bene e del male, l’omicidio diventa un fatto tecnico, in conseguenza della negazione del sé. L’uomo che sa che la realtà è illusione non potrà che compiere un male illusorio, ossia inesistente. Non si può uccidere il vuoto più di quanto si possa distruggere il vento. Si è in perfetta e spontanea armonia con l’universo: il male non esiste di per sé. Chi non è spinto da ragioni egoistiche ma da una consapevolezza superiore (illuminato) non può essere ritenuto responsabile di fronte alle leggi terrene, non è più prigioniero degli attaccamenti materiali (come il “me ne frego” fascista). La violenza è il risultato del karma della vittima (se l’è cercata in una vita precedente). Vi è l’obbligo di difendere il Dharma, lo Stato tutela il Dharma, perciò la violenza è sacra quando è minacciato dalle forze del male (ma non avevano oltrepassato le dicotomie? Forse solo quando conviene a loro?). L’uccisione è liberazione dell’anima di un peccatore che ora potrà rinascere sotto dei migliori auspici. La morte dei nemici del Buddha è moralmente neutra: i nemici del Buddha possono anche essere quelli che si rifiutano di pagare le tasse al monastero locale. I tempi sono cambiati dall’epoca del Buddha ed i suoi principi erano giusti allora ma adesso non sono più adattabili alla realtà contemporanea. In questo modo il buddista può giustificare la propria violenza e contemporaneamente condannare quella altrui.

In conclusione, i buddisti non sono persone violente, sono semplicemente esseri umani come gli altri. Il buddismo è indubbiamente più tollerante di tutte le altre religioni ed ideologie – salvo l’organizzazione gerarchica e patriarcale e la misoginia –, ma quando incontra le gerarchie di potere appare ugualmente vulnerabile e manipolabile.

BIBLIOGRAFIA :
Bernard Faure, Bouddhisme et violence, Paris: Le Cavalier Bleu, 2008.
Michael K. Jerryson, Mark Juergensmeyer (eds.) Buddhist Warfare. Oxford: Oxford University Press, 2010.
Georges Renondeau, « Histoire des moines-guerriers du Japon », in Mélanges publiés par l’Institut des hautes études chinoises, t. 1, Paris, Collège de France, 1957.

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