domenica 20 novembre 2011

Buoni steccati per un buon vicinato - quando i morti valgono più dei vivi


Non dobbiamo lasciare gli immigrati agli italiani. La maggior parte di loro ha frequentato la scuola italiana perché noi non li volevamo, ma è nel nostro interesse che imparino il tedesco, altrimenti si dichiareranno italiani.

Richard Theiner, Obmann (segretario) della Südtiroler Volkspartei.

La società multiculturale tiene al suo interno le diverse culture, ma l’una di fronte all’altra come sistemi di valori e visioni del mondo chiusi, ciascuno in sé sufficiente a fornire il quadro etico completo e bastante all’esistenza dei suoi membri. Onde, potrebbe dirsi che il pluralismo tende ad un orizzonte comune di senso, per quanto composito; mentre il multiculturalismo no, si ferma a una giustapposizione delle diverse culture, nella migliore delle ipotesi estranee l’una all’altra; nella peggiore, conflittuali. [...]. il primo schema è la separazione, cioè la co-esistenza senza convivenza. Il pregiudizio del separatismo è che le culture siano e debbano essere identità spirituali chiuse e che le relazioni interculturali nascondano di per sé pericoli di contaminazione o contagio, per la purezza, in primo luogo, della comunità di arrivo, ma anche di quelle in arrivo. Il punto di partenza è, dunque, la paura unita all’insicurezza. [...] La separazione tra le popolazioni è l’unico modo di evitare lo scontro tra realtà inconciliabili, lo “scontro di civiltà”. Noi non cerchiamo contatti con loro e loro non cerchino contatti con noi. L’optimum sarebbe renderci invisibili gli uni agli altri, vivere come se fossimo soli…In America, questa posizione aveva trovato espressione nel motto “separati ma uguali” che per quasi cento anni ha regolato i rapporti tra bianchi e neri negli Stati Uniti. 
Gustavo Zagrebelsky, “La felicità della democrazia. Un dialogo”.

All’interno di questa mentalità [ideologia tirolese] vorrei inserire il concetto di lotta ai corpi estranei, attorno al quale si sviluppa questa mia riflessione. Sono diventati corpi estranei idee, aspirazioni e movimenti che non rientravano nel quadro descritto, ma piuttosto disturbavano il mondo così ordinato e tramandato e per questo motivo sono cadute sotto questa straordinariamente vigile ed efficace lotta ai corpi estranei. Per fare un esempio, basta pensare cosa è successo in Tirolo dal XVI sec. in poi con il protestantesimo, arrivando persino all’espulsione fisica. Oppure richiamiamo alla memoria il destino degli ebrei in Tirolo. Pensiamo ai massoni e all’illuminismo – indipendentemente dal fatto se la minaccia proveniva da Vienna, da Monaco o persino (che orrore!) dalla Francia con le baionette napoleoniche. Pensiamo al rifiuto del liberalismo politico – la disputa nella scuola, il “Kulturkampf” e ciò che è successo attorno alla libertà di religione in Tirolo appena un po’ più di cent’anni fa lo dimostrano – oppure alla freddezza con cui sono state accolte in Tirolo le idee repubblicane o socialiste. Non serve un particolare acume per riconoscere proprio nel culto dell’eroe tirolese Andreas Hofer la celebrazione più alta ed evidente di questa convinta e alla fine vincente lotta ai corpi estranei.
Alexander Langer, “Ciechi dall’occhio destro: il Tirolo fra Andreas Hofer e Haider”.

Se la gente vuole restare separata lo farà spontaneamente, se vorrà unirsi lo farà spontaneamente. Gli esperimenti di ingegneria sociale su vastissima scala che prevedono la divisione tra gli esseri umani sono invece inevitabilmente il sintomo di una sconfinata hybris che prima o poi presenta il conto. Gli esseri umani sono già egocentrici di natura, con un corollario di gelosie, invidie, rivendicazioni possessive, avidità, egoismi, ecc., ormeggiare centinaia di migliaia di essi ad una proporzionale etnica permanente è suicida. Lo stesso discorso vale per quegli esperimenti che costringono all’assimilazione i nuovo arrivati, considerati automaticamente non all’altezza di poter insegnare qualcosa di nuovo e utile ai residenti. Il fascismo, fece anche peggio: irruppe in casa d’altri e gridò: voi non valete nulla, la vostra cultura è un intralcio, o diventerete come noi o è meglio se ve ne andate. 
L’eterna contesa tra natura e cultura. Da un lato abbiamo il modello imperialista ed assimilatore latino e neo-latino, quello che ha trasformato l’Alsazia in un penoso parco a tema del nazionalismo francese e francofono e che avrebbe fatto subire una sorte simile all’Alto Adige, se il fascismo fosse durato quanto il franchismo. È anche quello dei romani e dei conquistadores, sempre pronti a civilizzare i nativi, estirpando le loro specificità “per il loro bene”. Dall’altra parte abbiamo un modello ugualmente radicale, nella separazione biologica, che ha dato vita a tutte le forme di segregazionismo del passato coloniale europeo e della storia americana e sudafricana. Per un utile confronto tra mentalità dell’apartheid e segregazionismo in Alto Adige, rimando a “Contro i miti etnici” (Fait/Fattor, 2010).
Esempi documentati di questo secondo sistema sono i regni visigoti nell’Iberia e quelli anglosassoni in Britannia. L’analisi genetica indica che in Britannia la popolazione celtica locale, di origine iberica, fu presumibilmente sottoposta ad un regime di apartheid estremamente aggressivo che, nel corso di un paio di secoli, anche a causa del terribile impatto demografico della cosiddetta “peste di Giustiniano”,  invertì la proporzione di invasori germanici rispetto agli indigeni celto-romani. È ipotizzabile che la radice indoeuropea walos sia all’origine di nomi e toponimi come Welschtirol (Trentino), Wales (Galles), Cornwall (Cornovaglia), Vlach (nei Balcani), Valacchia (Romania meridionale) e Valloni (in Belgio), ossia di terre e popoli celti o latini confinanti con il mondo teutonico. Il che potrebbe indicare una tradizionale riluttanza a mescolarsi con popoli non-germanici, laddove possibile. Fu comunque quel che scelsero di credere i nazisti, che tentarono di restaurare l’antico istituto dell’Erbhof (maso chiuso) e del corrispondente diritto fondiario germanico in tutta l’Europa rurale occupata (D’Onofrio, 1997). 
In realtà non c’è nulla d’intrinseco in questa contrapposizione. La sua dimensione storica è più che plausibile (Strassoldo, 2000, p. 85):

La spiegazione apparentemente più ovvia delle differenze tra Germania e Italia negli atteggiamenti verso la natura sta nel fatto che l’Italia, come propaggine della civiltà ellenica, si è urbanizzata almeno quindici secoli prima della Germania. Da molto più tempo la sua cultura si è sviluppata nell’ambiente artificiale di insediamenti stabili di pietra e mattoni, ad altra densità di popolazione. Il suo territorio è stato antropizzato, la natura addomesticata e sottomessa, le selve emarginate negli ambienti estremi, dei monti e delle paludi. La sua religione ha perso i caratteri tellurici (animasti, politeisti e panteisti) e ha assunto caratteri iranici e metafisici, la sua cultura si è fatta antropocentrica e socio-centrica.

Non esiste una società che sia indipendente dalle persone che la compongono e dalle vicende storiche che la modellano. La società è una costruzione, se è corrotta è perché sono corrotti i suoi membri. È una gabbia che ci siamo eretti attorno e noi siamo i nostri carcerieri. Non ha senso dare la colpa alla società. Chi, comprensibilmente, ne ha abbastanza del modello degli steccati etno-linguistici dovrebbe seguire l’esempio di Rosa Parks, che con la sua disobbedienza civile diede il via al movimento per la fine del segregazionismo tra bianchi e neri. Costruire un’ortodossia della separazione per interrompere il flusso della vita significa erigere muri e proiettare sull’altro, sul diverso, la nostra ombra, tutto ciò che di negativo vogliamo rimuovere da noi stessi. Ci si guarderà in cagnesco e si competerà invece di intessere relazioni. Una persona di buona volontà, un giusto, non ha bisogno di potere, status, autorità, quindi non crede a nazioni e bandiere, non erige muri, non è aggressivo, non necessita di identificazioni che lo espandano, che lo sollevino dalle sue ansie di inadeguatezza, che gli consentano di dire orgogliosamente “io” e “mio”, camuffandoli da “noi” e “nostro”. In questo modo non solo inganniamo noi stessi, ma inganniamo anche gli altri, rendendoli nostri complici. Poniamo un’etichetta su di noi e sugli altri e così non dobbiamo più preoccuparci di prenderli singolarmente per capirli. Ci convinciamo di sapere già tutto quel che c’è da sapere su di loro. È un comportamento terribilmente infantile e la proporzionale etnica lo alimenta generando nuovi spazi di autovenerazione personale e collettiva: “io non ho bisogno di voialtri”, “staremmo meglio se voi vi levaste di torno”. Questo è quel che si sente dire sempre più spesso in Alto Adige ed è un pessimo segno, il segnale che un meccanismo di risoluzione dei conflitti è invece un meccanismo di spartizione della prosperità che li perpetua, fissandoli.
L’idolatria frammenta e dove c’è frammentazione c’è conflitto e dove c’è conflitto c’è spesso miseria umana, miseria dell’animo, incaapcità di analizzare obiettivamente le cose, le nostre vite, le esistenze ed i pareri altrui. Abbiamo paura dei fatti e scappiamo nel mondo delle astrazioni. I nostri problemi derivano dalla nostra riluttanza a far convergere i due binari, quello dei fatti e quello delle idee. Questa scissione, che rispecchia quella etno-linguistica, genera dissonanza e violenza, ma facciamo fatica a capire che la violenza non è fuori o dentro di noi, la violenza siamo noi. Ce lo insegna la storia, il buon senso e, come vedremo, la scienza sperimentale.
La violenza non è solo picchiare o uccidere qualcuno. È violenza anche quando usiamo frasi taglienti ingiustificate, per il puro gusto di ferire l’altro, quando con un gesto liquidiamo una persona, per lo stesso motivo, quando obbediamo per paura. La violenza è sottile, profonda. Quando ci autoidentifichiamo come altoatesino o sudtirolese, siamo già entrati nel ciclo della violenza, perché ci separiamo in qualche misura dal resto del mondo e quando lo facciamo, in nome delle nostre credenze, tradizioni, nazionalità ed altre sovrastrutture, allora generiamo violenza. Chi aspira ad essere nonviolento non può appartenere ad una nazione, ad un gruppo etnico o ad una religione, ad un partito politico o una fazione, perché ciò condizionerà il modo in cui intende le ragioni altrui, lo renderà meno obiettivo, e quindi meno giusto, meno equo, meno sereno, meno distaccato, più aggressivo, più rabbioso. Sono la paura, la rabbia, lo spirito antagonistico che ci spingono ad onorare nazioni, stracci che chiamiamo bandiere, leader che incarnano la nostra “essenza”, ad assumere un atteggiamento difensivo che produce equivoci sempre più aggrovigliati e pericolosi. Competiamo con gli altri, continuare a confrontarci, a voler prevalere, a scegliere la gelosia, l’avidità, l’ingordigia, l’aggressione come stile di vita. È curioso che due guerre mondiali non ci abbiano ancora insegnato che bisogna stare uniti, non creare barriere tra noi. Quante ne serviranno ancora per farci rinsavire?
Eppure, ogni volta ricadiamo nello stesso errore e dividiamo il mondo in noi e loro, in buoni e cattivi, i capri espiatori a cui assegnare l’onere della colpa per tutto ciò che non va. Nominiamo narratori ufficiali specialisti della semplificazione, che corroborino la nostra immeschinita visione del mondo, che personifichino il “noi”, per renderlo più gestibile, più uniforme, per farci dimenticare quanto variegata e preoccupantemente contraddittoria sia la natura di questo “noi”. Diciamo le cose come stanno: noi vogliamo vivere e gli altri hanno meno diritto di vivere di noi. In Alto Adige gli altri hanno meno diritto alla prosperità di noi e i tagli dovranno colpire prima di tutto gli altri, i veri parassiti, quelli che fruiscono di prerogative immeritate, perché hanno imparato a fare le vittime. Questo è un altro discorso che si continua a sentire, da una parte e dall’altra. “Parassita” è un vocabolo che, dopo la vicenda nazista, ci si augurerebbe di non dover più sentir pronunciare in pubblico.

Gli studi di psicologia sociale degli ultimi 60 anni dimostrano fuori di ogni ragionevole dubbio che il paradigma della segmentazione etnica sia una faglia sismica che si estende nel cuore di un’area che, solo per il momento, non è sottoposta a sollecitazioni tettoniche; che lo slogan più adatto sarebbe “quanto più ci separeremo, tanto più rischieremo di farci del male”; e che, per ridurre o eliminare questa faglia, occorrerebbe seguire il consiglio di Alexander Langer: “quanto più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, tanto meglio ci comprenderemo”.
Un mondo vivo cambia, fluisce, scorre, è in uno stato di flusso costante. Chi crede di poter fissare identità e confini sarà spazzato via. Le catene imposte alla realtà si spezzano come fuscelli. Quel che dev’essere chiaro, una volta per tutte, è che dividere gli esseri umani apre la strada alla violenza e che questo l’Alto Adige non se lo può più permettere (e non se lo sarebbe mai dovuto permettere). Chi divide dovrà essere considerato responsabile di ogni spiacevole conseguenza. Vediamo dunque perché.
L’esperimento di Robbers Cave, realizzato nel 1954 da Muzafer and Carolyn Sherif in un campo estivo dell’Oklahoma, è considerato ancora oggi uno dei migliori esperimenti di psicologia sociale della storia. Vi presero parte 22 ragazzi separati fin dal momento in cui montarono su due diversi autobus per recarsi al campo in due gruppi di undici elementi in modo tale che non si conoscessero. Ciascun gruppo ignorava l’esistenza dell’altro e per i primi giorni furono mantenuti ad una distanza tale da non scoprire mai la presenza dell’altro gruppo. Gli fu chiesto di darsi un nome. Un gruppo optò per “i serpenti a sonagli”, l’altro si battezzò, “le aquile”. Il che è già di per se curioso visto che nella mitologia indigena americana aquila e serpente sono i due acerrimi nemici per antonomasia. Entro pochi giorni in seno a ciascun gruppo si formarono spontaneamente dei rapporti gerarchici. Poi si fecero incontrare i due gruppi e, nel giro di un altro paio di giorni, cominciò a generarsi dell’ostilità reciproca, che crebbe molto oltre quel che era stato preventivato dagli sperimentatori. Furono costretti ad interrompere questa fase per dare inizio alla terza ed ultima fase, quella dell’integrazione, che prevedeva l’introduzione di compiti, sfide ed obiettivi condivisi che annullavano la salienza di ciascun gruppo e costringevano i vari ragazzi a ragionare in termini di interessi comuni e sforzi cooperativi, perché nessun gruppo sarebbe stato in grado di farcela da solo. Come ad esempio l’approvvigionamento d’acqua in seguito ad un’improvvisa scarsità (artificiale), la rottura (non accidentale) del motore di un furgoncino, la scelta di un film da proiettare. Questi incarichi fecero sì che l’ostilità svanisse e, alla fine dell’esperimento, tutti avevano fatto amicizia e pretendevano di tornare a casa assieme. Le conclusioni di questo esperimento confermavano i risultati di esperimenti precedenti e sono state a loro volta comprovate da altri esperimenti, sempre più ingegnosi, ideati negli anni successivi.
Il dato più preoccupante è che è sufficiente dividere le persone in gruppi perché, in modo automatico, i componenti di un gruppo, per quanto eterogenei, comincino ad elaborare dei pregiudizi omogenei nei confronti di ciò che è esterno (negativi) ed interno (positivi) al gruppo e delle forme di dipendenza nei confronti del gruppo stesso (Kecmanovic, 1996). A prescindere da ogni considerazione e senza neppure rendersi conto dell’arbitrarietà delle loro categorizzazioni e linee di demarcazione, una persona indotta a catalogare gli altri in gruppi tende: (a) a minimizzare le differenze tra i membri di questi gruppi e ad esagerare le differenze tra gruppi; (b) a ricordare più facilmente ciò che accomuna i membri del suo gruppo e ciò che lo distingue dai membri di un altro gruppo; (c) a ricordare più facilmente le informazioni positive che riguardano i membri del suo gruppo, ignorando o rimuovendo dalla memoria quelle negative; (d) a vedere più legami e legami più intensi ed evidenti tra i membri del suo gruppo e se stesso; (e) ad aspettarsi che i valori ed atteggiamenti dei membri del suo gruppo rispecchino i suoi in misura maggiore rispetto ai membri di altri gruppi; (f) ad affezionarsi ai membri del suo gruppo considerandoli maggiormente degni di fiducia, affetto e lealtà; (g) a comunicare in modo tale da preservare un orientamento benevolo e positivo nei loro confronti; (h) ad aiutarli in misura segnatamente maggiore rispetto ai membri di altri gruppi; (i) a sottrarre risorse agli altri gruppi ed essere meno leale verso i loro membri, fenomeno che svanisce quando la separazione lascia il posto all’identificazione dell’altro come persona e non come membro di un diverso gruppo (Dovidio/Gaertner/Saguy 2009).
Il che dimostra che separare, compartimentare (diaballein in greco) gli esseri umani è “diabolico”.
Le strategie sperimentate con successo dagli psicologi sociali per riuscire a superare lo scontro e stimolare la cooperazione includono invece un processo di decategorizzazione, che sottolinea le qualità individuali degli altri ed incoraggia le interazioni su base personale. Questo è quel che abbiamo cercato di avviare io e Mauro Fattor con il libro “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso”. Una strategia alternativa, più semplice, è quella di ricategorizzare i membri che si percepiscono come appartenenti a gruppi diversi in un’unica, sovrastante categoria (Dovidio/Gaertner/Saguy 2009). Questo è quel che alcuni cercano di fare in Alto Adige, estendendo il dominio simbolico e semantico di “patria” fino a comprendere la minoranza altoatesina, affinché si senta coinvolta nel comune progetto di migliorare la società locale. Ciò però comporta lo spostamento della linea di demarcazione (e dei pregiudizi favorevoli o antagonistici) un po’ più in là e può creare un più intenso dualismo con i vicini trentini a sud e i vicini tirolesi a nord. Storicamente, il nazionalismo ha sfruttato questa strategia per superare i regionalismi, con il risultato di pacificare vaste aree, ma anche di causare maggiori frizioni tra nazioni, in luogo delle più limitate faide tra signorie, feudi e contrade. Inoltre questa nuova, più ampia identità collettiva può essere instabile (se i pregiudizi sono troppo radicati), può non arrecare i vantaggi promessi, può essere percepita come un’imposizione ingiustificata e portare di conseguenza all’esacerbamento dei dissidi invece che alla loro risoluzione permanente. Mi pare che questo sia precisamente il caso dell’Italia di questi anni. 
Che la soluzione migliore sia quella di invitare le persone ad imparare a gestire una molteplicità di identità collettive – analogamente a come ciascuno di noi passa nel corso di stessa una giornata da un ruolo all’altro senza avvertire traumi o di sconnessioni – è dimostrato dal fatto che chi supera la barriera dell’appartenenza forte ed opta per un’identificazione plurale e complementare, tende ad essere psicologicamente più in salute, ad esperire minori livelli di stress e a dedicarsi ad attività che sono più salutari per il suo organismo (Dovidio/Gaertner/Saguy 2009). A ciò si aggiungono due aspetti ancora più decisivi: il mantenimento della volontà di denuncia delle disuguaglianze ed ingiustizie, che all’opposto un’eccessiva enfasi sulla coesione sociale inibisce, ed un più alto tasso di pensiero creativo ed innovativo, qualitativamente migliore (Fiske/Gilbert/Lindzey, 2010).

In sintesi, i sostenitori del comunitarismo identitario sbagliano quando affermano che la loro posizione sia naturale, razionale e conveniente. Nessuno di questi tre attributi è applicabile a questa ideologia. La scelta identitaria collettiva è al contrario emotiva, non è universale ed è potenzialmente disastrosa. Trovo semplicemente indecente che un presunto debito di riconoscenza verso antenati ignoti debba prevalere sulle responsabilità nei confronti dei vivi e che il paternalismo autoritario di genitori etnicamente militanti debba plasmare l’identità etnica dei figli, pena l’estinzione della comunità e dell’Heimat, cosicché ogni passeggiata, ogni conversazione, ogni domanda servano a trasformarli nel genere di persona che sarebbero ammirati da un Silvius Magnago o da un Pietro Mitolo. Goebbels, nel dicembre del 1942, esclamava: “Non possiamo neppure immaginare oggi il potere che i morti esercitano sui vivi!”.
Gli esseri umani non sono argilla e se davvero ci sentiamo in debito nei confronti delle future generazioni, sarebbe opportuno dimostrarlo facendo in modo che possano nascere in un mondo in cui gli esseri umani si incontrano, piuttosto che in uno in cui si scontrano nel nome di sentimentalismi ed arcaismi e sulla scorta di istinti primordiali francamente risibili, come ha messo in luce Hans Magnus Enzensberger nella sua acuta analisi delle dinamiche dello scompartimento ferroviario (Enzensberger, 1993, pp. 5-8):

Due passeggeri in uno scompartimento ferroviario. Non sappiamo nulla della loro storia, non sappiamo da dove vengono, né dove vanno. Si sono sistemati comodamente, hanno preso possesso di tavolino, attaccapanni, portabagagli. Sui sedili liberi sono sparsi giornali, cappotti, borse. La porta si apre, e nello scompartimento entrano due nuovi viaggiatori. Il loro arrivo non è accolto con favore. Si avverte una chiara riluttanza a stringersi, a sgombrare i posti liberi, a dividere lo spazio disponibile del portabagagli. Anche se non si conoscono affatto, fra i passeggeri originari nasce in questo frangente un singolare senso di solidarietà. Essi affrontano i nuovi arrivati come un gruppo compatto. È loro il territorio che è a disposizione. Considerano un intruso ogni nuovo arrivato. La loro autoconsapevolezza è quella dell'autoctono che rivendica per sé tutto lo spazio. Questa visione delle cose non ha una motivazione razionale ma sembra essere profondamente radicata. Questo innocente modello non è privo di lati assurdi. Lo scompartimento ferroviario è un soggiorno transitorio, un luogo che serve solo a cambiar luogo. E’ destinato alla fluttuazione. Il passeggero è di per sé la negazione del sedentario. Ha cambiato un territorio reale con uno virtuale. Ciononostante difende la sua precaria dimora con silenzioso accanimento.
Eppure quasi mai si arriva a uno scontro aperto. Ciò si deve al fatto che tutti i passeggeri sottostanno a un insieme di regole sul quale non possono influire. Il loro istinto territoriale viene frenato da un lato dal codice istituzionale delle ferrovie, dall'altro da norme di comportamento non scritte, come quelle della cortesia. Quindi ci si limita a qualche occhiata e a mormorare fra i denti formule di scusa. I nuovi passeggeri vengono tollerati. Ci si abitua a loro. Ma restano bollati, anche se in misura decrescente. […]. Ora altri due passeggeri aprono la porta dello scompartimento. A partire da questo momento cambia lo status di quelli entrati prima di loro. Solo un attimo prima erano loro gli intrusi, gli estranei; adesso invece si sono improvvisamente trasformati in autoctoni. Appartengono al clan dei sedentari, dei proprietari dello scompartimento e rivendicano per sé tutti i privilegi che questi credono spettino loro. Paradossale appare in questo contesto la difesa di un territorio «ereditario» appena occupato, e degna di nota la totale mancanza di empatia per i nuovi arrivati che si accingono a combattere contro le stesse resistenze e devono sottoporsi alla stessa difficile iniziazione a cui si sono dovuti sottoporre i loro predecessori; peculiare con quanta rapidità si riesca a dimenticare la propria origine che viene nascosta e negata.

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