La storia del
pensiero politico è un lungo confronto con la violenza: con omicidi e
brigantaggi, sommosse e guerre civili, usurpazioni e sopraffazioni, nemici
esterni e criminali interni. Non solo: la politica deve fare i conti con la
propria interna violenza. Infatti, la politica si struttura attraverso le
differenze di potere fra persone e gruppi sociali. E la violenza sta all´origine
del potere. Il potere è violenza che ha trovato una interna misura – esterna o
interna –, una forma di consenso: è violenza controllata e legittimata, istituzionalizzata
e finalizzata a obiettivi durevoli. […]. La violenza…strumentalizza chi ne è
oggetto (lo piega, lo opprime, lo spezza), e nega così quel valore infinito
della persona che la nostra civiltà pone a proprio emblema. Ma perché questa
finalità umanistica non sia vuota declamazione, bisogna sapere individuare la
violenza in tutte le forme che assume – alcune delle quali interne alla stessa
civiltà che la vorrebbe bandire –; c´è violenza tanto dall´alto quanto dal
basso, tanto nei soprusi del potere quanto nelle rivoluzioni che li spazzano
via, tanto nelle istituzioni deviate o corrotte quanto nella plebaglia
incanaglita dal degrado culturale e civile, tanto nelle ingiustizie che
attanagliano il mondo quanto nella criminalità più o meno organizzata, tanto
nella sottomissione delle donne al potere maschile quanto nelle disuguaglianze
e nelle persecuzioni religiose o razziali, tanto nel terrorismo quanto nella
guerra (giusta o ingiusta che sia). Bisogna, insomma, essere consapevoli del
rischio che la coppia politica/violenza – che cerchiamo di separare – si torni
a formare; e che la violenza si ripresenti dentro la civiltà – come
aggressione, dominio, minaccia –, e non lasci altra risorsa che opporsi a essa
con altra violenza. Solo se la politica democratica sa affrontare le
ingiustizie, le sopraffazioni, gli abusi dei poteri, se cioè dà spazio reale
alla critica, alla protesta e alla proposta –, la violenza non ha
giustificazione. Oggi più che mai è quindi la democrazia – presa sul
serio – lo spartiacque fra la politica e la violenza, fra la civiltà e la
barbarie.
Carlo Galli, “L’autunno
caldo della democrazia”, la Repubblica, 20 Ottobre 2011, p. 47
In un dialogo con
Jonathan Meese, il filosofo sloveno e star dell’intellettualità internazionale
Slavoj Žižek ha dichiarato, testualmente: “Sono
assolutamente un fan di Saint-Just”, cioè uno degli artefici del Terrore
Rivoluzionario che portò alla tirannia ed all’eccidio di decine di migliaia di
Francesi ed Europei.
Nel 2007 Zizek ha
anche pubblicato i più bei discorsi di Robespierre, l’altro dioscuro del
totalitarismo giacobino: quest’antologia (non tradotta in italiano) s’intitola “Robespierre
tra virtù e terrore”.
Per Zizek, una
rivoluzione o è forte o non vale la pena di farla: le “rivoluzioni
decaffeinate”, come le chiama lui – il 1789 senza il 1793 –, non lo
gratificano. Ma ai giovani di Occupy Wall Street fa balenare proprio la visione
di una rivoluzione decaffeinata, raccomandando di presentare richieste che
saranno comunque respinte e di rifiutare il dialogo, di restare in silenzio:
Esorta a non farsi
fregare dai padroni e dalla democrazia:
Celebra la “violenza
popolare emancipatoria”, ossia l’immobilizzazione di un paese, ma irride il
subcomandante Marcos (riprende l’epiteto di “sub-comediante”)
perché non blocca lo stato messicano:
Zizek sembra
dimenticare che Marcos, che vive nella realtà e non nella sfera delle
astrazioni, ha ben chiaro quante migliaia di persone innocenti potrebbero
morire in un conflitto generalizzato (es. narcotrafficanti contro forze dell’ordine
ed esercito), che sarebbe l’esito inevitabile della strategia zizekiana in una
nazione come il Messico. Dunque la sua “minuta violenza” difensiva è
semmai un indice di senso di responsabilità, maturità morale ed intellettuale,
sano realismo ed affetto nei confronti della sua gente e della democrazia in
generale: non vuole imporre il suo volere a quei Messicani che non sono d’accordo
con lui. Lo trovo ammirevole.
Mentre Marcos ha
ottenuto qualcosa di concreto per gli indigeni del Chiapas, Zizek non fornisce
alcuna indicazione chiara di dove bisognerebbe andare, secondo lui. Bisogna
rivolgersi ai suoi libri per capirlo e lo farò in questo articolo. Prima però
vorrei subito mettere sul tavolo quel che penso di Zizek. Penso che Zizek sia
un ragno che sta tessendo la sua tela (come l’orwelliano Emmanuel Goldstein),
oppure un terrificante fanatico che non è pienamente consapevole di esserlo.
A ben guardare, ci
si potrebbe chiedere se i “consigli” di Zizek agli attivisti di Occupy Wall
Street non siano esattamente la ricetta per cucinare una pericolosa escalation
in cui gli animi si surriscaldano e le azioni non sono più moderate da una
sobria ragione. Zizek gioca, sottilmente a fare il Rivoluzionario Cosmico. Ma
Geova (l’Autorità) e Satana (il Rivoluzionario) sono indistinguibili, sono
entrambi tiranni, entrambi violenti, entrambi intossicati dal proprio ego: il
poliziotto cattivo e il poliziotto “buono” che ingannano la vittima.
Il Terrore
Rivoluzionario francese che tanto gli scalda il cuore (come vedremo più avanti)
non fu perpetrato per la causa rivoluzionaria ma per quella dell’accentramento
del potere e l’inflazione dell’ego. Il gonfiamento di ego è un problema
endemico dell’umanità ed in particolare dei filosofi, che dedicano molto più
tempo alle idee che agli esseri umani. Penso a Badiou, Laclau, Negri, Mouffe,
Deleuze e, naturalmente, a Zizek. Si sentono eroici quando offendono
gratuitamente il senso comune più benevolo e temperato. L’iconoclastia, per
loro, è solo un trampolino di lancio per il loro ego. Mentre i rivoluzionari
del 1789 chiedevano libertà, uguaglianza e fratellanza, nel 1793 l’eroe di
Zizek, Saint-Just, offriva ai Francesi la scelta tra Terrore e Virtù
(proponendosi, appena ventenne, come un modello umano universale! Ma ci
rendiamo conto?). Il totalitarismo giacobino che affascina, seduce il filosofo
sloveno dalla fulgida carriera nell’establishment accademico americano
(coincidenza?) fu la presa in ostaggio di un intero popolo, fustigato,
torturato, dissanguato, decimato secondo le proprie convenienze, com’è tipico
dei volgari tiranni.
Addentriamoci
dunque nei più oscuri recessi dell’interpretazione storiografica zizekiana
della Rivoluzione, prendendo in esame la summa del suo pensiero rivoluzionario,
intitolata “In difesa delle cause perse: materiali per la rivoluzione globale”
(Zizek, 2009).
In questo tomo Zizek
si rifà a Alain Badiou, un filosofo francese al quale dedica il libro con
queste parole, che descrivono molto bene il carattere estremamente
autoreferenziato del personaggio in questione: “Un giorno Alain Badiou era
seduto tra il pubblico in un’aula in cui stavo tenendo una conferenza, quando
il suo telefono (che, oltre tutto, era il mio: glielo avevo prestato) all’improvviso
iniziò a suonare. Anziché spegnerlo, mi interruppe con garbo e mi chiese se
potevo parlare un po’ più piano, in modo da permettergli di udire il suo
interlocutore più chiaramente…Se questo non è un atto di vera amicizia, non
so cosa sia l’amicizia. E così, questo libro è dedicato ad Alain Badiou”. Il
suo fu un atto di estrema cortesia, quello di Badiou un gesto di consumata
arroganza e becera villania: una persona ordinaria sarebbe stata coperta di
improperi e sbattuta fuori dalla sala dal resto del pubblico. Ma le celebrità
godono di un tacito salvacondotto: l’idolatria del pubblico.
Zizek lancia un
appello ai suoi lettori: serve un atto di fede, un salto nel vuoto delle cause
perse, le cause folli, perché ormai i paradigmi dominanti hanno fallito e le
teorie scettiche non hanno dato risposte. Occorre recuperare l’afflato
messianico e quello totalitario. Si può persino rivendicare l’utilità
del Terrore Rivoluzionario come strumento di emancipazione e di difesa dei
diritti conquistati, sulla scia dell’aforisma di Saint-Just “Ciò che produce il
bene generale è sempre terribile".
Oltre ai giacobini
ed a Badiou, un altro eroe filosofico di Zizek è l’esistenzialista Merleau-Ponty,
che difendeva gli orrori dello stalinismo sulla base di una scommessa
pascaliana sul futuro: se alla fine l’Unione Sovietica sarà una società ideale
tutto il male compiuto sarà giustificato ex post, nel più classico
consequenzialismo. Per Zizek sarà ora la sfida ecologica ad offrire
“una possibilità unica di reinventare l’idea eterna del terrore
egalitario” (p. 573) che, a detta di Badiou, si compone di quattro
elementi: il volontarismo (la fede nella possibilità di smuovere le montagne);
il terrore (la volontà di schiacciare spietatamente i nemici del popolo); la
giustizia egualitaria (immeditata, intransigente); la fede nel popolo.
Zizek si
identifica come un radicale e, spiega, “i radicali sono posseduti da ciò che
Alain Badiou chiama la “passione del Reale”: se di dice A – uguaglianza,
diritti umani e libertà – non ci si deve sottrarre alle conseguenze e si deve
avere il coraggio di dire B – il terrore necessario per difendere realmente
ed affermare A” (p. 198). Non è chiaro come il marxista sloveno che insegna
in numerose e prestigiose università statunitensi possa difendere un tale
enunciato, dato che B ha concretamente annichilito A e spinto la Francia
rivoluzionaria verso la tirannia prima e l’imperialismo e la devastazione poi.
Per cercare di
dare un senso a questa patente contraddizione cita un estratto di Robespierre,
sui principi di morale politica, in data 5 febbraio 1794: “Se la forza del
governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in
tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore. La virtù, senza la
quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è
impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa,
inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù. È molto meno un
principio contingente, che non una conseguenza del principio generale della
democrazia applicata ai bisogni più pressanti della patria. […]. Punire gli
oppressori dell’umanità: questa è clemenza. Perdonare loro sarebbe barbarie. Il
rigore dei tiranni ha come fondamento soltanto il rigore: quello del governo
repubblicano ha invece come sua base la beneficenza”.
Zizek, rivelando
una considerevole hybris, ironizza su chi mette in guardia dal porre un’eccessiva
fiducia nella propria rettitudine. Come Robespierre, anche lui crede che “la
verità ha indubbiamente la sua potenza, la sua collera, il suo dispotismo, essa
ha accenti commoventi e terribili, che risuonano con forza, tanto nei cuori più
puri quanto nelle coscienze colpevoli” (p. 204).
L’idea del Terrore
non gli dispiace per nulla, anzi, si potrebbe fare anche peggio, ossia, a suo
dire, meglio: “C’è un modo per ripeterlo oggi, in un contesto storico
differente, per redimere il suo contenuto virtuale dalla sua realizzazione? La tesi
che sosteniamo in questo libro è che questo può e deve essere fatto e la
formula più concisa per ripetere l’evento designato con il nome “Robespierre” è
passare dal terrore umanista (di Robespierre) al terrore antiumanista (o
piuttosto inumano)”. Robespierre era una mammola, insomma, a dispetto
del ghigliottinamento di migliaia di suoi oppositori (troppo moderati per i
suoi gusti), delle noyades di Nantes, in cui furono annegate altre
migliaia di indesiderabili, del soffocamento nel sangue della rivolta in Vandea
con metodi che in Francia trovarono emuli solo al tempo dell’occupazione
nazista. Perché un Terrore Inumano? Perché dopo Auschwitz, continua Zizek, sappiamo
cosa c’è nell’uomo e non possiamo più fidarci di lui: “questa dimensione “inumana”
può essere definita come quella di un soggetto sottratto a tutte le forme dell’”individualità”
o della “personalità” umana (per questo, nella cultura popolazione contemporanea,
una delle figure esemplari del soggetto puro è un non umano – alieno, cyborg –
che mostra maggiore fedeltà al compito, maggiore dignità e libertà della sua
controparte umana, dall’androide Rutger Hauer in Blade Runner al personaggio di
Schwarzenegger in Terminator”.
Zizek, confermando
l’impressione che si tratti di un uomo gravemente carente in empatia e buon
senso – chiunque estenda la responsabilità di Auschwitz all’intera umanità è un
pensatore dozzinale ed un uomo meschino –, preferisce i robot (le
marionette? Gli psicopatici?), agli esseri umani. È bene chiarire che, a
differenza dei replicanti di “Blade Runner”, gli androidi del libro di Philip
K. Dick, intitolato “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” e da
cui è stato tratto il celebre film, sono molto più malvagi, indifferenti alla
sofferenza, capaci di cinismo e crudeltà inaudite. Si confondono con l’uomo non
per imitarlo, ma per distruggerlo. Per Dick l’uomo, a differenza dell’artificiale,
ha un patrimonio interiore estraneo alla fredda macchina. Blade Runner rovescia
la sua prospettiva: l’essere artificiale, segnato dalle esperienze estreme
delle colonie extra-mondo, è dotato di sentimenti e profondità d’animo che gli
uomini hanno perduto. La visione del mondo di Philip K. Dick, con buona
pace di Zizek, era inequivocabile: senza empatia non ci può essere nulla di
buono ("Mutazioni", 1997): “Nell’universo esistono cose gelide e crudeli,
a cui io ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto
quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione
che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo. In questo
caso le chiamo “androidi” . Per “androide” non intendo il risultato di un
onesto tentativo di ricreare in laboratorio un essere umano. Mi riferisco
invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con
successo per un nostro simile Che ciò avvenga in un laboratorio o meno non ha
molta importanza. […]. Diventare un androide, significa acconsentire a
trasformarsi in un mezzo, oppure essere oppressi, manipolati e ridotti a un
mezzo inconsapevolmente o contro la propria volontà: il risultato non cambia”.
Spero che, a
questo punto, gli indignati si rendano conto con chi hanno a che fare: non un
loro amico, ma il più subdolo dei manipolatori, oppure il più pericoloso degli
inconsapevoli maître à penser, un intellettuale che rispecchia la
descrizione weberiana degli “specialisti senza spirito, gaudenti senza
cuore”.
Difficile invidiare
questa condizione, difficile farsi trascinare dalla visione misantropica di Zizek
che, come Stalin o Mao, sembra preferire la marionetta all’individuo dotato di
libero arbitrio. Lo conferma la sua approvazione di una famigerata minaccia di
Robespierre, all’apice del suo potere: “io dico che chiunque tremi in questo
momento è colpevole; poiché l’innocenza non ha mai paura del giudizio pubblico”.
Il filosofo la designa, correttamente, “totalitaria”: essere giudicati
colpevoli solo perché si manifesta il timore di essere giudicati tali, per
ragioni a noi ignote, è kafkiano ed è agli antipodi di tutto ciò per cui si
sono battuti e sono morti i paladini dello stato di diritto democratico. Zizek
non ci trova nulla di strano: “questa paura, il fatto che sorga in me, dimostra
che la mia posizione soggettiva è esterna alla rivoluzione, che io vivo la
rivoluzione come una forza esterna da cui sono minacciato” (p. 210).
Robespierre è invece innocente perché non trema di fronte alla morte,
sentendosi “puro, un’incarnazione diretta della volontà del popolo”
(p. 211). Per coerenza, Zizek dovrebbe ammirare anche i terroristi islamici, i
fondamentalisti cristiani che attaccano le cliniche dove si fanno gli aborti, i
coloni sionisti che seminano il terrore nei Territori Occupati, tutte persone
che si sentono pure incarnazioni di una nobile causa, avanguardie del popolo
che un giorno li capirà e li approverà.
Infatti il
filosofo sloveno apprezza la decisione di Mao di sacrificare milioni di cinesi
e persino l’intero globo terrestre per dimostrare che la Cina non ha paura dell’armamento
atomico statunitense e la sfida lanciata da Che Guevara agli Stati Uniti nel
corso della crisi dei missili a Cuba, che comportava l’annientamento dell’intera
popolazione dell’isola: “questo terrore non è niente di meno che la
condizione della libertà”. Il regime Ingsoc del Grande Fratello di
George Orwell, in “1984”, non avrebbe saputo essere più mistificatore: “La
guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza”.
Zizek, che elogia
la massima di un monaco zen – “si tratta di considerare anticipatamente se
stessi come morti” –, sembra incapace di comprendere che il fatto che
uno sia pronto a sacrificare la sua vita non lo autorizza a sacrificare quella
degli altri e che non ha alcun diritto di considerare gli altri come già
virtualmente morti, per depenalizzare la loro uccisione in massa. Difficile
immaginare come questa difficoltà di comprensione possa non emergere da una
grave carenza di empatia e di contatto con il mondo reale.
La sua interpretazione dello spirito del buddismo è purtroppo conforme a certe tendenze interne allo stesso buddismo, anch'esso umano, troppo umano per essere all'altezza della grandezza del suo "fondatore":
http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/violenza-buddista.html
Una tendenza all’autismo morale è del resto comprovata dalla singolare caratterizzazione del “soggetto rivoluzionario” prodotta da Zizek: “una posizione così “inumana” di assoluta libertà (nella mia solitudine sono libero di fare ciò che voglio, nessuno ha presa su di me) coincidente con l’assoluta soggezione a un compito (il solo proposito della mia vita è compiere la vendetta) è ciò che forse caratterizza il soggetto rivoluzionario nel suo elemento più intimo” (p. 214).
La sua interpretazione dello spirito del buddismo è purtroppo conforme a certe tendenze interne allo stesso buddismo, anch'esso umano, troppo umano per essere all'altezza della grandezza del suo "fondatore":
http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/violenza-buddista.html
Una tendenza all’autismo morale è del resto comprovata dalla singolare caratterizzazione del “soggetto rivoluzionario” prodotta da Zizek: “una posizione così “inumana” di assoluta libertà (nella mia solitudine sono libero di fare ciò che voglio, nessuno ha presa su di me) coincidente con l’assoluta soggezione a un compito (il solo proposito della mia vita è compiere la vendetta) è ciò che forse caratterizza il soggetto rivoluzionario nel suo elemento più intimo” (p. 214).
Ho già scritto
quel che penso del tema della vendetta qui:
Zizek il
Vendicatore è una caricatura vivente di V, il rivoluzionario torturatore di
innocenti del fumetto/film “V per Vendetta”:
Il resto del mondo non esiste, la sorte del mio prossimo
non è computabile nella lista dei pro e dei contro del rivoluzionario zizekiano
(orwelliano?): i sentimenti di fratellanza e compassione neppure
scalfiscono la corazza di principi astratti ed inflessibili. Infatti “il
problema non è il terrore in quanto tale, il nostro compito è precisamente
quello di reinventare il terrore emancipatore”(p. 218), perché “il
nemico oggi non sia chiama Impero o Capitale: si chiama Democrazia” (p.
230).
4 commenti:
Ho appena scoperto questo blog e non lo mollerò finché non avrò letto tutto. Grazie, tu fai proprio quell'opera di ricomposizione di cui c'era bisogno.
Grazie mille!
E una volta finito ci sono
https://versounmondonuovo.wordpress.com/
http://www.futurables.com/
e, in inglese,
https://socialforecasting.wordpress.com/
Insomma, una condanna!
;o))
Figurati, questo articolo è bellissimo. In particolare la parte in cui ti colleghi a Philip Dick, il mio scrittore preferito. Ho fatto una tesi di laurea su di lui e continua a ispirarmi.
Lui sì che aveva qualche facoltà supplementare
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