Und doch fordert die Welt, in der wir beben, daß
die Menschen miteinander, nicht bloß nebeneinander gehe, daß sie zusammen
planen und aufbauen, was alle angeht und allen Leben auf dieser Erde sichert.
Tendenz zur Einheit: Einheit, die vielleicht oft nicht im entferntesten geahnt
oder erstrebt wird, die vielleicht mit Koexistenz oder Toleranz beginnt, die
versucht, eine Widerstreit zu mildern (das Problem der "zwei
Kulturen" und seine Überwindungsversuche legen Zeugnis ab), die aber
unweigerlich in vielen Bereichen heraufzieht
Alex
Langer, “Pluralismus und Einheit”, 1965
In questo
senso molti integralismi ecologici e molte tecnocrazie dipinte di verde possono
assumere un atteggiamento altrettanto ostile e negativo nei confronti degli
uomini e degli altri esseri viventi. […]. Oggi, infatti, una parte delle
motivazioni che vengono apportate per caldeggiare politiche ecologiste, sono
essenzialmente motivazioni per così dire “di paura”. In altre parole è come se
si dicesse: “devi smettere di fumare, altrimenti avrai il cancro; devi smettere
di bere, altrimenti etc...”. Sono atteggiamenti che poi non tengono: sono
poche, infatti, le persone che smettono in tempo di fumare o di bere, perché la
paura non è una motivazione che alla lunga tenga. E la paura inoltre come
motivazione non appartiene all’atto della generosità, semmai appartiene all’atteggiamento
del “si salvi chi può”, e può spesso indurre a comportamenti o a scelte assai
egoiste. La paura spesso può essere un utile campanello d’allarme, ma in genere
non è una motivazione che con il tempo regge. Anche le motivazioni ecologico-economiche
- cioè quelle di chi guarda alla biosfera semplicemente come una dispensa che
deve essere amministrata con cura perché deve durare a lungo, e quindi ne
ritaglia fettine piccine, molto sottili - potrebbero portare a politiche di
razionamento sociale, di amministrazione oculata della scarsità, ma molto
difficilmente ad un cambiamento forte di cultura e di atteggiamento verso la
vita sociale e personale.
Alexander
Langer, "Fare la pace: scritti su "Azione nonviolenta" 1984-1995", 2005, pp. 135-136
Cicerone,
Seneca, Epitteto, Marco Aurelio e Gesù il Cristo hanno fatto della tolleranza
un valore centrale dei propri sistemi di pensiero. La ragione di questa enfasi
risiede nel fatto che la libertà è la condizione che consente agli esseri umani
di maturare spiritualmente e civilmente, mentre la tolleranza è il principio e
l’atteggiamento che tutelano la libertà e dunque la possibilità di coltivare il
proprio potenziale. Come aveva intuito Voltaire, è più facile essere tolleranti
quando si è consapevoli della nostra finitezza, dei nostri difetti e della
nostra ignoranza. La disposizione d’animo di chi ritiene di poter apprendere
dal prossimo è il fondamento della tolleranza, “l’unico principio che si può
considerare propriamente laico” (Bobbio, 1994).
Il bisogno di convertire il
prossimo al nostro punto di vista è invece alla radice dell’intolleranza. La
persona tollerante è pronta ad includere nel principio di libertà l’altrui
espressione anche di idee che personalmente ripudia. La persona intollerante
non è meno umana di quella tollerante. È solo meno
informata – e quindi tende a giungere a conclusioni errate partendo da premesse
incomplete o false –, meno riflessiva e psicologicamente e cognitivamente meno
flessibile, essendo incline a ritenere che tutti gli altri dovrebbero pensarla
in un dato modo e che chi non lo fa o è in cattiva fede o è un illuso (Stouffer
1966; Peffley/Sigelman, 1990).
Nella maggior parte delle persone una
certa misura di tolleranza coesiste con un esplicito sentimento di superiorità
e convincimento della naturale bontà delle proprie aspettative e desideri.
Questo è dovuto al fatto che la quasi totalità degli esseri umani tende all’egocentrismo,
ad un pigro appagamento e ad un’ingiustificata fiducia nella correttezza della
propria visione della realtà che inibisce la curiosità, la volontà di cercare e
sperimentare spiegazioni alternative e stili di vita differenti.
In pratica, l’intolleranza
è il prodotto di una valutazione eccessiva delle nostre capacità di
discernimento e giudizio, un circuito autoreferenziato in cui continuiamo a
riprodurre quegli schemi di lettura della realtà che confermano le nostre convinzioni
essenziali. Abbiamo investito troppo in noi stessi, nella nostra autostima,
nelle nostre credenze per permettere a qualcun altro di infrangere le nostre
certezze.
Per inibire una reazione intollerante dovremmo guardarci con gli
occhi degli altri, distanziarci da noi stessi, fare un passo indietro nel
rispetto dell’altro o un passo avanti verso chi ci chiede assistenza, ma per
molti è un compito molto arduo. Per questo siamo tutti intolleranti pur
non essendone quasi mai consapevoli.
Ci è difficile vedere nell’altro una
persona di pari dignità e valore, un mondo ampiamente intelligibile, se solo
facessimo lo sforzo di accostarcivisi. Peggio ancora, a causa del nostro
relativamente basso livello di tolleranza nei confronti della pluralità del reale,
in diversi casi ci risulta persino difficile assegnare all’altro un livello di
realtà pari al nostro; tendiamo insomma ad astrarlo e spersonalizzarlo,
ristrutturandolo in accordo con i nostri preconcetti e pregiudizi. Così
definiamo stupidi i ragionamenti di chi non la pensa come noi e ripetiamo
all'interlocutore dissenziente che in realtà è lui a non aver capito. Qualche
volta è vero, altre volte no, ma è difficile ammetterlo prima di tutto con noi
stessi.
Studi
comparativi hanno mostrato che più una società valorizza la specificità dei
singoli, maggiori sono la tolleranza e fiducia reciproca tra i cittadini e la
democraticità dei processi decisionali (Kasser 2002; Houtman 2003; Allik/Realo
2004; Inglehart et al. 2004; Inglehart/Welzel 2005; Marquart-Pyatt/Paxton 2007;
Van de Vijver et al. 2008).
Una società civile vitale non tollera usanze ed
idee diverse perché ne è entusiasta, ma semplicemente perché crede nel
principio di libertà, colonna portante del vivere democratico. Dunque la
tolleranza non si manifesta nell’accentuazione stereotipica della diversità –
come fu il caso del Sudafrica, dove la segregazione era giustificata dalla
necessità di mantenere cammini di sviluppo civile separati –, ma nella ricerca
di un sentimento di umanità condivisa che trascende le differenze superficiali.
Sono tollerante con te perché sei umano esattamente come me e non ho ragione di
impedirti di esserlo a modo tuo, a patto che tu non mi impedisca di fare lo
stesso. Perciò la prassi sociale della tolleranza è, in ultima analisi, l’atteggiamento
di chi vede in ogni altra persona un singolo individuo, con tutte le sue
peculiarità, e non l’espressione di un fascio di credenze popolari, portatore
più o meno sano delle per noi irritanti caratteristiche del suo gruppo di riferimento
o di origine.
Ciò
comporta la ferma volontà di consentire al mio prossimo di dire ciò che pensa,
nella convinzione che le idee possono ferire e mortificare solo chi dà peso a
chi le proclama, mentre le azioni possono far male in ogni caso. Si badi bene,
non v’è alcun obbligo di rispettarle – e qui sta il vizio di fondo del dogma
progressista del politicamente corretto –, ma unicamente quello di tollerarle,
nella piena libertà di criticarle anche aspramente. La tolleranza comporta un
obbligo morale di far emergere e dar spazio ad una pluralità di opinioni, non
di giudicarle tutte ugualmente valide.
L’intolleranza è invece quella di chi,
da una posizione di pessimismo antropologico e dunque di paternalismo
pedagogico, giudica che la soppressione di certe idee sia un atto di carità e
tutela nei confronti delle persone volubili, credule ed impressionabili. Nel
difendere questa posizione, purtroppo, l’intollerante pregiudica a se stesso
molte occasioni di confronto e di crescita personale, condannando molti altri
alla stessa sorte. Come c’insegna Norberto Bobbio, “la tolleranza non è
indifferenza…Tolleranza significa che è lecito, anzi doveroso il confronto”
(Bobbio 1985).
Ciò non
significa però che la tolleranza debba essere illimitata. Senza dubbio esiste una
soglia oltre la quale una democrazia non può più gestire un eccesso di
pluralismo e deve farsi intransigente. Ad esempio il diritto di espressione non
implica il mio dovere di fornire a qualcuno i mezzi per amplificare il suo
messaggio.
Ma più importante ancora è l’esigenza di evitare che la tolleranza
divenga un passepartout per il relativismo morale e per il capriccio snob di
porre su un piano di equivalenza la crassa ignoranza, la viscida faziosità, la
coscienza bigotta di chi opera per costruire una società in cui la tolleranza
stessa non sarà più tollerata, dove la libertà d'espressione sarà un ricordo
del passato, il diverso sarà considerato inferiore, l'empatia sarà vista come
un segno di debolezza e di infantilismo. La retorica della differenza non può e
non deve soppiantare quella dell’uguaglianza, perché altrimenti sarà fin troppo
facile etichettare la tolleranza come una velleità elitaria, tipica di chi non
vive a contatto con la realtà di ogni giorno, se non un tradimento del bene
comune. Esistono dei principi non-negoziabili, incastonati nelle nostre
costituzioni e nelle convenzioni internazionali, rispetto ai quali facciamo
bene a non transigere.
Lo ripeto:
permettere ad un’idea di farsi notare non significa doverla rispettare
indiscriminatamente. Ci sono pratiche sociali e norme di condotta che sono
migliori delle altre ed è opportuno difenderle. In questo senso, il
politicamente corretto è una tirannia della mente ed una forma di intolleranza
generalizzata ed istituzionalizzata. Originariamente un lodevole sforzo di
depurare la lingua e, in prospettiva, il pensiero, da pregiudizi
discriminatori, è diventato un filtro censorio ed uno strumento di allineamento
conformistico. Questo meccanismo impedisce di poter avere un dibattito serio su
certe tematiche, facilita il controllo del dibattito da parte di fanatici,
dogmatici e militanti, esiliando gli interlocutori più creativi e lucidi, e
cosparge le discussioni di banalità, preconcetti, semplificazioni, eufemismi
(surrogati, come etnia al posto di razza) e tabù (il non-detto). Il tutto in
una clima farisaico e puritano, alimentato da persone in buona fede ma di
scarso discernimento. Si seppellisce l’esperienza, per poi erigervi sopra un
nuovo edificio di credenze. Tutto questo è pervicacemente anti-democratico ed
una cittadinanza informata e consapevole avrebbe riservato a questa deriva
puritana il trattamento che merita: l’irrisione.
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