[contributo per SM annali di San Michele 24/2011
“Carnival King of Europe / Carnevale Re d’Europa. Potere, ritualità e i
popoli senza storia. Giornate di studio in onore di Eric R. Wolf (1923–1999),
nel decennale della scomparsa”]
L’odiosa
maschera è caduta, resta l’uomo, senza scettro, libero, senza limiti, uomo
soltanto, uguale, senza classi, senza stirpe o nazione, libero da timori,
venerazioni, titoli,
sovrano di
se stesso, giusto, mite, saggio
Percy
Bysshe Shelley
Abstract
La maschera può essere usata per incutere timore (allo
stadio) o per non venire riconosciuti (Zorro), copre deformità (Vanilla Sky),
protegge dai demoni, permette di combattere la balbuzie, potenzia e sottolinea
gli attributi delle persone che la indossano, serve nelle feste di paese come
elemento aggregante, per fondere la sfera umana e quella spirituale e per
eseguire certi rituali in cui è necessaria una personificazione del divino, la
metamorfosi dell’indossatore e la successiva epifania. Sono funzioni innocue o
positive. In questa sede sono più interessato a prendere in esame quelle
negative, che sono strettamente connesse alla manipolazione del linguaggio ed
alla relativizzazione della morale. Ritengo infatti che l’antropologo sia, per
professione e per «forma mentis», idealmente collocato per palesare la realtà
dietro i travestimenti, le forme sconcertanti, le fantasie mimetiche, le
metamorfosi del potere. Seguendo l’esempio di Eric R. Wolf, l’antropologo può
braccare la dissimulazione del potere, smascherare i falsi paradigmi che
consentono ai potenti di travestire da legittimi imperativi i loro istinti
irrefrenabili, scelleratezze e trasgressioni. La pratica dell’antropologia può
disoccultare il potere e questo è un compito reso più facile dal fatto che la
cifra del potere è quella della dismisura. È altresì un compito
imprescindibile, dato che «la libertà illimitata del desiderio è la negazione
dell’altro» (Albert Camus).
Viviamo in un mondo dominato dalla dissimulazione, dal
rifacimento artefatto, da una mascherata perbenista, reazionaria e consolatoria
che, a volte, cela un abisso di putredine (pedofilia, commercio d’armi, omicidi
eccellenti, collusioni mafiose, speculazioni ai danni dei piccoli investitori,
guerre «giuste», violenze domestiche, propaganda, truffe e raggiri di massa,
ecc.). Non è più facile distinguere vero, verosimile e menzognero, l’invenzione
dalla realtà, l’allucinazione paranoica e dietrologica dalle autentiche trame,
collusioni e congiure del silenzio. Forse non lo è mai stato, sin dai tempi
della tentazione edenica e della caduta, un motivo mitologico che, c’insegna l’etnografia,
incontriamo, in forme diverse, ad ogni latitudine (come quello del diluvio). Il
serpente – che in altre tradizioni assume le sembianze di animali totemici
differenti (per esempio la volpe Inari in Giappone) – rassicura l’umanità: non è
il nemico dell’uomo ma colui il quale ha reso divina l’umanità insegnando all’uomo
a distinguere il bene dal male, ad essere libero. Il tema della vantaggiosità
della caduta è presente nella gnosi, nella costellazione di mitemi che circonda
la figura di Prometeo e di altri eroi culturali indigeni americani, ma anche
nel satanismo e nell’occultismo.
Quest’ambiguità fondamentale alla radice della civiltà
umana non è un dettaglio antropologico di poco conto. È altrettanto
significativo che l’idea di illusorietà ingannevole della realtà, imitazione o
mimesi della vera natura, che i nostri sensi fallaci non possono percepire,
informi sia il mito platonico della caverna sia quello, contemporaneo, della
trilogia di Matrix. Stando così le cose, è comprensibile che la tradizione
cristiana prolunghi la condizione di mascheramento mendace del vero fino alla
Rivelazione. L’Apocalisse, da apó (separazione) e kalýptein (nascosto), il
venir meno della maschera, è l’evento che decreta la fine della civiltà umana e
la trasfigurazione dell’umano stesso. Ancora una volta, come all’inizio, è in
ballo la determinazione del vero, in un contesto caratterizzato dall’inganno e
dalla dissimulazione sistematici. Cito dalla Didaché (o Dottrina degli
Apostoli, I secolo a. C.), che offre un’efficace sintesi della questione:
«Negli ultimi giorni si moltiplicheranno i falsi profeti
e i corruttori, e le pecore si muteranno in lupi, e la carità si muterà in
odio; finché, crescendo l’iniquità, si odieranno l’un l’altro, si
perseguiteranno e si tradiranno, e allora il seduttore del mondo apparirà come
figlio di Dio e opererà miracoli e prodigi, e la terra sarà consegnata nelle
sue mani, e compirà iniquità quali non avvennero mai dal principio del tempo. E
allora la stirpe degli uomini andrà verso il fuoco della prova, e molti saranno
scandalizzati e periranno; ma coloro che avranno perseverato nella loro fede
saranno salvati da quel giudizio di maledizione»[1].
I Vangeli chiedono ai credenti di aderire alla realtà
vera, di vivere la verità, a dispetto delle apparenze contraddittorie, anche se
ciò dovesse costare la morte, con l’approssimarsi del tempo in cui Dio sarà
adorato in spirito e verità.
Per i non-credenti, la ricerca del discernimento del vero
dal falso in una società della finzione segue altre vie. Per l’anarchismo
classico una persona è forte solo quando si erge sulla propria verità, quando
parla e agisce a partire dalle proprie convinzioni. Allora, in qualunque
condizione si trovi, saprà sempre ciò che va fatto e detto. Potrà cadere, ma
non disonorerà se stesso e le sue cause. Per l’esistenzialista Albert Camus la
verità non si trova nella separazione, ma nell’unione, nella solidarietà
metafisica ed universale generata nell’istante della rivolta: «Mi ribello,
dunque siamo». Platone punta sull’Anamnesis, l’operazione
attraverso cui l’anima si ricorda della verità, nascosta dall’oblio al momento
dell’incarnazione. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, una delle più
nobili creazioni dello spirito e dell’intelletto umano, si fonda sulla premessa
dell’esistenza di una verità primordiale della nostra natura alla base dell’etica
e del diritto, un nucleo di verità non negoziabili, non in vendita, a nessun
prezzo, che è stato definito consensualmente dai popoli del mondo, attraverso i
loro rappresentanti. La Costituzione della Repubblica Italiana ha la stessa
pretesa.
Eppure la ricerca della verità, il fine ultimo di
qualunque disciplina che ami ritenersi una scienza, inclusa l’antropologia,
sembra rimanere un’utopia. È più plausibile ritenere che, per la maggior parte
del tempo, gli esseri umani non siano strutturalmente capaci di pensare in modo
obiettivo, ma solo per approssimazione, mentre la pace, la giustizia, la libertà
e l’autentica felicità richiedono equanimità ed obiettività. Ciò nonostante il
nostro compito, come cittadini e come antropologi, è intuitivamente quello di
essere fedeli ai noi stessi ed ai nostri ideali, alla nostra verità interiore,
senza tradire se stessi, come fa chi emula il travicello o il giunco che si
piega nella direzione di qualunque refolo. Intuitivamente, ci sembra giusto
dare ragione a R.W. Emerson quando dichiara: «Per cosa è nato l’uomo se non per
essere un riformatore, un rimodellatore di ciò che è stato fatto; un
rinunciatore delle menzogne; un restauratore della verità e del bene?»[2].
Ma pure i fanatici si credono restauratori della verità,
del bene e della giustizia. Persino chi si limita a testimoniare la propria
verità in modo del tutto pacifico, chi la esprime chiaramente, distintamente,
pubblicamente, anche se è in contrasto con quella di chi lo circonda, non passa
certo per una persona assennata, ma semmai per un fazioso, un esagitato. Questo
è forse il risultato della cosiddetta «dittatura del politicamente corretto»,
uno strumento nato per tutelare i deboli e che ora serve soprattutto a limitare
la libertà d’espressione delle verità altrui. George Orwell aveva intuito una
possibile destinazione di questo percorso: la scissione dell’intelligenza, la
paralisi della volontà, l’automonitoraggio del pensiero, la stupidità
protettiva che ci induce a bloccare il ragionamento prima che partorisca un
pensiero impuro o pericoloso che ci fa credere che stiamo dicendo il vero anche
quando mentiamo, che due proposizioni antitetiche possono essere vere
contemporaneamente, che la logica può negare se stessa e la versione ufficiale
nega il dato reale e la memoria dell’esperienza diretta.
«Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente
svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi». Lo scenario peggiore è l’instaurazione
di una società psico-patogenica, in cui persone psicologicamente sane sono
indotte a comportarsi come degli psicopatici, cioè come se avessero un deficit
di empatia e di coscienza, a manipolare con successo se stessi e gli altri. Una
società dell’offuscamento mentale, dell’intorpidimento psico-sociale, dove le
menzogne psicopatiche e le verità artatamente incomplete ipnotizzano, producono
allucinazioni più realistiche del reale, mesmerizzano, narcotizzano, seducono
ed allettano. Una società dominata da dogmi, riflessi condizionati e da una
comprensione superficiale delle conseguenze dei propri atti, dove ci si
immagina di poterla sempre fare franca, sopravvalutando se stessi e
sottovalutando gli altri. Un muro di auto-inganni si frappone tra noi e la
verità, sostenuto dalla cosiddetta «Sindrome di Tolstoj», così ribattezzata
perché il grande scrittore russo l’aveva descritta molto accuratamente nel suo
Che cos’è l’arte?, del 1897:
«So che la maggior parte degli uomini, compresi coloro che
hanno dimestichezza con problemi della massima complessità, accettano raramente
la verità più semplice e ovvia, se questa li costringe ad ammettere la falsità
delle conclusioni che loro stessi si sono deliziati orgogliosamente di
insegnare ad altri e che hanno intessuto, un filo dopo l’altro, nell’ordito
della propria vita».
Questo non è un futuro così improbabile. La democrazia
non gode di buona salute, presa com’è tra i due fuochi delle destre
etno-populiste e delle sinistre tecnocratiche. Le finanze di molti paesi, a
partire dagli Stati Uniti, sono allo stremo. Per queste ragioni la libertà va
difesa e, se la intendiamo come capacità di seguire la voce della ragione,
della conoscenza e della coscienza, contro la voce delle passioni irrazionali
che mascherano la verità, allora l’unica via per giungere ad una ragionevole
approssimazione della verità che ci mantenga liberi è attraverso una
comprensione obiettiva della realtà e del nostro ruolo in essa. Questo, io
credo, dovrebbe essere l’obiettivo dell’antropologia che, in questo senso,
diventa la più nobile e virtuosa delle discipline scientifiche. Tuttavia gli
antropologi non sempre sono in grado di assolvere la loro missione civile.
L’antropologo al carnevale dei valori
In teoria il rapporto tra relativismo ed antropologia
dovrebbe essere chiaramente definito e limitato agli aspetti epistemologici
dello studio etnografico. In antropologia il relativismo è il principio per cui
tutti i sistemi culturali hanno un valore equivalente ed i loro elementi vanno
interpretati e spiegati contestualmente. Insomma all’antropologo è richiesto
di non giudicare una cultura sulla base delle premesse proprie alla cultura in
cui è cresciuto, dato che ogni cultura è un adattamento alle condizioni in cui
esiste e tali condizioni non possono certamente essere le medesime ovunque. Di
conseguenza, finché indosso le lenti da antropologo, non può esistere un
parametro universale di valutazione di ciascuna cultura o un ordinamento
gerarchico di culture superiori ed inferiori. Questo, di per sé, non autorizza
però alcun relativismo di natura morale, quando le tolgo. Il relativismo
morale, in termini pratici, è il preludio al soggettivismo radicale – non
esistono ragioni oggettive ma solo punti di vista e dunque non c’è nulla di
intrinsecamente sbagliato –, cioè al nichilismo. La differenza tra relativismo
morale e nichilismo morale è puramente semantica e non ontologica; infatti, se
tutti i sistemi morali sono socialmente e storicamente contingenti, allora non
esiste alcun criterio di scelta affidabile ed obiettivo e la morale si riduce
all’usanza, alla credenza, alla volontà di una maggioranza in seno ad una
comunità, ad un rigido soggettivismo egotista. D’altra parte, poiché ogni
società è la sommatoria di individui con opinioni differenti, nessuna società o
cultura potrebbe imporre un sistema morale definito. Di qui la deriva
nichilista, perfettamente esemplificata da un editoriale di Benito Mussolini
dal titolo Relativismo e fascismo, pubblicato sul Popolo d’Italia il 22
novembre 1921, in cui afferma:
«Se per relativismo deve intendersi il dispregio per le
categorie fisse, per gli uomini che si credono i portatori di una verità
obiettiva immortale, per gli statici che si adagiano, invece che tormentarsi e
rinnovellarsi incessantemente, per quelli che si vantano di essere sempre
uguali a se stessi, niente è più relativistico della mentalità e dell’attività
fascista. … Dall’equivalersi di tutte le ideologie, tutte egualmente finzioni,
il relativista moderno deduce che, dunque, ciascuno ha il diritto di crearsi la
sua e d’imporla con tutta l’energia di cui è capace».
Questa citazione è un dato storico che descrive una
possibile modalità di transizione dal relativismo morale al soggettivismo
radicale o nichilismo e – per inerzia, narcisismo ed horror vacui – all’assolutismo,
alla tirannia.
Un antropologo che si rispetti dovrebbe ripudiare la
mascherata relativista di chi si permette di giustificare misure repressive o
deflettere le critiche in nome dell’incommensurabilità dei valori. È in nome
del relativismo che si difende la pena di morte; in nome del relativismo il
razzista segregazionista sudafricano J.B.M. Hertzog esortava bianchi e neri a
collaborare alla difesa dell’apartheid, affinché ciascuno preservasse i suoi
ideali e la sua cultura; in nome del relativismo, infine, nell’Atene classica,
Trasimaco rispondeva a Socrate che la giustizia non è altro che l’interesse del
più forte. È quindi fondamentale capire che il relativismo culturale degli
antropologi è un relativismo epistemico, non valoriale. È una scelta euristica,
non etica e perciò non va vista come un atto di deliberata connivenza con la
violazione dei diritti fondamentali di bambini, donne, disabili, omosessuali,
minoranze etniche e religiose, degli animali e dell’ecosfera.
Ernest Gellner aveva visto giusto quando aveva
riepilogato l’intera questione della contrapposizione tra universalismo e
relativismo nella doppia domanda: «C’è un solo tipo di uomo, o ce ne sono
molti? C’è un solo mondo, o ce ne sono molti?». Proprio l’anno in cui nacqui
Eric R. Wolf diede la sua risposta, che io sottoscrivo con piacere:
«Difendo la mia convinzione che il compito dell’antropologia
sia quello di affermare la possibilità di una vera scienza dell’uomo. Sappiamo
tutti che questa scienza dell’uomo allo stato embrionale è in pericolo, proprio
come lo è l’umanità… l’umanità può farcela oppure no, e la vittoria potrebbe
costare quasi quanto la sconfitta. Tuttavia la logica dell’approccio
antropologico è esplicita, indipendentemente dal fatto che gli antropologi
siano in grado di esserne all’altezza. Abbiamo dichiarato e dimostrato l’unità
dell’umanità nell’articolazione di un processo culturale. Negare questi legami
con il nostro passato e presente significa restringere la nostra prospettiva,
ritrarsi verso un adattamento più limitato, voltare le spalle a ciò che
possiamo ancora diventare. … Il punto di vista antropologico è quello della
cultura mondiale che si sforza di nascere… se questa cultura fallirà, analogo sarà
il fato dell’antropologia».
Fin che è sul campo l’etnografo si affida al giudizio di
autenticità locale ed accoglie la richiesta che certi argomenti siano collocati
in una sfera al di là del bene e del male. Una volta a casa, però, non può
ignorare i rapporti di potere, le discriminazioni e sperequazioni, gli
interessi privati, le ipocrisie, la miriade di contraddizioni ed eccezioni e,
soprattutto, l’inconsistenza della pretesa che determinati concetti e valori
siano intraducibili, che esistano differenze insormontabili e che le culture
siano internamente omogenee ed ermeticamente sigillate rispetto alle influenze
esterne. Altrimenti l’antropologia dovrebbe rinunciare al titolo di scienza
sociale, seguendo l’auspicio di certi critici post-modernisti, troppo impegnati
a de-strutturare e frammentare la conoscenza per preoccuparsi delle conseguenze
delle loro frivolezze sulle persone in carne ed ossa. Queste sono persone di
scarsa caratura morale ed abbondante falsa coscienza che, finché se ne stanno
nel proprio paese, dichiarano di apprezzare la dignità umana, il rispetto per l’individuo,
la libertà e di ritenerli valori fondamentali che distinguono l’uomo dall’animale,
ma quando poi mettono piede all’estero, in un luogo esotico, cambiano
improvvisamente idea.
Quale forza prescrittiva può avere una dottrina
relativista? È evidentemente una contraddizione in termini. Ciò nonostante, per
anni, molti antropologi si sono scagliati furiosamente contro la formulazione
dei diritti umani, come se la loro origine «occidentale» li macchiasse per
sempre di una colpa originaria. Quest’approccio ha fatto il gioco dei «mimetisti»
del potere, figure scaltre e prive di scrupoli che guardavano con favore all’identificazione
del giusto col tradizionale, del buono col vecchio, del valido con l’originale,
dell’obbligatorio con il consuetudinario, alla generale disponibilità a
sospendere consapevolmente il proprio ragionevole scetticismo, la propria
capacità di dubitare. Per questi presunti antropologi rimanere ignoranti
riguardo agli altri è preferibile rispetto ad un inavvertito fraintendimento.
Un silenzio passivo è da preferirsi rispetto all’imprigionamento ed alla
perversione della Sacra Alterità nella cornice della nostra conoscenza
convenzionale. «Sono totalmente diversi», «non siamo in grado di capirli», «criticarli
è un sintomo di mentalità imperialista». Lo studioso deve dunque prorogare o
sospendere la valutazione critica e soppiantarla con il giudizio di valore che
riceve dall’Altro, l’unico giudice dell’adeguatezza della descrizione
realizzata dall’osservatore. Si accettano acriticamente i pregiudizi e le
interpretazioni soggettive dell’Altro in una sorta di auto-lobotomizzazione
critica. L’idea della cultura come radicale alterità infrange ed offusca le
evidenti ed istruttive omologie, ponendosi in contrasto con i più elementari
principi di logica e metodo scientifico. Viene da chiedersi perché l’assenza di
logica sia degna di nota, piuttosto che il sintomo dell’assenza di qualcosa di
significativo da dire, della rinuncia a fare il proprio lavoro con senso di
responsabilità e dedizione, della complicità con il potere «indigeno» che mette
in campo tutte le sue funzioni mitopoietiche e mimetiche nell’intento di
auto-perpetuarsi, magari con l’aiuto di una corte di intellettuali stranieri,
più grulli che meschini, interessati ad assicurarne l’auto-promozione per varie
ragioni. Un perfetto dispositivo usato dalle classi dominanti per occultare la
natura dispotica del loro governo. Ogni peana dedicato al relativismo morale è un
elogio dell’infermità mentale, di un pensiero confinato che rinuncia ad
alimentarsi dell’esperienza concreta.
D’altro canto è un’idea bizzarra quella secondo cui per
avere una mente aperta e non essere bigotto significa non avere una salda
opinione su niente, oscillando da una posizione ad un’altra in nome dell’equanimità
e del relativismo. Una persona intelligente crede in qualcosa, sa perché crede
in questo qualcosa e sa articolare le sue convinzioni ed argomentare le ragioni
a sostegno delle medesime. La fondamentale differenza tra relativismo culturale
e relativismo morale è che il primo è un procedimento empatico che consente all’osservatore
di assumere la prospettiva dell’altro mentre il secondo è un’ottica che nega
che credenze morali e giudizi etici possano essere o veri o falsi e che
esistano proprietà morali che stanno a cuore a tutti gli esseri umani. Senza
relativismo culturale non si può fare antropologia. Non solo, senza una forma
di relativismo epistemico non potrebbe neppure esistere alcun sistema etico.
Infatti l’etica, l’insieme strutturato dei nostri principi morali, si basa sul
nostro sentire empatico, sulla nostra simpatia immaginativa che permette la
mutua comprensione e non la semplice proiezione dei nostri sentimenti in un’altra
persona. L’empatia è identificazione emotiva, assorbimento e fusione emozionale
al punto che uno si estrania da se stesso e si vede come parte dell’altra
persona con la quale condivide una data sensazione. L’etica deriva dalla
necessità di riflettere la visione del mondo di un altro essere umano. Così
facendo si diventa più morali, si espandono i propri orizzonti e si indebolisce
il naturale egocentrismo. L’empatia più autentica è quella che è rivolta a
tutti e non solo a quelli a cui teniamo. Non ci limitiamo a replicare i loro
sentimenti e sensazioni ma riconosciamo che appartengono a qualcuno che merita
il nostro rispetto. Empatizzare troppo con qualcuno e non abbastanza con tutti
ci porta fuori strada. Dunque il relativismo tanto caro agli antropologi è l’espressione
deontologica di questo aspetto della natura umana, dell’unica maniera che
conosciamo di raggiungere uno stadio in cui possiamo esaminare le nostre azioni
dal punto di vista di uno spettatore imparziale. L’empatia ed il relativismo
culturale tengono a bada le nostre emozioni, filtrandole, ed evitando così che
ci facciano deragliare, sopprimendo la nostra obiettività, discernimento e buon
senso. Questo è il secondo motivo per cui ritengo legittimo concepire l’antropologia
“fatta come si deve” come un’impresa virtuosa.
Il buon antropologo, una volta tolto il cappello del
professionista, dovrebbe essere in grado di distinguere ciò che è relativo da
ciò che è universale o sostanzialmente universale. Mi riferisco ad esempio alle
virtù primarie come la benevolenza, la sapienza, l’amore, la fede, la speranza,
la compassione, la tenacia, il coraggio morale, la solidarietà, l’armonia, la
sicurezza, l’avvedutezza, il buon senso, la cooperazione, l’operosità, ecc.
Queste sono qualità grandemente apprezzate in ogni angolo del globo. La stessa
regola aurea – il caposaldo di ogni sistema etico – è presente in tutte le
maggiori tradizioni culturali e religiose umane. Dunque il relativismo
culturale non comporta un’automatica adesione ad un relativismo morale del
tipo «se Dio è morto allora tutto è lecito». Come notava C.S. Lewis, «è
necessario credere fermamente nell’oggettività di certi valori se si vuole
vivere in un mondo in cui i governi non siano tirannie e l’obbedienza non sia
quella dello schiavo verso il padrone».
Eric Wolf, o l’antropologo come sgamatore di corbellerie
L’antropologo è un ottimo «sgamatore di corbellerie», o «bullshit
detector», come si direbbe in inglese. Non si può permettere di dare nulla per
scontato perché il suo oggetto d’indagine è proprio lo scontato, che ha il
compito di problematizzare. Inoltre, per indole e per formazione, è incline ad
accettare l’umanità per quello che è, con i suoi pregi e difetti. Naturalmente
non tutti gli antropologi sono fatti in questo modo, ma credo si possa parlare
di una tendenza di fondo che va in questa direzione. L’antropologia è quindi un
perfetto antidoto al cinismo misantropico di certa scienza riduzionista, al
sensazionalismo dei mezzi d’informazione, alla manipolazione propagandistica
dei movimenti politici. È certamente piuttosto paradossale che quest’antidoto
sia rappresentato proprio dall’antropologia, una disciplina nata come puntello
del colonialismo e dell’imperialismo euro-americano e fin dal principio incline
a trasformare in oggetti i suoi soggetti di studio, gli esseri umani appunto.
Ma l’approfondito quanto necessario esame di coscienza degli antropologi è
evidentemente servito a qualcosa.
Questo è lo spirito con il quale ho scritto questo mio
intervento apologetico ma anche ammonitore per chi fatica ad esercitare
il libero pensiero e ad emanciparsi da un eventuale stato di soggezione nei
confronti di miracoli, misteri ed autorità, per chi continua a credere
acriticamente a quella parodia anti-umanista che ci descrive come burattini i
cui fili sono manovrati dalla Cultura e dalla Natura, oppure ramoscelli
trasportati dalla corrente delle tradizioni ancestrali e del genoma umano. Non
c’è libero arbitrio, in queste rappresentazioni dell’umano, perché ogni azione è
predeterminata da costumanze e cromosomi. E quando gli esseri umani si sforzano
di liberarsi dalle catene della tradizione e della biologia, di dimostrare che
la natura umana è complessa ed inafferrabile e proprio per questo libera, e che
gli adulti non hanno bisogno di tutori ma solo di buoni consigli, sbucano fuori
tuonanti inquisitori che ci mettono in guardia contro l’eccessiva autonomia di
giudizio, contro le contaminazioni della tradizione, contro la nostra natura
intrinsecamente maligna. Questi tutori, come ci ricorda Immanuel Kant nel suo Sapere
Aude, si sono arrogati la preorigativa di esercitare una speciale
sorveglianza delle persone comuni, mostrando loro il pericolo che le
minaccerebbe qualora tentassero di camminare da sole. Così facendo essi
mortificano «il sentimento della stima razionale del proprio valore e della
vocazione di ogni uomo a pensare da sé». La loro benevolenza e magnanimità è
una maschera, la loro retorica una bufala. Proviamo a riflettere
etnograficamente su un aspetto particolarmente visibile della cultura
contemporanea, l’uso metodico di eufemismi, sofismi e trappole semantiche come «esportare
la democrazia», «portare la pace», «proteggere la nostra libertà», «l’amore
vince sull’odio», «il prezzo della libertà», «guerra al terrore», «danni
collaterali», «difesa aggressiva», «cambio di regime», «omicidio
extra-giudiziario», «metodi d’interrogatorio più aggressivi», «crescita economica», «consegne
straordinarie» (extraordinary renditions), «promotori della libertà» e «religione
della libertà», «intelligence», «combattenti nemici illegali», «Patriot Act»,
«flessibilità d’impiego», «non è questo il problema» e «non è questo il momento»,
«stati canaglia», «ateo devoto», «bombe intelligenti», «missione di pace», ecc.
La lingua è la via maestra per raggiungere una comprensione il più possibile
obiettiva del mondo, ma manipolarla non è difficile. L’effetto può essere
paragonabile ad un’induzione ipnotica e può rendere concepibile ed accettabile
ciò che prima non lo era. Non bisogna dunque sottovalutare il potere che un
linguaggio esercita su di noi. Il grande antropologo statunitense Eric Wolf,
che qui celebriamo, esortava i colleghi ad «esplorare il nesso tra idee e
potere», ad esaminare il modo in cui «le idee divengono monopolio dei gruppi di
potere» e come «le vecchie idee sono riformulate alla luce della diversità di
contesto, mentre le nuove idee sono presentate come verità ancestrali».
Sfruttando ritmi, allusioni, ambivalenze, toni perentori ed apodittici,
ambiguità e reiterazioni insistite, analogie, metafore, allegorie, acronimi,
eufemismi, slogan, parole-chiave, tormentoni, gergalità, l’associazione e la
risonanza psicologica e simbolica di certe espressioni comuni può acquisire
delle dimensioni nuove e subdole. In questo modo la comunicazione linguistica
può essere pervertita per generare confusione nel lettore, o una falsa
consapevolezza, in modo da prenderlo per mano e fargli accettare idee che non
avrebbe mai accettato se fossero state presentate con un’esposizione chiara e
responsabile. Purtroppo il nostro cervello non è sempre in grado di individuare
affermazioni contraddittorie ed incoerenti perché tende a completare frasi e
pensieri e correggere errori in modo da dare loro un senso, come quando vediamo
un’insegna luminosa con la scritta «mtel» e sappiamo che significa «motel».
George Orwell ammoniva che la cosa peggiore che si può fare con le parole è
arrendervisi, lasciare che esse controllino i nostri pensieri. Dobbiamo
ascoltare e leggere attentamente le parole che ci piovono addosso per evitare
che divengano mantra capaci di ottundere la nostra capacità di discernimento.
Pensiamo a cosa successe nel Terzo Reich, che coniò un suo linguaggio, la Lingua
Tertii Imperii, la chiamava Victor Klemperer. I nazisti fabbricarono la
loro newspeak, uno strumento di oppressione e disinformazione
disumanizzante formato attraverso la destrutturazione del tedesco
convenzionale. L’omicidio di massa divenne eutanasia, la soluzione finale
designava il genocidio, il trattamento speciale copriva l’assassinio, essere devoti
significava essere fanatici, lavorare in un campo di sterminio rendeva liberi,
gli avvocati e giuristi furono trasformati in «tutori della legge» ed i libri
di testo scolastici impiegarono un vocabolario semplificato per limitare il
ragionamento critico. La targa all’ingresso del campo di Buchenwald recitava
JEDEM DAS SEINE, «a ciascuno il suo».
Tutto questo dimostra la validità dell’osservazione di
Friedrich August von Hayek,
che
«il modo più efficace per far sì che il popolo accetti la
validità dei valori che deve servire è di persuaderlo che si tratta in fondo
degli stessi valori che si sono sempre sostenuti, almeno da parte delle persone
migliori, ma che prima non erano completamente compresi o riconosciuti… E la
tecnica più efficace a questo fine è di usare le vecchie parole cambiandone il
significato. Pochi tratti dei regimi totalitari sono … così caratteristici dell’intero
clima intellettuale come la completa perversione del linguaggio».
Messinscena e mimetismo – la maschera del potere
In Envisioning Power, Eric R. Wolf riporta una sua
riflessione che considero ancora estremamente attuale, a distanza di oltre
dieci anni dalla pubblicazione dell’opera. Queste le sue parole:
«Per diverso tempo ho pensato che tanto di quel buon
lavoro che si fa nelle scienze umane non raggiunge gli scopi prefissati perché
manca la volontà o la capacità di venire a capo del modo in cui le relazioni
sociali e le configurazioni culturali sono intrecciate alle relazioni di
potere. Gli antropologi hanno fatto grande affidamento su certe nozioni che
spiegano la coerenza culturale come il risultato di logiche culturali,
linguistiche ed estetiche. Di conseguenza, non si è prestata sufficiente
attenzione a come il potere strutturi gli ambiti in cui questo tipo di stimoli
prende forma, oppure a come il potere è coinvolto nella riproduzione di queste
disposizioni».
Chi è al potere ha buon gioco con noi, con le persone
ordinarie, perché esiste un’umana abitudine alla proiezione che ci spinge ad
attribuire a qualcuno le sensazioni che suscita in noi. Se la forma è bella e
piacevole, allora lo sarà anche la sostanza. Se il lupo si traveste da agnello,
noi pensiamo che sia mansueto, perché la sua lana è morbida. La propaganda, la
mimesi, non inganna le persone, le aiuta ad ingannarsi. Le maschere non coprono
gli occhi, lo specchio dell’anima, ma noi non osiamo fissarli. Guardiamo in
basso, perché siamo stati abituati a farlo da sempre, di fronte al potere che,
per abitudine relativizza camaleonticamente ciò che lo riguarda ed assolutizza
invece ciò che riguarda i «sudditi». In quest’ultima sezione tento di
mostrare il carattere empatocida (nocivo all’empatia e quindi all’integrità
morale) dei travestimenti del potere com’è stato concepito e rappresentato dall’immaginario
simbolico umano, il punto d’incontro di etnografia, psicologia e psicanalisi.
La coulrofobia è la paura irrazionale dei clown e, per
estensione, delle figure mascherate. Causa sudori, tremori, pianto,
palpitazioni e perfino attacchi di panico. È sorprendentemente diffusa e non se
ne conoscono con certezza le cause. Si sa che le persone che ne sono affette
non sopportano la vista neppure di maschere comiche e felici. È più che
probabile che l’origine di questa sindrome vada ricercata nel carattere
non-umano della maschera e nella sua funzione di occultamento delle reali
emozioni ed intenzioni di chi la indossa. Infatti quasi sempre queste persone
non sono intimorite da un travestimento che lascia scoperto il volto. Un’intervistata
mi ha spiegato che la inquietano anche «le persone che indossano i caschi e gli
occhiali molto scuri, perché sembrano statue». Infatti la fobia delle maschere è
spesso legata alla fobia degli automi e di figure umanoidi, cioè non pienamente
umane. Philip K. Dick, forse il più grande scrittore di fantascienza della
storia, soffriva di questa fobia: «Ma ciò che mi spaventava di più era quando
mio padre indossava la maschera. Il suo volto spariva. Non era più mio padre.
Non era più un essere umano». In un convegno del 1976 a Vancouver, dichiarò:
«Dobbiamo stare attenti a non confondere la maschera,
qualunque maschera, con la realtà retrostante. … Nell’universo esistono cose
gelide e crudeli, a cui io ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento
mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me
la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non
essendolo.
In questo caso le chiamo “androidi”. Per “androide” non
intendo il risultato di un onesto tentativo di ricreare in laboratorio un
essere umano. Mi riferisco invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo
crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile. Che ciò avvenga in un
laboratorio o meno non ha molta importanza: l’intero universo è una sorta di
enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità che ci sorridono
tendendoci la mano. Ma la loro stretta è quella della morte, e il loro sorriso è
di un gelo tombale».
Dick soffriva di allucinazioni visive. Un caso analogo è
quello di Friedrich
Nietzsche, che a 24 anni scriveva:
«Ciò ch’io temo non è l’orrenda figura dietro la mia
sedia, ma la sua voce; e nemmeno le parole, bensì il tono terribilmente
inarticolato e disumano di questa figura. Sì, se parlasse almeno come parlano
gli uomini!».
In entrambi troviamo il tema dell’occultamento/mimèsi («maschere ghignanti», «spacciandosi con successo per
un nostro simile» – «dietro
la sedia») e quello della
meccanizzazione («cose
gelide e crudeli», «l’armatura metallica», «tratti gelidi, la severità
marziale, senza il minimo segno di compassione» – «Tono inarticolato e disumano»). Se un’elevatissima capacità
empatica è la caratteristica che meglio definisce l’umano al suo meglio, allora
maschere e androidi, che sono anempatici – cioè rendono impossibile riconoscere ed identificarsi con i sentimenti e le
necessità del prossimo – interferiscono con i nostri
processi di socializzazione, interferiscono con il nostro essere umani. Abbiamo
paura di maschere ed androidi perché non li capiamo. Una mente ed un volto senza compassione
ed empatia ci appaiono come una forma di stortura evolutiva, una nociva
stoltezza. È la simpatia immaginativa che ci rammenta che non siamo più
importanti degli altri, che il loro dolore non è meno significativo del nostro.
Chi non la prova, la sopprime, o la nasconde è pericoloso, è un potenziale
psicopatico, la nemesi dell’umano; non pensa esistano azioni immorali perché il
suo orientamento è puramente strumentale: noi stessi, ai suoi occhi, siamo
mezzi per realizzare un fine. Questo è il Primo Terrore. Il Secondo Terrore è
che maschere e macchine ci facciano diventare come loro. Che ci tolgano una
delle funzioni basilari dell’umano, la scelta morale tra bene e male; che ci
trasformino in un’arancia meccanica, senza polpa dentro, in un apparato eterodiretto,
non più un autentico essere vivente.
Ogni persona ha un repertorio di maschere da indossare
per gli altri (non per se stessi). La maschera diventa la realtà, la nostra
vera identità. Il nostro sé autentico può essere parzialmente ricostruito solo
a partire dal tipo di maschera che uno si è scelto (o che gli è stato
assegnato). La maschera ha un potere su di noi. Pizzorno spiega che i Dogon la
chiamano imina – ciò che cattura e fissa il nyama, il mana, l’essenza, l’anima,
la potenza di ogni cosa –. La maschera di fatto abolisce la persona
pietrificandone l’espressione, esiliando la manifestazione dei sentimenti,
rendendola identica a se stessa attraverso il tempo, priva di vita. Effetto
Gorgone. Frobenius parla di Ergriffenheit, l’essere afferrato, l’essere in
preda ad uno stato in cui l’uomo forma un tutt’uno con la realtà, in completa
identificazione con essa.
La Maschera ha un enorme potere anche sugli altri. È un
elemento fondamentale nelle società segrete maschili. È una «falsa faccia»,
come la chiamano gli Irochesi. Il diavolo appare per la prima volta agli uomini
sotto le sembianze di un serpente. Gli Anticristo, dicono le cosiddette «Sacre
Scritture», assumeranno le sembianze di Angeli di Luce, lupi travestiti da
agnelli. Nella bellissima animazione Coraline, il ragno al centro della
ragnatela cosmica, l’incarnazione del male, finge di essere una madre perfetta,
migliore di quella vera. Promette di tenere con sé la bambina nel suo fasullo
Paradiso Terrestre se questa lascerà che i suoi occhi siano sostituiti da
bottoni. Meccanizza, mineralizza, oggettifica, come la Gorgone.
Esaminiamo meglio la maschera della Medusa o Gorgone.
Essa appare sovente nell’arte etrusca e in latino «larva» e «persona» sono
sinonimi, stanno ad indicare gli spettri e le maschere. Come mai? «Persona»
deriva etimologicamente da Phersu (phèrsuna, «appartenente al Phersu», ossia la
maschera, appunto), termine etrusco collegato a Perseo e Persefone (Phersipnai)
e forse persino a Parsifal, del ciclo arturiano, l’unico cavaliere che è
riuscito a rintracciare il Re Pescatore ed il Sacro Graal. Nella Tomba degli Àuguri
a Tarquinia (VI secolo a. C.), Phersu (si pronuncia «fersu», come fertilità e
ferino) è rappresentato con una maschera sul volto, una barba probabilmente
posticcia, una giubba maculata ed un cappuccio. Compare in coppia con un
guerriero dalla testa avvolta in un panno che brandisce una nodosa clava con la
quale si difende da un molosso che lo azzanna e che è tenuto al guinzaglio
dallo stesso Phersu. Forse ludi gladiatori associati a rituali funerari.
Altrove Phersu appare anche mentre danza e suona con la testa rivolta all’indietro
o con una clava ed uno scudo. È stato fatto notare che nelle pitture murali
etrusche Ade è raffigurato con un cappuccio di pelle di lupo o cane che
richiama il kunee usato da Perseo e la maschera di Phersu. Ecco la descrizione
di Hermes: uomo barbuto con un copricapo (un pilos con il cocuzzolo appuntito)
e un corto mantello, indossa stivali alati e porta il caduceo. A volte corre o
danza suonando la lira e guardando dietro di sé al di sopra della spalla. Altre
volte suona la lira mentre guida una processione sacrificale che comprende
Eracle (con la sua pelle di leone), che scorta agli Inferi, esattamente come fa
con Perseo o Ulisse. Hermes è un furbone, ma aiuta in ogni modo i due eroi, che
Atlante invece confonde, forse perché si tratta dello stesso eroe proveniente
da due tradizioni diverse che si sono fuse. Hermes e Phersu sono psychopompos,
guidano le anime dei morti e proteggono i viventi che si addentrano nell’Ade.
Hermes aiuta Perseo a sconfiggere Medusa e a prendere la Gorgeiè képhalè, testa
della Gorgone. La stessa espressione è usata nell’Odissea quando Ulisse teme l’arrivo
improvviso di una testa mostruosa che lo impietrirebbe all’istante, poiché l’Ade
non è posto per i viventi. Di nuovo il tema della pietrificazione.
Quella testa terribile è proprietà di Persefone, signora
dell’Ade, che la usa come guardiana, come Cerbero. È la Maschera del Potere
supremo, quello di vita e di morte, di progressione bio-spirituale o di
regressione allo stato minerale, il più remoto gradino dell’evoluzione. Potenza
di terrore. Gli astronomi arabi chiamano la costellazione Perseo Hamil Ras al
Ghul, «Colui che porta la testa di Ghul», cioè Beta Persei, la stella Algol, la
più diabolica e nefasta del cielo, che prende il nome da un demone o un’orca
del deserto che assale i viaggiatori e li divora cominciando dai piedi. Gli
Ebrei la chiamano Rosh ha Satan, la testa di Satana.
Quella di Perseo è un’impresa epocale. Omero lo definisce
«preminente tra tutti gli uomini». Da quel momento in poi la Maschera del
Potere della Gorgone diventa strumento per rettificare i torti e le ingiustizie
del passato, ristabilendo gli equilibri cosmici. Ercole taglia le teste dell’Idra,
Perseo quella di Medusa, per poi uccidere il drago che tiene prigioniera
Andromeda. Anche San Michele uccide il drago, diventando la controparte
cristiana di Perseo. E dov’è il drago vicino al San Michele trentino? È il
Basilisco di Mezzocorona, che si fa fregare da uno specchio: risponde ad ogni
sguardo con il medesimo sguardo, a ogni suo gesto con un simmetrico gesto e,
così distratto, si fa uccidere, diventa polvere. Riduzione allo stato minerale.
Come Narciso, il Basilisco si ammira e perde di vista la realtà vera, è sviato
dal suo doppio, dalla maschera. Così è per Medusa: uno specchio la condanna
riflettendo il suo sguardo mortifero. San Michele è lo sterminatore dell’Anticristo
– il quintessenziale psicopatico, che indossa la maschera della santità per
sedurre le vittime, come ogni serial killer che si rispetti – alla fine dei
tempi, sarà l’accompagnatore delle anime dei morti in cielo (psicopompo),
soppesatore delle colpe e dei peccati delle anime medesime nel giorno del
giudizio, protettore dell’umanità dalle calamità naturali.
Pare di poter dire che, quantomeno nell’ambito
mediterraneo e medio-orientale, la caratteristica precipua dell’eroe
civilizzatore o salvatore – il vero e proprio Menschenfreund – sia quella di
combattere contro la Maschera del Potere, il cui tratto distintivo sembra
essere la facoltà di tramutare in pietra o polverizzare chi non sa guardare
oltre le apparenze, chi non riconosce la minaccia che si cela dietro di essa.
Di che minaccia si tratta? Io credo che il significato ultimo di questo mitema,
la sua morale più profonda sia quella di non rinunciare alla propria coscienza,
non fuggire dalla vita nel nulla, non peccare contro se stessi. E come si pecca
contro se stessi? Credendosi dèi, crogiolandosi nel potere, nella potenza,
nella manipolazione del prossimo, nella brutalità e nell’egoismo. Gli eroi sono
tutti individui con una personalità forte, schierata in favore della dignità e
del rispetto verso il prossimo. La Maschera invece de-individualizza,
de-identifica, disumanizza, equivale ad un suicidio spirituale, a volte
preludio a quello fisico. La Maschera nasconde il parassita, il vampiro, chi fa
brucare al gregge l’ultima erba che non ricrescerà, chi vuol ricevere tutti i
vantaggi del bene pubblico scaricando sugli altri i costi, chi prende sempre ed
evita di dare, chi indulge nella brutalità sadistica, nell’ingratitudine
cronica, nell’indiscrezione patologica chi, caduto, vive all’unico scopo di
trascinare altri con sé nell’abisso. I suoi occhi possono essere belli,
intelligenti e potenti, ma sono tetri, vuoti, inanimati, esattamente come
quelli di uno psicopatico.
La via dell’Eroe è ascendente e convergente – verso Dio,
l’ordine, l’amore e soprattutto la conoscenza. La via della Maschera è
discendente – verso l’entropia, l’odio, l’ignoranza, il buco nero, la
dissoluzione nella materia grezza. Per questo chi incontra la Maschera del
Potere e non vi si oppone finisce pietrificato, privato dell’empatia, della coscienza
e dell’anima. Peccare contro di sé, significherebbe, in pratica, scegliere un
percorso che ci degrada invece di esaltarci, che pone la nostra spiritualità al
servizio di scopi materialistici. La Maschera è il tentatore, che si
impadronisce di chi cede volontariamente alle tentazioni, accecato dall’ignoranza,
che induce un cattivo uso del libero arbitrio, che ne causa la negazione.
Purtroppo l’uomo è affascinato dal Potere, non può più
distogliere lo sguardo. Si fa assorbire, risucchiare nel suo vortice,
imprigionare nel suo regno, dopo essere stato strappato a se stesso, alla
propria identità, individualità, personalità, indipendenza di giudizio. È
invaso e posseduto dalla Maschera del Potere e non se ne rende conto. Si fa
mettere le redini, domare, addomesticare ed addestrare. La Maschera del Potere
promette ai suoi seguaci un potere infinito, ma per poterselo guadagnare
dovranno accumulare una conoscenza infinita. In cambio di questa conoscenza
giurano fedeltà perpetua alla Maschera e sono così perduti, hanno venduto l’anima
e sono condannati a servire in eterno, tramutati in pietre o automi, lungo il
ramo discendente della vita e dell’evoluzione. È il rischio che corre Dottor
Bill, in Eyes Wide Shut, quando la curiosità lo sta per fagocitare in un gorgo
di corruzione e violenza governato da potenti mascherati. Ma ha la possibilità
di scegliere e si salva, torna a casa come Dorothy, nel «Meraviglioso Mago di
Oz»: «Casa dolce casa». La Maschera del Potere inganna e manipola, ma non può
violare il libero arbitrio, può solo influenzare le persone facendole
sbagliare. È quel che fa con Eva, nel Paradiso Terrestre.
Cosa c’è dietro la Maschera? Il nulla originario del
francese personne, nessuno. Un Buco Nero che assorbe ciò che non può riempire
il suo vuoto. La smania di controllare, di parassitare, di schiavizzare, di
vampirizzare, di plasmare il prossimo, considerandolo una mera proprietà. L’ottusità
meccanomorfa di chi brama un costante aumento dell’ordine, del potere, della
prevedibilità e del controllo. La necrofilia, ossia l’attrazione per ciò che è
puramente meccanico, esangue, corazzato, prescrittivo, predeterminato,
deumanizzato, rigido, devivificato, irreggimentato e monolitico, sviscerato in
quanto robotico, distruttore dei nessi vitali. Ciò che è morto, ma si rifiuta
di prenderne coscienza, s’aggrappa a ciò che è vivo, come gli strigoi/vampiri
rumeni, per assorbirne la forza vitale. In questo modo si illude di poter
continuare a negare la sua transitorietà e permeabilità. Masca è il vocabolo
longobardo che corrisponde al latino striga e che denomina un mostruoso
trapassato che divora i vivi. È un qualcosa di essenzialmente diverso dalla
vita e ne esorcizza l’assenza, ma allo stesso tempo può generare un’esistenza
parallela, fittizia, formalmente immutabile e perpetua, che attira chi è
insicuro della propria salvezza e dell’esistenza di una vita ultraterrena, chi
ha paura della vita e della morte e quindi brama il potere, direttamente o per
interposta persona, come appiglio per non sprofondare nell’abisso, come il
cornicione per Rick Deckard
in Blade Runner.
Non è forse vero che ogni motto dei falangisti, dei repubblichini, delle
Guardie di Ferro romene, delle SS e dei samurai era un peana in favore della
morte, un inno alla mistica della violenza e della guerra, una manifestazione
del loro disprezzo per la compassione, l’empatia, la vita stessa, troppo
spontanea, creativa, mutevole, calda, amorevole, fluida, imprevedibile,
liquida, sensuale, impura e promiscua? Il potere parla di trascendenza e spiritualità,
ma sono termini ai quali conferisce un senso ben diverso. Questa spiritualità
non trascende la materia, la compenetra è, in modo apparentemente
contraddittorio, uno spiritualismo materialista incentrato sull’assolutizzazione
di questo mondo. È un feticismo della materia che ambisce a trascenderla solo
per governarla meglio. Potere significa diritto di disprezzare, uccidere e
rimodellare la Creazione a proprio piacimento. Significa un ego mascolino
armato e corazzato per affrontare un mondo che avverte sempre sull’orlo della
disintegrazione. Il Potere è insicuro ma indossa la maschera della marzialità,
della solidità, dell’inamovibilità, del turgore fallico, del corpo-macchina che
ama le strutture rigide e prescrittive, che rassicurano, placano, confortano,
tengono sotto controllo i pericoli emozionali e forniscono confini e barriere
nette. Il Potere predica il relativismo dei valori, ma solo per sopprimere le
virtù primarie ed i principi più nobili, al fine di sostituirli più agevolmente
con i suoi valori, con il suo intransigente moralismo, con il suo linguaggio
sterile e fraudolento, con la sua fede in un certo ordine ed armonia della
natura e del cosmo, in favore dei quali si possono sacrificare i peccatori,
ossia i dissidenti, cioè a dire quelli che lo smascherano.
Link utili
Bibliografia
K. Theweleit, Fantasie virili, Milano, Il saggiatore,
1997.
J.-P. Vernant, Mortals and immortals: collected essays,
Princeton, N.J., Princeton university press, 1992.
J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci: studi di
psicologia storica, Milano, Mondolibri, 2001.
J.-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, Milano, Il
saggiatore, 2001.
E.R. Wolf, Anthropology, Englewood Cliffs, N.J.,
Prentice-Hall, 1974.
E.R. Wolf, Envisioning Power: Ideologies of Dominance and
Power, Berkeley; Los Angeles, University of California Press, 1999.
E.R. Wolf, S. Silverman, Pathways of Power: Building an
Anthropology of the Modern World, Berkeley; Los Angeles, University of
California Press, 1999.
Nessun commento:
Posta un commento