Le conclusioni degli storici non lasciano spazio al
dubbio: l'Opera di soccorso Kinder der Landstrasse è un tragico esempio di
discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di
vita della maggioranza.
Ruth Dreyfuss, ex-consigliere federale e presidente della
confederazione elvetica nel 1999.
L’evidente giro di vite imposto nel 1938 alla politica
svizzera nei confronti dei profughi non faceva che segnare una recrudescenza
dell’ostilità verso certe persone e gruppi sociali che, delineatasi sin
dall’inizio del Novecento, era andata rinforzandosi negli anni Venti. In
concreto, tale sviluppo si manifestò nel trattamento riservato a rom, sinti e
jenische, cui a partire dal 1926 vennero sistematicamente sottratti i figli.
Questo ed altri fatti contraddicono l’immagine che, dall’Ottocento in poi, pone
la Confederazione in una tradizione umanitaria, la quale cristallizzatasi
nell’idea di sé del popolo svizzero, si prestava a legittimare moralmente la
neutralità del paese. […] Nel suo atteggiamento verso i profughi la neutrale
Svizzera non solo venne meno ai suoi propri parametri, ma violò pure elementari
principi di umanità.
Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera sul ruolo
della Confederazione nella Seconda Guerra Mondiale (2002).
La scrittrice elvetica Mariella Mehr, figlia di nomadi,
strappata ai genitori (definiti rispettivamente una prostituta ed un asociale),
sottoposta a “terapie” di elettrochoc, sterilizzata dopo averle tolto il
figlio, è la vittima più celebre – in tutto furono oltre 600 – di un programma
di assimilazione “umanitaria” dei nomadi nella società svizzera, gestito da un
ente benefico, la “Pro Juventute” (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse -
“Opera di assistenza ai bambini senza fissa dimora”, o Pro-Juventute), incaricato
di “proteggere i bambini minacciati di abbandono e di vagabondaggio”. Dobbiamo
ringraziare il suo talento letterario per averci reso edotti di quel che è
avvenuto nella nazione delle Convenzioni di Ginevra sul diritto internazionale
umanitario, dove si riunisce annualmente la Commissione dei Diritti Umani, dove
ha sede la Croce Rossa.
Laurence Jourdan, in un dossier de « Le Monde
Diplomatique » (« Chasse aux Tziganes en Suisse », ottobre 1999) ci spiega cosa
avvenne, specialmente nei cantoni di lingua tedesca e nel Ticino, tra il 1926
ed il 1972, periodo in cui ebbe luogo un’operazione di sedentarizzazione coatta
del popolo nomade, finanziata in parte con fondi federali e per il resto da
privati e fondazioni, portata avanti sotto la direzione di Alfred Siegfried
(1890-1972), determinato a “vincere il male del nomadismo alle sue radici, nei
bambini”. Operazione che, molto tardivamente, nel giugno del 1998, è stata
definitivamente condannata dall’allora consigliere federale Ruth Dreyfuss, come
“un tragico esempio di discriminazione e di persecuzione di una minoranza che
non partecipa allo stile di vita della maggioranza”. Solo nei primi anni
Settanta la rivista “Der schweizerische Beobachter” rivelò la brutale procedura
di assimilazione forzata messa in opera dalle autorità elvetiche ai danni degli
Jenisch, demograficamente la terza popolazione nomade europea dopo i Rom e i
Sinti, che si considera discendente dei celti (hanno spesso la pelle molto
bianca e gli occhi blu e dunque non è facile distinguerli dagli altri
svizzeri). Ne restano circa 35mila in Svizzera, di cui solo 5mila sono ancora
nomadi o semi-nomadi e, tra loro, forse i più celebri furono i magnifici
Fratelli Marx, comici d’eccezione per metà ebrei e per metà Jenisch. Oltre 600
bambini furono sottratti alle loro famiglie e trattati, per lo più, come
piccoli criminali in potenza da riformare preventivamente. I programmi di
assimilazione terminarono solo nel 1973, unicamente grazie allo scoop del
summenzionato periodico e si dovette attendere fino al 1987 per le prime scuse
ufficiali e il 1996 per l’avvio di una meticolosa inchiesta che si è conclusa
nel 1998. Nel 1988 erano ancora un centinaio i reclusi nelle cliniche e
riformatori. Fino agli anni Trenta il programma fu informato da principi
eugenetici e di igiene razziale: gli Jenisch erano considerati degenerati
razziali e rinchiusi in cliniche, orfanotrofi, penitenziari oppure
sterilizzati/castrati. L’obiettivo era esplicito: l’etnocidio. La cultura
Jenisch doveva scomparire dalla Svizzera perché reputata incompatibile con gli
standard elvetici. Il già citato Alfred Sigfried, il Grande Normalizzatore, fu
peraltro al centro di uno scandalo legato agli ambienti della pedofilia proprio
l’anno in cui fu nominato direttore del programma, usava metafore come “il
legno è troppo marcio” all’indirizzo dei nomadi, che vedeva come “una macchia
per la patria elvetica, così orgogliosa del suo vivere civile” ed era
fortemente influenzato dalle teorie dello psicologo nazista Robert Ritter,
direttore del centro di ricerche sull’igiene razziale e l’eredità all’ufficio
sanitario del Terzo Reich, secondo il quale il ritardo morale trae origine da
un ritardo mentale geneticamente trasmissibile. Ritter consultava archivi,
fotografava volti e raccoglieva misure antropometriche e campioni ematici dei
nomadi. Nel 1939 il suo istituto aveva schedato 20mila persone ed era giunto
alla conclusione che “abbiamo di fronte dei nomadi primitivi di una razza
distinta che non potranno essere resi sedentari né dall’educazione, né dalle
sanzioni” (Lewy, 2000). Nel 1932 cominciò a studiare sistematicamente la
questione dell’igiene razziale relativa a vagabondi, girovaghi, briganti, e
mezzo-sangue tzigani. La sua assistente, Eva Justin, scrisse dei Rom che erano
violatori dell’etica del lavoro tanto cara alla classe media tedesca perché
erano nomadi primitivi che si cullavano nel dolce far niente (Moriani, 1999).
Ritter esercitò una notevole influenza anche nel dibattito danese, durante il
periodo bellico, ma le autorità danesi preferirono appoggiare il progetto di
assimilare i Rom invece di sterminarli (Zylberman, 1987). In Svizzera la
strategia, descritta da Sigfried, fu quella di “far esplodere le comunità
nomadi…sopprimendo le unità familiari” e per questo si attendeva che i padri
cominciassero il servizio militare obbligatorio per entrare nelle loro case e
portar via i loro figli che avrebbero poi subito maltrattamenti, abusi sessuali
e torture e trasferiti da un’istituzione all’altra. Nell’intervista rilasciata
a Laurence Jourdan Mariella Mehr ha descritto la tecnica di tortura
dell’immersione in una vasca di acqua gelida finché non ci si decideva a
parlare: “Quando si accorsero che a tre anni rifiutavo di parlare, decisero di
farmi parlare per forza. Usavano una specie di vasca da bagno. [...]. Il
paziente veniva fatto sdraiare lì dentro, bloccato fino alla testa da un'asse
di legno perché non potesse uscirne. E là rimaneva finché l'acqua diventava
ghiacciata. Si poteva restarci anche per 17, 18 o 20 ore”. L’amara ironia,
somma ipocrisia e bancarotta morale di una società che si definiva esemplare
mentre torturava i minori, imponeva doveri senza assegnare diritti e che
predicava la rieducazione forzata di esseri umani che classificava come
“ereditariamente inferiori”, considerando il nomadismo un tratto genetico che
si trasferiva per via materna.
Pratiche del tutto accettabili in una società in
cui in quello stesso periodo, si eseguivano sterilizzazione involontarie - nel
Vaud e a Berna – per ragioni analoghe a quelle addotte in Svezia (Heller,
Jeanmonod, Gasser, 2002) ed in cui, nel corso della prima metà del ventesimo
secolo, quasi tutti gli psichiatri erano eugenisti o igienisti razziali
(Schwank, 1996). Anche in Svizzera, infatti, il discorso eugenista aveva una
matrice social-democratica ed era innestato nella più vasta narrazione dello
stato sociale. La costruzione dell’identità nazionale svizzera non si fondava
solo sul rispetto per la diversità ma anche sull’estirpamento di certe
differenze giudicate non-elvetiche o anti-elvetiche attraverso la mobilitazioni
di determinati “discorsi identitari” – la storia che un popolo ama raccontare
di se stesso – e non altri (Mottier, 2009). Sono queste storie che marcano i
confini del noi e dell’altro-da-noi e possono escludere quel che fino a prima
era parte di noi decretandone o accentuandone l’alterità. È perciò falsa
l’autopercezione svizzera di essere una nazione particolarmente accomodante nei
confronti delle differenze. Questo è vero solo in parte: la coesione sociale fu
conquistata ai danni di chi non era ritenuto degno di partecipare alla comunità
(Gerodetti, 2005).
Fu a Zurigo che il movimento della Lebensreform (“Riforma
della Vita”) attrasse alcune figure centrali di quella che sarebbe diventata la
dottrina dell’igiene razziale. Tra essi figuravano (1877-1950). Essi furono accomunati da un
prestigioso futuro professionale, da un orientamento apertamente razzista,
dalla convinzione post-illuminista che fosse essenziale arrivare ad un
controllo centralizzato sulla vita e la procreazione e da una viva predilezione
per una disciplina di recente formazione, l’economia umana, nata dalla fusione
di economia politica e medicina biologica e genetica, che aveva come scopo
ultimo una radicale riforma della società. Un riformismo che si sentiva
costretto come in una camicia di forza dai vincoli democratici. Gli specialisti
svizzeri, come i loro colleghi stranieri, si lamentavano senza sosta dei
vincoli democratici e dei sentimentalismi che li ostacolavano nella
realizzazione del loro vasto programma di rigenerazione della società. Avevano
formato un universo morale parallelo dove le loro pratiche erano completamente
legittime ed a cui aderirono anche molti, troppi politici e funzionari
(Huonker, 2003). Persino lo psichiatra e neuroanatomista Auguste Forel
(1848-1931), pioniere della teoria neuronale, socialista, pacifista ed
umanitarista era in prima linea: si proponeva di donare alla nazione un’armata
di lavoratori efficienti e disciplinati, in perfetta salute e, per raggiungere
questo scopo, non escludeva neppure l’impiego dell’eutanasia, una posizione che
motivava chiamando in causa le nozioni di rischio e di eccezione (Ehrenström,
1993).
L’eugenismo svizzero, come le altre forme di eugenismo
euro-americane si configura come una tipologia di giardinaggio sociale, un
processo di riordino infastidito dall’ambivalenza, dalla prospettiva di poter
assegnare un oggetto o una persona a più di una categoria e dai mutamenti, che
rendono contingenti tutte le classificazioni. La rimozione dei bambini nomadi
dai loro genitori per affidarli ad orfanotrofi statali va letta all’interno di
questo quadro e trova delle sinistre e probabilmente non casuali corrispondenze
in analoghe iniziative australiane e canadesi ai danni dei rispettivi indigeni.
Tutti questi casi sono accomunati da pregiudizi, razzismo “scientifico”
(scientizzato), nazionalismo, desiderio di eliminare fisicamente il diverso,
sottrazione dei figli ai genitori della tipologia umana e della cultura
“sbagliata”, eugenismo, igiene razziale, legalismi utili ad aggirare i diritti
fondamentali, assimilazione coatta, progressismo e darwinismo sociale (Huonker,
1987; Kreis, 1992; Keller, 1995; Armitage, 1995; Tatz, 2001).
Le attività di sterilizzazione e di assimilazione non
sarebbero però mai stati sufficienti a rigenerare la nazione. Il pastore
protestante Hercli Bertogg evocava costantemente la minaccia nomadica: un
popolo sedentario di forte tempra morale e religiosa era seriamente a rischio
di essere distrutto dalla pigrizia, immoralità e magia di nomadi e vagabondi
(Ludi, 2006). Per questo la persecuzione nazista dei nomadi non fu mai
denunciata apertamente in Svizzera fino al fatidico anno 1972, data in cui morì
Alfred Siegfried e fu pubblicata la prima inchiesta. Fino a quello stesso anno
i nomadi Rom non potevano entrare in Svizzera e solo nel 1998 la Svizzera ha
ufficialmente riconosciuto i non-sedentari (nicht Sesshafte) come una minoranza
nazionale pari alle altre. Ma ci è voluto del tempo per strappare le più
importanti ammissioni, riguardo alle responsabilità di criminologi e poliziotti
svizzeri che non trovarono nulla di sconveniente nel collaborare con riviste,
inchieste e commissioni controllate dai nazisti, anche laddove il risultato
erano politiche genocidarie. Oppure riguardo ad una vicenda del 1942, quando un
cittadino svizzero informò il consolato elvetico di Amburgo degli eccidi a cui
erano sottoposti gli zingari nell’Europa Orientale, senza che ciò influenzasse
minimamente l’atteggiamento delle autorità cantonali e confederali.
L’interdizione ad entrare nel territorio elvetico rimase in vigore. Alcuni
furono consegnati ai nazisti a dispetto delle direttive che imponevano di non
espellere cittadini stranieri la cui vita fosse a rischio per ragioni di ordine
politico o altro. Quelli con cittadinanza elvetica e che si trovavano
all’estero non poterono avvalersene per salvarsi la vita. Altri, che possedevano
passaporti italiani o sudamericani, furono più fortunati: i rispettivi
diplomatici intervennero a loro tutela (Ludi, 2006).
Non furono solamente i gitani a subire l’impatto delle
politiche “protezionistiche” elvetiche. A partire dall’estate del 1942, la
confederazione elvetica chiuse le frontiere ai rifugiati ebrei, sebbene fosse
in possesso di tutte le informazioni necessarie a capire che stava condannando
a morte certa migliaia di persone. Dagli anni Trenta in Svizzera si era diffusa
la convinzione che impedendo l’accesso agli Ebrei si sarebbero evitati i
disordini legati all’antisemitismo, come se la colpa fosse delle vittime della
persecuzione nazista. Così, paradossalmente, i residenti stranieri in Svizzera
diminuirono invece di aumentare e i rifugiati continuarono ad essere visti come
un fattore di instabilità e di contagio morale e virale (Ludi, 2009).
Finalmente, nel 2002, la Commissione Indipendente
d’Esperti Svizzera sul ruolo della Confederazione nella Seconda Guerra
Mondiale, ha reso pubbliche le risultanze delle sue ricerche, che sono
devastanti per l’immagine del Paese (Bergier et al. 2002). Riguardo alla
chiusura delle frontiere nel 1942, gli esperti hanno concluso che: “Quando le
autorità svizzere decisero di chiudere la frontiera, in quel mese d’agosto,
esse erano perfettamente informate. E c’è da chiedersi come mai, alla fine
dell’anno, dopo che le innumerevoli informazioni si fossero ormai condensate in
certezza e dopo che gli Alleati, il 17 dicembre, avessero reso pubblico e
condannato il genocidio in atto, esse abbiano ulteriormente inasprito i criteri
d’accettazione e si siano attenute ancora per mesi alla loro politica
restrittiva in tema d’asilo” (pp. 117-118). Sugli effetti di questa politica
restrittiva: “Attraverso varie misure tendenti a rendere la fuga ancora più
difficile e con la diretta consegna dei profughi ai loro aguzzini, esse
contribuirono a far sì che i nazisti potessero raggiungere i loro obiettivi”
(pp. 162-163). Inoltre: “Mentre erano molto graditi i capitali esteri, che
usufruivano di protezione giuridica e del segreto bancario, si impediva
l’ingresso a uomini e donne perseguitati e spogliati dei loro beni dal regime
nazista… in un momento cruciale, quando ragioni geografiche facevano della
Svizzera l’ultima speranza di salvezza per molte persone in pericolo; esse
rifiutarono pure di includere figli di ebrei fra i bambini accolti
temporaneamente. Per molti anni ancora, motivi culturali o etnici negarono
l’entrata a gente che aveva già sofferto le persecuzioni naziste” (p. 491).
Dopo aver evidenziato l’accettazione delle leggi razziali del Terzo Reich ed il
contributo industriale, economico-finanziario, tecnico-scientifico e logistico
alla macchina bellica dell’Asse, la Commissione elenca, in sintesi, le maggiori
responsabilità elvetiche: “Il timbro con la «J» del 1938, il respingimento di
profughi che rischiavano la morte, l’esitazione nell’offrire protezione
diplomatica a propri cittadini, i generosi crediti concessi dalla
Confederazione alle potenze dell’Asse nell’ambito dell’accordo di clearing,
l’aver tollerato troppo a lungo il transito di merci favorevole alla Germania
attraverso le Alpi, le forniture di armi allo Stato nazista, i privilegi
finanziari offerti all’Italia e alla Germania, le polizze assicurative liquidate
in favore del regime nazista invece che dei titolari, l’equivoco commercio in
oro e beni depredati, l’impiego di circa 11mila lavoratori coatti nelle
associate svizzere nel Terzo Reich, l’assenza di volontà e l’evidente
trascuratezza messe in atto nella questione delle restituzioni, l’ospitalità
offerta nel dopoguerra a personalità del regime nazista considerate
«rispettabili cittadini tedeschi»” (p. 513).
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