giovedì 20 ottobre 2011
Trauttmansdorff o Rosengarten? A proposito di apartheid
ESTRATTO DA
Stefano Fait e Mauro Fattor, "Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso", Raetia, 2010, 224 pagine.
"Un prato con molti fiori diversi è più bello di un prato dove cresce
una sola varietà di fiori"
Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka
Chi parla di apartheid a proposito della situazione altoatesina non
viene quasi mai preso sul serio e, quando ciò avviene, è spesso solo
per esprimere la propria indignazione nei confronti di chi stabilisce
un parallelo così infelicemente indelicato nei confronti di chi ha
sofferto realmente a causa del regime segregazionista sudafricano.
In pratica si accusa il provocatore di avere poche idee e pure confuse
a proposito di entrambe le realtà. In passato io stesso ho usato il
termine apartheid per definire la segmentazione etnica altoatesina e,
pur essendo perfettamente consapevole della necessità di avanzare
numerosi e doverosi distinguo, ritengo che chi afferma di non dovere
neppure prendere in considerazione il confronto non sia pienamente
al corrente delle sostanziali affinità tra le radici del pensiero
razziale sudafricano e quelle del patriottismo etnicista sudtirolese.
È bene dunque dedicare un capitolo a questa disputa perché altrimenti
si continuerà pervicacemente a credere che, in tempi ragionevoli,
in Alto Adige si potrà un giorno giungere alla separazione finale
tra autonomismo e segmentazione etnica, preludio di una
scelta di autodeterminazione politica più matura e persino condivisibile.
Queste, secondo me, sono vane illusioni giacché, localmente,
autonomia ed etnicismo (ossia razzismo) esistono e si sostengono
vicendevolmente in una relazione simbiotica. Solo la libera e determinata
scelta di migliaia di residenti di varcare il confine etnico,
cioè di “contaminare” deliberatamente la propria appartenenza originaria
ed abbracciare una pluriappartenenza potrà cambiare le
cose. Quanti sono stati disposti a farlo finora? Solo alcune migliaia
di persone in poco più di novant’anni di convivenza forzata. Inoltre
si può prevedere che il continuo afflusso di immigrati causerà un
ulteriore irrigidimento dei confini etnici – come dimostrano i successi
delle destre etnopopuliste nell’area alpina di lingua tedesca.
Ci vorrà del tempo, come ci è voluto molto tempo per abbattere il
regime segregazionista, ma l’etnocrazia altoatesina è destinata ad
essere spazzata via dalla Storia. La questione è come far sì che ciò
avvenga senza spargimenti di sangue.
Possiamo iniziare prendendo in esame la questione demografica.
Israele, la popolazione bianca sudafricana, i Figiani, gli abitanti del
Québec, i Sudtirolesi e tanti altri popoli dove il criterio dell’ethnos
non è ancora stato sostituito da quello del demos, sono accomunati
dalla paura di essere numericamente schiacciati da una maggioranza
etnicamente diversa, che metterebbe a repentaglio la stabilità del
modello socio-amministrativo etnocratico che hanno messo in piedi
per tutelare i propri interessi collettivi. Solo in Sudafrica e negli
stati confederati statunitensi questa paura si è tradotta in specifiche
misure di vera e propria segregazione etnica, ma il potenziale per
una deriva analoga è presente in tutte queste realtà e, paradossalmente,
proprio in virtù del richiamo ai diritti inviolabili dei popoli,
tra i quali quello all’integrità e l’autenticità, estensione del discorso
dei diritti naturali. Questo tipo di interpretazione comunitarista dei
diritti naturali in pratica giustifica una serie di interferenze o violazioni
della sfera privata nella misura in cui questo possa portare dei
benefici ai gruppi in questione. Tuttavia se ogni diritto comporta un
dovere, come si può assegnare alcun tipo di responsabilità ad un
gruppo per la condotta dei suoi membri? Nessun sistema penale
avanzato lo potrebbe prendere nella pur minima considerazione.
Giungiamo così al pericoloso paradosso che le persone hanno maggiori
diritti se sono etnicamente definite senza che ciò comporti
maggiori responsabilità verso l’esterno, ma piuttosto un esubero di
doveri collettivi (verso il gruppo stesso), a discapito della creatività,
del diritto al dissenso e, nel complesso, del progresso civile e morale.
Questo è un paradosso intrinseco al rapporto tra democrazia e
diritti umani. Infatti la democrazia non è di per sé favorevole alla
tutela e promozione dei diritti umani in ogni circostanza. Al contrario,
la Storia insegna che “il popolo”, usando discrezionalmente i
poteri dello Stato, non ha perso molte occasioni per imporre la sua
volontà a chi non ne faceva parte, etichettato come inferiore o nocivo.
Dunque, come raccomanda Jack Donnelly, uno dei massimi
studiosi mondiali di diritti umani e relazioni internazionali, “gli attivisti
per i diritti umani devono essere almeno tanto diffidenti del
popolo quanto lo sono degli Stati e nel contempo devono servirsi
dello Stato per proteggersi dalle passioni popolari e dai pregiudizi”
(Donnelly 1998, 403). L’unico modo per riuscirvi è trasformare lo
Stato “da uno strumento nelle mani di un gruppo dominante – e non
solo quando si tratta di una piccola aristocrazia ereditaria, un potente
gruppo di capitalisti plutocrati, l’esercito, o un partito totalitario,
ma anche quando è la maggioranza di una società ad essere politicamente
dominante – ad un guardiano dei diritti umani di ogni cittadino”
(Donnelly 1998, 404).
Cerchiamo di capire meglio come questo paradosso fondamentale
prese forma nel Sudafrica del secondo dopoguerra, dove per popolo
s’intendeva la minoranza bianca. Il Partito Nazionale (che rappresentava
i nazionalisti Afrikaner) salì al potere nel 1948 e s’incaricò
di istituire il cosiddetto “apartheid”. L’idea di questo modello di
struttura organizzativa era nata negli anni Trenta, quando i leader
afrikaner proclamarono che la visione del mondo del loro popolo
non si poteva conciliare con i principi del liberalismo occidentale e
con il suo laicismo e si riconobbero sempre più in certi valori comunitaristi
promossi dal fascismo e poi dal nazismo.4 Il futuro
dell’Afrikanerdom doveva essere all’insegna della purezza etnico-
razziale, dell’autenticità della tradizione e della lingua, della difesa
dei valori cristiani e, più in generale, della strenua difesa di società
e cultura contro la loro progressiva americanizzazione. Insomma
l’apartheid non va ridotto solo ad una mera questione razziale, vi
era anche il netto rifiuto del modello economico e sociale angloamericano
e della lingua inglese che stava diventando egemone e
contaminava l’afrikaans. Il principio cardine dell’apartheid, come
suggerisce il suo nome – un neologismo che significa “separatezza”
– era una nozione dogmatica di divisione e distanziamento culturale
e sociale che trovava la sua fonte di legittimazione nell’ideologia
nazionalista e nel neo-Calvinismo del teologo e politico olandese
Abraham Kuyper (1837-1920). Specialmente nella “teoria delle
sfere di sovranità” (souvereiniteit in eigen kring in olandese, soewereiniteit
in eie kring in afrikaans), secondo cui potere ed autorità
sono stati assegnati ai popoli da Dio per tramite del Cristo, in modo
tale da essere distribuiti equamente tra le varie sfere, o istituzioni,
dell’esistenza umana, ognuna di pari dignità rispetto alle altre, sovrana
su se stessa ed indipendente dalle altre (Norval 1996). Da qui
nasce il principio dell’uguaglianza – formale, non certo sostanziale
–, tra la cultura bianca, quella nera e quella delle altre minoranze,
che andavano separate per preservarne i tratti caratteristici e per-
metterne un’evoluzione “libera” e distinta, nei tempi e nei modi più
idonei a ciascuna sfera o dominio (eiesoortigheid, “propriezza”). Il
contenuto delle sfere non doveva essere diluito o contaminato, ma
rispettato e valorizzato, perchè l’elezione divina coincideva con
quella culturale (Templin 1984; Thompson 1985). Anche in Sudafrica,
come in Israele e in Alto Adige, ritroviamo quindi il motivo
dell’Alleanza con Dio che garantisce al Popolo Eletto il diritto di
insediamento su una Terra Promessa (Sion) e lo protegge dai suoi
nemici interni ed esterni. Ritroviamo la dottrina della separazione
tra uguali, dove alcuni gruppi sono più uguali degli altri e a ciascuno
è assegnato un destino esclusivo (Johnson 1983). Inoltre vanno
segnalate la creazione di un sistema scolastico separato, l’uso obbligatorio
della madrelingua nelle scuole e la rimozione degli scolari
Afrikaners dalle scuole inglesi (Louw 2004). È piuttosto ironico,
ma anche emblematico di un certo modo di pensare i rapporti tra
gruppi umani, che l’apartheid fosse stato concepito dai suoi promotori
come l’espressione di una politica umanitaria, che ripudiava la
società castale precedente. Una separazione verticale era infatti preferibile
ad una separazione orizzontale. Il sistema castale generava
amarezza, frustrazione, risentimento ed avrebbe finito per causare
scontri interrazziali. Invece in questo modo i neri si vedevano riconosciuto
il diritto di sviluppare la propria specifica identità politico-
culturale, evitando così l’approccio assimilatorio, considerato troppo
paternalistico (Louw 2005). Per questo non mancavano ipocrite
affermazioni di solidarietà interrazziali con i Bantù, le cui sofferenze
sotto il giogo coloniale erano poste sullo stesso piano delle inquietudini
prodotte dalle pressioni globalizzanti in seno alla società
bianca sudafricana. Così teorici dell’apartheid quali Diederichs,
Cronje e Du Plessis denunciavano il capitalismo sfrenato ed il cosmopolitismo
liberale che avrebbero portato all’estinzione la ricca
diversità etnica sudafricana sostituendola con una scialba uniformità
culturale (Louw 2005.). J.B.M Hertzog, generale e poi primo
ministro dell’Unione del Sudafrica, dichiarò che “il dovere del nativo
non è quello di diventare un europeo nero, ma di diventare un
nativo migliore, con ideali e con una cultura che siano i suoi” (Dubow
1989). In realtà, naturalmente, il vero motivo non era quello di
rispettare gli usi e costumi altrui, ma quello di evitare un’impura
mescolanza etno-razziale (mengelmoes) e conservare il potere politico
e l’egemonia socio-culturale. Altrimenti non si capisce perchè
questo intervento radicale di ingegneria sociale avrebbe dovuto separare
i gruppi etnici anche negli hotel, nei ristoranti, negli ospedali,
sulle spiagge, nelle associazioni sportive e culturali, nei treni,
ecc. e proibire i matrimoni interrazziali (inclusi quelli con le minoranze
indiane e cinesi). Dietro la retorica dell’incompatibilità culturale
e della deleteria ibridazione si celava il consueto tentativo di
puntellare ideologicamente un sistema di potere delegittimato.
L’imperativo della protezione della propria identità rendeva necessaria
l’adozione di misure per rafforzare la coscienza etnica. Tra
queste c’erano un sistema corporativo di stampo populista (Volkskapitalisme)
e la celebrazione rituale del Great Trek dei Voortrekker
boeri con la rievocazione storica in costume della migrazione dei
pionieri e l’esaltazione degli eroi del passato. I paralleli con la realtà
sudtirolese sono numerosi: l’esaltazione delle virtù contadine, la lotta contro la modernità globalizzante, la ricerca dell’autarchia, lo
spirito indipendentista, un’intensa religiosità, la guerriglia per bande
contro gli invasori guidati da generali “barboni”, l’etnopopulismo
ed il patriottismo localista.
Quel che è interessante rilevare è che mentre in Sudafrica questo
modello di monoculturalismo plurale portò all’apartheid, in Olanda
lo stesso principio organizzativo, ma spogliato di qualunque componente
razziale, si manifestò nella forma del verzuiling, o “pluralismo
verticale”. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta la società
olandese, per consentire alla popolazione di continuare a vivere
nelle proprie comunità chiuse a dispetto dell’avanzare della globalizzazione,
fu spezzettata in quattro diversi blocchi verticali, o pilastri
(zuilen), ciascuno con la propria ideologia di riferimento (socialismo,
calvinismo, cattolicesimo, liberalismo, ecc.) e collegati solo
dall’intreccio delle rispettive elite e dalla volontà di raggiungere
una serie di compromessi per il bene della nazione. In questo modo
ogni cittadino poteva vivere in un mondo familiare, ordinario, omogeneo,
fatto di banche, mezzi d’informazione, sindacati, partiti,
scuole, ospedali, biblioteche, università, associazioni sportive e culturali,
bar e chiese ideologicamente corretti e congrui (Wintle
1987). Il motto era “vivere separati ma assieme”, su base egalitaria.
Di conseguenza i membri di un pilastro (zuil) non avevano necessità
di incontrare i membri degli altri pilastri. Questa auto-segregazione,
ufficialmente giustificata dal bisogno di trovare un accordo
di massima tra persone di mentalità diversa, servì ad accrescere le
distanze sociali tra gruppi di cittadini proprio quando le specificità
culturali s’indebolivano a causa della loro prossimità fisica. Nella
piena certezza della giustezza delle proprie idee e della erroneità di
quelle altrui, si preferì evitare un confronto diretto piuttosto che
vedere nel disaccordo e nel contrasto risorse da mettere a frutto per
il progresso del paese (Wintle 2000). Solo la spinta libertaria della
fine degli anni Sessanta, che in Olanda non si è ancora fermata, riuscì
ad abbattere questo sistema coercitivo, che trova paralleli in
società notoriamente instabili ed autoritarie come il Libano, la Malesia,
Mauritius, le Figi, l’Irlanda del Nord e Cipro. Ma la nozione
stessa di una segmentazione sociale non è morta nei Paesi Bassi.
Ancora oggi le etnie minoritarie immigrate sono state inquadrate in
un modello multiculturalista molto simile a quello del verzuiling,
come se questo fosse l’unico modo di evitare seri conflitti sociali.
In realtà anche in passato la segregazione ha funzionato, almeno in
parte, solo per una serie di circostanze eccezionali: (a) l’assenza del
feudalesimo e quindi il precoce emergere di una società aperta ed
egalitaria ostile ad comunità gerarchizzate; (b) un costante, secolare
flusso di immigrati; (c) comunità di fedeli di dimensioni comparabili;
(d) la tradizionale cooperazione tra le elite; (e) l’emigrazione
di un’ampia sezione della popolazione più fondamentalista verso il
Michigan ed il Sudafrica; (f) un’economia tradizionalmente fondata
su di un intenso commercio marittimo (Pettigrew/Meertens 1996).
In seguito i processi di laicizzazione, individuazione e mondializzazione
hanno eroso il consenso attorno a questo modello sociale e
oggi è finalmente possibile affermare che la celebre tolleranza olandese
è stata raggiunta non grazie a, ma nonostante il verzuiling(Pettigrew Pettigrew/Meertens 1996).
Se riesaminiamo quanto detto possiamo notare che in queste società
l’interculturalità non era intesa come un valore e che l’enfasi
sull’unità nella diversità genera un collage di comunità autoperpetuantesi
e per quanto possibile indifferenti le une rispetto alle altre,
invece che una società nel senso proprio del termine – un insieme
organizzato di individui associati. Notiamo anche che sebbene questo
approccio sia in grado di limitare temporaneamente il ricorso
alla violenza da parte dei cittadini e dello stato, le tensioni rimangono,
e non sono sempre latenti. Se a ciò aggiungiamo il carattere
coercitivo nei confronti delle libere scelte individuali, siamo costretti
a concludere che questo modello dovrebbe avere un’applicazione
limitata nel tempo e nella portata. L’alternativa ad un Giardino
di Rose (Stato Razziale) o ad uno zoo di gabbie separate
(etnocrazia) è un parco botanico come quello di Castel Trauttmansdorff
(democrazia liberale) che riunisce la flora locale e quella di
tutto il mondo, realizzando un’integrazione di ibridazioni, non discriminatoria
e non intimorita dalle eventuali contaminazioni. Questa
è la direzione intrapresa, non senza tentennamenti e difficoltà,
dalla Repubblica di Mauritius, ma anche dalla maggior parte dei
paesi del Nord Europa e Nord America. Vi si parlano diverse lingue
ed è nata una lingua franca creola, si celebrano capodanni e feste
religiose assieme, si convive, invece di esistere separatamente. E
tutto questo in un paese dove il discorso ufficiale, nella politica
come nell’educazione, è stato per lungo tempo primordialista,
l’ibridità era vista come una piaga sociale e ci sono casi di politici
che, come Langer, hanno rifiutato pubblicamente l’obbligo di identificarsi
con un gruppo etnico specifico. La società civile mauriziana
ha, in buona parte, ignorato le pretese di politici ed imprenditori
etnici (ossia chi ha interesse a sottolineare differenze e separazioni)
per amor del quieto vivere. Almeno in questo, e forse non solo in
questo, Mauritius è più progredita e civile dell’Alto Adige, a dispetto
dell’enorme divario nelle risorse, infrastrutture, alfabetizzazione
e sostegno internazionale. Immagino sia questo il cammino da percorrere,
quello che conduce ad un luogo dell’anima dove la storia e
la cultura del mio prossimo sono anche parte della mia identità,
eterogenea, sovrabbondante, plurale di chi non è più uno, non è più
una monade, ma più di uno; è eccedente, è poroso, espansivo, comprensivo,
senza nel contempo perdere di vista il suo giroscopio interiore,
la sua bussola morale, ossia senza abiurare la sua individualità.
Dove la mia gente è la gente che considero tale, a prescindere
dalle classificazioni ufficiali. La destinazione è il luogo dell’incredibile
simmetria, la palintonos harmonia, l’armonia degli opposti
eraclitea, dove tutto quel che dissolve unisce, tutto quel che distanzia
e separa ricongiunge.
Tenuto conto del fatto che le identità forti sono la conseguenza e
non la causa dei conflitti, l’unico modello praticabile è quello di
una società aperta, libera da tabù, tribalismi e vincoli imposti
dall’alto, dove le scelte sono consapevoli e critiche (Amselle 2001).
Quante speranze ci sono che ciò avvenga? Poche, molto poche, almeno
nel breve periodo. In ogni caso, bisognerebbe quantomeno
evitare di commettere lo stesso errore dell’Impero Austro-Ungarico
che, nell’intento di censire i suoi sudditi su base etnica, finì per indebolire
il sentimento di comune appartenenza ad un organismo
sovranazionale e potenziò le spinte centrifughe e le dispute tra le
varie nazionalità, collassando infine sotto il peso di egoismi e rivendicazioni
localistiche più o meno giustificate (Zeman 1990).
Secondo me l’attuale modello autonomista rischia di perpetuare
quest’irragionevole contrapposizione tra localismo ed universalismo.
Lo smarrimento identitario altoatesino avrebbe potuto essere
un terreno fertile per una politica interculturale favorevole alle contaminazioni di idee e stili di vita. Invece gli studi periodici dell’Istituto
provinciale di statistica di Bolzano confermano che per i giovani
altoatesini i confini etnici rimangono poco permeabili e circa un
terzo di loro (con picchi prossimi al 50% tra quelli di lingua italiana)
non è soddisfatto dell’attuale modello di convivenza etnica.
Ancora fino a pochi anni fa gli Altoatesini di lingua italiana ponevano
quelli di lingua tedesca sui gradini più bassi nella scala delle
preferenze, dopo Cinesi ed Africani e prima di Tirolesi, Albanesi e
Zingari (Kohr et al. 1994; Buzzi et al. 2004). Nell’elaborare il presente
modello autonomistico si è pensato che siccome il bersaglio
di violenze ed abusi sono spesso i “gruppi umani” allora sono questi
che vanno tutelati e risarciti, come se la volontà individuale costituisse
una presenza disturbatrice. Ad una violenza semplificatrice
della complessità del reale si è opposta una giustizia parimenti semplificatrice
ed arbitraria che ha mortificato la libertà di scelta dei
singoli, costretti ad auto-amputare la propria identità plurale. A livello
politico, poi, questo stato di cose è stato riaffermato da un
moralismo manicheo imperniato sull’eroica lotta contro l’oppressore,
sia esso di etnia “tedesca” o “italiana”. Proporzionali e censimenti
etnici possono funzionare per un paio di generazioni al massimo,
quando gli umori della popolazione sono orientati allo
scontro. Poi diventano inevitabilmente parte del problema, in quanto
mantengono i conflitti latenti, invece di sanarli. La proporzionale
etnica tende a spersonalizzare gli individui e stereotipizzare i gruppi
e, quando a ciò si aggiunge la competizione per le risorse, le
tensioni che ne derivano innescano un meccanismo di identificazione
automatica dell’individuo con il suo gruppo di riferimento che
sopprime le discrepanze tra identità personale ed identità collettiva.
In altre parole nessuna vera riconciliazione è possibile in una democrazia
su base etnica. Essa non è casa per nessuno, è cronicamente
instabile e giace su un pendio che conduce al baratro della distopia
e dello scontro interetnico. Gli esempi che possono servire a minare
il dogma dell’etnocrazia sudtirolese sono innumerevoli: Israele,
Cipro e Iugoslavia, Myanmar, Malesia, Sri Lanka, Québec, Figi,
Ruanda, Cambogia, Estonia e Slovacchia, oltre ad un eventuale Iraq
etnicamente tripartito. Per quanto tempo ancora continueremo ad
illuderci? Questo tipo di democrazia etnocratica rimane in vita solo
perché una maggioranza di cittadini ha paura di quel che avverrebbe con la sua scomparsa e perché si identifica così fortemente con
la patria che qualunque critica all’ideologia dominante nella sua
patria è vista come un attacco personale. Erich Fromm aveva già
notato che chi criticava la Germania durante il nazismo spingeva
sempre più tra le braccia di Hitler anche quei Tedeschi in disaccordo
con lui. Questo è il risultato di quel morbo che è il patriottismo,
l’assudditarsi del devoto ad un idolo.
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