Fra natura e cultura non c’è, nella modernità, semplice distanza, ma salto, e in questo salto (in questa alienazione) si inseriscono quelle categorie che solo nell’artificio divengono naturali (libertà, eguaglianza, fratellanza).
Carlo Galli
L’Uomo Selvaggio
è un archetipo mitologico che s’incontra a tutte le latitudini ed in tutte le
epoche. Basti pensare ad Enkidu, dell’Epopea sumera di Gilgamesh, ai satiri, a
Tarzan, allo Yeti, a Bigfoot ed a Oetzi. È il “doppio” dell’uomo civilizzato,
lo specchio che riflette la sua natura ferina, ancora non interamente domata
dal processo evolutivo e civilizzatore, a metà strada tra natura e cultura.
Come l’extraterrestre rappresenta l’uomo futuro, ultrascientifico, immensamente
sapiente ma anche denaturalizzato, asessuato, irriconoscibile, così l’Uomo
Selvaggio, angelo e demone, costituisce un modello ideale (il Buon Selvaggio)
oppure una figura estranea e sovversiva a causa della sua primitività. L’Alieno
e l’Uomo Selvaggio sono entrambi trans-umani ed ibridi, i due estremi dell’evoluzione
umana. Questi “doppi” della specie umana assolvono la fondamentale funzione di
rassicurarci sul fatto che in fondo non siamo soli, né siamo troppo unici,
perché ciò implicherebbe una zavorra di responsabilità morale davvero impressionante.
Essa inoltre determina i margini estremi della norma di espressione dell’umano.
Dopo aver creato il Mostro ed il Folle per demarcare i limiti della corporeità
e dell’intelletto, l’umanità ha creato l’Uomo Selvaggio, come retaggio-monito
del suo passato, e l’Extraterrestre, come proiezione di sé stessa nel futuro
(Renard 1984). Nell’acceso dibattito sulla validità dell’opzione nonviolenta
questa contrapposizione tra passato e futuro gioca un ruolo decisivo: definire
la natura umana in un certo modo permette di programmare gli indirizzi di
sviluppo della civiltà globale. Se l’umano è naturalmente violento, allora i
principi democratici dovranno continuare a piegarsi alle esigenze dell’armonia
sociale e della sicurezza, se invece l’umano è naturalmente buono ed è stato il
potere a corromperlo, ne consegue che l’attuale assetto sociale, per quanto
democratico, non rappresenta il migliore dei mondi possibili, anzi,
contribuisce a mantenere gli esseri umani in una condizione di minorità e di
perpetua rivalità. Allo stesso tempo, l’adesione ad una prospettiva piuttosto
che ad un’altra influenzerà il tipo di rappresentazione di un’eventuale civiltà
extraterrestre che dovessimo incontrare. Se prevale l’ottimismo new age, la
visione è quella di una civiltà di fratelli cosmici venuti a riscattare l’umanità
da una situazione compromessa irreversibilmente. Se prevale il pessimismo di un
realismo cinico, la visione sarà quella di una razza di conquistatori e
sterminatori che non perderanno tempo in chiacchiere e mireranno al sodo. Come
si vede, è del nostro futuro che si sta parlando, anche quando l’oggetto della
discussione è l’Altro.
Ma per
discettare di natura umana con cognizione di causa è indispensabile rivolgersi
all’antropologia, cosa che, purtroppo, accade di rado. Da antropologo, ho
sentito la necessità di contestare le mille interpretazioni della nostra umanità
che sono sorte per venire incontro più alle preferenze personali che alla realtà
dei fatti, o quantomeno alla descrizione della realtà che possiamo desumere dai
dati a nostra disposizione. Questo capitolo è una sintesi delle conclusioni
alle quali sono giunto in merito al nostro passato. Lascerò invece che siano
gli autori i cui scritti prendo in esame nei capitoli successivi ad indicare
quali siano gli scenari futuri preferibili e quelli invece da evitare con la
massima cura.
Il mito edenico
“Il primo
esercito permanente, come organismo specializzato nella violenza, nasce a
Babilonia nel momento in cui la società da patriarcale si trasforma in patriarcale.
la preistoria non conosceva le guerre anche se esisteva la violenza. la civiltà
fondata sul potere ebbe inizio verso il 3000 a.C. Da allora in poi il numero
delle guerre e delle loro vittime è aumentato in maniera progressiva […] La
trasformazione urbana che accompagnò la rivoluzione neolitica fu caratterizzata
dal passaggio da una civiltà matriarcale a una patriarcale”. Questa è una
citazione tratta da “Pace e disarmo culturale” di Raimon Panikkar (2003, pp.
17-18), uno dei pensatori della nonviolenza più apprezzati, specialmente in
Italia (Peyretti). È emblematico di un certo modo di affrontare il drammatico
problema della violenza umana che ritengo tanto nocivo alla ricerca della verità
quanto la sua polarità opposta, quella di studiosi come Richard Wrangham,
docente all’Università di Harvard, convinto che dentro ciascuno di noi si celi
un Uomo Bestiale, un atavismo, un retaggio del nostro passato preistorico che
condiziona il nostro comportamento. Secondo lui “se presupponiamo che gli
esseri umani siano fondamentalmente simili agli scimpanzé (sic!)…questa
intuizione biologica (sic!) ci insegna che gli uomini continueranno a cercare
nuove opportunità per massacrare i propri rivali e che non dobbiamo mai
abbassare la guardia. La brutta notizia è che dobbiamo lavorare sodo per
impedire agli uomini di coalizzarsi per uccidere gli avversari”
(Wrangham/Peterson 1996). Un’affermazione che elude il problema delle
considerevoli variazioni nell’incidenza di comportamenti violenti tra
individui, tra culture e tra epoche (Kelly, 1995; Thorpe, 2003) ed il dato di
fatto che la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai assalito,
violentato o ucciso qualcuno nella sua intera esistenza. Stando all’evidenza
quotidiana, più che una sottile patina, la Cultura e la Civiltà appaiono come
una camicia di forza in grado di bloccare quasi sempre la presunta Bestia
Interiore che ereditiamo dai nostri antenati. L’idea della Bestia Interiore è
un fantasma nietzscheano, un ectoplasma evocato dall’abbrutente cinismo di
certi scienziati ed ha la stessa impalpabile consistenza dello spettro del Buon
Selvaggio rousseauiano. L’unica tipologia umana che corrisponde quasi
perfettamente alla descrizione degli studiosi “nietzscheani” è lo psicopatico,
che costituisce un estremo patologico dello spettro di manifestazioni dell’umano,
la cui consistenza non eccede il 4-6% della popolazione mondiale, nella
peggiore delle ipotesi. D’altro canto di esseri umani realmente nonviolenti non
se n’è vista traccia nel mondo: a quanto ci consta non lo erano né Buddha, né
Gesù.
Dobbiamo perciò
rigettare entrambi gli estremi e prediligere uno schema in cui la variabilità
individuale la fa da padrona e la “natura umana” si esprime nelle persone in
forme estremamente distinte, tanto che pretendere di collocare questo o quell’altro
individuo in una determinata categoria definita è un atto di violenza nei suoi
confronti: “la biologia insegna che ogni organismo è un prodotto squisitamente
unico dell’interazione dei geni con l’ambiente in ogni istante della vita di
ciascuna persona. Per i genetisti di popolazione, se c’è da fare una
suddivisione della specie umana, l’unica distinzione significativa è quella tra
individui. Gli studi neurologici dimostrano che non esistono due cervelli che
siano identici, neppure tra gemelli identici, perché le variazioni
microscopiche di ogni cervello sono enormi. Analogamente, le impronte digitali
dei gemelli omozigoti sono distinte ed individuali. Infine i linguisti hanno
concluso che le parole e le frasi, nella loro struttura e significato, hanno
una storia che varia a seconda dell’esperienza e del contesto di ciascuna
persona. Insomma, l’evidenza empirica demolisce ogni tentativo di
essenzializzare e negare la straordinaria diversità dell’umano nelle sue
innumerevoli espressioni, cioè il suo fascino e bellezza. Perciò chi vi dice
che “è naturale questo” ed è “naturale quello” sbaglia. L’unica cosa “naturale”
per un essere umano è quella di differenziarsi dagli altri, di maturare nei
suoi modi e nei suoi tempi, di realizzarsi secondo le sue proprie attitudini,
valori ed aspirazioni. Il resto sono superstizioni, un corredo di pregiudizi
che si affermano su base etnica, religiosa, storica, culturale” (Fait &
Fattor, 2010).
Non esiste alcun
programma di costruzione di un organismo umano. Gli esseri umani crescono e
maturano consapevolmente ed interattivamente, non sono fabbricati sulla base di
una serie di istruzioni di montaggio. Ciascun individuo si sviluppa in modo
peculiare nel suo ambiente. Perciò non esiste una natura umana che è rimasta
intatta nel corso dei secoli. Non sono i geni ad interagire con l’ambiente, è l’organismo
a farlo e l’organismo è in costante mutamento, come lo è l’ambiente. Quindi non
c’è ragione di fissarsi sui geni e sugli antenati. L’essere umano non può cambiare
a nostro piacimento, ma allo stesso tempo non c’è alcuna ragione scientifica
per descrivere gli esseri umani indipendentemente da un’immensa pluralità di
circostanze storiche ed ambientali nelle quali crescono e vivono la loro vita.
Lo Human Genome Project ha speso cifre colossali per sequenziare i geni di un
essere umano ideale – una persona universale – che non è mai esistita e mai
esisterà, in quanto non esistono attributi che definiscano l’umanità in modo
assoluto: ci sarà sempre la possibilità di individuare numerosissime eccezioni,
non solo nelle disposizioni e capacità, ma persino nella morfologia (Ingold,
2006).
Sfortunatamente
so per esperienza che queste semplici considerazioni di buon senso non
convincono tutti, perché molti preferiscono anteporre le proprie predilezioni
ed identificazioni alla realtà dei fatti. Perciò in questo capitolo esaminerò
una serie di ragioni che mi inducono a concludere che: (a) non è mai esistito
un Buon Selvaggio, né una società matriarcale edenica; (b) l’uomo moderno (Homo
Sapiens) non è mai stato ferino nel senso wranghamiano di una creatura schiava
dei suoi impulsi: fin dal principio ha dimostrato di essere paragonabile a noi,
nel bene e nel male; (c) più affine all’Uomo Bestiale fu semmai l’Uomo di
Neanderthal, che ci ha trasmesso dei geni, ma che si è estinto.
Generalmente chi
studia la violenza e la nonviolenza prende le mosse da un assunto ottimista – l’umanità
è tendenzialmente cooperativa – o da uno pessimista – l’umanità è
tendenzialmente competitiva. Nel primo caso la nonviolenza sarà considerata una
naturale proclività umana che è stata messa a tacere da certe tendenze della
civiltà moderna, in particolare quella occidentale. Nel secondo caso è
giocoforza concludere che la guerra di tutti contro tutti è la naturale
condizione umana. È quantomai frustrante osservare che, quasi mai, questi due
assunti si sostengono su una solida base antropologica. È frustrante per due
ragioni: perché dimostra che l’antropologia non è una disciplina presa nella
giusta considerazione e perché dimostra che non esiste un consenso
antropologico su questo tema. È facile spiegare perché le cose stiano così: l’oggetto
dello studio dell’antropologia, il fenomeno umano è talmente complesso che gli
specialisti di questo campo sono stati costretti ad ammettere di essere
profondamente ignoranti al riguardo. È però anche vero che qualcosa siamo
arrivati a capire ed alcune circostanziate deduzioni si possono certamente
fare.
Gli antropologi
non sono in grado di definire univocamente che cosa s’intenda per cultura. Una
definizione accettabile, ma vaga, potrebbe essere “il termine con cui si
designa l’insieme delle cose materiali ed immateriali create dall’uomo”. Non
sanno cosa sia la coscienza, non sanno perché il cervello umano sia così
voluminoso (né tantomeno perché lo siano i suoi attributi sessuali, del tutto
sproporzionati). Quel che si sa - o si crede di sapere - è che fino a 2 milioni
di anni fa le dimensioni erano grosso modo quelle del cervello dei primati
attuali, oggi sono tre volte tanto. Non conosciamo il come ed il perché di
questa trasformazione. Sappiamo che gli albori della cultura umana, cioè l’apparizione
delle prime pietre intenzionalmente scheggiate (e quindi distinguibili dagli
oggetti che possono essere impiegati provvisoriamente da altri primati),
risalgono a 2 milioni e mezzo di anni fa, quando nel solo Kenya esistevano
quattro specie di ominidi che vivevano fianco a fianco. Sappiamo anche che fu
solo a partire da 30-40 mila anni fa che la cultura cominciò ad avere un
impatto sostanziale sull’evoluzione umana e solo a partire da 10 mila anni fa
circa questo impatto è andato incrementandosi esponenzialmente. Cro-Magnon è il
primo uomo moderno da un punto di vista delle capacità
simbolico-comportamentali ed anatomiche e rappresenta un salto di qualità
prodigioso rispetto al passato. Giunge in Europa presumibilmente dall’Africa
circa 40mila anni fa con un bagaglio di facoltà e competenze stupefacente.
Vivono più a lungo, sono somaticamente indistinguibili da noi ed intellettualmente
nostri pari: sono capaci di tessere, dipingono e scolpiscono con stile,
immaginazione e grazia, costruiscono strumenti musicali (anche a percussione) e
introducono le prime, rudimentali, notazioni musicali, condividono le risorse
con la comunità, tengono in gran conto le donne – e non per la loro fertilità,
dato che per i cacciatori-raccoglitori non è quasi mai un problema –
personalizzano l’architettura delle loro abitazioni, dedicano ricche sepolture
ai propri morti, introducono l’arte ceramica già almeno 25mila anni fa (cf.
Venere di Dolní Věstonice). Sono sofisticati e creativi
innovatori, diversamente dai loro predecessori, i Neanderthal che, nel corso di
decine di migliaia di anni, introducono relativamente poche nuove tecniche e
tecnologie, quasi sempre solo come reazione alle pressioni climatiche. Le armi
da caccia e da pesca introdotte da questi nostri antenati erano di un’efficienza
così ottimale da essere impiegate ancora relativamente di recente tra gli Inuit
e gli aborigeni australiani. Non si era mai visto nulla del genere su questo
pianeta (Tattersall, 1997). Già 20 mila anni prima del loro arrivo in Europa
avevano raggiunto l’Australia, dimostrando quindi sorprendenti competenze
nautiche. L’enigma della mancata “fioritura” dei Neanderthal indica che non
esiste una corrispondenza diretta tra anatomia e comportamento. Qualcosa dev’essere
accaduto che ha permesso a potenziali cognitivi inespressi di liberarsi e di
fiorire, cioè che ha portato alla nascita della coscienza. Forse fu il
linguaggio, perché senza linguaggio è difficile concepire delle modalità di
pensiero complesso ed astratto; forse fu qualcos’altro che ci rimane ignoto. La
grande rivoluzione che ebbe luogo con l’apparire dell’umanità fu la transizione
da un’evoluzione biologica non intelligente e del tutto imprevedibile ad una
co-evoluzione culturale e cognitiva, dotata di una certa direzionalità, il
risultato dell’insieme di operazioni di numerose intelligenze. Ciò ha
virtualmente interrotto la speciazione umana, ossia la trasformazione biologica
spontanea della nostra specie. Rispetto ai primati (che costituiscono un
diverso genere all’interno della famiglia degli ominidi), gli esseri umani
hanno in più la cultura come dimensione esistenziale - non potremmo vivere
senza di essa - e quindi più numerose e raffinate capacità, oltre ad una
maggiore duttilità e variabilità comportamentale. L’uso sistematico di
utensili, l’addomesticamento del fuoco ed il suo uso culinario ed agricolo, la
comunicazione simbolica astratta, strutture sociali articolate, un sofisticato
culto dei morti, forme organizzate di trasmissione delle conoscenze alle nuove
generazioni, la capacità di interpretare e prevedere il comportamento altrui e
di immedesimarci nel prossimo, ecc. è possibile che tutti questi tratti siano
presenti in alcuni gruppi di primati, ma la differenza quantitativa, e quindi
qualitativa, tra lo sviluppo umano e quello degli altri animali è semplicemente
incomparabile. I primati hanno avuto tanto tempo quanto ne hanno avuto gli esseri
umani per sviluppare una cultura, eppure non hanno fatto alcun passo in avanti,
né è prevedibile che ne faranno in futuro, anche con l’aiuto dell’uomo. Per
questo non è affatto moralmente, concettualmente o metodologicamente scorretto
considerare la cultura come ciò che ci separa nettamente dal resto della natura
e ci rende “speciali”, e non mere scimmie nude.
Gli esseri umani
apprendono e progrediscono perché sono in grado di capire che il cambiamento è
preferibile ad uno stato di ignaro appagamento, che la vita reale non deve
necessariamente seguire le istruzioni contenute nel copione della tradizione,
perché una vita creativa, innovativa e vibrante, cioè una vita culturale, può
essere immensamente più gratificante. La lentissima evoluzione degli scimpanzé,
che pure sono geneticamente così prossimi agli esseri umani, è la prova più
evidente di questa distinzione di fondo. Ciascun essere umano è votato al
cambiamento ed è destinato a contribuire al cambiamento del pianeta; in questo,
nessun animale si avvicina anche lontanamente alla condizione umana. La
presunta evoluzione culturale degli scimpanzé è così lenta che non hanno ancora
raggiunto neppure l’età della pietra e le dimensioni del loro cranio sono
rimaste pressoché immutate per milioni di anni, sempre stando a quanto ci è
dato di capire al momento attuale. Al contrario i cani, che sono geneticamente
più distanti da noi rispetto agli scimpanzé, ma hanno condiviso il nostro
ambiente domestico per almeno 10 mila anni e forse molto di più, sono in grado
di comunicare con gli esseri umani in modi più complessi cioè, in un certo
senso, sono più partecipi della cultura e dell’intelligenza umana.
Sembra che
alcuni primatologi, invece di concentrarsi su che cosa renda unici gli scimpanzé,
e quindi degni di considerazione in quanto tali, siano ossessionati dall’idea
di dimostrare quanto siano simili agli esseri umani, come se questo li rendesse
più speciali e più meritevoli di tutela. Un fenomeno analogo concerne gli
studiosi dell’Uomo di Neanderthal, di norma molto sensibili ad ogni
suggerimento che la distanza tra questi e l’uomo anatomicamente moderno sia
estremamente cospicua, a dispetto delle evidenti e straordinarie differenze che
li separano. Non c’è nulla di antropocentrico nel sottolineare quel che ci
rende unici, cioè un dato di fatto incontrovertibile, così come non sarebbe
corretto accusare di bonobocentrismo chi rileva l’unicità degli scimpanzé
bonobo o di neanderthalocentrismo chi elogia – molto giustamente – la perizia
con cui i Neanderthal riuscirono ad adattarsi al loro ambiente.
Il fatto è che
tutto lascia pensare che l’Uomo di Neanderthal non sia un tentativo
prematuramente abortito, un uomo incompiuto. L’immagine del Neanderthaliano vestito
da uomo contemporaneo che si aggira per le metropoli senza farsi riconoscere è
una paura fantasia irrispettosa della sua dignità di Neanderthaliano completo.
Sono diversi per la stessa ragione per cui il Barolo non è succo d’uva, anche
se entrambi derivano dall’uva. La cultura fa la differenza: senza quel divario
culturale le società umane non si differenzierebbero molto da quelle
neanderthaliane, né il Barolo dal succo d’uva. Anche se permane una certa
propensione a raffigurare l’uomo come “un carciofo da cui puoi togliere le
foglie spinose della cultura lasciando solo il nudo cuore tenero dell’uomo
naturale” (Marks, 2003: p. 163), va chiarito una volta per tutte che non v’è
alcuna natura umana al di fuori della cultura. Natura e cultura non possono essere
separate per poter confermare le ipotesi che più ci aggradano.
La questione
centrale del dibattito sulla violenza umana risulta quindi essere il ruolo da
assegnare alla cultura nello sviluppo umano. Affermare che la cultura sia un
fenomeno biologico è un’enorme scempiaggine (Jones, 1993). Nel corso del
progresso umano la nostra specie ha completato una transizione essenziale, dal
corpo alla mente, e le prodezze della nostra mente trascendono largamente il
nostro DNA e, in parte, la nostra corporeità. Esistono certamente numerosi
istinti innati, ma la nostra specie, unica fra tutte, non deve per forza
sottostarvi. La selezione naturale è stata rimpiazzata da quella artificiale,
in un ambiente artificiale che, per definizione, non produce evoluzione nel senso
naturalistico del termine. In altre parole l’etica e la cultura sono un
prodotto della mente umana in un ambiente antropizzato. Non possiamo ricavare
alcuna prescrizione morale dalla natura perché essa è del tutto amorale. La
nostra esistenza o l’esistenza di qualunque altra specie vivente le è del tutto
indifferente. È questo che ha reso necessaria la nostra fuga dalla natura nella
cultura: la natura ci stava ormai stretta. La cultura è dunque a buon diritto
quel piedistallo che gli esseri umani si sono costruiti nel corso della loro
storia evolutiva e sul quale sono poi saliti: nessuno ci ha messi lì, se non
noi stessi e peraltro non senza buone ragioni. A livello cognitivo, non siamo
neanche una mera estrapolazione o raffinamento di tendenze precedenti
(Tattersall & Schwartz, 2000).
Al contrario una
delle lezioni della storia è che proprio la naturalizzazione radicale degli
esseri umani è quasi sempre sfociata nel genocidio o nella pulizia etnica.
Questo lo aveva ben capito lo stesso Charles Darwin, nel suo “L’origine
dell'uomo”, in cui denunciava senza mezzi termini il riduzionismo zoologico
degli esseri umani, che imputava il male alla Bestia Interiore (Mayr, 2000). D’altronde
il dogma centrale del nazional socialismo era che la lotta per la sopravvivenza
è una legge iscritta nella natura che per ciò stesso dev’essere applicata alle
società umane. Ciò sancì l’emergere della nozione di comunità biotica
(biocrazia), in cui la separazione tra animali ed esseri umani era annullata
(riduzionismo zoologico) mentre la linea divisoria tra malati e sani finì per
coincidere con quella tra morte e vita (Sax 2000). Solo chi era
costituzionalmente sano e razzialmente eletto era degno di prevalere nella
lotta per la vita. Il resto della specie umana poteva solo servire o
estinguersi. I nazisti rifiutarono la veridicità dell’enunciato, che a noi pare
ovvio, che l’etica e la cultura sono un prodotto della mente umana in un
ambiente antropizzato e che non si può ricavare alcuna prescrizione morale
dalla natura perché essa è del tutto amorale e la nostra esistenza o l’esistenza
di qualunque altra specie vivente le è del tutto indifferente. Non si possono
ignorare le tragiche conseguenze dell’idolatria di una natura antropomorfizzata
e della naturalizzazione degli esseri umani tipiche del nazismo. Come detto, la
natura ci stava e ci sta sempre più stretta e così siamo stati costretti a
fuggire dalla natura nella cultura. Non c’è nulla di moralmente abominevole in
questo.
Solo chi, magari
abbagliato da un pregiudizio naturalista o da sentimentalismi malriposti –
magari il senso di un’ingiustizia che va sanata – volesse ignorare l’abisso di
complessità socio-culturale che ci separa dai Bonobo potrebbe credere di
ricavare dal loro comportamento indicazioni utili su come dovrebbero procedere
gli affari umani (Goodman et al., 2003). Quarant’anni fa, in piena battaglia
per i diritti civili, gli scimpanzé erano trattati dai primatologi alla stregua
di “buoni selvaggi”. Divennero poi crudeli predatori dediti all’infanticidio ed
al cannibalismo negli anni 80 degli yuppie rampanti à la Gordon Gekko, lo
spietato Michael Douglas del celebre “Wall Street”; recentemente sono
ridiventati fondamentalmente buoni ma in parte “corrotti” dal contatto con gli
esseri umani, in natura come in cattività. La domanda che ci dobbiamo porre è
se siano stati loro a cambiare in questi 40 anni oppure gli umori della nostra
società. Insomma, sembra di poter dire che il nostro atteggiamento verso gli
altri sia determinato in gran parte non tanto dall’identità altrui, ma dalla
nostra. Forse la più convincente spiegazione delle variazioni comportamentali
dei primati è alquanto semplice: ancora negli anni Venti l’anatomista Solly
Zuckerman riferì che i babbuini dello zoo di Londra mostravano elevati livelli
di gerarchizzazione ed aggressività. Ma nessuno dei suoi colleghi che
lavoravano sul campo, nell’habitat stesso dei babbuini, riuscì a replicare
queste osservazioni. Divenne quindi presto evidente che il comportamento dei
babbuini di Zuckerman era stato drammaticamente alterato dalla riduzione dello
spazio in cui i babbuini si trovavano a vivere. Le restrizioni artificiali
imposte da uno spazio chiuso come quello di uno zoo avevano generato dinamiche
interne che non potevano esistere all’esterno e quindi le osservazioni di
Zuckerman non erano generalizzabili (Rose, 1998). Anche qui, però, occorre una
precisazione: la bellicosità delle popolazioni umane non è direttamente
correlata alla densità demografica, né alla frequenza degli interscambi
(Keeley, 1996). Il che ci aiuta a capire che gli umani sono davvero un caso a
parte.
Scartate le
spiegazioni etologiche, possiamo cominciare a prendere in esame i dati
paleoantropologici. Sono scarse le immagini pittografiche che illustrano scene
di violenza contro altri esseri umani, mentre sono numerose quelle ai danni
degli animali da preda, com’è naturale in popolazioni di cacciatori. Quel che
si può affermare con un certo margine di sicurezza è che non è mai esistita un’età
dell’oro. L’idea che siccome gli esseri umani erano pochi e le risorse
abbondavano, allora non c’era bisogno di scontrarsi è valida, ma ciò non
significa che non esistessero violenze rituali, omicidi d’onore, esecuzioni,
faide tra clan, scontri per il controllo di zone d’abbeveraggio degli animali
selvatici, dispute territoriali, rapimento di donne, ecc. Una disamina seria
della documentazione disponibile mostra che la violenza ha sempre accompagnato
le società umane, nel Paleolitico come nel Neolitico, tra i
cacciatori-raccoglitori come tra gli agricoltori. È vero che il Neolitico segna
un’esplosione dell’evidenza della violenza, che diventa di massa, con fosse
comuni per le vittime, ma ciò non indica un suo relativo intensificarsi. Il
numero di umani crebbe e così le occasioni di conflitto (Guilane & Zamit,
2002).
Tutto questo non
deve sorprenderci. Il nostro è un pianeta violento, dove animali della stessa
specie si massacrano e in certi casi praticano persino la tortura, non danno il
colpo di grazia, preferendo che l’avversario muoia dolorosamente, combattono in
gruppo, com’è il caso degli scimpanzé. Attribuire la colpa alla natura umana o
al processo di civilizzazione è un residuo di una mentalità romantica non
corroborata dal vaglio empirico. Anzi, i tassi di omicidio tra animali
co-specifici sono più alti di quelli delle società umane moderne, ma in linea
con quelli delle società di cacciatori-raccoglitori ed orticultori. Quel che
cambia, con l’avvento dell’agricoltura e della metallurgia è la scala delle
distruzioni, che diventa evidentissima, ma proporzionalmente inferiore, per
via, come detto, dell’incremento demografico (Gat, 1999). Gli esseri umani non
sono mai stati unici nella loro ferocia contro i consimili (Mattson, 2003) e i
nostri antenati non erano troppo diversi da noi, anzi. Coltivatori del
Neolitico, indigeni della Nuova Guinea, villaggi cinesi o dello Yucatan, società
polinesiane e o delle coste peruviane: in ogni civiltà ci sono segni di
fortificazioni. Nella sola Nuova Zelanda sono rimaste le tracce di oltre 4mila
forti preistorici (LeBlanc, 2004). Conflitti per le risorse, certo, ma anche
per il potere ed il prestigio, per avidità, egoismo, razzismo. In pratica non
sono mai esistite delle società pacifiche, o comunque non per lungo tempo ed i
conflitti tribali causano un numero di vittime fino a venti volte superiore a
quello delle guerre tecnologiche del ventesimo e ventunesimo secolo, in
proporzione alla popolazione ed ai combattenti coinvolti (Keeley, 1996; LeBlanc
& Register, 2003). L’unica maniera per difendere la tesi che il neolitico
fu un’epoca anche solo relativamente pacifica è quella di mal interpretare
deliberatamente l’evidenza archeologica, storica ed etnografica e, per quanto
la causa della pace e della nonviolenza debba essere prioritaria, occorre
sostenerla con argomentazioni solide, non con mitologie romantiche. Parimenti
inammissibile è il mito misantropico di una specie umana intrinsecamente
malvagia e feroce. Uno studio triennale che ha coinvolto una trentina di
specialisti di otto diverse discipline (antropologia, psicologia, archeologia,
biologia, sociologia, storia, scienze politiche e scienze religiose),
provenienti da tutto il mondo, ha rilevato che “la guerra va compresa come una
pratica sociale violenta e collettiva che si fonda sempre su una logica
culturale e quindi non può essere spiegata unicamente in relazione alla
biologica, alla genetica ed all’evoluzione” (Thrane & Vandkilde, 2006). La
questione del potere va collocata in una posizione centrale nell’analisi della
guerra. Che si tratti di democrazie o di società autoritarie, è il potere
centrale che decide delle sorti di una nazione e solo una cittadinanza
consapevole, informata ed attiva – ossia che eserciti un maggior potere,
limitando quello dei governanti, in una società meno piramidale e perciò più egalitaria
– è in grado di indirizzare il paese verso la pace, in luogo della guerra.
Rummel incapsula questo concetto in uno slogan efficace: “il potere uccide, il
potere assoluto uccide assolutamente” (Rummel, 1997). E il potere uccide per
autoperpetuarsi, perché la guerra pare avere l’effetto di preservare lo status
quo, piuttosto che quello di cambiare la società e la casta guerriera appare
proprio in concomitanza con un incremento delle disparità sociali e della
gerarchizzazione delle comunità dell’età del bronzo (Thrane & Vandkilde,
op. cit.). Allo stesso tempo, sono pochissimi quelli che ritengono che la
schiavitù sia meglio della libertà e la guerra meglio della pace, ma la guerra
e l’asservimento continuano ad esistere. Per Hermann Göring “è ovvio che la
gente non vuole la guerra. Perché mai un povero contadino dovrebbe voler
rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio maggiore che può trarne è
quello di tornare a casa tutto intero? Ma sono i capi che decidono la politica
dei vari stati ed è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Basta dirgli
che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito
patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre,
in qualsiasi paese”.
Dagli albori
della storia dell’uomo e, più in generale, dagli albori della storia della
vita, gli organismi che popolano questo pianeta hanno variamente impiegato
strategie cooperative, conflittuali e di disimpegno nei confronti dei
potenziali rivali, a seconda delle circostanze. Quel che è venuto completamente
a mancare, tra gli umani dei nostri giorni, è il rispetto del principio che i
conflitti non devono superare quella soglia che compromette gli equilibri dell’ecosfera.
Oramai siamo perfettamente in grado di distruggere questo pianeta e noi assieme
ad esso, ma la persistenza del paradigma dominante della competizione sregolata
e dell’incessante prevaricazione non lascia ben sperare. Un’ulteriore
differenza, rispetto a prima, è che nelle piccole comunità nessuno accumula così
tanto potere da essere nella posizione di decidere autonomamente ed
arbitrariamente se scatenare una guerra. Serve un vasto consenso che viene
immediatamente sondato tramite un’assemblea straordinaria ed un leader
guerrafondaio può essere rimosso (o addirittura soppresso). Oggi un governo può
entrare in guerra senza chiedere il parere del parlamento e senza doverne
rispondere.
Il mito del
Neanderthal vittima innocente di un’umanità crudele
Nel 2003 Wesley
Niewoehner, archeologo alla California State University di San Bernardino,
intervistato dalla BBC, spiegava che la ragione dell’estinzione dei Neanderthal
andava cercata nell’enigmatica persistenza dell’uso di un repertorio
comportamentale che poneva l’accento sulla forza fisica piuttosto che sull’innovazione
tecnologica (Briggs, 2003).
La vicenda dei
Neanderthal ci pone di fronte ad un vero e proprio mistero. Un essere umano così
simile a noi, geneticamente quasi identico, con una massa cerebrale quasi pari
alla nostra ed un comportamento così dissimile. Nel corso di ben 200mila anni
di esistenza non si segnalano vere e proprie rivoluzioni tecnologiche ed
organizzative, ma solo un lentissimo perfezionamento di ciò che già c’era,
probabilmente sotto la spinta dei cambiamenti climatici (Mellars, 1996). Le più
recenti scoperte evidenziano un quadro affatto diverso da quello ricostruito in
precedenza, che dipingeva la situazione pressappoco così: i Neanderthaliani
erano degli uomini come i Cro-Magnon, ma più semplici, rozzi e di buon cuore.
Sono stati i Cro-Magnon a sterminarli, a causa della loro naturale aggressività,
competitività e spietatezza. È chiaro che, se le cose stessero così, ci sarebbe
poco da salvare di un’umanità moderna che ha cominciato il suo percorso
civilizzatore sterminando un’altra popolazione umana, per di più quasi
completamente pacifica, indigena ed interessata unicamente a sopravvivere.
Avrebbero ragione i misantropi e questo libro non avrebbe alcuna ragione di
essere scritto. Tuttavia le cose non stanno così. Quel che è successo, nel frattempo,
è che è stato superato il paradigma UNESCO del politicamente corretto, che ha
condizionato le scienze umane per oltre mezzo secolo, imponendo un insensato
imperativo dell’assimilazione ed omogeneizzazione delle suddivisioni del genere
Homo, per evitare discriminazioni perfino verso esseri umani ormai estinti
(Levin, 1998).
Ora sappiamo
invece che i Neanderthal erano aggressivi, competitivi e promiscui,
probabilmente a causa dell’alta concentrazione di androgeni, come il
testosterone. In questo, erano molto più simili agli altri primati che all’uomo
moderno (Nelson et al. 2011). Ci viene anche spiegato che “i Neanderthal erano
caratterizzati non solo da adattamenti biomeccanici specifici, ma anche da
condizioni ormonali che non hanno riscontri nell'essere umano moderno, sia sano
che affetto da patologie” (Viegas, 2010). Erano geneticamente quasi
indistinguibili da “noi” (99,5%) ma con una scarsa differenziazione genetica
tra di loro. Praticavano il cannibalismo (Thompson, 2006; Bryner, 2010), con
una particolare predilezione per il midollo e le cervella e senza mostrare
alcun particolare rispetto per le vittime della loro antropofagia, trattate
alla stregua delle altre prede (Defleur et al., 1999). Erano particolarmente
scadenti nella sfera dell’orientamento e per questa ragione i loro campi erano
situati vicino ad aree morfologicamente molto riconoscibili (Burke, 2006). L’antenato
comune, che non è ancora stato trovato, risale ad almeno mezzo milione di anni
fa (Viegas, 2010). Tra l’1 ed il 4% del nostro genoma ha avuto origine dai
Neanderthal, indipendentemente dalla popolazione considerata (inglesi o
melanesiani che siano). Ma gli Africani non ne possiedono neanche un frammento.
Questo significa che la parziale ibridazione avvenne nel Medio Oriente, prima
che l’uomo moderno si spingesse in tutto il mondo. Un’ibridazione parziale
perché le sequenze genetiche neanderthaliane non si sono replicate nel genoma
dell’uomo moderno. Ciascuno si ritrova con un pezzetto di genoma
neanderthaliano diverso rispetto a quello altrui (Pääbo, 2010). Pare che le
porzioni di genoma neanderthaliano ci abbiano fornito un vantaggio evolutivo in
termini di metabolismo, robustezza e cicatrizzazione delle ferite, ma abbiano
anche aperto la porta alla schizofrenia ed all’autismo (Green et al., 2010).
È tuttavia
improbabile che i responsabili della loro estinzione siano stati gli Homo
Sapiens. Infatti nel Caucaso ebbero davvero pochissime chance di coesistere,
essendo scomparsi prima che i Cro-Magnon arrivassero ed anche in Europa il
periodo di coesistenza sarebbe stato troppo breve per permettere un genocidio
(Pinhasi et al., 2011). Perciò, al momento attuale, nessuno dovrebbe
permettersi di affermare di conoscere le cause della scomparsa dei Neanderthal,
o di saper spiegare l’improvvisa apparizione dei Cro-Magnon. In proposito, non
abbiamo le idee molto più chiare rispetto alla fine del secolo scorso
(Tattersall, 1992; Walker & Shipman, 1992; Tattersall & Schwartz,
2000). Quel che sappiamo è che legittimo ipotizzare che la più lenta
maturazione di Cro-Magnon sia responsabile della sua superiorità intellettuale
(Smith et al. 2010), perché il cervello dell’uomo anatomicamente moderno, pur
non essendo molto più grande (1490 cc a fronte di un indice medio di 1395 cc
per i Neanderthal), era organizzato molto meglio (Gunz et al. 2010). Queste ed
altre indicazioni sulla scarsità di comportamenti simbolici tra i Neanderthal,
che erano versioni leggermente più sofisticate di quelle dei loro predecessori
a differenza della nostra lettura della realtà simbolicamente mediata, ci
spingono ad ipotizzare che, a dispetto della somiglianza, le divergenze
cognitive fossero colossali e che “non c’è ragione di supporre che senza un’influenza
esterna i Neandertal avrebbero sviluppato comportamenti “moderni”. Erano
semplicemente degli umani perfettamente adattati al loro ambiente naturale”
(DeSalle & Tattersall, 2008, p. 129).
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