Voglio dirvi, camerati, come sarà l’ordine
sociale del futuro: ci sarà un ceto di dominatori, composto degli elementi più
diversi selezionati attraverso la lotta, un ceto che è frutto della storia. Ci
sarà un numeroso gruppo di membri del partito strutturato in modo gerarchico;
essi costituiranno il nuovo ceto medio. E ci sarà una gran massa di anonimi, la
collettività dei servitori, degli eterni minorenni, non importa se provenienti
dalle file della vecchia borghesia e dei grandi proprietari terrieri, od operai
e artigiani. La posizione economica e il ruolo sociale ricoperti nel passato
non avranno più il minimo significato. Queste differenze ridicole verranno
sciolte e annullate in un processo rivoluzionario mai visto prima. Inoltre ci
sarà altresì il ceto dei sottomessi di origine straniera, che possiamo
tranquillamente definire gli schiavi dell’età contemporanea. […]. Ci sarà una
specifica educazione per ogni ceto e all’interno di ciascuno di essi per ogni
specifico gradino. La completa libertà d’istruzione è privilegio dell’élite e
di quanti essa decide in via straordinaria di promuovere […]. E noi dovremo
essere coerenti fino in fondo e lasciare alla grande massa del ceto inferiore
il beneficio dell’analfabetismo.
Adolf
Hitler
- Quando io uso una parola, - disse Unto Dunto
in tono d'alterigia, - essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né
più né meno.
- Si tratta di sapere, - disse Alice, - se voi
potete dare alle parole tanti diversi significati.
- Si tratta di sapere, - disse Unto Dunto, - chi
ha da essere il padrone... Questo è tutto.
Lewis
Carroll, “Attraverso lo specchio”
"Signor Marks, in nome della sezione
Precrimine di Washington la dichiaro in arresto per il futuro omicidio di Sarah
Marks e Donald Dubin, che avrebbe dovuto avere luogo oggi 22 Aprile alle ore 8
e 04 minuti". È la sbalorditiva frase che accompagna un arresto in una
società futura in cui è possibile prevedere l’avvenire. La scena è tratta dal
film “Minority Report” (a sua volta basato su un racconto breve del celebre
scrittore di fantascienza Philip K. Dick). Come in “Minority Report”, anche
nell’impero austro-ungarico la prima guerra mondiale significò un’intensa
attività di “prevenzione del crimine”. Prevenzione che fu attuata tramite la
segregazione di migliaia di Trentini in una terra di nessuno, dove gli
internati avrebbero potuto diventare “nuda vita”, esseri umani de-umanizzati,
privati dei più elementari diritti. Ciò, fortunatamente, non accadde in
Austria, che era più che altro interessata a mettere nelle condizioni di non
nuocere i suoi stessi cittadini, sospettati di slealtà. Mancava la volontà di
estirpare il problema alla radice. Il potenziale, però, c’era. Germano Cetto,
consigliere del Tribunale di Trento, attribuisce al barone Gustav Reicher,
comandante del campo di internamento/concentramento di Katzenau, alla periferia
di Linz, questa dichiarazione: «Gott sei Dank! Wir haben keine Gesetze hier!» “Ringraziando Dio, qui non abbiamo leggi!”.
Una considerazione che ricorda un po’ la risposta del guardiano di Auschwitz a
Primo Levi: „hier ist kein warum!“ (“qui non ci sono perché”). I diari degli
internati testimoniano lo scarso amor patrio nei confronti dell’Italia. “La
patria è dove si sta bene e non si patisce la fame”, osserva sapientemente
Ambrosi. “Franza o Spagna, purché se magna”, e chi scrive non ci trova nulla da
eccepire: il patriottismo è stato l’alibi di troppe tragedie della storia per
meritare carta bianca e l’ideologia più in generale è importante per i
militanti, mentre la sua presa sulla popolazione è intermittente. Quel che fa
la differenza per una popolazione sono i traumi, la paura, la demoralizzazione,
la disperazione. Gli intellettuali, essendo abituati a lavorare con le idee,
inferiscono erroneamente che tutti gli altri hanno, come loro, bisogno di un
qualche profondo significato da attribuire alla vita, di una grande, splendida
narrazione. Il che è pietosamente falso. Per moltissime persone è sufficiente
vivere dignitosamente e poter dare un qualche senso anche non troppo elaborato
alla sua esistenza. Questo istintivo amore per il quieto vivere, mentre
purtroppo non favorisce la giustizia sociale, almeno serve a contenere l’aggressività
umana, e quindi ha dei meriti indiscutibili.
Hermann Göring
aveva certamente ragione nel puntualizzare che “è ovvio che la gente non vuole la guerra. Perché mai un povero
contadino dovrebbe voler rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio
maggiore che può trarne è quello di tornare a casa tutto intero? Ma sono i capi
che decidono la politica dei vari stati ed è sempre facile trascinarsi dietro
il popolo. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di
essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio paese al
pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi paese”. Sta di fatto che le
condizioni di vita del campo di Katzenau non furono disumane. Lo storico
Claudio Ambrosi rileva che se si patì la fame fu perché in tutto l’impero si
pativa la fame. Chi riuscì a fuggire si rese presto conto che non sarebbe stato
per nulla facile rientrare a casa e fece ritorno al campo. Quel che mi
interessa sottolineare non sono le analogie tra le condizioni di vita nei vari
campi di concentramento, ma la corrispondenza dei processi logici retrostanti,
della razionalizzazione del male. Un male che fu banale solo dal punto di vista
di chi lo commise, non certo da quello di chi lo subì, strappato alla sua casa
ed ai suoi affetti e rinchiuso in un luogo di desolazione, senza poter
immaginare se e quando sarebbe riuscito a fare ritorno. Un male che si radicò
nell’impero dopo l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, a Sarajevo.
Tra il 25 luglio e il 1 agosto del 1914 furono promulgati 32 decreti di
emergenza che instauravano una dittatura militare de facto nell’impero. La
guerra fu dichiarata il 28 luglio 1914, a distanza di un mese dall’attentato.
Il Patriot Act, un’analoga misura di emergenza che comprime fortemente i
diritti civili dei cittadini americani e conferisce poteri straordinari al presidente
ed all’intelligence, è stato controfirmato il 26 ottobre del 2001, a circa un
mese dall’attentato alle Torri Gemelle e poco più di due settimane dopo l’attacco
americano all’Afghanistan. I pretesti addotti per deportare circa duemila
prigionieri politici trentini furono eterogenei, ma in molti casi furono
contraddistinti da una kafkiana insensatezza. Erano giudicati politicamente
inaffidabili (“politisch unverlässlich”) persone che non avevano esposto la
bandiera imperiale, persone denunciate da vicini invidiosi o da coniugi
esasperati, insegnanti che si erano rifiutate di consegnare le chiavi della
scuola a degli ufficiali che vi volevano organizzare un ballo, donne sospettate
di prostituzione clandestina, uomini accusati di “vagabondaggio sospetto,
ovvero sospetto spionaggio”. Ambrosi annota: “Scorrendo questa documentazione
ci si rende subito conto che molto si basò effettivamente solo su sospetti,
delazioni o espressioni di simpatia politica al limite della legalità, forse,
ma di fatto non perseguibili… […]. Il tutto sembrava così assumere i contorni
solo della ricerca di un pretesto in grado di giustificare un provvedimento che
sembrava coinvolgere delle persone scomode, più che politicamente, socialmente”
(pp. 24-28).
La violazione
dei diritti fondamentali di migliaia di cittadini da parte dello Stato fu resa
possibile dalla colpevole deferenza dell’opinione pubblica nei confronti delle
autorità che etichettarono le poche obiezioni come anti-patriottiche e
sovversive. La storia delle deportazioni dei prigionieri politici trentini
rivela l’accecamento ideologico di chi non era disposto a fare auto-critica, a
porsi degli interrogativi che non fossero solo di ordine meramente
tecnico-burocratico, o anche solo ad ascoltare le ragioni degli altri. Ma
rivela anche il moralismo di una comunità che si sentiva custode delle virtù
collettive e che per questo accondiscese all’istituzione di uno stato di
polizia che praticò, tra le altre cose, una vera e propria caccia alle streghe
tra cittadini considerati inaffidabili, volubili, asociali, incompetenti,
troppo diversi dai cittadini irreprensibili, industriosi, ordinati,
coscienziosi, insomma ben irreggimentati di una società “ideale”. L’impero
austro-ungarico usò la guerra per mettere in ordine la vita, per costruire una
società forte ed eminentemente razionale.
Katzenau è
anche il simbolo di una colonizzazione dell’inconscio dei non-internato,
intorno ai quali fu creato un cordone sanitario, per tenerli alla larga dalle
cattive influenze dei dissenzienti ed eterodossi, un cordone fatto di
anestetizzazione delle facoltà critiche, omogeneizzazione delle strutture
mentali ed intellettuali, regolamentazione della quotidianità, contingentamento
della diversità. Chi rimase fu comunque assoggettato ad una libertà
condizionata, privato di una buona porzione dell’arbitrio soggettivo. Non fu più
possibile affermare valori divergenti e visioni del bene confliggenti. Così i
cittadini austriaci trentini non poterono beneficiare di un giusto processo e
furono rastrellati nell’indifferenza dei loro concittadini (Ambrosi, 2008). La
fassana Maria Dezulian, pur essendo stata assolta da ogni accusa da un
tribunale di Linz, dopo una custodia preventiva di due mesi, fu comunque
deportata. I “si dice”, l’avere delle sorelle o fratelli sposati con cittadini
italiani richiamava su di sé la condanna di slealtà, che comportava il proprio
internamento, anche quando non esisteva il benché minimo riscontro di un’attività
spionistica. Corinna Hafner di Rovereto fu internata per aver ricevuto una
cartolina dal marito al fronte che aveva aggiunto “Italia” all’indirizzo di
Rovereto. Luigi Anesi, cieco, fu comunque internato per aver detto
pubblicamente che gli Italiani avrebbero vinto. Maria Fontanari fu condannata a
dieci mesi di carcere e successivo internamento per aver suggerito che l’imperatore
si infilasse le sue mine laddove non batte il sole. Nel frattempo, furono
duemila i morti trentini in tre anni, sommando le vittime dei campi di
prigionia e dei campi per sfollati, colà relegati per proteggerli dalla guerra.
Ambrosi
introduce l’opera con una lucida ed importante considerazione sulle relazioni
che sussistono tra questi eventi del passato e quelli della contemporaneità,
come ad esempio i “Centri di Permanenza Temporanea”: “Sono questi luoghi della
sospensione del diritto con cui l’Italia ha disegnato all’interno del proprio
territorio spazi detentivi d’eccezione, che non rientrano nel diritto penale. […].
Se lo studio e la conoscenza della storia possono servire, il mio augurio è che
insegnino ai figli di tutti gli oppressi di ieri a non essere oppressori oggi”
(Ambrosi, 2008, p. 6). Io vorrei solo aggiungere che è necessario tenere sempre
bene a mente che, prima o poi, il vento cambia e chi non si preoccupa degli estranei
oppressi potrebbe scoprire che quella stessa sorte, o addirittura una peggiore,
sta toccando a lui. A questo proposito, valgono le riflessioni, amare ma
purtroppo corrispondenti al vero, del filosofo politico Luigi Alfieri (Alfieri,
2003, pp. 216): “l’uomo non ha
diritti. Non più di quanti ne abbiano le rane, le zanzare o i funghi. Dalla sua
mera esistenza biologica non risulta nient’altro se non necessità e
contingenza. Né possiamo illuderci di ottenere risultati più esaltanti
ricorrendo alla retorica della razionalità o della spiritualità dell’uomo. […].
Trovo, purtroppo, disperata la posizione dei tanti che pensano che Auschwitz
sia “contro la morale”, e che dunque basti essere morali per essere contro
Auschwitz, e per impedire Auschwitz. No: Auschwitz è il frutto rigoroso e
coerente di una morale, quella morale secondo cui gli uomini debbono essere
liberati dal parassitismo infettante e corruttore degli Unmenschen. Per amore
degli uomini. In nome di qualcosa che potremmo benissimo chiamare “diritti umani”.
E si potrebbe aggiungere che non è affatto un caso eccezionale. Si può
benissimo essere il comandante di una nave negriera o il proprietario di una
piantagione di cotone in Virginia ed essere un uomo onesto e timorato di Dio,
se i Neri non sono uomini. Si può essere un santo (magari regolarmente
canonizzato: ci sono esempi) e mandare al rogo eretici e streghe, se eretici e
streghe sono esseri umani corrotti e pervertiti, di cui magari proprio il rogo
può salvare l’anima. Purtroppo, e temo che non ci sia niente da fare a questo
proposito, ogni morale storica distingue gli uomini veri e giusti dagli uomini
solo apparentemente o imperfettamente tali, e ritiene del tutto conforme ai
diritti umani che gli Unmenschen o Untermenschen siano sterminati (o ridotti in
schiavitù o convertiti, o civilizzati)…Auschwitz è molto antica: Auschwitz, in
forme diverse, è esistita prima di Auschwitz…funziona ancora, e non ha neanche
ridotto i propri ritmi (pensiamo all’immenso genocidio per incuria,
indifferenza ed egoismo che si sta consumano in Africa)”.
I primi
campi di concentramento, chiamati “di riconcentramento”, furono istituiti a
Cuba dal generale spagnolo di origine prussiana Valeriano Weyler y Nicolau,
nominato governatore nel 1896, con l’incarico di sedare la rivolta sull’isola,
che ormai si prolungava da un anno. Furono decine di migliaia i Cubani che
morirono per gli stenti e le malattie, in poco più di un anno. Nel 1898, a
Mindanao, gli Americani costruiscono campi di concentramento sul modello
spagnolo, quello messo in opera dal generale Weyler y Nicolau per sedare la
rivolta cubana del 1896 e che furono uno dei pretesti per il loro interventismo
“umanitario” a Cuba. La motivazione di questo loro sorprendente voltafaccia fu:
"per proteggere la popolazione civile non combattente delle Filippine”.
Morirono dodicimila filippini, con tassi di mortalità del 20 per cento. Quasi
trentamila, in gran parte donne e bambini, furono le vittime dei campi inglesi
in Sudafrica, durante la guerra boera, tra il 29 Novembre del 1900 ed il 31
Maggio 1902. I campi di concentramento sono dunque elementi costitutivi, non
collaterali, della spinta totalitaria alla subumanizzazione di certe
popolazioni da parte di certe altre.
Fu però in
Germania, all’inizio del secolo scorso, che questa tendenza si radicalizzò,
gettando le basi per lo sterminio di milioni di ebrei, nomadi e prigionieri di
guerra. Lo storico polacco Andrzej J. Kaminski, sopravvissuto a Gross-Rosen e
Flossenburg, ha dedicato una tragica ed erudita disquisizione al tema dei campi
di concentramento (Kaminski, 1998), descrivendo la sinistra deriva integralista
del nazionalismo pangermanista. Ernst Hasse (1846-1908), era un parlamentare
tedesco ed un docente di statistica a Lipsia, nonché presidente della
famigerata Alldeutscher Verband (Lega Pangermanica), un’associazione
pangermanista che comprendeva una parte significativa dell’élite germanofona e
che all’inizio del secolo scorso contava oltre 22mila membri. Nel 1905 l’Alldeutscher
Verband contava 150mila aderenti, se si includono le organizzazioni associate
alla Lega, con 30 parlamentari. Dopo la sconfitta nella Grande Guerra la Lega
Pangermanica fece una strenua propaganda contro la repubblica di Weimar e in
favore della dittatura, a partire dal 1919. Nei circoli della Lega Pangermanica
si impiegavano termini che risulteranno familiari a tutti quelli che hanno
studiato la propaganda nazista, quali Herrenvolk, Lebensraum, Drang nach Osten,
Rassenfremde e Volksfremde (estranei alla razza ed all’etnia), Feinde ringsum (“i
nemici ci circondano”), la “soluzione del Problema Giudeo” e Rassenhygiene
(eugenetica ed eutanasia praticate su base razziale, selettiva). Per Hasse “germanizzare
è un diritto” e “l’unica cosa che rimane
stabile flusso dei millenni è il Volk”. Per tale ragione, nella prima parte
della sua opera intitolata “Deutsche Politik” e rimasta incompiuta, scrisse: “se
si vuole fare del Reich tedesco uno Stato nazionale bisogna rendersi conto che è
necessario abolire il principio di parità. […] Una certa formazione intellettuale
mal si accorda con l’attenzione esclusiva a un lavoro meccanico, pesante e
sporco, che mortifica lo spirito” (Kaminski, 1998, p. 48). Come ci si
doveva muovere per realizzare questo obiettivo? Hasse vedeva due possibili
opzioni: “la prima è mantenere una certa
parte del nostro popolo al più basso livello dell’organizzazione produttiva
della società, ma in tal caso anche della cultura, rinunciando alla crudeltà di
dare a questa parte un’istruzione scolastica superiore che desterebbe l’esigenza
di un tenore di vita più elevato. In uno Stato le cui frontiere sono chiuse all’immigrazione,
questa soluzione è quella più auspicabile dal punto di vista della razza. Ma
accetterà una parte del nostro popolo tedesco la condizione di ilota? Non ha
forse, per origine e storia, lo stesso diritto di appartenenza al popolo
dominatore tedesco?”. Questa soluzione andava dunque scartata. Sarebbe
stato meglio avvalersi di polacchi, cechi, ebrei e italiani, che dovevano
essere condannati alla condizione di iloti: “la cosa si può fare, se si riesce
a mantenere per sempre in quella condizione gli individui e le generazioni”. In
soldoni, li si mantiene ignoranti della lingua e cultura tedesca, perché
altrimenti pretenderanno lo stesso tenore di vita dei Tedeschi, pur non essendo
tali. Hasse sottolineava comunque il rischio permanente che “la parte più debole degli stranieri si
fonda con il ceppo razziale e, poiché è la più debole, corrompa la razza
germanica” (ibidem, p. 49). Il generale Eduard von Libert, membro della direzione
centrale dell’Alldeutscher Verband, pubblicò un opuscolo in cui proponeva l’abolizione
della scuole dell’obbligo per i bambini di lingua polacca che non conoscevano
già il tedesco e l’abolizione del servizio di leva, in modo da impedire che
ricevessero un addestramento militare prussiano. Questo, a suo dire, sarebbe
stato il modo migliore di produrre iloti. L’antropologo Otto Ammon proponeva
come terza soluzione quella americana dell’importazione di lavoratori immigrati
ai quali assegnare i compiti più ingrati, per paghe da fame, in modo da
impedire che si integrassero. Nel 1905, Josef Ludwig Reimer, lo scrittore
viennese socialista che metteva la questione razziale e social-darwinista al
centro del riscatto del proletariato, pubblicò un volume che, per lo storico
polacco Stojanowski, rappresenta la “fonte della dottrina nazionalsocialista”.
Chiede che si conceda ad una limitata percentuale di “non-germani” di
insediarsi tra i Germani in veste di “coloni lavoratori”, con cittadinanza
limitata, senza la possibilità di sposarsi e di procreare: “la cosa decisamente più semplice sarebbe
che, sul suolo del Reich, alla moltiplicazione (espansione) dei germani facesse
da contraltare la scomparsa (estinzione) dei non germani”. Nel “Mein Kampf”,
Hitler effettuava un’ampia revisione della storia tedesca, spiegando che “senza la possibilità di servirsi di esseri
umani inferiori l’ariano non avrebbe mai potuto compiere i primi passi verso la
sua cultura successiva. […]. Per la formazione delle culture superiori la disponibilità
di esseri umani inferiori costituisce una delle precondizioni essenziali, dato
che permette di far fronte alla mancanza di strumenti tecnici, in assenza dei
quali ogni ulteriore sviluppo è impensabile. Sicuramente le prime culture si
basarono meno sull’addomesticamento degli animali e molto più sull’impiego di
schiavi. Soltanto dopo che le razze umane di minor valore furono ridotte in
schiavitù la stessa sorte cominciò a investire anche gli animali, e non
viceversa […] Perciò prima fu aggiogato all’aratro il nemico sconfitto e solo
dopo di lui il cavallo”. Nel suo secondo libro, rimasto inedito fino al
dopoguerra, il Führer scriveva: “il soggiogamento di 350.000 Eloti da parte di
6000 Spartani fu possibile solo grazie alla superiorità razziale degli Spartani
che a sua volta era il risultato di una preservazione razziale sistematica.
Quello Spartano fu il primo stato razziale. La distruzione dei bambini malati, deformi e fragili dimostrava una
grande dignità ed era mille volte più umana della patetica infermità dei nostri
tempi che tiene in vita i malati cronici e impedisce la nascita dei sani
tramite l’aborto e l’uso dei metodi anticoncezionali”. A dire il vero il
numero di Spartiati scese in 200 anni da 8000 cittadini a 1500 nel 371 a.C. Il
che non era di buon auspicio per i sogni hitleriani riguardo alle popolazioni
slave, che non dovevano essere educate, ma dovevano restare analfabete, al
massimo in grado di leggere i cartelli stradali. Non avrebbero avuto accesso
alle città dei signori, se non durante delle visite-premio, per tormentarli con
l’esperienza di un’esistenza ideale che a loro non sarebbe mai stato concessa
(Hitler, 2010).
Lo storico
tedesco Eugen Kogon, sopravvissuto ai campi di concentramento per diventare uno
dei padri della Repubblica Federale Tedesca, ha riferito di un colloquio che
ebbe nel 1937 con un ufficiale delle SS, che gli descrisse il futuro che
avevano in mente: “ciò che noi,
educatori delle nuove leve del Führer, vogliamo, è una moderna statualità
articolata secondo il modello delle città-Stato elleniche. Bisogna pensare a
queste democrazie strutturate aristocraticamente, con la loro larga base
economica di iloti, come ai maggiori risultati culturali dell’antichità. Il
cinque-dieci per cento della popolazione, i migliori accuratamente selezionati,
devono comandare, il resto deve lavorare e obbedire. Soltanto così sarà
possibile raggiungere quelle alte mete che proponiamo a noi stessi e al popolo
tedesco” (Kaminski, 1998, p. 138). Infine, in un memorandum del 1942
approntato dal delfino di Hitler, Martin Bormann, leggiamo: “Gli Slavi devono lavorare per noi. Quelli
che non ci servono possono pure morire…La fertilità degli Slavi è
indesiderabile. Possono usare contraccettivi o praticare l’aborto, più lo
faranno meglio sarà. L’educazione è pericolosa. È sufficiente che sappiano
contare fino a cento…ogni persona educata è un futuro nemico. Per quanto
riguarda il cibo, non devono riceverne più del necessario: noi siamo i padroni,
ci siamo prima noi” (citato in Gilbert, 2005, p. 261).
Per un’enciclopedica
e scrupolosa trattazione del reticolo di rapporti tra i maggiori esponenti del
razzismo nazionalista pangermanista e gli ispiratori del nazional-socialismo e
di come il peggio del Nietzsche più retrivo e intollerante venne impiegato per
edificare una dottrina totalitaria ancor prima dell’avvento di Hitler, rimando
i lettori agli eccellenti studi di Richard Hinton Thomas (1983) e Peter Emil
Becker (1990).
Spiace
dire che non fu solo nella “civile” Europa che si fece esperienza dell’universo
concentrazionario. In Russia e Cina i dissidenti morirono a centinaia di
migliaia, In Nord America, invece, la situazione rassomigliava molto da vicino
quella dei Trentini a Katzenau, ma su più vasta scala. Nel 1942, in conseguenza dell’attacco a Pearl Harbor ed in virtù degli
ordini esecutivi 9066, 9095 e 9102, oltre 120mila residenti giapponesi negli
Stati Uniti, due terzi dei quali erano cittadini americani, furono deportati ed
internati in nove diversi campi di concentramento, pur non avendo commesso
alcun crimine, non essendo stati sottoposti ad alcun processo, non avendo
ricevuto alcuna condanna. Furono costretti a vendere immediatamente le loro
proprietà e una parte dei loro beni fu confiscata. Dal canto suo, il Canada internò 23mila Giapponesi
residenti in Canada, l’80% dei quali possedeva la cittadinanza giapponese.
Furono costretti ai lavori forzati per sostituire la manovalanza spedita al
fronte. Tra questi vi era il celebre genetista ed ecologista David Suzuki. Al
termine del conflitto 4mila canadesi di etnia giapponese furono deportati in un
Giappone affamato annichilito dai bombardamenti alleati, una terra che in
moltissimi casi non avevano neppure mai visto.
Negli
Stati Uniti lo status dei cittadini di etnia giapponese era quello di “prigionieri
politici”. Nessuno impiegò mai ufficialmente il termine “campi di
concentramento”, sebbene nei fatti i campi in cui furono rinchiusi, come quello
di Manzanar, nel deserto californiano, lo fossero, come lo è ogni luogo in cui
si concentrano delle persone dietro del filo spinato e con guardie armate di
sorveglianza nelle torrette. Come spesso avviene, invece dei vocaboli più
appropriati, si impiegarono eufemismi come “evacuazione”, “trasferimento” e “non-stranieri”,
come se si trattasse di un’operazione di salvataggio di cittadini colpiti da
una catastrofe naturale, per il loro bene. L’espressione “non-stranieri” (“non-alien”)
è particolarmente rivelatrice e rimanda alla sorte dei Trentini deportati a
Katzenau. Cosa può voler dire “non-straniero”? Nel gergo eufemistico e
manipolatore della burocrazia statale, sempre attenta ad evitare di offrire
appigli agli avvocati dei deportati, “non-stranieri” erano i cittadini
americani dell’etnia “sbagliata”, come nell’Impero Asburgico erano i cittadini
austriaci di lingua italiana. L’intento era quello di spogliarli dei loro
diritti costituzionali e per farlo non potevano ribadire il loro status di
cittadini statunitensi, con pari diritti rispetto a tutti gli altri.
Analogamente, Alcide Degasperi allora deputato trentino al Parlamento di
Vienna, a proposito delle deportazioni subite dai Trentini, protestò per la
violazione della legge 66, del 5 maggio 1869 e della legge fondamentale dello
stato del 21 dicembre 1867, n. 142, che regolano “le conseguenze della sospensione
dei diritti generali dei cittadini in caso di guerra, o di imminenti imprese
belliche. Secondo la detta legge, nei casi ora accennati, vien data facoltà di
sfrattare da luoghi e distretti che non siano quelli di pertinenza; mentre
nessuna legge concede all’autorità il diritto di allontanare i cittadini a suo
piacimento, o di cacciarli ove vuole, e molto meno di rinchiuderli in campi di
concentramento” (citato in Ambrosi, 2008, p. 11, nota 3). Come i cittadini
americani di etnia giapponese, i cittadini austriaci di etnia trentina furono
bollati come politisch unverlässlich (politicamente infidi, inaffidabili), il “sospetto
vagabondaggio” divenne “sospetto spionaggio”. Nella Germania nazista i campi di
concentramento e sterminio furono chiamati “campi di transito”, “campi di
custodia protettiva”, “campi di accoglienza” “campi di lavoro”, “centri di
raccolta” e “centri di trasferimento”.
In tutti
questi casi gli eufemismi legalistici
sono serviti a neutralizzare possibili rilievi di incostituzionalità,
preservarono una facciata di moralità e decenza, indussero i deportati a
collaborare volontariamente e tacitarono eventuali scrupoli dei burocrati che
organizzarono la deportazione e delle forze dell’ordine che la misero in atto.
In tutti questi casi le leggi
fondamentali dello stato e i diritti fondamentali dei cittadini furono
ignorate, come se non fossero mai esistite, come se fossero delle finzioni,
buone solo in tempo di pace.
Queste
azioni devono restare un monito per tutti noi, che viviamo in un’epoca in cui
la linea separatoria tra campo profughi, campo di internamento e campo di
prigionia è diventata nuovamente molto, ma molto labile e i diritti
inalienabili sono diventati nuovamente alienabili, come se i totalitarismi e le
dittature militari del secolo scorso non ci avessero insegnato nulla. In
particolare, è bene elucidare la questione del linguaggio ingannevole, perché i
confini del mondo umano, della sfera socioculturale, sono stabiliti dal
linguaggio che impieghiamo. Siamo animali simbolici e le parole influenzano il
modo in cui percepiamo la realtà ed interagiamo con essa, meccanicamente ed
inconsciamente: la forma può alterare il contenuto. Per questo George Orwell,
in “1984”, enfatizza molto il ruolo della “Neolingua” nell’addomesticamento della
popolazione ad una realtà totalitaria, ma che non deve apparire come tale: “Fine della Neolingua non era soltanto
quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le
abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing, ma soprattutto quello di
rendere impossibile ogni altra forma di pensiero…un pensiero eretico (e cioè un
pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente
impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è
suscettibile di essere espresso…La Neolingua era intesa non a estendere, ma a
diminuire le possibilità del pensiero” (Orwell, 1984, pp. 315-316). Così,
in “1984”, i quattro ministeri di Oceania hanno nomi opposti alla loro vera
natura, cioè il Ministero della Pace si occupa di guerra, quello
dell'Abbondanza dispensa carestia, quello della Verità falsifica la storia, e
quello dell'Amore è il luogo delle più terribili torture. Il potere malevolo e
non benevolo dipende specialmente dalle parole e dalla disponibilità della
popolazione a prenderle per buone ed assecondarle. Parole, frasi fatte,
metafore più o meno dissimulate, simbologie e strutture linguistiche in
generale possono servire ad incantare, ad alterare la nostra percezione del
cosmo (per associazione condizionata, ossia reazione meccanica) e dunque
controllare l’umanità, instillando la propensione a comportarsi in un certo
modo piuttosto che in un altro. Se manca un termine di paragone, la gente non
si rende neppure conto di essere oppressa. Il potere sfrutta questa propensione
umana operando anche attraverso l’edificazione e preservazione di epistemologie
del vero e di illusioni di scelta che mascherano l’assenza di una scelta
autentica. Ragionamenti formalmente raffinati occultano premesse insostenibili
e legittimano finalità riprovevoli. Tra chi esercita il potere ci sono anche i
maestri della manipolazione del linguaggio e della relativizzazione della
morale. Travestimenti, fantasie mimetiche, metamorfosi sono i ferri del
mestiere che consentono di dissimulare la realtà, di camuffare da legittimi
imperativi i suoi istinti irrefrenabili, scelleratezze e trasgressioni.
Proviamo a riflettere su questo aspetto particolarmente visibile della cultura
contemporanea, l’uso metodico di eufemismi,
sofismi e trappole semantiche come “missione di pacificazione” e “missione di
pace” (invasione e guerra), “supporto aereo” (bombardamento), “proteggere la
nostra libertà” (guerra preventiva), “l’amore vince sull’odio” (conversione), “il
prezzo della libertà” (sacrificio dei diritti), “guerra al terrore” (terrorismo
psicologico), “danni collaterali” (per fare una frittata bisogna rompere le
uova), “trasferimento di profughi” (deportazione), “difesa aggressiva”
(attacco), “cambio di regime” (colpo di stato), “omicidio extra-giudiziario”
(esecuzione, omicidio eccellente), “metodi d’interrogatorio più aggressivi” e “tecniche
avanzate di interrogatorio” (tortura), “consegne straordinarie” (extraordinary
renditions, deportazioni illegali), “combattenti nemici illegali”
(inapplicabilità della convenzione di Ginevra). “Capacità difensiva dinamica” è
l’eufemismo con cui il governo giapponese ha aggirato la costituzione
consentendo all’esercito nipponico, che può essere solo difensivo, ad
intervenire globalmente ed attaccare preventivamente. Il partito turco
responsabile del genocidio armeno si chiamava Comitato per l’Unione ed il
Progresso. Gli slogan nazisti apposti all’ingresso dei campi di sterminio sono
di una spudoratezza nauseante: “Arbeit Macht Frei” (“il lavoro rende liberi”,
ad Auschwitz) e “Jedem das Seine” (“a ciascuno il suo”, a Buchenwald).
In certi
casi ed in certe forme l’effetto può essere paragonabile ad un’induzione
ipnotica e può rendere concepibile ed accettabile ciò che prima non lo era. Non
bisogna dunque sottovalutare il potere che il linguaggio esercita su di noi.
Sfruttando ritmi, allusioni,
ambivalenze, toni perentori ed apodittici, ambiguità e reiterazioni insistite,
analogie, metafore, allegorie, acronimi, eufemismi, slogan, parole-chiave,
tormentoni, gergalità, l’associazione e la risonanza psicologica e simbolica di
certe espressioni comuni può acquisire delle dimensioni nuove e subdole.
In questo modo la comunicazione linguistica può essere pervertita per generare
confusione, o una falsa consapevolezza, in modo da prendere per mano il
cittadino e fargli accettare idee che non avrebbe mai accettato se fossero
state presentate con un’esposizione chiara e responsabile. Purtroppo il nostro
cervello non è sempre in grado di individuare affermazioni contraddittorie ed
incoerenti perché tende a completare frasi e pensieri e correggere errori in
modo da dare loro un senso, come quando vediamo un’insegna luminosa con la
scritta “mtel” e sappiamo che significa “motel”. Esiste un’umana inclinazione alla proiezione che ci spinge ad
attribuire a qualcuno le sensazioni che suscita in noi. Se la forma è bella e
piacevole, allora lo sarà anche la sostanza. Se il lupo si traveste da agnello,
noi pensiamo che sia mansueto, perché la sua lana è morbida. Oltre a ciò
tendiamo a credere di aver capito qualcosa se siamo capaci di affibbiargli un
nome o un’etichetta. Per questo motivo è importante capire che la propaganda,
la mimesi del potere, non inganna le persone, le aiuta ad ingannarsi.
George
Orwell ammoniva che la cosa peggiore che si può fare con le parole è
arrendervisi, lasciare che esse controllino i nostri pensieri. Dobbiamo fare
attenzione alle parole che ci piovono addosso per evitare che divengano mantra
capaci di ottundere la nostra capacità di discernimento. Si controbatte questa
strategia continuando a ricontestualizzare ogni cosa, evento, fenomeno che ci
risulta familiare. Osservare da molteplici punti di vista per vincere i legami
della convenzionalità, l’inscatolamento di cose, persone e situazioni, la
catalogazione arbitraria ed artificiale della realtà in cassettini simili a
quelli dell’erborista. Occorre essere semplici come la colomba, prudenti come
il serpente, soprattutto perché la storia dell’universo concentrazionario non
si è conclusa con la sconfitta dei totalitarismi.
In questo
momento, negli Stati Uniti, è ancora in corso un processo - Turkmen v. Ashcroft - che si protrae
dall’aprile del 2002 e che riguarda la costituzionalità del prelevamento
clandestino e detenzione senza accusa e senza termini definiti di quei
cittadini stranieri residenti sul suolo americano dopo l’11 settembre e il cui
permesso di soggiorno era scaduto (sono quasi 12 milioni negli Stati Uniti). In
una radicale inversione del diritto dei paesi democratici, migliaia di persone
sono state considerate colpevoli finché non hanno potuto dimostrare la loro
innocenza. Nessuno dei 6mila arrestati è stato condannato per un reato legato
al terrorismo. Se l’azione collettiva (class action) a tutela dei loro diritti
non dovesse avere successo, i futuri governi americani si vedrebbero
riconosciuto il diritto di radunare in centri di detenzione speciali i
cittadini di un’etnia maggioritaria in nazioni con cui dovesse entrare in
guerra (o da cui dovessero provenire dei terroristi) e che fossero senza un permesso
di soggiorno valido. L’etnia è diventata un’indicazione di potenziale
colpevolezza che rende soggetti alla perdita dei diritti fondamentali. Potrebbe
succedere ai musulmani, o agli ebrei (nel caso di una qualche iniziativa
sconsiderata da parte di un governo israeliano), agli hindu, ai latinos, a
chiunque sia associabile a gruppi terroristici o sovversivi o a nazioni
responsabili di danneggiare gli interessi americani. Nessuna nazione è immune
dal rischio della sospensione dei diritti umani. Abu Ghraib e Guantánamo sono
dei moniti, come lo è il carcere di Abu Selim, dove nel 1996 Gheddafi fece
trucidare un migliaio di detenuti tra i quali molti islamisti reduci dall’Afghanistan,
che avevano organizzato un gruppo di resistenza contro il regime. Né gli Europei,
né gli Americani protestarono ufficialmente. Quello stesso carcere fu
successivamente impiegato da Gheddafi, sotto la supervisione americana, come “filiale
di Guantanamo” nella Guerra al Terrore contro gli stessi fondamentalisti
islamici afgani e pachistani. Nel 2011, dopo l’inizio dell’insurrezione di
Bengasi e Misurata, è diventato un importante casus belli dell’operazione “Alba
di un’Odissea”, patrocinata dall’ONU con la risoluzione 1973.
Quel che
noi, persone comuni, cerchiamo di rimuovere dalla nostra consapevolezza, per
protegge la nostra psiche, per non dover affrontare le nostre paure, è l’esistenza
di quelle forze titaniche quanto perfido sinistre che sono all’opera nella
storia moderna e che minacciano tutti gli esseri umani, non solo gli Ebrei o
altre minoranze (Rubenstein, 2001). Bisogna restare sempre vigili e
circospetti, non credere mai che qualcosa appartenga definitivamente al
passato. Nessun Ebreo dell’Europa
occidentale si aspettava di finire vittima di giganteschi pogrom. Nessun nomade
magiaro si sarebbe aspettato di dover sottostare a normative ferocemente
discriminatorie da un governo che fa parte dell’Unione Europea, come sta
accadendo in questi mesi.
Esiste una continuità nella storia dell’istituzione
sociale chiamata schiavismo, che oggi si ripropone in nuove forme: vortice dell’indebitamento
nazionale, prostituzione tramite tossicodipendenza, indebitamento e violenza
coercitiva o minaccia di ritorsione contro parenti rimasti in patria; racket
delle elemosine, traffico di organi, sfruttamento ed abuso di minori nella
pedopornografia, tratta di immigrati. Auschwitz è solo il culmine di queste
tendenze. Mentre nei sistemi semi-feudali l’essere
umano era trattato come una cosa ma parzialmente considerato un essere umano,
nei sistemi capitalistici si tende ad enfatizzare soprattutto la sua dimensione
di oggetto e merce. I lager dovevano servire a smaltire l’eccesso di slavi
quando l’industria bellica non avesse più saputo che farne e i piani di
sterilizzazione di massa non erano indirizzati solo agli slavi ma anche ai
latini e mediterranei.
La
democrazia serve ad evitare che la rimozione consegua all’abbondanza di
manodopera, che si applichino le regole della zootecnia all’umanità e non solo
al bestiame. Le dichiarazioni di una parte dell’intelligentsia euro-americana
del dopoguerra in favore della pena di morte, delle sterilizzazioni e
castrazioni di massa degli indesiderabili, della necessità di plasmare la
specie umana, stanno lì a testimoniarne l’importanza (Fait, 2008).
I campi di internamento e forse persino quelli
di sterminio possono tornare ad essere un modello di ordine sociale futuro e
nessuno di noi se lo può permettere. Teniamoci stretta la democrazia!
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