giovedì 20 ottobre 2011

Da Katzenau a Guantánamo, a...teniamoci stretta la democrazia!




Voglio dirvi, camerati, come sarà l’ordine sociale del futuro: ci sarà un ceto di dominatori, composto degli elementi più diversi selezionati attraverso la lotta, un ceto che è frutto della storia. Ci sarà un numeroso gruppo di membri del partito strutturato in modo gerarchico; essi costituiranno il nuovo ceto medio. E ci sarà una gran massa di anonimi, la collettività dei servitori, degli eterni minorenni, non importa se provenienti dalle file della vecchia borghesia e dei grandi proprietari terrieri, od operai e artigiani. La posizione economica e il ruolo sociale ricoperti nel passato non avranno più il minimo significato. Queste differenze ridicole verranno sciolte e annullate in un processo rivoluzionario mai visto prima. Inoltre ci sarà altresì il ceto dei sottomessi di origine straniera, che possiamo tranquillamente definire gli schiavi dell’età contemporanea. […]. Ci sarà una specifica educazione per ogni ceto e all’interno di ciascuno di essi per ogni specifico gradino. La completa libertà d’istruzione è privilegio dell’élite e di quanti essa decide in via straordinaria di promuovere […]. E noi dovremo essere coerenti fino in fondo e lasciare alla grande massa del ceto inferiore il beneficio dell’analfabetismo.
Adolf Hitler

- Quando io uso una parola, - disse Unto Dunto in tono d'alterigia, - essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno.
- Si tratta di sapere, - disse Alice, - se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
- Si tratta di sapere, - disse Unto Dunto, - chi ha da essere il padrone... Questo è tutto.
Lewis Carroll, “Attraverso lo specchio”

"Signor Marks, in nome della sezione Precrimine di Washington la dichiaro in arresto per il futuro omicidio di Sarah Marks e Donald Dubin, che avrebbe dovuto avere luogo oggi 22 Aprile alle ore 8 e 04 minuti". È la sbalorditiva frase che accompagna un arresto in una società futura in cui è possibile prevedere l’avvenire. La scena è tratta dal film “Minority Report” (a sua volta basato su un racconto breve del celebre scrittore di fantascienza Philip K. Dick). Come in “Minority Report”, anche nell’impero austro-ungarico la prima guerra mondiale significò un’intensa attività di “prevenzione del crimine”. Prevenzione che fu attuata tramite la segregazione di migliaia di Trentini in una terra di nessuno, dove gli internati avrebbero potuto diventare “nuda vita”, esseri umani de-umanizzati, privati dei più elementari diritti. Ciò, fortunatamente, non accadde in Austria, che era più che altro interessata a mettere nelle condizioni di non nuocere i suoi stessi cittadini, sospettati di slealtà. Mancava la volontà di estirpare il problema alla radice. Il potenziale, però, c’era. Germano Cetto, consigliere del Tribunale di Trento, attribuisce al barone Gustav Reicher, comandante del campo di internamento/concentramento di Katzenau, alla periferia di Linz, questa dichiarazione: «Gott sei Dank! Wir haben keine Gesetze hier!» “Ringraziando Dio, qui non abbiamo leggi!”. Una considerazione che ricorda un po’ la risposta del guardiano di Auschwitz a Primo Levi: „hier ist kein warum!“ (“qui non ci sono perché”). I diari degli internati testimoniano lo scarso amor patrio nei confronti dell’Italia. “La patria è dove si sta bene e non si patisce la fame”, osserva sapientemente Ambrosi. “Franza o Spagna, purché se magna”, e chi scrive non ci trova nulla da eccepire: il patriottismo è stato l’alibi di troppe tragedie della storia per meritare carta bianca e l’ideologia più in generale è importante per i militanti, mentre la sua presa sulla popolazione è intermittente. Quel che fa la differenza per una popolazione sono i traumi, la paura, la demoralizzazione, la disperazione. Gli intellettuali, essendo abituati a lavorare con le idee, inferiscono erroneamente che tutti gli altri hanno, come loro, bisogno di un qualche profondo significato da attribuire alla vita, di una grande, splendida narrazione. Il che è pietosamente falso. Per moltissime persone è sufficiente vivere dignitosamente e poter dare un qualche senso anche non troppo elaborato alla sua esistenza. Questo istintivo amore per il quieto vivere, mentre purtroppo non favorisce la giustizia sociale, almeno serve a contenere l’aggressività umana, e quindi ha dei meriti indiscutibili.
Hermann Göring aveva certamente ragione nel puntualizzare che “è ovvio che la gente non vuole la guerra. Perché mai un povero contadino dovrebbe voler rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio maggiore che può trarne è quello di tornare a casa tutto intero? Ma sono i capi che decidono la politica dei vari stati ed è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi paese”. Sta di fatto che le condizioni di vita del campo di Katzenau non furono disumane. Lo storico Claudio Ambrosi rileva che se si patì la fame fu perché in tutto l’impero si pativa la fame. Chi riuscì a fuggire si rese presto conto che non sarebbe stato per nulla facile rientrare a casa e fece ritorno al campo. Quel che mi interessa sottolineare non sono le analogie tra le condizioni di vita nei vari campi di concentramento, ma la corrispondenza dei processi logici retrostanti, della razionalizzazione del male. Un male che fu banale solo dal punto di vista di chi lo commise, non certo da quello di chi lo subì, strappato alla sua casa ed ai suoi affetti e rinchiuso in un luogo di desolazione, senza poter immaginare se e quando sarebbe riuscito a fare ritorno. Un male che si radicò nell’impero dopo l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, a Sarajevo. Tra il 25 luglio e il 1 agosto del 1914 furono promulgati 32 decreti di emergenza che instauravano una dittatura militare de facto nell’impero. La guerra fu dichiarata il 28 luglio 1914, a distanza di un mese dall’attentato. Il Patriot Act, un’analoga misura di emergenza che comprime fortemente i diritti civili dei cittadini americani e conferisce poteri straordinari al presidente ed all’intelligence, è stato controfirmato il 26 ottobre del 2001, a circa un mese dall’attentato alle Torri Gemelle e poco più di due settimane dopo l’attacco americano all’Afghanistan. I pretesti addotti per deportare circa duemila prigionieri politici trentini furono eterogenei, ma in molti casi furono contraddistinti da una kafkiana insensatezza. Erano giudicati politicamente inaffidabili (“politisch unverlässlich”) persone che non avevano esposto la bandiera imperiale, persone denunciate da vicini invidiosi o da coniugi esasperati, insegnanti che si erano rifiutate di consegnare le chiavi della scuola a degli ufficiali che vi volevano organizzare un ballo, donne sospettate di prostituzione clandestina, uomini accusati di “vagabondaggio sospetto, ovvero sospetto spionaggio”. Ambrosi annota: “Scorrendo questa documentazione ci si rende subito conto che molto si basò effettivamente solo su sospetti, delazioni o espressioni di simpatia politica al limite della legalità, forse, ma di fatto non perseguibili… […]. Il tutto sembrava così assumere i contorni solo della ricerca di un pretesto in grado di giustificare un provvedimento che sembrava coinvolgere delle persone scomode, più che politicamente, socialmente” (pp. 24-28).
La violazione dei diritti fondamentali di migliaia di cittadini da parte dello Stato fu resa possibile dalla colpevole deferenza dell’opinione pubblica nei confronti delle autorità che etichettarono le poche obiezioni come anti-patriottiche e sovversive. La storia delle deportazioni dei prigionieri politici trentini rivela l’accecamento ideologico di chi non era disposto a fare auto-critica, a porsi degli interrogativi che non fossero solo di ordine meramente tecnico-burocratico, o anche solo ad ascoltare le ragioni degli altri. Ma rivela anche il moralismo di una comunità che si sentiva custode delle virtù collettive e che per questo accondiscese all’istituzione di uno stato di polizia che praticò, tra le altre cose, una vera e propria caccia alle streghe tra cittadini considerati inaffidabili, volubili, asociali, incompetenti, troppo diversi dai cittadini irreprensibili, industriosi, ordinati, coscienziosi, insomma ben irreggimentati di una società “ideale”. L’impero austro-ungarico usò la guerra per mettere in ordine la vita, per costruire una società forte ed eminentemente razionale.
Katzenau è anche il simbolo di una colonizzazione dell’inconscio dei non-internato, intorno ai quali fu creato un cordone sanitario, per tenerli alla larga dalle cattive influenze dei dissenzienti ed eterodossi, un cordone fatto di anestetizzazione delle facoltà critiche, omogeneizzazione delle strutture mentali ed intellettuali, regolamentazione della quotidianità, contingentamento della diversità. Chi rimase fu comunque assoggettato ad una libertà condizionata, privato di una buona porzione dell’arbitrio soggettivo. Non fu più possibile affermare valori divergenti e visioni del bene confliggenti. Così i cittadini austriaci trentini non poterono beneficiare di un giusto processo e furono rastrellati nell’indifferenza dei loro concittadini (Ambrosi, 2008). La fassana Maria Dezulian, pur essendo stata assolta da ogni accusa da un tribunale di Linz, dopo una custodia preventiva di due mesi, fu comunque deportata. I “si dice”, l’avere delle sorelle o fratelli sposati con cittadini italiani richiamava su di sé la condanna di slealtà, che comportava il proprio internamento, anche quando non esisteva il benché minimo riscontro di un’attività spionistica. Corinna Hafner di Rovereto fu internata per aver ricevuto una cartolina dal marito al fronte che aveva aggiunto “Italia” all’indirizzo di Rovereto. Luigi Anesi, cieco, fu comunque internato per aver detto pubblicamente che gli Italiani avrebbero vinto. Maria Fontanari fu condannata a dieci mesi di carcere e successivo internamento per aver suggerito che l’imperatore si infilasse le sue mine laddove non batte il sole. Nel frattempo, furono duemila i morti trentini in tre anni, sommando le vittime dei campi di prigionia e dei campi per sfollati, colà relegati per proteggerli dalla guerra.
Ambrosi introduce l’opera con una lucida ed importante considerazione sulle relazioni che sussistono tra questi eventi del passato e quelli della contemporaneità, come ad esempio i “Centri di Permanenza Temporanea”: “Sono questi luoghi della sospensione del diritto con cui l’Italia ha disegnato all’interno del proprio territorio spazi detentivi d’eccezione, che non rientrano nel diritto penale. […]. Se lo studio e la conoscenza della storia possono servire, il mio augurio è che insegnino ai figli di tutti gli oppressi di ieri a non essere oppressori oggi” (Ambrosi, 2008, p. 6). Io vorrei solo aggiungere che è necessario tenere sempre bene a mente che, prima o poi, il vento cambia e chi non si preoccupa degli estranei oppressi potrebbe scoprire che quella stessa sorte, o addirittura una peggiore, sta toccando a lui. A questo proposito, valgono le riflessioni, amare ma purtroppo corrispondenti al vero, del filosofo politico Luigi Alfieri (Alfieri, 2003, pp. 216): “l’uomo non ha diritti. Non più di quanti ne abbiano le rane, le zanzare o i funghi. Dalla sua mera esistenza biologica non risulta nient’altro se non necessità e contingenza. Né possiamo illuderci di ottenere risultati più esaltanti ricorrendo alla retorica della razionalità o della spiritualità dell’uomo. […]. Trovo, purtroppo, disperata la posizione dei tanti che pensano che Auschwitz sia “contro la morale”, e che dunque basti essere morali per essere contro Auschwitz, e per impedire Auschwitz. No: Auschwitz è il frutto rigoroso e coerente di una morale, quella morale secondo cui gli uomini debbono essere liberati dal parassitismo infettante e corruttore degli Unmenschen. Per amore degli uomini. In nome di qualcosa che potremmo benissimo chiamare “diritti umani”. E si potrebbe aggiungere che non è affatto un caso eccezionale. Si può benissimo essere il comandante di una nave negriera o il proprietario di una piantagione di cotone in Virginia ed essere un uomo onesto e timorato di Dio, se i Neri non sono uomini. Si può essere un santo (magari regolarmente canonizzato: ci sono esempi) e mandare al rogo eretici e streghe, se eretici e streghe sono esseri umani corrotti e pervertiti, di cui magari proprio il rogo può salvare l’anima. Purtroppo, e temo che non ci sia niente da fare a questo proposito, ogni morale storica distingue gli uomini veri e giusti dagli uomini solo apparentemente o imperfettamente tali, e ritiene del tutto conforme ai diritti umani che gli Unmenschen o Untermenschen siano sterminati (o ridotti in schiavitù o convertiti, o civilizzati)…Auschwitz è molto antica: Auschwitz, in forme diverse, è esistita prima di Auschwitz…funziona ancora, e non ha neanche ridotto i propri ritmi (pensiamo all’immenso genocidio per incuria, indifferenza ed egoismo che si sta consumano in Africa)”.
I primi campi di concentramento, chiamati “di riconcentramento”, furono istituiti a Cuba dal generale spagnolo di origine prussiana Valeriano Weyler y Nicolau, nominato governatore nel 1896, con l’incarico di sedare la rivolta sull’isola, che ormai si prolungava da un anno. Furono decine di migliaia i Cubani che morirono per gli stenti e le malattie, in poco più di un anno. Nel 1898, a Mindanao, gli Americani costruiscono campi di concentramento sul modello spagnolo, quello messo in opera dal generale Weyler y Nicolau per sedare la rivolta cubana del 1896 e che furono uno dei pretesti per il loro interventismo “umanitario” a Cuba. La motivazione di questo loro sorprendente voltafaccia fu: "per proteggere la popolazione civile non combattente delle Filippine”. Morirono dodicimila filippini, con tassi di mortalità del 20 per cento. Quasi trentamila, in gran parte donne e bambini, furono le vittime dei campi inglesi in Sudafrica, durante la guerra boera, tra il 29 Novembre del 1900 ed il 31 Maggio 1902. I campi di concentramento sono dunque elementi costitutivi, non collaterali, della spinta totalitaria alla subumanizzazione di certe popolazioni da parte di certe altre.
Fu però in Germania, all’inizio del secolo scorso, che questa tendenza si radicalizzò, gettando le basi per lo sterminio di milioni di ebrei, nomadi e prigionieri di guerra. Lo storico polacco Andrzej J. Kaminski, sopravvissuto a Gross-Rosen e Flossenburg, ha dedicato una tragica ed erudita disquisizione al tema dei campi di concentramento (Kaminski, 1998), descrivendo la sinistra deriva integralista del nazionalismo pangermanista. Ernst Hasse (1846-1908), era un parlamentare tedesco ed un docente di statistica a Lipsia, nonché presidente della famigerata Alldeutscher Verband (Lega Pangermanica), un’associazione pangermanista che comprendeva una parte significativa dell’élite germanofona e che all’inizio del secolo scorso contava oltre 22mila membri. Nel 1905 l’Alldeutscher Verband contava 150mila aderenti, se si includono le organizzazioni associate alla Lega, con 30 parlamentari. Dopo la sconfitta nella Grande Guerra la Lega Pangermanica fece una strenua propaganda contro la repubblica di Weimar e in favore della dittatura, a partire dal 1919. Nei circoli della Lega Pangermanica si impiegavano termini che risulteranno familiari a tutti quelli che hanno studiato la propaganda nazista, quali Herrenvolk, Lebensraum, Drang nach Osten, Rassenfremde e Volksfremde (estranei alla razza ed all’etnia), Feinde ringsum (“i nemici ci circondano”), la “soluzione del Problema Giudeo” e Rassenhygiene (eugenetica ed eutanasia praticate su base razziale, selettiva). Per Hasse “germanizzare è un diritto” e “l’unica cosa che rimane stabile flusso dei millenni è il Volk”. Per tale ragione, nella prima parte della sua opera intitolata “Deutsche Politik” e rimasta incompiuta, scrisse: “se si vuole fare del Reich tedesco uno Stato nazionale bisogna rendersi conto che è necessario abolire il principio di parità. […] Una certa formazione intellettuale mal si accorda con l’attenzione esclusiva a un lavoro meccanico, pesante e sporco, che mortifica lo spirito” (Kaminski, 1998, p. 48). Come ci si doveva muovere per realizzare questo obiettivo? Hasse vedeva due possibili opzioni: “la prima è mantenere una certa parte del nostro popolo al più basso livello dell’organizzazione produttiva della società, ma in tal caso anche della cultura, rinunciando alla crudeltà di dare a questa parte un’istruzione scolastica superiore che desterebbe l’esigenza di un tenore di vita più elevato. In uno Stato le cui frontiere sono chiuse all’immigrazione, questa soluzione è quella più auspicabile dal punto di vista della razza. Ma accetterà una parte del nostro popolo tedesco la condizione di ilota? Non ha forse, per origine e storia, lo stesso diritto di appartenenza al popolo dominatore tedesco?”. Questa soluzione andava dunque scartata. Sarebbe stato meglio avvalersi di polacchi, cechi, ebrei e italiani, che dovevano essere condannati alla condizione di iloti: “la cosa si può fare, se si riesce a mantenere per sempre in quella condizione gli individui e le generazioni”. In soldoni, li si mantiene ignoranti della lingua e cultura tedesca, perché altrimenti pretenderanno lo stesso tenore di vita dei Tedeschi, pur non essendo tali. Hasse sottolineava comunque il rischio permanente che “la parte più debole degli stranieri si fonda con il ceppo razziale e, poiché è la più debole, corrompa la razza germanica” (ibidem, p. 49). Il generale Eduard von Libert, membro della direzione centrale dell’Alldeutscher Verband, pubblicò un opuscolo in cui proponeva l’abolizione della scuole dell’obbligo per i bambini di lingua polacca che non conoscevano già il tedesco e l’abolizione del servizio di leva, in modo da impedire che ricevessero un addestramento militare prussiano. Questo, a suo dire, sarebbe stato il modo migliore di produrre iloti. L’antropologo Otto Ammon proponeva come terza soluzione quella americana dell’importazione di lavoratori immigrati ai quali assegnare i compiti più ingrati, per paghe da fame, in modo da impedire che si integrassero. Nel 1905, Josef Ludwig Reimer, lo scrittore viennese socialista che metteva la questione razziale e social-darwinista al centro del riscatto del proletariato, pubblicò un volume che, per lo storico polacco Stojanowski, rappresenta la “fonte della dottrina nazionalsocialista”. Chiede che si conceda ad una limitata percentuale di “non-germani” di insediarsi tra i Germani in veste di “coloni lavoratori”, con cittadinanza limitata, senza la possibilità di sposarsi e di procreare: “la cosa decisamente più semplice sarebbe che, sul suolo del Reich, alla moltiplicazione (espansione) dei germani facesse da contraltare la scomparsa (estinzione) dei non germani”. Nel “Mein Kampf”, Hitler effettuava un’ampia revisione della storia tedesca, spiegando che “senza la possibilità di servirsi di esseri umani inferiori l’ariano non avrebbe mai potuto compiere i primi passi verso la sua cultura successiva. […]. Per la formazione delle culture superiori la disponibilità di esseri umani inferiori costituisce una delle precondizioni essenziali, dato che permette di far fronte alla mancanza di strumenti tecnici, in assenza dei quali ogni ulteriore sviluppo è impensabile. Sicuramente le prime culture si basarono meno sull’addomesticamento degli animali e molto più sull’impiego di schiavi. Soltanto dopo che le razze umane di minor valore furono ridotte in schiavitù la stessa sorte cominciò a investire anche gli animali, e non viceversa […] Perciò prima fu aggiogato all’aratro il nemico sconfitto e solo dopo di lui il cavallo”. Nel suo secondo libro, rimasto inedito fino al dopoguerra, il Führer scriveva: “il soggiogamento di 350.000 Eloti da parte di 6000 Spartani fu possibile solo grazie alla superiorità razziale degli Spartani che a sua volta era il risultato di una preservazione razziale sistematica. Quello Spartano fu il primo stato razziale. La distruzione dei bambini malati, deformi e fragili dimostrava una grande dignità ed era mille volte più umana della patetica infermità dei nostri tempi che tiene in vita i malati cronici e impedisce la nascita dei sani tramite l’aborto e l’uso dei metodi anticoncezionali”. A dire il vero il numero di Spartiati scese in 200 anni da 8000 cittadini a 1500 nel 371 a.C. Il che non era di buon auspicio per i sogni hitleriani riguardo alle popolazioni slave, che non dovevano essere educate, ma dovevano restare analfabete, al massimo in grado di leggere i cartelli stradali. Non avrebbero avuto accesso alle città dei signori, se non durante delle visite-premio, per tormentarli con l’esperienza di un’esistenza ideale che a loro non sarebbe mai stato concessa (Hitler, 2010).
Lo storico tedesco Eugen Kogon, sopravvissuto ai campi di concentramento per diventare uno dei padri della Repubblica Federale Tedesca, ha riferito di un colloquio che ebbe nel 1937 con un ufficiale delle SS, che gli descrisse il futuro che avevano in mente: “ciò che noi, educatori delle nuove leve del Führer, vogliamo, è una moderna statualità articolata secondo il modello delle città-Stato elleniche. Bisogna pensare a queste democrazie strutturate aristocraticamente, con la loro larga base economica di iloti, come ai maggiori risultati culturali dell’antichità. Il cinque-dieci per cento della popolazione, i migliori accuratamente selezionati, devono comandare, il resto deve lavorare e obbedire. Soltanto così sarà possibile raggiungere quelle alte mete che proponiamo a noi stessi e al popolo tedesco” (Kaminski, 1998, p. 138). Infine, in un memorandum del 1942 approntato dal delfino di Hitler, Martin Bormann, leggiamo: “Gli Slavi devono lavorare per noi. Quelli che non ci servono possono pure morire…La fertilità degli Slavi è indesiderabile. Possono usare contraccettivi o praticare l’aborto, più lo faranno meglio sarà. L’educazione è pericolosa. È sufficiente che sappiano contare fino a cento…ogni persona educata è un futuro nemico. Per quanto riguarda il cibo, non devono riceverne più del necessario: noi siamo i padroni, ci siamo prima noi” (citato in Gilbert, 2005, p. 261).
Per un’enciclopedica e scrupolosa trattazione del reticolo di rapporti tra i maggiori esponenti del razzismo nazionalista pangermanista e gli ispiratori del nazional-socialismo e di come il peggio del Nietzsche più retrivo e intollerante venne impiegato per edificare una dottrina totalitaria ancor prima dell’avvento di Hitler, rimando i lettori agli eccellenti studi di Richard Hinton Thomas (1983) e Peter Emil Becker (1990).
Spiace dire che non fu solo nella “civile” Europa che si fece esperienza dell’universo concentrazionario. In Russia e Cina i dissidenti morirono a centinaia di migliaia, In Nord America, invece, la situazione rassomigliava molto da vicino quella dei Trentini a Katzenau, ma su più vasta scala. Nel 1942, in conseguenza dell’attacco a Pearl Harbor ed in virtù degli ordini esecutivi 9066, 9095 e 9102, oltre 120mila residenti giapponesi negli Stati Uniti, due terzi dei quali erano cittadini americani, furono deportati ed internati in nove diversi campi di concentramento, pur non avendo commesso alcun crimine, non essendo stati sottoposti ad alcun processo, non avendo ricevuto alcuna condanna. Furono costretti a vendere immediatamente le loro proprietà e una parte dei loro beni fu confiscata. Dal canto suo, il Canada internò 23mila Giapponesi residenti in Canada, l’80% dei quali possedeva la cittadinanza giapponese. Furono costretti ai lavori forzati per sostituire la manovalanza spedita al fronte. Tra questi vi era il celebre genetista ed ecologista David Suzuki. Al termine del conflitto 4mila canadesi di etnia giapponese furono deportati in un Giappone affamato annichilito dai bombardamenti alleati, una terra che in moltissimi casi non avevano neppure mai visto.
Negli Stati Uniti lo status dei cittadini di etnia giapponese era quello di “prigionieri politici”. Nessuno impiegò mai ufficialmente il termine “campi di concentramento”, sebbene nei fatti i campi in cui furono rinchiusi, come quello di Manzanar, nel deserto californiano, lo fossero, come lo è ogni luogo in cui si concentrano delle persone dietro del filo spinato e con guardie armate di sorveglianza nelle torrette. Come spesso avviene, invece dei vocaboli più appropriati, si impiegarono eufemismi come “evacuazione”, “trasferimento” e “non-stranieri”, come se si trattasse di un’operazione di salvataggio di cittadini colpiti da una catastrofe naturale, per il loro bene. L’espressione “non-stranieri” (“non-alien”) è particolarmente rivelatrice e rimanda alla sorte dei Trentini deportati a Katzenau. Cosa può voler dire “non-straniero”? Nel gergo eufemistico e manipolatore della burocrazia statale, sempre attenta ad evitare di offrire appigli agli avvocati dei deportati, “non-stranieri” erano i cittadini americani dell’etnia “sbagliata”, come nell’Impero Asburgico erano i cittadini austriaci di lingua italiana. L’intento era quello di spogliarli dei loro diritti costituzionali e per farlo non potevano ribadire il loro status di cittadini statunitensi, con pari diritti rispetto a tutti gli altri. Analogamente, Alcide Degasperi allora deputato trentino al Parlamento di Vienna, a proposito delle deportazioni subite dai Trentini, protestò per la violazione della legge 66, del 5 maggio 1869 e della legge fondamentale dello stato del 21 dicembre 1867, n. 142, che regolano “le conseguenze della sospensione dei diritti generali dei cittadini in caso di guerra, o di imminenti imprese belliche. Secondo la detta legge, nei casi ora accennati, vien data facoltà di sfrattare da luoghi e distretti che non siano quelli di pertinenza; mentre nessuna legge concede all’autorità il diritto di allontanare i cittadini a suo piacimento, o di cacciarli ove vuole, e molto meno di rinchiuderli in campi di concentramento” (citato in Ambrosi, 2008, p. 11, nota 3). Come i cittadini americani di etnia giapponese, i cittadini austriaci di etnia trentina furono bollati come politisch unverlässlich (politicamente infidi, inaffidabili), il “sospetto vagabondaggio” divenne “sospetto spionaggio”. Nella Germania nazista i campi di concentramento e sterminio furono chiamati “campi di transito”, “campi di custodia protettiva”, “campi di accoglienza” “campi di lavoro”, “centri di raccolta” e “centri di trasferimento”.
In tutti questi casi gli eufemismi legalistici sono serviti a neutralizzare possibili rilievi di incostituzionalità, preservarono una facciata di moralità e decenza, indussero i deportati a collaborare volontariamente e tacitarono eventuali scrupoli dei burocrati che organizzarono la deportazione e delle forze dell’ordine che la misero in atto. In tutti questi casi le leggi fondamentali dello stato e i diritti fondamentali dei cittadini furono ignorate, come se non fossero mai esistite, come se fossero delle finzioni, buone solo in tempo di pace.
Queste azioni devono restare un monito per tutti noi, che viviamo in un’epoca in cui la linea separatoria tra campo profughi, campo di internamento e campo di prigionia è diventata nuovamente molto, ma molto labile e i diritti inalienabili sono diventati nuovamente alienabili, come se i totalitarismi e le dittature militari del secolo scorso non ci avessero insegnato nulla. In particolare, è bene elucidare la questione del linguaggio ingannevole, perché i confini del mondo umano, della sfera socioculturale, sono stabiliti dal linguaggio che impieghiamo. Siamo animali simbolici e le parole influenzano il modo in cui percepiamo la realtà ed interagiamo con essa, meccanicamente ed inconsciamente: la forma può alterare il contenuto. Per questo George Orwell, in “1984”, enfatizza molto il ruolo della “Neolingua” nell’addomesticamento della popolazione ad una realtà totalitaria, ma che non deve apparire come tale: “Fine della Neolingua non era soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing, ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero…un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso…La Neolingua era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero” (Orwell, 1984, pp. 315-316). Così, in “1984”, i quattro ministeri di Oceania hanno nomi opposti alla loro vera natura, cioè il Ministero della Pace si occupa di guerra, quello dell'Abbondanza dispensa carestia, quello della Verità falsifica la storia, e quello dell'Amore è il luogo delle più terribili torture. Il potere malevolo e non benevolo dipende specialmente dalle parole e dalla disponibilità della popolazione a prenderle per buone ed assecondarle. Parole, frasi fatte, metafore più o meno dissimulate, simbologie e strutture linguistiche in generale possono servire ad incantare, ad alterare la nostra percezione del cosmo (per associazione condizionata, ossia reazione meccanica) e dunque controllare l’umanità, instillando la propensione a comportarsi in un certo modo piuttosto che in un altro. Se manca un termine di paragone, la gente non si rende neppure conto di essere oppressa. Il potere sfrutta questa propensione umana operando anche attraverso l’edificazione e preservazione di epistemologie del vero e di illusioni di scelta che mascherano l’assenza di una scelta autentica. Ragionamenti formalmente raffinati occultano premesse insostenibili e legittimano finalità riprovevoli. Tra chi esercita il potere ci sono anche i maestri della manipolazione del linguaggio e della relativizzazione della morale. Travestimenti, fantasie mimetiche, metamorfosi sono i ferri del mestiere che consentono di dissimulare la realtà, di camuffare da legittimi imperativi i suoi istinti irrefrenabili, scelleratezze e trasgressioni. Proviamo a riflettere su questo aspetto particolarmente visibile della cultura contemporanea, l’uso metodico di eufemismi, sofismi e trappole semantiche come “missione di pacificazione” e “missione di pace” (invasione e guerra), “supporto aereo” (bombardamento), “proteggere la nostra libertà” (guerra preventiva), “l’amore vince sull’odio” (conversione), “il prezzo della libertà” (sacrificio dei diritti), “guerra al terrore” (terrorismo psicologico), “danni collaterali” (per fare una frittata bisogna rompere le uova), “trasferimento di profughi” (deportazione), “difesa aggressiva” (attacco), “cambio di regime” (colpo di stato), “omicidio extra-giudiziario” (esecuzione, omicidio eccellente), “metodi d’interrogatorio più aggressivi” e “tecniche avanzate di interrogatorio” (tortura), “consegne straordinarie” (extraordinary renditions, deportazioni illegali), “combattenti nemici illegali” (inapplicabilità della convenzione di Ginevra). “Capacità difensiva dinamica” è l’eufemismo con cui il governo giapponese ha aggirato la costituzione consentendo all’esercito nipponico, che può essere solo difensivo, ad intervenire globalmente ed attaccare preventivamente. Il partito turco responsabile del genocidio armeno si chiamava Comitato per l’Unione ed il Progresso. Gli slogan nazisti apposti all’ingresso dei campi di sterminio sono di una spudoratezza nauseante: “Arbeit Macht Frei” (“il lavoro rende liberi”, ad Auschwitz) e “Jedem das Seine” (“a ciascuno il suo”, a Buchenwald).
In certi casi ed in certe forme l’effetto può essere paragonabile ad un’induzione ipnotica e può rendere concepibile ed accettabile ciò che prima non lo era. Non bisogna dunque sottovalutare il potere che il linguaggio esercita su di noi. Sfruttando ritmi, allusioni, ambivalenze, toni perentori ed apodittici, ambiguità e reiterazioni insistite, analogie, metafore, allegorie, acronimi, eufemismi, slogan, parole-chiave, tormentoni, gergalità, l’associazione e la risonanza psicologica e simbolica di certe espressioni comuni può acquisire delle dimensioni nuove e subdole. In questo modo la comunicazione linguistica può essere pervertita per generare confusione, o una falsa consapevolezza, in modo da prendere per mano il cittadino e fargli accettare idee che non avrebbe mai accettato se fossero state presentate con un’esposizione chiara e responsabile. Purtroppo il nostro cervello non è sempre in grado di individuare affermazioni contraddittorie ed incoerenti perché tende a completare frasi e pensieri e correggere errori in modo da dare loro un senso, come quando vediamo un’insegna luminosa con la scritta “mtel” e sappiamo che significa “motel”. Esiste un’umana inclinazione alla proiezione che ci spinge ad attribuire a qualcuno le sensazioni che suscita in noi. Se la forma è bella e piacevole, allora lo sarà anche la sostanza. Se il lupo si traveste da agnello, noi pensiamo che sia mansueto, perché la sua lana è morbida. Oltre a ciò tendiamo a credere di aver capito qualcosa se siamo capaci di affibbiargli un nome o un’etichetta. Per questo motivo è importante capire che la propaganda, la mimesi del potere, non inganna le persone, le aiuta ad ingannarsi.
George Orwell ammoniva che la cosa peggiore che si può fare con le parole è arrendervisi, lasciare che esse controllino i nostri pensieri. Dobbiamo fare attenzione alle parole che ci piovono addosso per evitare che divengano mantra capaci di ottundere la nostra capacità di discernimento. Si controbatte questa strategia continuando a ricontestualizzare ogni cosa, evento, fenomeno che ci risulta familiare. Osservare da molteplici punti di vista per vincere i legami della convenzionalità, l’inscatolamento di cose, persone e situazioni, la catalogazione arbitraria ed artificiale della realtà in cassettini simili a quelli dell’erborista. Occorre essere semplici come la colomba, prudenti come il serpente, soprattutto perché la storia dell’universo concentrazionario non si è conclusa con la sconfitta dei totalitarismi.
In questo momento, negli Stati Uniti, è ancora in corso un processo - Turkmen v. Ashcroft - che si protrae dall’aprile del 2002 e che riguarda la costituzionalità del prelevamento clandestino e detenzione senza accusa e senza termini definiti di quei cittadini stranieri residenti sul suolo americano dopo l’11 settembre e il cui permesso di soggiorno era scaduto (sono quasi 12 milioni negli Stati Uniti). In una radicale inversione del diritto dei paesi democratici, migliaia di persone sono state considerate colpevoli finché non hanno potuto dimostrare la loro innocenza. Nessuno dei 6mila arrestati è stato condannato per un reato legato al terrorismo. Se l’azione collettiva (class action) a tutela dei loro diritti non dovesse avere successo, i futuri governi americani si vedrebbero riconosciuto il diritto di radunare in centri di detenzione speciali i cittadini di un’etnia maggioritaria in nazioni con cui dovesse entrare in guerra (o da cui dovessero provenire dei terroristi) e che fossero senza un permesso di soggiorno valido. L’etnia è diventata un’indicazione di potenziale colpevolezza che rende soggetti alla perdita dei diritti fondamentali. Potrebbe succedere ai musulmani, o agli ebrei (nel caso di una qualche iniziativa sconsiderata da parte di un governo israeliano), agli hindu, ai latinos, a chiunque sia associabile a gruppi terroristici o sovversivi o a nazioni responsabili di danneggiare gli interessi americani. Nessuna nazione è immune dal rischio della sospensione dei diritti umani. Abu Ghraib e Guantánamo sono dei moniti, come lo è il carcere di Abu Selim, dove nel 1996 Gheddafi fece trucidare un migliaio di detenuti tra i quali molti islamisti reduci dall’Afghanistan, che avevano organizzato un gruppo di resistenza contro il regime. Né gli Europei, né gli Americani protestarono ufficialmente. Quello stesso carcere fu successivamente impiegato da Gheddafi, sotto la supervisione americana, come “filiale di Guantanamo” nella Guerra al Terrore contro gli stessi fondamentalisti islamici afgani e pachistani. Nel 2011, dopo l’inizio dell’insurrezione di Bengasi e Misurata, è diventato un importante casus belli dell’operazione “Alba di un’Odissea”, patrocinata dall’ONU con la risoluzione 1973.
Quel che noi, persone comuni, cerchiamo di rimuovere dalla nostra consapevolezza, per protegge la nostra psiche, per non dover affrontare le nostre paure, è l’esistenza di quelle forze titaniche quanto perfido sinistre che sono all’opera nella storia moderna e che minacciano tutti gli esseri umani, non solo gli Ebrei o altre minoranze (Rubenstein, 2001). Bisogna restare sempre vigili e circospetti, non credere mai che qualcosa appartenga definitivamente al passato. Nessun Ebreo dell’Europa occidentale si aspettava di finire vittima di giganteschi pogrom. Nessun nomade magiaro si sarebbe aspettato di dover sottostare a normative ferocemente discriminatorie da un governo che fa parte dell’Unione Europea, come sta accadendo in questi mesi.
Esiste una continuità nella storia dell’istituzione sociale chiamata schiavismo, che oggi si ripropone in nuove forme: vortice dell’indebitamento nazionale, prostituzione tramite tossicodipendenza, indebitamento e violenza coercitiva o minaccia di ritorsione contro parenti rimasti in patria; racket delle elemosine, traffico di organi, sfruttamento ed abuso di minori nella pedopornografia, tratta di immigrati. Auschwitz è solo il culmine di queste tendenze. Mentre nei sistemi semi-feudali l’essere umano era trattato come una cosa ma parzialmente considerato un essere umano, nei sistemi capitalistici si tende ad enfatizzare soprattutto la sua dimensione di oggetto e merce. I lager dovevano servire a smaltire l’eccesso di slavi quando l’industria bellica non avesse più saputo che farne e i piani di sterilizzazione di massa non erano indirizzati solo agli slavi ma anche ai latini e mediterranei.
La democrazia serve ad evitare che la rimozione consegua all’abbondanza di manodopera, che si applichino le regole della zootecnia all’umanità e non solo al bestiame. Le dichiarazioni di una parte dell’intelligentsia euro-americana del dopoguerra in favore della pena di morte, delle sterilizzazioni e castrazioni di massa degli indesiderabili, della necessità di plasmare la specie umana, stanno lì a testimoniarne l’importanza (Fait, 2008).
I campi di internamento e forse persino quelli di sterminio possono tornare ad essere un modello di ordine sociale futuro e nessuno di noi se lo può permettere. Teniamoci stretta la democrazia!

Nessun commento: