domenica 23 ottobre 2011
Tappeiner, Canestrini e i Popoli Naturali (antropologia razzista in Trentino Alto Adige)
Più di ogni altra scienza, l'antropologia si è battuta nel corso del Novecento per l'affermazione dell'idea di culture compatte, autonome e distintive, di pari dignità e tendenzialmente incommensurabili, come patrimonio dei diversi popoli. Impegno volto al riconoscimento della dignità delle culture cosiddette "primitive", nonché alla valorizzazione e salvaguardia della diversità culturale a fronte dell’omologazione prodotta dall’imperialismo e dalla occidentalizzazione. Il discorso sulle culture e sulle identità, plasmato all'interno dello specialismo disciplinare, ha incontrato resistenze ma è lentamente entrato a far parte del linguaggio comune. In questo passaggio i concetti si sono no però fortemente reificati: culture e identità sono state intese come essenze più o meno immutabili, quasi-naturali, non costruite nella storia e nei rapporti politici ma date prima e indipendentemente dalla politica e dagli eventi storici. Inoltre il loro segno è progressivamente cambiato: se ne sono appropriati ideologie xenofobe e fondamentaliste, aggressivi nazionalismi e regionalismi, movimenti volti più al mantenimento del privilegio che al riconoscimento delle differenze. Una volta naturalizzati, tali concetti sono stati posti a fondamento di politiche di pregiudizio e intolleranza, in una parola, di un atteggiamento neorazzista, in un'epoca in cui il razzismo classico d'impronta biologica, screditato dall'uso fattone dal nazismo, non sembrava più sostenibile.
Fabio Dei
Onde illustrare più concretamente le implicazioni politiche di certi studi antropologici e medici, prendiamo in esame una serie di ricerche antropologiche sull’origine razziale delle popolazioni trentino-tirolesi al tempo in cui queste facevano parte dell’impero asburgico. In un clima politico arroventato da dispute territoriali tra Austria ed Italia, il medico ed antropologo meranese Franz Tappeiner (1816-1902) ed i suoi collaboratori dichiararono che i dati in loro possesso comprovavano che una maggioranza di Trentini poteva essere classificata come “tipo germanico”. La supposta dolicocefalicità dei Trentini, che li assimilava alla “razza ariana”, era molto conveniente ai fini della salvaguardia dei confini austriaci e si inserisce mirabilmente in un’elaborazione teorica strettamente connessa al dibattito antropologico tedesco che avrebbe trovato la sua sintesi locale proprio in un altro saggio del Tappeiner, intitolato “Der europäische Mensch und die Tiroler” (Tappeiner, 1896). In esso lo studioso, al quale è stato intitolato l’ospedale di Merano, sosteneva che, essendo ormai chiaro come non fosse possibile inferire dalle sole dimensioni del cranio l’intelligenza di una razza, l’unico criterio praticabile diventava il confronto tra le misurazioni craniometriche e le espressioni visibili dell’intelletto, cioè i manufatti, la cultura materiale. Seguendo questo accorgimento, assicurava Tappeiner, si era giunti ad un vasto consenso attorno alla tesi che l’Ariano, “l’Uomo Bianco”, era naturalmente predestinato a prevalere nel Kampf ums Dasein, la lotta per la sopravvivenza, e a dominare il mondo, mentre le altre razze si sarebbero avviate all’estinzione, a meno che non avessero optato per una vantaggiosa commistione con la razza ariana, che le avrebbe rigenerate. Ciò sarebbe avvenuto grazie alle superiori virtù intellettuali e spirituali del cervello e della fibra degli Ariani che avrebbero garantito alle razze inferiori quel salto evolutivo da loro tanto anelato. Indicava gli Ebrei come esempio di un popolo inferiore che si era salvato dalla scomparsa proprio grazie all’incrocio genetico. Infatti, il suo arianismo era ben diverso da quello dei colleghi di oltralpe. Era a favore degli incroci, anche con nativi americani e africani, ed invitava i suoi lettori a tenere a mente il caso di quel mulatto francese, dal corpo di negro e dal cervello di un ariano, che era riuscito a farsi accettare all’Accademia di Parigi.
A cavallo del secolo, gli antropologi tedeschi Ludwig Woltmann e Otto Ammon espressero opinioni analoghe (ma molto meno tolleranti riguardo alle commistioni): la razza ariana, o germanica, rappresentava il picco dell’evoluzione umana ed era stata selezionata per dominare il pianeta (Mosse, 1980). La controversia sulla superiorità di questa o quella razza era dunque in pieno svolgimento, in quegli anni (Padovan, 2003). Naturalmente questo tipo di retorica imperialista non poteva non suonare allarmante alle orecchie dei loro colleghi italiani, tutt’altro che scevri da considerazioni razziali, e trentini, che in generale avevano scelto più o meno dichiaratamente la via dell’irredentismo. Due di loro, Giovanni Canestrini (1835-1900), il “mastino italiano di Darwin”, e Lamberto Moschen (1853-1932) ribatterono che, stando all’evidenza scientifica da loro raccolta, i Trentini non potevano che essere classificati assieme ai loro vicini italiani. Entrambe le fazioni si rifiutarono di ammettere l’esistenza di evidenti somiglianze tra sud-tirolesi e trentini. Questo confronto tra “narrazioni” scientifiche contrastanti finalizzate all’appropriazione di un territorio è interessante perché entrambe le parti supportavano le loro tesi facendo ricorso a tassonomie locali reificate grazie ad una patina di scientificità e ad una rilettura in chiave deterministica della natura umana, e dichiarando che le indagini scientifiche hanno per oggetto la ricerca della verità e non possono trasformarsi in ancelle della politica (Mazzolini, 2001). Noi oggi sappiamo che queste affermazioni così categoriche mal si conciliano con la realtà dei fatti e ci sembra più che evidente che i summenzionati scienziati erano vittime delle loro personalissime verità. Ma non bisogna dimenticare che a quel tempo era ancora invalsa la convinzione che la scienza fosse posta a di là del Bene e del Male, e che quindi gli scienziati, compartecipi di questa neutralità quasi ultraterrena, erano nella posizione di dirimere con cognizione di causa questioni eminentemente politiche e sociali. Di qui l’intensità di quell’atteggiamento autoritario tipico di chi voleva strappare alle persone comuni il diritto di decidere della propria sorte e della propria identità che, invece, a sentire gli esperti, era un dato naturale, immutabile e non suscettibile di essere scelto o scartato. Tra la culla e la tomba, l’essere umano non subiva cambiamenti rimarchevoli. Lo stesso succedeva ai popoli. Gli antropologi di quell’epoca, specialmente quelli austriaci (Fuchs, 2003), adottarono una percezione statica dei Naturvölker, popoli “altri”, esclusi dai processi storici, i cui progressi tecnici e socio-culturali potevano solo avvenire per contatto e diffusione a partire dai Kulturkreise, circoli o sfere culturali coinvolte nei grandi processi storico-evolutivi. Alcuni di questi “fossili viventi”, rappresentanti di una natura umana preservatasi pura nel corso dei millenni, venivano esibiti nelle città tedesche tramite i Völkerschauen, esibizioni di umani esotici nel loro “habitat”, spesso ricostruito in modo tale da venire incontro alle aspettative di autenticità degli spettatori (Zimmerman, 2001). Per forza di cose, trattandosi di esseri umani con esigenze, desideri e finalità specifiche, gli “esemplari umani allo stato naturale” talvolta si rifiutavano di recitare la parte loro assegnata dalle società antropologiche che organizzavano gli spettacoli pubblici. Tantomeno erano disposti a lasciare che i loro crani e tratti anatomici fossero misurati dagli antropologi. I margini di negoziazione erano però ridotti, dato che l’obiettivo principale dei ricercatori era quello di raccogliere informazioni sulle tipologie umane primitive al fine di meglio comprendere gli stadi evolutivi della civiltà occidentale, ossia dei Kulturvölker, non certo quello di contrastare la brutalità dell’imperialismo europeo.
Diversi antropologi di lingua tedesca (ma anche negli Stati Uniti) rifiutavano l’evoluzionismo darwiniano nella misura in cui certe sue interpretazioni (Affenlehre) tendevano a rendere opaca la distinzione tra tutti gli esseri umani e i primati, invece di ridurre quella che separava questi ultimi dai “primitivi” naturalizzati e dagli individui deformi e devianti. Proprio per questo motivo, persino professionisti di chiara fama e fede liberale o socialista potevano finire per promuovere una visione della variabilità umana fin troppo strettamente imparentata con l’ideologia della “supremazia bianca” dell’America segregazionista, della Germania nazista, dell’Apartheid sudafricano, ma anche dell’Australia e, successivamente, come vedremo, dell’impero fascista. Poiché non esistono le razze e il panorama medico-antropologico tedesco non era “naturalmente” destinato a difendere tesi razziste, c’erano numerose eccezioni, anche molto prestigiose ed influenti, come Adolf Bastian (1826-1905), Rudolph Virchow (1821-1902) e Felix von Luschan (1854-1924), che si batterono con la veemenza propria di chi è consapevole delle ramificazioni di certe tendenze epocali. Virchow era l’esperto di riferimento per Tappeiner ed è quindi possibile che i suoi toni più morbidi siano il risultato della sua lettura delle opere del grande medico pomerano.
Due antropologi austriaci, Moritz Holl ed Emil Zuckerkandl, sulla scia di alcune indagini preliminari del Tappeiner, effettuarono delle misurazioni antropometriche nell’Austria occidentale, compreso il Tirolo, scoprendo che non esisteva alcun ceppo razziale omogeneo e che molti Austriaci che si consideravano puri ariani avevano tratti slavi meridionali (Fuchs, 2003). Già nel 1881 Tappeiner aveva concluso che i Tirolesi non appartenevano alla tipologia germanica; la loro brachicefalia li classificava in una diversa categoria, “celto-reto-romanica”, forse retaggio di una razza europea originaria. Sennonché altri suoi colleghi erano più propensi a credere che la loro origine fosse asiatica e non autoctona, contrapponendo il carattere che presumevano “asiatico” dei celti francesi ed italiani, a quello, distintamente più nobile, delle stirpi ariano-germaniche.
Un articolo pubblicato recentemente sullo European Journal of Human Genetics (Thomas et al. 2008), che ha visto la collaborazione dell’istituto di genetica dell’Eurac, ha posto la definitiva pietra tombale sulle più ardite interpretazioni dei dati genetici – quali la possibilità che i Ladini siano i diretti discendenti di una popolazione mediorientale rimasta sostanzialmente isolata nel corso dei secoli – stabilendo che: (a) la diversità delle popolazioni ladine è molto probabilmente la conseguenza dell’isolamento geografico, che tende ad accentuare certe caratteristiche (es. nanismo e gigantismo insulare), non di una distinzione originaria rispetto alle popolazioni limitrofe; (b) le popolazioni ladine sono considerevolmente diversificate al loro interno e ciò sembra dimostrare che gli ostacoli morfologici siano risultati maggiormente determinanti rispetto all’identità culturale e linguistica; (c) non esistono tratti genetici distintivi tali da far supporre che si sia mai verificato un reinsediamento di popoli provenienti dal Medio Oriente. Ogni tratto trova corrispondenza nel resto d’Europa e se qualche affinità con popolazioni mediorientali esiste, questa è da ascrivere a mutazioni parallele, cioè verificatesi indipendentemente l’una dall’altra. Le popolazioni alpine non sono dunque dei “fossili viventi” e le migrazioni degli agricoltori neolitici hanno riguardato l’intera Europa. Le popolazioni geneticamente più affini ai Ladini, che rimangono geneticamente tutt’altro che omogenei al loro interno, scongiurando qualunque riemersione di miti razziali, sono i Sudtirolesi, cioè i loro vicini alpini (Stenico / Nigro / Barbujani, 1998) Il che vanifica anche ogni tentativo di ancorare le autonomie ad un qualche sostrato biologico. Se queste presunte specificità esistono, esse sono diffuse in tutto l’arco alpino e prescindono dalle tradizioni culturali e linguistiche locali che, al limite, hanno semplicemente rallentato gli effetti degli influssi esterni, ormai peraltro estremamente robusti.
In circostanze di coesistenza pacifica ed armoniosa, cercare di individuare degli attributi unici e diffusi all’interno di una popolazione non è necessariamente un problema, ma altrove questa rappresentazione di un’alterità antropologica costruita ad uso e consumo di un pubblico in cerca di emozioni ed esotismi si è già intrecciata con interessi specifici volti ad un impiego politico di questa supposta diversità genetica.
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