sabato 22 ottobre 2011

Bartolomé de Las Casas - introduzione


La scoperta dell’America coincise con la scoperta di un Mondo Nuovo e di un’umanità nuova, diversa, sconcertante. Francisco Lòpez de Gòmara (1511-1566), ecclesiastico e storico spagnolo, riconobbe nella scoperta dell’America il più grande evento della storia dopo la venuta del Cristo. Per l’umanità del Nuovo Mondo fu quasi certamente il più grande evento in senso assoluto. Gli indigeni presero coscienza del nuovo ordine quando ormai il loro servaggio si era trasformato in una condizione irreversibile. Alcuni credettero che i nuovi arrivati fossero dèi o semidèi, altri, pur essendosi resi conto di avere a che fare con degli esseri umani provenienti da terre molto distanti, rimasero prigionieri del preconcetto che ogni civiltà sufficientemente avanzata da attraversare un oceano doveva per forza essere benevola. La maggior parte degli indigeni cessò di vivere troppo in fretta per potersi fare un’idea chiara di ciò che stava accadendo. Fortunatamente, tra gli Europei, ci furono anche persone di buona volontà e lucida coscienza, come Bartolomé de Las Casas, che usarono il Nuovo Mondo come uno specchio che poneva in evidenza il putridume e le brutture della civiltà del Vecchio Mondo e si cimentarono nell’impresa di porvi rimedio.
Le opinioni sono ancora divise sulla figura di Bartolomé de Las Casas. “Nonostante la mole di documenti e di studi che attestano il contrario, rimangono ancora pregiudizi e riserve verso un semplice clerigo che non aveva mai fatto studi regolari e forse nemmeno raggiunto la licencia (laurea) in teologia, la cui opera non risponde ai canoni accademici ed è totalmente finalizzata alla sua attività pratica, quindi facilmente tacciabile di parzialità, di apologetismo e propagandismo o nel, migliore dei casi, di umanitarismo e messianismo evangelico privo di mediazioni culturali. Non contribuisce certo a far apprezzare l’opera del Procuratore degli indios il suo stile complicato, farraginoso, prolisso, discontinuo, poco elegante, lontano dalla chiarezza e dalla sistematicità degli scolastici come De Soto e De Vitoria, come pure dall’eleganza della retorica di un Sepúlveda” (Tosi, 2009).
Chi è dunque Bartolomé de Las Casas e perché qualcuno dovrebbe essere interessato a leggere una sua biografia? A mio giudizio è una figura a dir poco straordinaria e, come tante personalità eccezionali, dei tratti caratteriali spigolosi hanno nuociuto alla sua immagine ma hanno anche permesso ai suoi biografi di poter lavorare su materiale intrinsecamente stimolante. Il Nostro non amava i compromessi, se questi comportavano un maggior carico di sofferenza per i suoi protetti, gli indigeni americani. Non accettava di fare passi indietro quando era convinto di essere nel giusto, ossia quasi sempre. Molti lo consideravano spocchioso ed arrogante, e forse lo era, specialmente quando riteneva che i suoi avversari fossero pavidi, o ignoranti, o in cattiva fede e dunque complici di un genocidio. Difficile non dargli ragione: chi si mostra timido di fronte al male non è meno colpevole di chi lo commette. Numerosi furono i politici, amministratori, imprenditori, esploratori, militari di professione e rappresentanti del clero che, per così dire, se la legarono al dito. Nel 1543 un inviperito cabildo (consiglio coloniale cittadino) di Santiago del Guatemala scrisse al sovrano che “in realtà siamo allibiti di come la vostra Casa, fondata dai vostri avi cattolici…venga improvvisamente sovvertita da un monaco illetterato e privo di senso religioso, invidioso, vanitoso, passionale, agitato e non privo di cupidigia, colpevole per di più di suscitare scandalo! Tutto ciò a tal punto che dovunque abbia abitato in queste Indie egli ha dovuto essere espulso, non lo possono soffrire in nessun monastero, non accetta di obbedire a nessuno e non dimora mai a lungo nello stesso luogo” (Mahn-Lot, 1985, p. 144). Come Gesù il Cristo, Las Casas, di estrazione non agiata e per di più autodidatta, scandalizza i suoi contemporanei con gli insegnamenti, le azioni, le prese di posizione, la prodigiosa vitalità ed energia, l’asprezza delle sue polemiche, il rifiuto del patriottismo e dell’ortodossia quando mascherano l’ingiustizia. Come Gesù, è invidiato, temuto, disprezzato, braccato, è pietra di scandalo. Un giorno esclama: “Signore, tu vedi che cosa cerco in tutto ciò e che non ci guadagno che fame, stanchezza, sete e odio da parte di tutti. Se sbaglio, è per il tuo Vangelo, illuminami affinché io non sia più per il mondo uno scandalo”. Drammatizza. Non è profeta in patria, ma la Corona lo sostiene, perché lui, scaltramente, intuisce di potersi rendere utile alla corte di Spagna nel suo tentativo di imbrigliare i Conquistadores che, troppo lontani dalla madrepatria, la fanno da padroni nel Nuovo Mondo. Anche una parte importante del mondo accademico - fortunatamente, almeno in quella fase, egemone – lo appoggia, perché i suoi nemici sono anche i loro nemici.
Quasi ogni sua iniziativa è però destinata al fallimento. Las Casas è un perdente della storia, ma un vincente della memoria e della coscienza umana, che lo hanno premiato. Troppo in anticipo sui tempi, le sue idee risultano francamente donchisciottesche nel loro contesto, sebbene all’osservatore odierno possano apparire come eminentemente ragionevoli e sensate. Con il suo zelo pesta troppi piedi. Commenta il vescovo del Guatemala Francisco de Marroquín: “Da quando padre Bartolomé ha ricevuto la mitra ha dato libero sfogo alla sua vanità; quando si dà prova di zelo, occorre unirvi l’umiltà”. Las Casas non è umile, non ha né il tempo né la disposizione ad esserlo. Deve salvare quante più vite sia possibile, deve proteggere le culture e le comunità locali, “non perché io [sia] un cristiano migliore degli altri, ma per la compassione che [provo] istintivamente nel vedere questa gente subire simili ingiustizie”. Il suddetto vescovo riconosce che “è molto dolce e sempre tale resterà, ma…ha cominciato a recalcitrare”. Marianne Mahn-Lot osserva molto giustamente che “gli spagnoli di Ciudad Real erano credenti a modo loro, ma non potevano sopportare il fatto che il vescovo esigesse da loro una trasformazione tanto repentina e radicale del proprio stile di vita”. È intransigente, è moralizzatore, è schietto, è audace. “Questo parlare è duro: chi lo può ascoltare? Ma Gesù, conoscendo in se stesso che i Suoi discepoli mormoravano di ciò, disse loro: Questo vi scandalizza?” (Gv. 6, 60-61). Il “Difensore degli Indiani”, storico, antropologo, politologo, filosofo morale, teologo autodidatta, consacrò la sua vita alla difesa dei deboli, degli oppressi e dell’umanità in generale, al di là di interessi e vicissitudini storiche. Fu un moderno Sisifo, lottò per anni, in ogni suo scritto ed in ogni sua orazione, contro un cinico realismo che aveva già dichiarata persa la battaglia degli Indios, che non ci credeva più e anzi, vedeva in una struttura organizzativa neofeudale l’unica alternativa all’estinzione degli autoctoni. Molti tra i suoi avversari, in fondo, disprezzavano quell’umanità inferiore. Las Casas fu un novello Sisifo perchè il macigno che faceva rotolare (lo skandalon) era enorme e ponderoso, la salita era aspra e gli sforzi sembravano futili in una società che accumulava detriti sulla cima per allontanare la meta e che irrideva chi spingeva la roccia della dignità e dei diritti umani, tacciandolo di stolto idealismo o di labilità mentale. Il missionario francescano Toribio de Benavente, detto Motolinía, scriveva all’imperatore: “Non so come Sua Maestà abbia potuto soportare un uomo così pesante, irrequieto, importuno, turbolento, litigioso, agitato, maleducato, offensivo, senza pace”. Era in corso un contrasto tra domenicani e francescani sulla maniera di evangelizzare gli autoctoni e Motolinía, che pure aveva a cuore le sorti dei medesimi, accusava Las Casas di eccessivo idealismo, di causare turbative del Nuovo Ordine, di essere un anti-colonialista. “Se hanno perseguitato Me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la Mia parola, osserveranno anche la vostra.” (Gv. 15, 20). Eppure, ogni giorno, quest’apostolo della libertà e della giustizia – e non è facile retorica, come avrò modo di dimostrare – si risvegliava e riprendeva a sospingere, perché la sua vita non avrebbe avuto senso altrimenti. Come il Sisifo di Albert Camus, la sua azione fu una rivolta contro l’assurdo della Conquista, contro la disumana insensatezza di una realtà senza Cristo, di fronte alla quale non si poteva non levare la voce in protesta, se si intendeva rimanere umani e cristiani.
La protesta di Las Casas fu ampia, intensa e lungimirante, abbracciando diversi campi del sapere e non mancò di influenzare Voltaire ed altri intellettuali illuministi. Questo pensatore-militante, a tratti contradditorio, a tratti proiettato in una dimensione irrealistica, si rifà agli autori canonici ed alle Sacre Scritture, ma supera i primi per passione, impegno civile ed umanità ed emula Gesù il Cristo nel suo carattere sovversivo, universalista e messianico. Dialoga con profitto con la punta di diamante della teoria giuridica europea, gli esponenti della Scuola di Salamanca Francisco de Vitoria, Domingo de Soto e Melchor Cano, ma se ne discosta per il maggior ruolo che affida al magistero della Chiesa e per l’opposizione alle ingerenze umanitarie armate ed alla dottrina dei “doveri naturali” degli Indios verso gli Spagnoli. Semmai, per Las Casas, erano gli Spagnoli ad aver contratto doveri ben precisi verso gli autoctoni al momento della scoperta. Crede energicamente nell’unità della specie umana e nei suoi attributi intrinsici di dignità, uguaglianza, socievolezza, razionalità e libertà, che permettono a ciascun essere umano di godere di diritti inviolabili ed inalienabili. Crede che ogni società ed ogni uomo possano realizzare il loro potenziale attraverso l’educazione ed il pieno godimento della loro libertà. Per lui il perfezionamento, fine ultimo dell’umano, si ottiene tramite la luce dell’intelletto che, anche autonomamente, può condurre alla conoscenza naturale di Dio; un evento spontaneo, visto che , ne è convinto, non esistono esseri umani che non tendano al divino, in modi e forme diverse e proprie. È un paladino del rispetto delle usanze, credenze, leggi e costumi degli altri popoli, anticipando di quattro secoli il relativismo epistemologico della professione antropologica. Non ritiene che la barbarie – che pure considera tale – di certe pratiche possa diventare un pretesto per imbarcarsi in crociate di imperialismo civilizzatore. A più riprese sottolinea come l’arretratezza di una cultura o civiltà in certi suoi aspetti – giudicata in base ai summenzionati principi-cardine della natura umana – si sormonta persuadendo le persone con ragioni solide, facendo appello all’intelletto, al buon senso, alla volontà, senza l’impiego di imposizioni e violenza. Solo così la specie umana può maturare in armonia con la sua natura. La via della pace, della concordia e del rispetto è quella indicata dal Cristo ed è l’unica da seguire. Il sistema di sfruttamento ed asservimento neofeudale delle encomiendas (servizi di corvé coloniali imposti agli indigeni) è in diretta contraddizione con l’essenza della natura umana, è un peccato contro l’anima e contro Dio che dilapida la stessa vita umana. Ancora una volta con impressionante lungimiranza. Las Casas insiste che il potere di sovranità risiede nella gente, nel popolo, non nella sommità della piramide sociale. Senza la base non esiste alcuna società e da essa procedono il diritto ed i diritti. Nessuno può governare una nazione senza il consenso dei governati. L’autorità si deve costituire con libere elezioni che includano l’intera cittadinanza, uomini e donne: il principio del suffragio universale democratico, teorizzato a metà del Cinquecento! Il fine ultimo dei governanti dev’essere quello di garantire il bene comune, inteso come giustizia, libertà, prosperità e concordia. Il limite dell’azione di governo è stabilito dai diritti dei cittadini e dalla legge. Più sorprendente ancora è la richiesta che ogni autorità legittima recepisca la volontà popolare tramite un vero e proprio referendum, quando le circostanze sono drammatiche e le decisioni comportano conseguenze importanti per l’intera comunità. In pratica, nella visione lascasiana, un sovrano – o per meglio dire un presidente, o un supremo delegato – non può dichiarare guerra a nessun altra nazione o intraprendere una politica coloniale senza il consenso dei sudditi/cittadini. Il grado di perfezione di una comunità si misura in funzione della libertà di cui godono i suoi cittadini. Questo è un criterio prettamente liberale, concepito circa duecento anni prima che il liberalismo prendesse piede in Europa, e con buona pace di chi, con una lettura altamente selettiva delle sue opere, focalizzata sulla prima metà della sua attività pubblicistica, lo ha accusato di essersi prestato unicamente a servire il ruolo di agente attivo e partecipe dell’imperialismo ecclesiastico e coloniale europeo (Capdevila, 1998; Castro, 2007).
L’originalità e forza anticipatrice di Las Casas non si fermava qui. Il carattere innovativo delle sue proposte e raccomandazioni non va ricercato nelle premesse – già ben delineate da diversi teorici umanisti spagnoli, italiani e fiamminghi – ma nella radicalità delle sue conclusioni, frutto di una creatività speculativa alimentata dall’amarezza e disgusto per un presente inumano e dal sogno di un mondo realmente migliore e non confezionato ad uso e consumo dei soverchiatori e prevaricatori. Così, ad esempio, il vescovo del Chiapas teorizzava che il sovrano non deteneva beni di proprietà per diritto di nascita, ma solo in relazione alla volontà popolare; questi beni potevano anche essere alienati in caso di malgoverno. Di conseguenza le encomiendas perpetue erano illegittime, i servi indoamericani dovevano essere emancipati e le ricchezze redistribuite, in quanto sottratte illegalmente. I popoli trattati ingiustamente e tirannicamente avevano il diritto di ribellarsi ed anche di usare la forza Allo stesso tempo, però, certi vizi in seno ad una comunità dovevano essere tollerati se il tentativo di risolverli rischiava di provocare conseguenze maggiormente dannose rispetto alla loro sussistenza.
Non ci fu nessun Las Casas a proteggere i nativi nordamericani e gli schiavi neri di quelli che diventeranno gli Stati Uniti. I più celebri evangelizzatori puritani non ritennero mai che questi esseri umani avessero la medesima dignità dei coloni e li videro come un intralcio al Destino Manifesto della loro civiltà. L’espressione del Potere, in Nordamerica, non trovò seri antagonisti in grado di contenerlo e frammentarlo e il risultato fu lo sterminio degli autoctoni. Quel che rimase fu un assordante silenzio di fronte al male che, come si è detto, equivale a complicità.
Quanto alla disputa teologico-antropologica di Valladolid tra Las Casas e la sua nemesi, il filosofo di Cordoba Juan Ginés de Sepúlveda, prima ancora di essere una controversia sui diritti dell’uomo, essa concerne la natura umana, tocca una pluralità di discipline e rivela i machiavellissimi che rischiano di oscurare la verità dietro una cortina di fumo fatta di ragionamenti capziosi e circolari, manipolazioni semantiche e simboliche ed appello alla massimizzazione dell’utile. Essa ha comunque gettato le fondamenta per la teoria dei diritti umani e legittimato i fini del movimento indigenista. Personalmente ritengo che sia uno dei più importanti dibattiti della storia della teologia, del diritto e dell'antropologia politica e che abbia anticipato di secoli le attuali polemiche sulla bioetica e sul globalismo. Da una parte c'è il campione del naturalismo neo-paganeggiante (e, paradossalmente, di un’ortodossia inflessibile), dello sciovinismo militarista-imperialista, del feticismo della diversità (che diventa fine a se stessa e gerarchizzata). Dall’altra un ammiratore di Erasmo da Rotterdam, un paladino dei diritti umani universali, di una globalizzazione equa, egalitaria, giusta, rispettosa, pacifica, dell'idea che ogni essere umano dev'essere messo nelle condizioni di determinare il proprio destino e non va trattato come un infante o uno “schiavo di natura”.
Di conseguenza questo è anche un saggio sul contatto tra una civiltà tecnologicamente avanzata, rapace e moralmente degradata (l’Impero spagnolo) ed una civiltà decadente e violenta, isolata, devastata dalle pandemie, sadomasochisticamente prigioniera di attese apocalittiche (l’Impero azteco). Ci fu chi, tra gli emissari della prima, difese nobilmente la dignità della seconda di fronte agli invasori, riscattando almeno in parte le nefandezze della propria. Tra questi, il più illustre fu Bartolomé de las Casas, una figura purtroppo non sufficientemente nota, nonostante un’esistenza abbondantemente vissuta e che ha lasciato un segno nella storia – oltre cinquant’anni di luci della ribalta tra Vecchio e Nuovo Mondo ed una decisiva influenza su ben quattro tra re ed imperatori dell’epoca d’oro spagnola.
L’originalità di questa biografia risiede nella prospettiva, che non è esclusivamente storica ma anche socio-antropologica, filosofica, giuridica e politologica e rimarca l’attualità del pensiero di una persona “aiutata” da imprevedibili esperienze di vita a trasformare certi suoi difetti caratteriali in virtù e a dare il meglio di sé, ad essere all’altezza della sfida decisiva, a servire da modello anche a distanza di secoli.
Dopo una prima sezione dedicata ad una disamina del contesto storico ed una seconda che esplora la vita di Las Casas, mi soffermo sul tema dell’appropriazione del Cristo. Entrambe le parti – avversari e difesori degli indigeni – se ne appropriarono, ma solo i primi ne sovvertirono il messaggio. Lo scenario prospettato dai critici di Las Casas è quello di una crociata di Fratelli Maggiori, giunti nel Nuovo Mondo per decisione del Buon Pastore, il Salvatore che avrebbe condotto il gregge all’ovile. La visione dello stesso Las Casas e degli indigenisti non era troppo dissimile, se non in un punto cruciale, che sta alla base della civiltà contemporanea: il libero arbitrio unito al rispetto della dignità umana ed al consenso informato, quest’ultimo inteso nell’accezione più ampia di una relazione in cui completezza, trasparenza ed onestà permettono alle persone di essere pienamente consapevoli di quali siano le ramificazioni del loro beneplacito. Per gli avversari dei lascasiani, non di ovile si trattava, ma di una catena di montaggio. Lo slogan ufficiale era quello dell’avvento della civiltà dell’amore, della pace e del benessere, dopo il terrore azteco, ma la realtà era ben diversa. I nuovi signori soffrivano di un’illimitata bramosia di beni materiali e manodopera gratuita. Le invocazioni ad amarsi ed a vivere in pace con i conquistadores seguendo l’esempio di Gesù erano dunque ingannevoli, perché miravano ad imporre una certa visione del mondo, inducendo un’auto-lesionistica mansuetudine irriflessiva nei sudditi. Esisteva un’enorme discrepanza tra le parole ed i fatti. La predicazione dell’amore e della pace si accompagnava a misure di radicale intolleranza verso i non-allineati, verso una società definita senza Dio e irrimediabilmente corrotta, che richiedeva un vasto sacrificio collettivo per essere rifondata sulla base dei dieci comandamenti, il più importante dei quali è l’assoluta e completa obbedienza e sottomissione al vero Dio. Contro tutto questo si scagliò Las Casas, contro la marcia ipocrisia di quelli il cui unico Dio era – ma quanti di loro l’avevano davvero capito? – l’universo materiale, ma si proclamavano razzialmente e spiritualmente superiori, appellandosi alle parole di Gesù e dei Maestri della Chiesa. Contro chi non sapeva cosa farsene dell’Amore e formava caste dominanti che esigevano venerazione, onore, lealtà, sottomissione, conversione al loro culto e timorata idolatria, non amore. Las Casas obiettò all’ingiunzione di adorare ed onorare la presunta volontà di Dio e di rispettare le sue leggi, se ciò comportava l’annullamento di ogni libera volontà ed istanza critica. Obiettò alla segregazione degli indigeni nelle encomiendas e repartimientos – “un governo di tirannia molto più ingiusto di quello al quale furono soggetti gli Ebrei dal faraone egiziano” –, alla ritualizzazione della fede e della quotidianità, perché questa ottundeva le menti e facilitava il compito di quelli che chiamava “tiranni”, scatenando la furia di Cortés e Pizarro. In questo nuovo ordine instaurato dai conquistadores, chi disobbediva era punito nei modi più atroci perché il perdono e la tolleranza erano merce rara. L’idea di peccato mortale acquistava un significato letterale in un clima culturale da età del bronzo. I nuovi fedeli erano infantilizzati e si affermava che Dio – per mano e per bocca dei suoi inviati – si era assunto l’incarico di sistemare le cose, perché i nativi avevano dimostrato in modo definitivo la loro inettitudine, abiezione e pericolosità per se stessi continuando a farsi la guerra e a sacrificare i prigionieri. Las Casas capì che molti colonialisti e cortigiani non vedevano nella predicazione un veicolo di illuminazione spirituale ma un pretesto per mantenere l’oscurantismo e l’ignoranza ed il dominio sulla mente, il corpo e lo spirito dei sottoposti. In un paradosso orwelliano, ogni opposizione indigena a questo stato di cose era bollata come ispirata da Satana, dall’Anticristo. Solo la voce autorevole dei missionari indigenisti e dei teologi umanisti rivelava che il re era nudo, cioè che la fede dei coloni era segnata da un’interpretazione monolitica, unilaterale e perversa – ma molto conveniente – della tradizione veterotestamentaria, fatta di violenza, risentimento, soprusi, tirannia, rancore e sanguinarietà.
Anche qui, la centralità della celebre disputa di Valladolid è sancita dall’evidenza del fatto che nessuno, né prima né dopo, si era mai trovato a discettare di natura umana e destino della sua civiltà in seguito alla scoperta di un Nuovo Mondo e di traiettorie “evolutive” separate. L’unicità dell’evento e delle sue implicazioni è fuor di dubbio: una situazione analoga si realizzerebbe solo se fosse possibile retrocedere nel tempo fino al momento dell’incontro tra l’uomo anatomicamente moderno e il neanderthal o se una civiltà extraterrestre entrasse in contatto con la nostra. Prospettive che sono, per il momento, alquanto remote.

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